martedì 26 maggio 2009

USA-Israele-Iran-Pakistan: situazione "fluida"

Nei giorni scorsi si sono tenuti due vertici, i cui esiti hanno reso l'idea di quanto sia "fluida" la situazione in Medio Oriente e Asia Centrale.
Gli incontri cioè tra il presidente USA Obama e il premier israeliano Netanyahu e quello tra i presidenti di Iran, Pakistan e Afghanistan.

Il primo si è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto. Obama ha ripetutamente citato la necessità di arrivare alla creazione di due stati per due popoli e Netanyahu ha fatto finta di non sentire, ammettendo al massimo di poter garantire ai Palestinesi ampia autonomia.
Obama ha chiesto di fermare la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania e contemporaneamente il consiglio regionale della Valle del Giordano, l'autorità israeliana che sovrintende alla gestione del territorio, confermava che erano stati pubblicati i bandi delle gare d'appalto per la realizzazione delle infrastrutture di un nuovo insediamento di coloni a Maskyvot, nell'Alta Valle del Giordano. Si tratta del primo insediamento nell'area (la parte orientale della West Bank) dopo 26 anni.

In conclusione, Obama e Netanyahu si sono trovati d'accordo sul non essere d'accordo.

Inoltre, a rimarcare le vere intenzioni israeliane, il ministro per gli Affari Strategici Moshe Yaalon, secondo quanto riporta il sito web di Haaretz, ha dichiarato che "Gli insediamenti non sono la ragione del fallimento del processo di pace, non sono mai stati un ostacolo e la loro costruzione non sarà fermata".
Obama è servito.

La questione Iran rimane, come sempre, complessa. Obama sta cercando di aprire un dialogo con l'Iran e, a ulteriore riprova di ciò, ha anche ammonito gli israeliani a non mettere in pratica iniziative militari unilaterali contro l'Iran. Quantomeno fino alla fine dell'anno, alla luce anche delle prossime elezioni presidenziali iraniane del 12 Giugno.

In Iran infatti la campagna elettorale prosegue e il presidente Ahmadinejad ha annunciato ieri che non accoglierà la proposta di congelamento del processo di arricchimento dell'uranio avanzata dall'Occidente e che non intende neanche avviare un negoziato con il "5+1", il gruppo composto dai Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza più la Germania.

Ahmadinejad ha detto chiaramente che "I negoziati al di fuori dell'Aiea non devono riguardare il nucleare, ma solo le altre questioni internazionali e la pace nel mondo. Non parleremo di nucleare se non con l'Aiea", ma si è dichiarato pronto ad avere un faccia a faccia con Obama "per risolvere i problemi del mondo e gestire le questioni di sicurezza che affliggono l'umanità".
Sempre se verrà rieletto, visto che secondo quanto riferisce il sito d'informazione Ayandehnews, 17 noti ayatollah della città santa iraniana di Qom hanno annunciato che non lo sosterranno.

Ahmadinejad dovrà vedersela con l'ex comandante dei Pasdaran Mohsen Rezaei, l'ex primo ministro Mir Hossein Mousavi e l'ex presidente del parlamento Mahdi Karroubi. Gli ultimi due sono catalogabili tra i riformisti ma godono simpatie anche in ambienti conservatori. Si tratta comunque di elezioni dall'esito molto imprevedibile.

Intanto è passata piuttosto inosservata dai mainstream media la notizia annunciata dal portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, e cioè che pochi giorni fa è stato firmato un accordo tra Iran e Pakistan per la costruzione di un gasdotto che porterà gas iraniano in Pakistan. Questo nuovo gasdotto dovrebbe essere completato in 4 anni e mezzo e consentirebbe all'Iran un export di 21,5 milioni di metri cubi di gas. Inoltre potrebbe essere esteso anche all'India.

Insomma la situazione nell'area è veramente "fluida".



Iran e Israele: di chi avere paura?

di Massimo Fini - www.ilribelle.com - 10 Maggio 2009

È più grave la posizione dell'Iran, che ha firmato il Trattato per la non proliferazione delle armi nucleari, ma che viene sospettato di voler costruirsi la Bomba, o quella di Israele che questo Trattato non l'ha firmato e l'atomica ce l'ha già? Sono più pericolose per Israele le dichiarazioni di Ahmadinejad per cui lo «Stato sionista scomparirà dalle mappe geografiche o sono più pericolosi per l'Iran i missili atomici israeliani puntati su Teheran?».

