venerdì 8 maggio 2009

Il fil rouge tra Pakistan e Afghanistan

Mentre il presidente afghano Karzai era a Washington per un vertice alla Casa Bianca con Obama e il presidente del Pakistan Zardari, continuavano a piovere bombe USA e NATO su entrambi i Paesi con conseguenti stragi di civili.

Tra lunedì e martedì, secondo quanto riferito dal portavoce della Croce Rossa Jessica Barry e confermato dalla stessa polizia afghana e dalle autorità di governo, ci sono stati oltre cento morti e un intero villaggio distrutto nella provincia di Farah, in Afghanistan. Tra le macerie, la stragrande maggioranza dei corpi appartiene a donne e bambini. E Karzai ha dovuto ordinare un’inchiesta su questi bombardamenti aerei.

Nel frattempo, in Pakistan , si è aperto un vero e proprio fronte di guerra nella regione di Swat. L'esercito pakistano ha infatti avviato due operazioni militari per sottrarre la valle al dominio militare dei taleban. Secondo quanto riferito da fonti militari, negli scontri sarebbero rimasti uccisi 64 guerriglieri, mentre dai villaggi è cominciata la fuga di migliaia di civili.

Almeno 40.000 persone hanno infatti lasciato l'area intorno a Mingora, la più importante città della regione. Il governo pakistano si aspetta un esodo di 800.000 persone e ha già allestito delle tendopoli per ospitarli.

Qui di seguito si cerca di capire cosa sta effettivamente avvenendo in quella zona, aldilà delle quasi quotidiane stragi di civili innocenti commesse con le bombe dall'alto, con l'artiglieria ma anche con i coltelli.


Pakistan, pietre più preziose dei civili

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 6 Maggio 2009

Ieri pomeriggio è scattato l'attacco dell'esercito pachistano contro Mingora, il capoluogo del distretto di Swat, da mesi sotto controllo dei talebani. Una pioggia di cannonate e missili che ha gettato nel panico la popolazione locale, precipitosamente fuggita a bordo di auto, furgoni, bus e carri. Almeno 40 mila persone sono scappate nelle ultime ventiquattro ore, andandosi ad aggiungere agli altri 35 mila sfollati fuggiti nei giorni scorsi dagli distretti in cui si combatte.

"Là è guerra totale, i razzi cadono senza tregua. Siamo scappati solo con i vestiti che avevano addosso e con la fede in Dio", ha raccontato ai giornalisti Laiq Zada, 33 anni, appena arrivato in uno dei campi profughi allestiti dal governo.

La battaglia di Mingora. Dopo una nottata di bombardamenti e furiosi combattimenti, costati la vita ad almeno quarantacinque talebani, trentacinque civili e due soldati, le truppe governative hanno dichiarato che i ribelli si sono ritirati e che l'esercito ha ripreso il controllo della città e soprattutto della famosa miniera di smeraldi di Mingora - tra le maggiori dell'Asia meridionale - che da febbraio era controllata e sfruttata dai talebani: secondo il governo pachistano, il ricavato della vendita delle pietre preziose sul mercato nero è stata una fonte di finanziamento fondamentale per la guerriglia. Attorno alla miniera si sono avuti gli scontri più violenti e il maggior numero di vittime civili: fonti talebane hanno parlato addirittura di oltre cento civili uccisi.

Nonostante gli annunci dei comandi militari, però, i combattimenti continuano anche dentro la città, dove rimangono ancora decine di migliaia di civili terrorizzati. Come gli ottanta bambini e i venti dipendenti di un orfanotrofio, intrappolati negli scontri.

Guerra per procura. L'operazione militare governativa ‘Balck Thunder' (Tuono Nero), ordinata dagli Stati Uniti per spazzare via i talebani dalla regione a nord di Islamabad, prosegue anche nel vicino distretto di Buner, dove altri 27 talebani sono stati uccisi nei combattimenti di oggi. Il bilancio dell'offensiva militare pachistana, iniziata lo scorso 26 aprile nel distretto di Dir, ha già causato almeno quattrocento morti tra talebani, civili e soldati.

Negli ultimi giorni, le forze governative stanno intensificando le operazioni militari anche nelle Aree Tribali a nord di Peshawar, in particolare nel distretto di Mohmand, dove almeno quindici talebani e due soldati sono morti nei combattimenti delle ultime ventiquattro ore.
La tregua tra talebani e governo pachistano, duramente osteggiata da Washington, è definitivamente rotta: la guerra ‘per procura' tra Stati Uniti e talebani in Pakistan, che negli ultimi cinque anni ha causato almeno 12 mila morti, è ripresa a piena ritmo.


Nella trincea del Pakistan assediata dai Taliban
di Guido Rampoldi - La Repubblica - 8 Maggio 2009

PESHAWAR - Interpellare la Rivoluzione che avanza non è difficile, basta comporre il numero di un cellulare e ascoltare l'inglese fluente di Muslim Khan, portavoce di un'insurrezione che ha portato i Taliban a 100 chilometri dalla capitale. Più complicato è capire se da qui a qualche settimana quel barbuto sessantenne appassionato di decapitazioni sarà prigioniero, cadavere, fuggiasco; o invece celebrerà con i confratelli di al-Qaeda un successo, o perlomeno uno stallo, che li rafforzerebbe nella convinzione di essere vicini al traguardo, la nascita dell'Emirato atomico del Pakistan. Sulla carta nulla giustifica le risate omeriche che Muslim Khan mi offre mentre i suoi seimila Taliban (in realtà un migliaio, i rimanenti sono gangster e giovani reclute) si barricano nel capoluogo e nei villaggi dello Swat, la Val Gardena del Pakistan.

Intorno alle loro postazioni la fuga degli abitanti presto farà il vuoto; perso quello scudo, come potranno reggere all'attacco del settimo esercito più poderoso della Terra? Eppure le cose non sono così semplici, altrimenti oggi i Taliban non scorrazzerebbero sul 12% del territorio pachistano. E Muslim Khan non sarebbe così ilare quando mi racconta di generali e ministri a suo dire stipendiati da Washington, servi e ipocriti per i quali sarebbe scoccata l'ora della verità. "Noi vogliamo che questo Paese diventi quello che non è ma voleva essere dalla sua nascita, un sistema islamico", dice. "Ora l'esercito deve decidere se combatte per l'islam o per i nemici dell'islam. Nel secondo caso, non lo lasceremo scappare dallo Swat".

Stando ai quotidiani pachistani, l'esercito ha deciso. Sulle prime pagine ammazza Taliban ad una media di quaranta-cinquanta al giorno dall'inizio della settimana. Però quei cadaveri finora nessuno li ha visti, e gli americani non si fidano. Da tre giorni i loro aerei senza pilota sono per la prima volta nei cieli dello Swat, forse per capire se sul terreno l'esercito faccia davvero quel che racconta ai giornali. Ci sono state scaramucce, ma lo stato maggiore esita a lanciare l'attacco nei centri abitati, per ragioni comprensibili.

Combattere dentro Mingora, 600mila abitanti intrappolati in città dalle mine che i Taliban hanno disseminato per le strade, significa provocare stragi di civili, ben più dei 40 rimasti uccisi mercoledì. E un'offensiva quasi imposta da Washington che comportasse la morte di tanti cittadini sarebbe disastrosa per le Forze armate. Inoltre molti quadri militari recalcitrano alla prospettiva di togliere di mezzo i Taliban. Fino a ieri anche i generali rifiutavano di cacciarli a fucilate dallo Swat. E non è detto che li abbiano convinto i 400 milioni di dollari in aiuti militari promessi in settimana dall'amministrazione Obama.

Retrovia di questa sfida e ormai assediata su tre lati dal Talibanistan pachistano, Peshawar è una città depressa e confusa. I poliziotti che devono difenderla da nemici ben equipaggiati comprano di tasca propria perfino le mostrine ("Quelle che ci danno sono ridicole"). E anche se nel commissariato dell'università lo negano, i Taliban ormai sono dentro le mura.

Una campagna sistematica di lettere minatorie, inviate per posta o affisse sull'uscio di casa, ha preso di mira le docenti universitarie (le donne non devono insegnare), i barbieri (gli uomini non devono radersi), i sarti (le femmine non devono essere femminili), i venditori di cd (i ragazzi non devono farsi stregare da musica e cinema occidentali), i giornalisti (i media non devono criticare i Taliban) e i guaritori, qua e là ammazzati in tutto il Pakistan affinché la loro morte sia d'ammonimento a tutti.

Nel campus incontro studentesse inferocite. Odiano i Taliban con una sana intensità. Gira voce, raccontano, che "quella gente schifosa" si prepari a mandare i loro kamikaze all'università, per massacrarvi le ragazze che osano studiare e aspirare ad un lavoro. Non poche, impaurite, ormai disertano i corsi ("Non noi. Noi siamo la rivoluzione, e la rivoluzione non si ferma", mi dice una studentessa del Waziristan, la regione più talibanizzata del Pakistan).

I kamikaze per adesso non si dedicano alle ragazze ma al loro bersaglio tradizionale, i poliziotti e i passanti. Martedì un uomo - bomba ha fatto strage di agenti e civili ad un posto di blocco in periferia. I commenti raccolti in quelle ore dalle tv rendevano l'immagine di una società smarrita, in cui pare ormai normale sentir dire che questi attentati li allestisce il governo per spillare soldi agli americani.

Sia i giornali sia l'uomo della strada ormai leggono il marasma pachistano nei termini di cospirazioni interne o trame internazionali, insomma congiura di "misteriose forze che controllano la scena restando dietro le quinte" (così un editoriale di The News). Questa percezione ha un fondamento reale: sul confine afgano da tempo si intravede un affollamento di spionaggi, un moltiplicarsi di operazioni segrete.

Migliaia di guerrieri pashtun sono sul mercato, ed è lecito domandarsi, per esempio, se a pagare ai Taliban dello Swat stipendi, vitto e munizioni (per un totale, grossomodo, di almeno 200mila euro al mese) bastino le "attività di autofinanziamento" come rapine e sequestri di persona. Ma siamo ben al di là di un ragionevole sospettare quando un editoriale del Frontier Post, il quotidiano in lingua inglese di Peshawar, può scrivere: "L'intelligence indiana agisce su istruzione dei suoi padroni ebrei e italiani, uniti nel progetto di distruggere tanto l'India quanto il Pakistan" (finalmente qualcuno che ci prende sul serio: purtroppo un imbecille).

Spettacolari e pericolose, queste frequenti derive paranoiche segnalano la fatica del Pakistan a trovare il senso della propria storia. Fino a ieri una larga maggioranza considerava i Taliban confratelli un po' stralunati cui era giusto accordare indulgenza perché combattevano per l'islam. Oggi perfino il conservatorismo musulmano si è in parte ricreduto, e finalmente il Paese può affrontare le questioni in cui si è smarrito da molto tempo. Il problema è che la società arriva a ridiscutere la propria identità proprio nel mezzo di una crisi che ormai allinea tutti gli elementi di un caos pre-rivoluzionario.

Vuote le casse dello Stato. Screditate le istituzioni. Debole il governo. Al collasso lo Stato di diritto, con il 60% dei magistrati che per ammissione dei vertici giudiziari vendono le sentenze. In crescita i nazionalismi etnici. E sottotraccia, un grandioso lavorio di servizi segreti. Al punto in cui è arrivato, il Pakistan può solo rimbalzare o cominciare a sgretolarsi. Nel secondo caso, Muslim Khan ha ottime probabilità di essere nella partita.

Interessante personaggio, il portavoce. Proviene dai ranghi della sinistra pachistana, era un seguace del "socialismo islamico". Deluso dal Ppp dei Bhutto, emigrò in Kuwait. Tornato nello Swat si legò ad un barcarolo di fiume noto come mullah Fazlullah. Questo Fazlullah nel 2001 condusse in Afghanistan un migliaio di ragazzi dello Swat, per combattere gli americani. Non spararono un colpo: la metà fu sterminata dall'aviazione, gli altri tornarono indietro. I genitori degli uccisi cercarono a lungo Fazlullah, per ucciderlo. Lo salvò la galera. Quando i pachistani lo scarcerarono, i Taliban dello Swat gli affidarono un programma nella loro emittente. Fazlullah diventò "mullah Radio", il predicatore in modulazione di frequenza; e l'emittente, lo strumento di una strategia del tutto inusuale, una miscela bolscevica di terrore e di consenso cui non è estraneo Muslim Khan.

Il consenso arrivò ai Taliban non dalle concioni sull'islam, ma dalla "lotta di classe": la radio prese di petto i proprietari terrieri e li costrinse a scappare dallo Swat. Le loro terre furono distribuite dai Taliban ai contadini che avevano arruolato.

Medici considerati arroganti ricevettero "lettere di avvertimento" che li invitavano a comportarsi meglio: obbedirono. Malgrado avessero vietato alle bambine di frequentare la scuola dopo i nove anni, nello Swat i Taliban divennero popolari. "Erano riusciti a infilarsi nel vuoto tra la gente e amministrazioni corrotte", mi dice Rashid Iqbal, direttore del Chand, il quotidiano dello Swat pubblicato a Peshawar. "Se non avessero lanciato quella campagna di omicidi, il loro consenso non sarebbe crollato al 10-15% attuale".