Sono più inquietanti le farneticazioni del presidente iraniano sull'Olocausto o i piani militari di Israele per attaccare l'Iran, la cui esistenza è nota da tempo ma di cui ora il Times rivela i dettagli (F-115 e F-116, assistiti da aerei radar Awacs, aerei cisterna, elicotteri, sono pronti a volare, violando lo spazio aereo di altri Paesi, fino a 1400 chilometri di distanza, per colpire, anche con atomiche "tattiche", Natanz, Isfahan, Arak, i siti dove gli iraniani stanno arricchendo l'uranio, a loro dire per usi civili)? È più preoccupante per il mondo che l'Iran abbia mandato in orbita un satellite per le comunicazioni, come li hanno moltissimi Paesi, L'Italia compresa, o che Bibi Netanyau faccia capire, un giorno sì e uno no, di voler attaccare l'Iran?

Su questa faccenda del satellite i giornali occidentali hanno titolato: "Allarme in tutto il mondo. In orbita satellite iraniano" e Washington ha fatto conoscere la propria "grave preoccupazione" perché "potrebbe far presagire lo sviluppo di un missile a lungo raggio da abbinare alla realizzazione di un ordigno atomico. Gli Stati Uniti sono pronti ad usare tutti gli strumenti della propria potenza nazionale per indurre l'Iran a essere un membro responsabile della comunità internazionale". Un doppio processo alle intenzioni, perché, al momento, c'è solo il satellite e nessun missile a lunga gittata né, tantomeno, c'è un ordigno atomico. Che, dall'altra parte, dalla parte di Israele, l'ordigno atomico ci sia e i missili a lunga gittata pure, non deve invece destare alcuna preoccupazione. L'intera "questione iraniana" corre sul filo della più pura illogicità e prepotenza.

Quando Teheran aprì i suoi siti per l'arricchimento dell'uranio gli Stati Uniti pretesero e ottennero dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che all'Iran fossero imposte della sanzioni. L'unica cosa che il Consiglio di Sicurezza poteva e doveva chiedere all'Iran, e solo in quanto firmatario del Trattato di non proliferazione, era la garanzia che l'arricchimento dell'uranio fosse adibito ad usi civili, cioè energetici, e non militari, per costruirsi l'atomica, e che quindi accettasse le ispezioni dell'Aiea, l'Agenzia dell'Onu per l'energia nucleare. Ma l'Iran fu sanzionato "a prescindere" nonostante questi siti fossero stati aperti proprio alla presenza degli ispettori dell'Aiea.

E queste ispezioni sono continuate, con la piena collaborazione di Teheran, tanto che un mese fa l'Aiea ha inviato all'Onu un rapporto in cui dichiara che, al momento, l'arricchimento dell'uranio iraniano non è tale da poter permettere la costruzione dell'atomica. Ma tutti i giornali occidentali, o quasi, gocando su quel "al momento", hanno titolato: "L'Iran si sta costruendo la Bomba". Uno degli argomenti utilizzati dagli occidentali per giustificare il loro niet al nucleare civile iraniano è questo: ma che bisogno ha l'Iran di altre fonti energetiche quando ha già il petrolio? Ma a parte il fatto che la British Petroleum, che se ne intende, ha calcolato che nel 2049 non ci sarà più petrolio nel sottosuolo, un Paese avrà o no il diritto di diversificare le proprie fonti di energia senza dover chiedere il permesso agli americani? È come se noi italiani volessimo riaprire Caorso e qualcuno pretendesse di impedircelo perché, in teoria, da lì potremmo arrivare alla Bomba.

Questo "doppiopesismo", che fa infuriare non solo Teheran, che si vede lesa in un suo legittimo diritto, ma anche buona parte dei Paesi musulmani, e avvilisce chi in Europa cerca di avere una visione non totalmente autoreferenziale perché capisce che anche gli altri popoli possono avere verso di noi le stesse paure che noi abbiamo verso di loro, si basa sulla convinzione che esistono degli Stati "buoni", perchè democratici, e quindi "membri responsabili della comunità internazionale" che mai si sognerebbero di usare l'atomica, e Stati "cattivi", anzi "Stati canaglia" (definizione che fa il paio con quella di "Stato totalmente razzista" affibbiata da Ahmadinejad ad Israele alla recente Conferenza Onu di Ginevra), perché non democratici e quindi capaci di ogni avventurismo, anche di sganciare l'atomica.

Beh, il solo Stato che attualmente ha precisi piani di attacco atomico ad un altro Paese è il democratico Israele e sarà bene ricordare che gli unici nella Storia che hanno usato la Bomba sono stati i campioni dei campioni della democrazia, gli Stati Uniti d'America. Ottantamila morti in un colpo solo, a guerra finita, e milioni di focomelici semplicemente per far sapere al nemico di turno, l'Unione Sovietica, che si era in possesso di quest'arma micidiale.