A partire dal 2007 i Taliban dello Swat hanno assassinato avversari politici, poliziotti, funzionari pubblici. Gli omicidi erano preannunciati dalla radio: chi non scappava l'indomani veniva ucciso, quasi sempre sgozzato con il coltello. Sovente il cadavere era decapitato ed esposto in un luogo pubblico (l'ultima decapitazione, due giorni fa). La paura istillata da questi metodi è tale che perfino a Peshawar i giornalisti sono reticenti quando chiedo di Muslim Khan. "Un uomo pericolosissimo", si schermisce uno. Un altro mi racconta di un suo collega dello Swat, Moussa, ammazzato di recente perché parlava male dei Taliban. Un terzo ha un tono deferente e intimidito quando chiama Muslim Khan al telefono e gli domanda se intende parlare con il giornalista italiano.

Muslim Khan è il tipo di islamista che regala titoli ad effetto alla stampa occidentale. "Nostro fratello Osama". "Colpiremo i governanti del Pakistan nelle loro città". "Le organizzazioni non governative vogliono togliere il velo alle nostre donne, vogliono allontanarci dall'islam". E' schietto. Quando gli contesto la "crudeltà" dei Taliban, conferma: "E' vero, i Taliban sono crudeli" ("Con quelli che lo meritano"). Diventa elusivo solo quando gli domando della Rivoluzione. La Rivoluzione islamica e sociale che appare in controluce, per la prima volta, dietro questo confuso agitarsi di guerrieri. "Deciderà la gente", dice.

Eppure gli eventi di questi mesi sembrano rispondere ad un piano predefinito. All'inizio dell'anno l'inazione dell'esercito obbligò il governo regionale a negoziare la pace con una delegazione guidata da Islam Khan. Si arrivò ad un accordo che impegnava i Taliban a deporre le armi, e in cambio affidava a corti islamiche l'amministrazione della giustizia nel Malakand, la regione di cui fa parte lo Swat. I Taliban incassarono la vittoria politica, e vi aggiunsero una vittoria militare: invece di deporre le armi, entrarono in massa nella valle del Buner, avvicinandosi alla capitale. A quel punto le reazioni internazionali costrinsero l'esercito ad intervenire, al fianco della polizia. E adesso?

Se le menti politiche che finora hanno guidato con successo i Taliban dello Swat hanno un progetto rivoluzionario, come tutto lascia credere, questo necessariamente prevede un estendersi dell'insurrezione alle piane del Punjab meridionale, lì dove un altro fondamentalismo armato figliato dalla setta Deobandi, la stessa dei Taliban, sta imponendo la sua legge su vasti territori.

Sono zone rurali dove qualsiasi estremismo islamico e in armi oggi riuscirebbe a costruire una miscela rivoluzionaria agganciando gli interessi di masse contadine e bissando la "lotta di classe" dello Swat contro l'aristocrazia terriera. Sarà un caso, però nei più recenti raduni di quel fondamentalismo Umme Hassan, la vedova di un predicatore ucciso dall'esercito, va eccitando folle immense ripetendo quel che tanti vogliono sentire, e probabilmente Muslim Khan progetta: "In tre mesi vi porteremo la rivoluzione islamica".


Il governo Obama chiede poteri militari straordinari per il Pakistan
di Bill Van Auken -
Wsws - 2 Maggio 2009
Traduzione di Rolando M. per Uruknet

L’amministrazione Obama sta sempre piu’ trattando il suo crescente intervento militare in Pakistan come una guerra anti-insurrezionale separata, per la quale essa chiede lo stesso genere di poteri militari straordinari che il governo Bush ottenne per l’Afghanistan e per l’Irak.

E’ questo il messaggio principale che i funzionari del Pentagono hanno trasmesso in questi ultimi giorni a Capitol Hill insieme a sempre piu’ drammatici avvertimenti annunzianti che in mancanza di un immediato e incondizionato stanziamento di fondi militari americani destinati al Pakistan il governo di quest’ultimo potrebbe cadere.

Il Segretario alla Difesa Robert Gates ha avvertito Giovedi’ scorso il Congresso che se esso non approva rapidamente l’assegnazione di circa 400 milioni di dollari richiesti dal Pentagono come Nuovo Fondo Base Anti-insurrezionale l’esercito pakistano restera’ entro poche settimane senza disponibilita’ finanziarie per le sue operazioni contro gli insorti nella Provincia Confinaria del Nordovest (NWFP) e in altre zone del Pakistan occidentale.

Durante il suo intervento Gates ha altresi’ rivelato che anche dopo la progettata chiusura del centro carcerario di Guantanamo il governo americano puo’ tuttora tenere in carcere fino a 100 delle persone che trovansi cola’ detenute senza accuse ne’ processi. Il governo Obama ha chiesto al Congresso 50 milioni di dollari per costruire negli Stati Uniti delle carceri per i detenuti che considera pericolosi ma che non possono venire processati, principalmente perche’ le presunte prove contro di loro vennero ottenute con la tortura.

I 400 milioni di dollari programmati per l’aiuto militare al Pakistan fanno parte di un decreto per lo stanziamento supplementare di 83 miliardi e mezzo di dollari richiesto da Obama, destinati per la maggior parte a pagare il proseguimento delle guerre in Irak e in Afghanistan.

Rivolgendosi allo Appropriation Commettee del Senato, Gates ha detto che il Pentagono chiedeva che il controllo totale degli aiuti militari venisse assegnato al Generale David Petraeus, capo del Comando Militare Centrale degli Stati Uniti. Gates sosteneva che il Pentagono abbisognava di "questa unica autorita’ per le uniche ed urgenti necessita’ che affrontiamo in Pakistan in una sfida richiedente delle capacita’ che sono allo stesso tempo di guerra e di pace".

Alcuni membri del Congresso si sono opposti a questa richiesta, che ricorda le grossolane tattiche usate dall’amministrazione Bush per richiedere la immediata approvazione dei fondi militari per l’Irak e per l’Afghanistan senza fornire particolari.

Come ha fatto notare Venerdi’ il Washington Post, "I legislatori della Camera e del Senato hanno manifestato preoccupazioni per la creazione di questo nuovo flusso di fondi militari per il Pakistan che dovrebbe passare attraverso il Pentagono. Per tradizione, infatti, i fondi per aiuti militari passano per il Dipartimento di Stato e sono assoggettati alle restrizioni imposte dal Foreign Assistance Act".

I suddetti 400 milioni di dollari fanno parte di un quinquennale pacchetto di aiuti di 3 miliardi di dollari che vedrebbe destinati al Pakistan altri 700 milioni di aiuti militari entro l’anno fiscale 2010.

Il programma di aiuti militari contempla un forte incremento dell’addestramento delle forze di sicurezza pakistane, oltre alle truppe americane 70 destinate ad operazioni speciali alle quali Islamabad ha consentito senza fare obiezioni di addestrare elementi delle unita’ speciali e del Corpo di Frontiera pakistani. Gli ufficiali pakistani ed i soldati a cio’ destinati verrebbero addestrati fuori del paese. Inoltre, Washington fornirebbe importanti quantita’ di materiale militare nuovo comprendente elicotteri, occhiali per visione notturna, e armi portatili.

Secondo le leggi americane il Dipartimento di Stato dovrebbe sovrintendere ai programmi di aiuti militari ed assicurarsi che essi vengano eseguiti in accordo con la politica estera degli Stati Uniti e restino compresi entro i limiti legali assegnati a questo tipo di aiuti. Tuttocio’ sempreche’ gli Stati Uniti non si trovino in stato di guerra, ed questa la base della quale si e’ avvalsa l’amministrazione Bush per eludere il controllo delle autorita’ civili nell’incrementare simili programmi di aiuti militari in Irak e in Afghanistan.

Il giornale Post ha riferito che il portavoce del Pentagono Geoff Morrell ha detto che l’adozione di simili espedienti per il Pakistan comporterebbe il "muoversi su un sentiero molto difficile, perche’ il Pakistan" – ha continuato – "non e’ zona di guerra per l’esercito americano. Ma data l’urgenza della situazione noi abbiamo bisogno di tali autorita’ per aiutare il Pakistan nell’addestrare ed equipaggiare i suoi soldati per le operazioni anti-insurrezionali ASAP".

Il Generale Petraeus ha sostenuto la stessa cosa – in modo anche piu’ energico – in una lettera diretta allo Armed Service Commitee della Camera nella quale egli metteva in guardia contro una possibile caduta del governo pakistano.

Egli sosteneva che i "progressi" ottenuti dagli Stati Uniti in Irak e in Afghanistan si dovevano al fatto che "tali fondi sono immediatamente disponibili ed i comandanti hanno potuto uniformarsi rapidamente al mutare delle condizioni sul terreno". Aggiungeva inoltre che occorreva che l’esercito avesse la stessa liberta’ nel Pakistan, "dove uno stato insurrezionale in aumento minaccia la stessa esistenza del paese ed ha inoltre un’impatto diretto e micidiale sulle forze armate americane e su quelle della coalizione che operano in Afghanistan".

Si afferma pure che Petraeus abbia detto in privato ad alcuni membri del Congresso e dell’amministrazione che se l’esercito pakistano non dovesse riuscire a sopprimere l’insurrezione entro due settimane il governo di quel paese potrebbe cadere.

Citando delle fonti di informazione anonime da esso ritenute "al corrente delle discussioni in corso", il giornale Fox News riferisce dal canto suo che Petraeus ha fatto presente che l’esercito americano stava valutando la campagna che il Pakistan ha in corso contro i combattenti nel settore nordovest del paese "prima di stabilire la prossima linea d’azione degli Stati Uniti".

Nel suo servizio il Fox News aggiunge che Petraeus aveva espresso il parere che l’esercito pakistano potrebbe sopravvivere alla caduta del governo del Presidente Ali Zardari, e che l’esercito, che dipende dal Capo di Stato Maggiore Generale Ashraf Kayani, e’ "superiore" al governo civile.

Tale dichiarazione fa eco all’atteggiamento manifestato dal Presidente Obama lo scorso Mercoledi’ 29 Aprile durante una conferenza stampa pomeridiana tenuta nel centesimo giorno della sua nomina. Egli ha detto di confidare che l’arsenale nucleare pakistano resti in mani sicure "anzitutto e in primo luogo perche’ ritengo che l’esercito pakistano riconosca il rischio che armi del genere finiscano in mano a chi non deve averle, ed inoltre perche’ esiste un forte rapporto di consultazione e collaborazione fra le nostre rispettive forze armate".

In contrasto con quanto sopra, il Presidente americano ha descritto il governo Zardari come "molto fragile" e "mancante della possibilita’ di provvedere ai servizi di base" nonche’ di quella di "guadagnarsi il sostegno e la fedelta’ del suo popolo".

Circa il Pakistan Obama ha concluso dicendo: "Noi intendiamo rispettare la sua sovranita’, ma ci rendiamo anche conto di avere un interesse vitale sia strategico che nazionale nel fatto che la situazione del Pakistan sia stabile e non dovere un giorno finire col trovarci di fronte uno stato militante munito di armi nucleari".

Quando un cronista ha provato a domandargli se cio’ significava che l’esercito americano potesse eventualmente intervenire per mettere in luogo sicuro tali armi nucleari, Obama ha rifiutato di "esprimersi su cose ipotetiche".

Le osservazioni di Obama e del generale Petraeus fanno seriamente pensare che Washington faccia assegnamento in primo luogo e soprattutto sui rapporti del Pentagono con le forze armate pakistane, e che nella eventualita’ di un aggravarsi della crisi attuale pakistana Washington possa appoggiare un ritorno alla dittatura militare. Non sono trascorsi neanche nove mesi da quando l’ultimo uomo forte dell’esercito pakistano, il Generale Pervez Musharraf, consegno’ il potere ad un governo civile dopo un decennio di governo militare.

Quanto sopra potrebbe anche spiegare - almeno in parte - la decisione del Pentagono, della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato di far si’ che il flusso degli aiuti militari passi per le vie militari e non per i canali normali del Dipartimento di Stato, che devono attenersi al Foreign Assistance Act. Fra le restrizioni imposte da questa legge vi e’ infatti anche un divieto di "fornire aiuti militari ad un paese il cui capo del governo regolarmente eletto sia stato deposto per decreto o in seguito ad un colpo di stato militare".

Risulta quindi implicito che la dichiarazione di Obama sul Pakistan "intendiamo rispettare la sua sovranita’, pero’…" contiene una minaccia di intervento militare degli Stati Uniti.

Sta diventando sempre piu’ evidente che Obama - che deve la sua elezione, e in non piccola parte, all’opposizione di larghi strati della popolazione degli Stati Uniti alla politica militarista dell’amministrazione Bush - non soltanto sta continuando entrambe le guerre iniziate da Bush, ma ne sta preparando una terza.