Netanyahu vs. Obama. Chi ha vinto?
di Simone Santini - www.clarissa.it - 25 Maggio 2009

L'incontro al vertice tra il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ed il presidente americano Barack Obama era molto atteso dagli osservatori. Da anni i rapporti tra Israele e Stati Uniti non apparivano così tesi, e distanti le rispettive visioni strategiche sul Medio Oriente, in un momento, tra l'altro, decisivo e delicatissimo.

I risultati del summit sono sembrati apparentemente interlocutori, in realtà una più attenta analisi delle dichiarazioni dimostra che un vincitore vero c'è stato: Bibi Netanyahu.
Sulla Palestina la posizione americana è incentrata sulla Road Map rivisitata dalla conferenza di Annapolis: ovvero acquisizione del riconoscimento di uno Stato per i palestinesi, instaurazione di un processo negoziale che definisca nel dettaglio lo status di questa entità nazionale; per gli israeliani è l'approccio opposto: nessun riconoscimento preventivo, solo al termine di un processo negoziale si potrà arrivare alla definizione di una forma di "autogoverno" per i palestinesi.

Il vertice non sembra aver intaccato né avvicinato le posizioni. Obama ha ribadito che gli Stati Uniti vogliono la posizione "due popoli, due stati", di converso Netanyahu ha dichiarato che "Israele è disposto a riprendere immediatamente i negoziati di pace, ma i progressi saranno condizionati dal riconoscimento palestinese del diritto di Israele ad esistere in quanto stato ebraico". Solo allora, e alla fine dei negoziati successivi, i palestinesi potranno ottenere di "governare se stessi e non essere governati da Israele", saranno i colloqui di pace a definire cosa significhi questo auto-governo, se uno stato o altro: "la terminologia verrà da sé" sostiene Netanyahu.

È chiaro che sotto questo aspetto sono gli americani ad aver bisogno degli israeliani, non viceversa. A Tel Aviv il prolungarsi dello status quo porta solo vantaggi. Anzi, Israele può continuare in sordina la politica degli insediamenti, consolidare l'accerchiamento dei Territori in cui le condizioni di vita dei palestinesi si fanno ogni giorno che passa più insostenibili, nonché decidere quale condizione riservare agli arabi con passaporto israeliano (il tema demografico, trovarsi nel futuro minoranza nel paese, è l'unico vero allarme per Israele).

Gli Stati Uniti possono sbloccare la situazione non con annunci di principio ma solo con una azione diplomatica forte: pressioni e minaccia reale di sanzioni. Ma questa decisione a Washington non sembrano averla. Obama ha dichiarato, anzi, che la "relazione speciale" tra i due paesi è viva e vegeta.

Due quotidiani israeliani, Yedihot Aharanot e Ma'ariv, hanno pubblicato indiscrezioni su un piano Obama per la Palestina che il presidente americano dovrebbe rendere pubblico durante il discorso alle nazioni arabe che terrà a Il Cairo ai primi di giugno. Tra i punti che porterebbero alla creazione di uno stato palestinese, nel termine di quattro anni, almeno due appaiono destinati a far nascere già morto questo futuro stato: la nazione sarà priva di esercito e non avrà facoltà di stringere alleanze militari con paesi arabi; i palestinesi dovranno cedere territori a Israele, quindi i confini non saranno quelli precedenti al 1967.

Insomma, lo stato di Palestina dipenderebbe in tutto e per tutto da Israele in termini di sicurezza; per la geografia economica e la gestione delle risorse (energia, acqua) si ridurrebbe ad essere una semplice propaggine di Israele. La Palestina sarebbe niente più che una mera espressione geografica. Alcuni rappresentanti palestinesi hanno già dichiarato (oltre la problematicità di altre questioni come Gerusalemme capitale ed il diritto al ritorno dei profughi) che il piano così inteso sarebbe inaccettabile. Obama si sta forse preparando per l'ennesima grande esposizione mediatica allo scopo di farsi dire un no dai palestinesi?

Intanto Israele sembra aver gettato sul tavolo un'altra variabile. Non si potrà arrivare ad uno stato palestinese finché sul paese penderà la minaccia iraniana. La prospettiva di una crisi mentre in Cisgiordania c'è un governo palestinese, magari controllato da Hamas, sarebbe come "avere una base delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a un tiro di Qassam dall'aeroporto di Tel Aviv" (Jerusalem Post, 19 maggio).

Questo porta dritto al secondo problema. I rapporti tra occidente e Teheran.