In un articolo dal titolo "Adesso gli Stati Uniti considerano il Pakistan come una faccenda distinta dall’Afghanistan" il New York Times di Venerdi’ 24 Aprile faceva rilevare che la strategia del governo Obama era in origine quella di eseguire operazioni militari nella zona confinaria del Pakistan per impedire che gli insorti si rifugiassero in quel paese, ed inoltre di effettuare in Afghanistan un ulteriore "aumento" di truppe tale da raddoppiare entro i prossimi mesi il numero di soldati americani.

Tale strategia pero’ - osservava il New York Times - era stata completamente scardinata dalla offensiva talebana nel Pakistan occidentale. Adesso l’obiettivo principale di Washington e’ diventato quello di "impedire che prenda ulteriormente piede nel Pakistan un’insurrezione combattente islamica che ha pretese su un territorio situato a sole 60 miglia dalla capitale Islamabad".

In un articolo del 16 Aprile sul New York Times, Jane Perlez e Pir Zubair Shah hanno fornito un quadro delle intense tensioni di classe che hanno alimentato cola’ l’insurrezione. Dei gruppi armati definiti come Talebani – hanno scritto - erano riusciti ad assicurarsi il controllo della Vallata Swat in seguito ad una "rivolta di classe" originata da "profonde fratture prodottesi fra un piccolo gruppo di proprietari terrieri ed i loro affittuarii senza terra".

Secondo tale rapporto i militanti islamici hanno organizzato ed armato i contadini senza terra per una campagna mirante a scacciare dalla regione i ricchi proprietari terrieri, che erano anche dei funzionari governativi nonche’ capi dei locali partiti politici. Oltre ad imporre la legge islamica sulla Vallata Swat – una regione di un milione e 300 mila abitanti – i militanti islamici vi hanno effettuato numerose "redistribuzioni economiche".

Il New York Times riferisce che un non specificato anziano funzionario pakistano aveva detto: "Nella zona Swat vi e’ stata una rivoluzione cruenta. Non sarei sorpreso se essa giungesse a spazzar via in tutto il Pakistan l’ordine esistente".

L’amministrazione Obama si sta attualmente dando da fare per puntellare proprio quell’ "ordine esistente" costituito da rapporti terrieri di tipo feudale, da estese ineguaglianze sociali, e dalla prevalenza dei militari sul governo. Cio’ richiedera’ l’eliminazione non solo di un pugno di cosiddetti "terroristi", ma quella di una insurrezione che ha un vasto sostegno popolare, sostegno alimentato in gran parte dagli attacchi contro la popolazione civile che l’esercito degli Stati Uniti va effettuando su entrambi i lati del confine fra l’Afghanistan e il Pakistan.

Intervenuto in Afghanistan nel 2001 ed in Irak nel 2003 per affermare l’egemonia americana sulle regioni strategicamente vitali e ricche di petrolio dell’Asia Centrale e del Golfo Persico, l’imperialismo americano e’ riuscito soltanto a diffondervi l’instabilita’ ed a crearvi le condizioni per nuove ed ancor piu’ sanguinose guerre.

Afghanistan: Croce Rossa Internazionale conferma strage di civili in raid Usa

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 6 Maggio 2009

La Croce Rossa Internazionale conferma le accuse dei talebani, secondo cui i raid aerei statunitensi degli ultimi due giorni avrebbero causato decine di vittime civili, in maggioranza donne e bambini.

C'è chi parla di cento morti. La conferma giunge dopo che una squadra della Croce Rossa Internazionale è riuscita a raggiungere la zona di Bala Baluk, nella provincia occidentale di Farah, teatro nei giorni scorsi di combattimenti tra forze afghane e Usa contro gruppi di talebani. Secondo i primi rapporti, il bilancio della battaglia era stato di 25 talebani e tre agenti uccisi. Secondo fonti locali, al termine dell'offensiva una folla di civili del villaggio di Gerani ha raggiunto la capitale provinciale con un convoglio di mezzi, per mostrare alle autorità i corpi delle vittime dei bombardamenti Usa.

A quanto pare, gli abitanti del villaggio avevano invitato donne e bambini a rifugiarsi per sicurezza in alcuni edifici, al di fuori della zona coinvolta dalla battaglia, che poco dopo erano stati bombardati. Fonti del consiglio provinciale di Farah riferiscono di avere visto almeno 30 corpi, pesantemente mutilati, tra cui anche quelli di donne e bambini.
Altre fonti civili hanno riferito invece che i cadaveri sarebbero tra 70 e 100. Oggi un portavoce della Croce Rossa Internazionale, Jessica Barry, ha dichiarato che il team di osservatori ha documentato la distruzione dei rifugi in questione, e ha potuto vedere "dozzine di cadaveri, tra cui donne e bambini".

Nella zona c’è la base italiana ‘Tobruk’. “Una squadra di investigatori americani e afgani si sta recando a Farah, sul luogo del bombardamento aereo statunitense, per verificare la notizia di decine di vittime civili”, spiega a PeaceReporter da Kabul il capitano Elisabeth Mathias, portavoce delle forze Usa in Afghanistan. “Il fatto che questa denuncia sia stata confermata dalla Croce Rossa Internazionale è rilevante, perché di solito le cifre fornite dalla popolazione locale o dagli stessi talebani non sono attendibili. Nella zona di Bala Buluk, dove è avvenuto il raid aereo, sono attive le forze armate italiane – dice il capitano Mathias – ma non sappiamo se sono state coinvolte in questa operazione. L’unica cosa certa è che le forze di sicurezza afgane che hanno chiesto supporto aereo dopo essere state imboscate dai talebani erano accompagnate da militari della Coalizione”.

A Bala Bukuk le truppe italiane hanno inaugurato tre mesi fa un avamposto, la base operativa avanzata ‘Tobruk’ che ospita gli alpini del secondo reggimento genio guastatori di Trento, appartenenti alla Brigata ‘Julia’, e i bersaglieri del Battle Group comandato dal Tenente Colonnello Salvatore Paolo Radizza, che opereranno localmente a supporto delle forze di sicurezza nazionali afgane.

I militari Usa incolpano i talebani. Mentre il governo Usa si dice "dispiaciuto" per le almeno cento vittime civile dei raid aerei condotti sui due villaggi afgani di Ganjabad e Gerani nel distretto di Bala Buluk, in provincia di Farah, i comandi militari statunitensi dicono che sono stati i talebani a uccidere i civili.

Ieri sera il segretario di Stato Usa, Hillay Clinton, si era detta "molto, moto dispiaciuta" per le vittime civili del bombardamento di Farah, e subito dopo il portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, aveva ribadito che gli Stati Uniti "sono spiacenti per ogni perdita di vite umane di civili" in Afghanistan o altrove. Barack Obama, durante il suo incontro a Washingotn con i presidenti afgano e pachistano, ha detto che gli Usa "faranno tutto il possibile" per evitare vittime civili nei due Paesi (gli Usa bombardano regolarmente le Aree Tribali pachistane da otto mesi).

Ma il generale statunitense David McKiernan, comandante delle truppe Usa e Nato in Afghanistan, ha messo in dubbio che sia stato il bombardamento aereo a causare dei civili: "Le informazioni in suo possesso - ha detto il generale - conducono a conclusioni significativamente diverse sulla causa delle vittime civili". Non ha aggiunto altro. Ma poi una fonte del Pentagono ha dichiarato alla stampa che i civili sarebbero stati uccisi da granate deliberatamente lanciate contro di loro dai talebani, i quali poi avrebbero caricato i cadaveri su un camion portandoli in giro per i villaggi della zona e dicendo che erano stati uccisi da un bombardamento aereo Usa.

Intanto a Farah città, questa mattina la polizia ha aperto il fuoco contro una manifestazione di protesta contro le stragi di civili commesse dalle forze d'occupazione straniere: diverse persone sono rimaste ferite.


Afghanistan: più di 100 morti nella provincia di Farah
di Ferdinando Calda - Rinascita - 7 Maggio 2009

Durante il giorno avevano sentito i combattimenti tra le milizie talibane e l’esercito afgano-americano e avevano deciso di raccogliere donne, bambini e anziani in complessi residenziali lontano dalla battaglia in corso. Quando è arrivato il buio, gli scontri erano cessati e gli abitanti dei villaggi della provincia di Farah, nell’Afghanistan occidentale, credevano di aver scampato il pericolo. In realtà li aspettava una carneficina. “C’erano i Talibani nella zona, e durante il giorno ci sono stati violenti scontri, ma sono finiti quando si è fatto buio. La gente pensava che i combattimenti fossero finiti, quando sono cominciati i bombardamenti”, ha raccontato alla Reuters Sayed Azam, il cui vicino ha perso decine di parenti nel raid messo s segno tra lunedì e martedì.

Quella notte, infatti, i villaggi nella zona di Bala Baluk sono stati rasi al suolo dai bombardamenti dell’aviazione statunitense e decine di persone sono rimaste uccise in quello che sembra essere il più grave episodio di guerra ai danni dei civili dall’inizio dell’invasione dell’Afghanistan. “Centinaia di bambini, donne e anziani si erano rifugiati nel villaggio di Gerani, per proteggersi dai combattimenti. Ma l’aviazione statunitense ha colpito gli edifici in cui si trovavano i civili, uccidendo la maggior parte di loro”, hanno raccontato al Washington Post alcuni abitanti della zona.

L’episodio era già stato denunciato martedì dalla popolazione locale, che aveva portato due camion con una trentina di cadaveri davanti alla sede del governatore provinciale, per dimostrare cosa fosse accaduto. Ma solo ieri è arrivata la conferma della Croce Rossa Internazionale (Cicr), che ha fatto un primo tragico bilancio del bombardamento.

Sarebbero più di un centinaio le vittime, tra cui donne, bambini e un volontario afghano dell’organizzazione, deceduto assieme ai 13 membri della sua famiglia. Ci sarebbero però ancora molti corpi sotto le macerie. Quella della Cicr è la prima conferma internazionale di un “incidente” simile a numerosi altri episodi che in genere vengono smentiti dalle fonti ufficiali o liquidati come propaganda dei talibani.

Sulle vittime civili è stata aperta un’indagine congiunta afgano-americana e una delegazione composta da rappresentanti dell’Onu, dell’esercito statunitense e del ministero dell’Interno di Kabul si è recata nell’area dei raid. Tuttavia, come riportava ieri il New York Times, lo stesso governatore della provincia ha fatto sapere che chiederà ai capi tribù di andare nella zona a raccogliere le segnalazioni degli abitanti della zona, visto l’area è nelle mani dei ribelli ed è difficile per i funzionari del governo recarvisi di persona.

Un esempio di come il governo fantoccio del presidente Karzai non abbia alcun controllo sull’Afghanistan, tranne che nella capitale e nelle principali città del Paese, difese dalle guarnigioni statunitensi.



Il mito del Talibanistan

di Pepe Escobar -
Asia Times - 1 Maggio 2009
Traduzione di Manuela Vittorelli per Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica.

Apocalypse Now. Si salvi chi può. Arrivano i turbanti. È questo oggi lo stato del Pakistan, a dare ascolto all'isteria diffusa dall'amministrazione Barack Obama e dai media statunitensi, dal Segretario di Stato Hillary Clinton al New York Times. Perfino il Primo Ministro britannico Gordon Brown ha dichiarato che il Talibanistan pakistano è una minaccia alla sicurezza della Gran Bretagna.
Ma diversamente da San Pietroburgo nel 1917 o Teheran alla fine del 1978, Islamabad non cadrà domani stesso in mano a una rivoluzione in turbante.

Il Pakistan non è un'ingovernabile Somalia. I numeri dicono tutto. Almeno il 55% dei 170 milioni di abitanti del Pakistan è costituito da punjabi. Non ci sono indicazioni che stiano per abbracciare il Talibanistan; sono essenzialmente sciiti, sufi o un misto di entrambi. Circa 50 milioni sono sindhi, fedeli seguaci della defunta Benazir Bhutto e di suo marito, l'attuale Presidente Asif Ali Zardari del centrista e laicissimo Partito del Popolo Pakistano. I fanatici del Talibanistan in queste due province – che raccolgono l'85% della popolazione pakistana, con una pesante concentrazione della classe media urbana – sono una minoranza infinitesimale.

I taliban che fanno base in Pakistan – suddivisi approssimativamente in tre grandi gruppi e costituiti da meno di 10.000 combattenti privi di un'aviazione, di drone Predator, di carri armati e di veicoli pesanti da combattimento – si concentrano nelle aree tribali pashtun, in alcuni distretti della Provincia della Frontiera di Nord Ovest (NWFP), e in alcune piccole zone del Punjab.

Credere che quest'armata Brancaleone possa sconfiggere i 550.000 soldati dell'esercito pakistano, ben equipaggiati e molto professionali, cioè il sesto esercito più grande del mondo già scontratosi in battaglia con il colosso indiano, è un'idea ridicola.

Inoltre non c'è alcuna indicazione che i taliban, in Afghanistan e in Pakistan, abbiano la capacità di colpire un bersaglio al di fuori di “Af-Pak”(Afghanistan e Pakistan). Quello è il mitico territorio privilegiato di al-Qaeda. Per quanto riguarda l'isteria nucleare secondo cui i taliban sarebbero capaci di violare i codici dell'arsenale nucleare pakistano (la maggioranza dei taliban, tra l'altro, è semianalfabeta), ricordiamo che perfino Obama, durante il discorso dei suoi primi cento giorni, ha sottolineato che l'arsenale nucleare è sicuro.

Naturalmente ci sono alcuni ufficiali pashtun, e anche sezioni significative dei potenti servizi segreti pakistani, che simpatizzano con i taliban. Ma l'istituzione militare è spalleggiata niente meno che dall'esercito americano – al quale è strettamente legata fin dagli anni Settanta. Zardari sarebbe uno sciocco a scatenare un'uccisione di massa di pashtun pakistani; anzi, i pashtun possono risultare molto utili ai piani di Islamabad.

Questa settimana il governo di Zardari ha dovuto inviare l'aviazione e le truppe di terra a occuparsi del problema di Buner, nel distretto di Malakand della Provincia della Frontiera di Nord Ovest, che confina con la provincia di Kunar in Afghanistan ed è dunque relativamente vicina alle truppe degli Stati Uniti e della NATO. Hanno a che fare con meno di 500 membri del Tehrik-e Taliban-e Pakistan (TTP). Ma per l'esercito pakistano la possibilità che l'area si unisca al Talibanistan è un gran dono, perché questo fa salire alle stelle il controllo del Pakistan sull'Afghanistan meridionale pashtun, sempre secondo l'eterna dottrina della “profondità strategica” che prevale a Islamabad.

Portatemi la testa di Baitullah Mehsud
Dunque se Islamabad non è destinata a bruciare domani stesso, qual è il motivo di questa isteria? I motivi sono vari. Per cominciare, quello che Washington – con la nuova strategia “Af-Pak” di Obama – non riesce a digerire è una democrazia autentica e un vero governo civile a Islamabad; rappresenterebbero una minaccia per gli “interessi statunitensi” ben più dei taliban, con i quali l'amministrazione Bill Clinton andava d'amore e d'accordo alla fine degli anni Novanta.

Quello che potrebbe invece piacere a Washington è un altro colpo di stato militare – e delle fonti hanno raccontato ad Asia Times Online che dietro questa isteria c'è l'ex dittatore Generale Pervez Musharraf (Busharraf, come era derisoriamente chiamato).

È fondamentale ricordare che ogni colpo di stato militare in Pakistan è stato condotto dal capo di stato maggiore dell'esercito. Dunque l'uomo del momento – e dei prossimi momenti, giorni e mesi – è il discreto Generale Ashfaq Kiani, l'ex capo dell'esercito di Benazir. È in ottimi rapporti con il capo dell'esercito statunitense Ammiraglio Mike Mullen, e decisamente non va pazzo per i taliban.

Inoltre certi anfratti della burocrazia militare e della sicurezza pakistana sarebbero ben felici di ottenere altri dollari da Washington per combattere i neo-taliban pashtun che nel frattempo stanno armando perché combattano gli americani e la NATO. Sta funzionando. Washington è ora in preda a una smania contro-insurrezionale, con il Pentagono che non vede l'ora di insegnare queste tattiche a qualsiasi ufficiale pakistano in circolazione.

Quello a cui i media statunitensi non accennano mai sono i tremendi problemi sociali che il Pakistan deve gestire a causa del pasticcio nelle aree tribali. Islamabad ritiene che tra le Aree Tribali ad Amministrazione Federale (Federally Administered Tribal Areas, FATA) e la Provincia della Frontiera del Nord Ovest siano almeno un milione gli sfollati (oltretutto disperatamente bisognosi di cibo). La popolazione delle FATA è di circa 3,5 milioni di persone, soprattutto poveri contadini pashtun. E ovviamente la guerra nelle FATA si traduce in insicurezza e paranoia nella leggendaria capitale della Provincia della Frontiera del Nord Ovest, Peshawar.

Il mito del Talibanistan, comunque, è solo un diversivo, una rotella nel grande lento ingranaggio regionale che a sua volta fa parte del nuovo grande gioco in Eurasia.

Durante una prima fase – chiamiamola branding del male – i think-tank e i media di Washington hanno martellato incessantemente sulla “minaccia di al-Qaeda” per il Pakistan e gli Stati Uniti. Le aree tribali sono state etichettate come la base dei terroristi, il luogo più pericoloso del mondo dove “i terroristi” e un esercito di attentatori suicidi venivano addestrati per poi essere riversati in Afghanistan a uccidere i “liberatori” di USA/NATO.

Nella seconda fase la nuova amministrazione Obama ha accelerato la guerra dei drone “inferno dall'alto” Predator sui contadini pashtun. Adesso arriva la fase in cui i soldati degli Stati Uniti e della NATO, che presto saranno più di 100.000, vengono dipinti come i veri liberatori della povera gente dell'Af-Pak (loro, e non i “cattivi” taliban) – un espediente essenziale nella nuova versione dei fatti che serve a legittimare il surge di Obama nell'Af-Pak.

Perché tutti i pezzi vadano al loro posto serve un super-spauracchio. Ed è il leader del Tehrik-e Taliban-e Pakistan Baitullah Mehsud, che curiosamente non è mai stato colpito neanche da un finto drone americano finché non ha ufficializzato, agli inizi di marzo, la propria lealtà al leader storico dei taliban Mullah Omar, “L'Ombra” in persona, che si dice viva indisturbato nei dintorni di Quetta, nel Belucistan pakistano.

Adesso c'è una taglia di 5 milioni di dollari sulla testa di Baitullah. I Predator hanno diligentemente colpito le basi della famiglia Mehsud nel Waziristan meridionale. Ma – e la storia si fa sempre più strana – non una ma due volte i servizi segreti pakistani hanno inoltrato al loro cugino, la CIA, un particolareggiato dossier sul luogo in cui si trova Baitullah. Eppure i Predator non hanno colpito.

E forse non lo faranno mai, soprattutto adesso che un disorientato governo Zardari sta cominciando a pensare che il precedente super-spauracchio, un certo Osama bin Laden, non sia altro che un fantasma. I drone possono incenerire un matrimonio pashtun dopo l'altro. Ma gli spauracchi internazionali del mistero – Osama, Baitullah, il Mullah Omar – protagonisti d'eccezione delle nuove OCO (Overseas Contingency Operations, operazioni d'emergenza d'oltremare), già note come GWOT (“Global War on Terror”, guerra globale al terrore), naturalmente meritano un trattamento a cinque stelle.

Talebani occasionali

di Fetrat Zerak - Iwpr - 30 Aprile 2009

Traduzione di Laura Passetti per Peacereporter

Abdullah Jan e Abdul Khaleg vengono dal distretto Pushtrod, nella provincia occidentale di Farah. Entrambi sono giovani, disoccupati, quando trovano un lavoro a giornata, guadagnano circa 200 afgani, Abdul Khaleg scavando fossati, intonacando case o con altri lavori manuali, Abdullah Jan colpendo i posti di blocco della polizia. E' un talebano a tempo determinato.

"In famiglia siamo otto e sono il solo che porta i soldi a casa" dice Andullah Jan, che ha 22 anni e viene da un piccolo villaggio. "Sono andato in Iran tre volte per cercare lavoro, ma sono stato espulso. La mia famiglia era piena di debiti e mio padre mi ha detto di andare in città. Ho cercato lavoro per tre settimane, poi mio fratello si è ammalato e aveva bisogno di medicine. E' morto poco dopo. Due amici mi hanno suggerito di andare dai talebani."

Mia madre era contraria e ha cercato di dissuadermi. Mio padre invece non ha detto niente. Il mio primo lavoro è stato attaccare un posto di blocco nel distretto Guakhan" ricorda Abdullah Jan. "Abbiamo ucciso quattro poliziotti e abbiamo perso due dei nostri. Un altro è stato ferito. Lo scontro a fuoco è durato due ore, mentre i veri talebani ci incoraggiavano nascosti e dicevano ‘Su, ancora, muoviti muoviti.' Quando tutto è finito, il loro capo mi ha pagato 400 afgani e mi ha detto che se avessi fatto meglio la prossima volta mi avrebbe pagato di più. Da allora ho fatto altri cinque assalti e ho guadagnato mille afgani alla settimana."

Con questo particolare tipo di ‘contratto a termine', Abdullah Jan è un talebano solo per poche ora a settimana. Per il resto vive la sua vita come un qualunque altro cittadino. Non possiede armi o altro tipo di attrezzatura che possa qualificarlo come ribelle e non si considera tale.
"Combatto soltanto per i soldi" dice "se trovo un altro lavoro, lascio subito questo."

Secondo alcune stime, circa il 70 percento dei talebani sono giovani disoccupati che cercano un modo per sopravvivere. Nelle province di Farah, Helmand, Uruzgan, Zabul e nelle province del sud la maggior parte dei ribelli combattono per denaro non per ideologia. Ma si ritrovano incastrati in un circolo vizioso: fino a quando le loro province sono nell'instabilità è difficile che si possa investire per creare opportunità di lavoro. Il lavoro continua a non esserci, allora si alleano con i ribelli, la violenza si protrae e questo garantisce che sicurezza e sviluppo rimangano un sogno distante.

Mohammad Omar Rassouli, capo della polizia del distretto di Pushtrod, ha confermato la storia di Abdullah Jan, sostenendo che la disoccupazione è la motivazione principale per cui compaiono questi talebani occasionali.
"Farah è dominata dalla disoccupazione e da condizioni di vita molto povere," ha detto, "per questo i giovani decidono di unirsi all'opposizione. Il numero degli assalti ai posti di blocco è aumentato negli ultimi tempi e penso che sia perché i giovani si alleano con i ribelli per un po' di soldi. I talebani diventano più forti e noi non possiamo fare niente. Questi giovani sono armati solo quando combattono, altrimenti sono normali cittadini, per cui è molto difficile identificarli."

Questo lavoro però non è senza rischi, a quanto dice Abdullah Jan.
"Avevo un caro amico, si chiamava Rahmatullah ed era molto coraggioso" racconta "Ma è stato ucciso quando abbiamo attaccato il posto di blocco Karez Shekha, due settimane fa. Da allora non mi interessa più fare questo lavoro e spero di trovare qualcos'altro presto. Non voglio morire, sono l'unico che porta i soldi alla mia famiglia."

Abdul Khaleg intanto fa lavoretti nella città di Farah, la capitale. Guadagna circa 200 afghani al giorno quando c'è lavoro. E non vuole rischiare la sua vita.
"Mio cugino ed io eravamo entrambi disoccupati", dice, "i talebani ci hanno chiesto varie volte di unirci a loro. Ma non abbiamo accettato. Non ho un lavoro ma preferisco così piuttosto che essere ucciso."
Abdullah Jan non è d'accordo. "Devo lavorare per i talebani" insiste "non c'è altro lavoro a parte rubare o prendere ostaggi. Penso che sia meglio che rubare. Se ci uccidono noi diventiamo martiri. Questo ce lo dicono i mullah. Ci dicono che facciamo una guerra santa".

Il mullah Sadeq, capo talebano dei distretti Pushtrod e Khak Safed ha detto all'Institute for War and Peace Reporting (Iwpr) che è giustificato reclutare i giovani senza lavoro: "Tutti i giovani uomini dovrebbero partecipare alla guerra santa e difendere il proprio paese. Useremo qualunque modo e strumento per combattere contro il governo e l'esercito straniero."
Secondo il mullah Sadeq c'è un sistema di retribuzione per i guerriglieri talebani ma non ha voluto entrare nei particolari. "I soldi che diamo a questi giovani sono soltanto pochi spiccioli", ha detto parlando dei lavoratori a giornata.

Le autorità di Pushtrod e Khak Safed stimano che più di cinquecento giovani stiano lavorando per i Talebani.
Un anziano, che non vuole dare il suo nome, ha spiegato che le giovani reclute come Abdullah Jan vengono usati soprattutto per offensive minori: "I Talebani non vogliono perdere i loro migliori soldati in queste schermaglie."
I giovani vengono portati lontano dai loro villaggi o distretti perché non siano riconosciuti da quelli contro cui devono combattere o che debbano ritrovarsi ad attaccare amici o parenti. Piantare bombe o bruciare scuole sono operazioni più delicate e di solito vengono fatte dai ‘veri' talebani.

Alcuni esperti afgani si sono detti preoccupati del fatto che i Talebani reclutino guerriglieri part-time perché dimostra quanto sia per loro facile attirare normali cittadini afgani nei loro ranghi.
"E' una strategia che va studiata", ha detto un analista politico che non ha voluto rivelare il suo nome. "Così portano sempre più persone a contatto con la violenza e aumentano la loro influenza nella società".