Sulla questione iraniana Israele è pronta a giocarsi il tutto per tutto. Sul tema il paese è unito come non mai. Tzipi Livni, ex ministro degli esteri e leader dell'opposizione interna, davanti all'assemblea del suo partito Kadima ha ribadito che "per quanto riguarda la questione palestinese le divergenze col governo sono profonde, ma per quanto riguarda l'Iran non c'è maggioranza e non c'è opposizione".

A rincarare la dose il ministro della difesa Ehud Barak, leader del partito laburista, ideologicamente distante da Netanyahu, ma che proprio sui temi della sicurezza ha trovato l'accordo per entrare nell'esecutivo: "L'Iran non abbandonerà certo le sue ambizioni nucleari se il governo israeliano sostiene la soluzione a due stati. Israele non esclude alcuna opzione rispetto alla minaccia nucleare iraniana".

Dal canto suo Obama, fautore di una apertura negoziale con l'Iran, al termine dei colloqui con Netanyahu ha dichiarato di non avere alcuna intenzione di porre "limitazioni temporali" alle trattative, e tuttavia di aspettarsi sostanziali progressi nel breve termine, entro la fine dell'anno: "Non andremo avanti coi colloqui all'infinito".

Netanyahu ha riferito che "sia gli Stati Uniti che Israele sono consapevoli dell'urgenza di impedire all'Iran di acquisire armi nucleari e di fare qualcosa in tal senso. [...l'Iran...] Potrebbe offrire un ombrello nucleare a organizzazioni terroristiche o, peggio, potrebbe dare direttamente armi nucleari ai terroristi mettendoci tutti in grave pericolo" ed in ogni caso "Israele si riserva il diritto di difendersi dall'Iran".

In questo caso è Israele ad aver bisogno degli Stati Uniti, pur rivendicando la possibilità di una azione unilaterale come ultima ratio che però potrebbe anche risultare disastrosa. Tuttavia anche in questo caso il tempo gioca tutto a favore di Tel Aviv. Sei mesi di tempo (fino alla fine dell'anno) saranno sufficienti per portare avanti un percorso di pace lungo sentieri sottilissimi e durante i quali non pochi soggetti (interni anche alla stessa Amministrazione americana) saranno pronti a remare contro? Scaduto questo tempo, cosa potrà accadere?

Nei giorni scorsi il leader spirituale della Repubblica Islamica dell'Iran, l'ayatollah Alì Khamenei, in vista delle elezioni presidenziali ha invitato il popolo a non votare per candidati che "vogliono arrendersi al nemico... per coloro che cercano di ingraziarsi i governi occidentali". Nessun cedimento dunque.

Se da un lato all'altro della scacchiera sono queste le dinamiche che si fronteggiano, l'augurio di pace per il Medio Oriente rischia di essere una petizione di speranza senza alcun aggancio con la realtà dei fatti.


La strategia americana in Pakistan: il Baluchistan è il premio finale?
di Pepe Escobar - Asia Times - 9 Maggio 2009

E’ un classico caso di quiete prima della tempesta. La sezione “AfPak” (Afghanistan-Pakistan) della nuova OCO (”Overseas Contingency Operations”) americana, già GWOT (”global war on terror”), non implica solo l’invio di rinforzi nelle Federally Administered Tribal Areas (FATA) a maggioranza pashtun. Un aumento di truppe in Baluchistan potrebbe essere anch’esso virtualmente inevitabile.

Il Baluchistan è completamente invisibile ai radar del sistema mediatico occidentale. Ma non a quelli del Pentagono. Un immenso deserto che comprende quasi il 48% della regione pachistana, ricco di uranio e di rame, potenzialmente ricco di petrolio, e che produce più di un terzo del gas naturale pakistano, esso contribuisce a meno del 4% dei 173 milioni di cittadini pachistani. I baluchi sono la maggioranza, seguiti dai pashtun. Quetta, il capoluogo della provincia, è considerata una centrale talebana dal Pentagono che, con tutta la sua stregoneria high-tech, misteriosamente non è stato in grado di localizzare “l’Ombra” – il Mullah Omar, lo storico emiro talebano residente a Quetta.

Strategicamente, il Baluchistan fa venire l’acquolina in bocca: a est dell’Iran, a sud dell’Afghanistan, vanta tre porti che si affacciano sul Mare Arabico, incluso Gwadar, praticamente all’imboccatura dello Stretto di Hormuz.

Gwadar – un porto costruito dalla Cina – è la chiave di tutto. E’ il nodo essenziale nella cruciale ed ancora potenziale guerra del “Pipelineistan” (il virtuale Paese delle pipeline), fra IPI e TAPI. L’IPI è la pipeline Iran-Pakistan-India, anche nota come il “gasdotto della pace”, che dovrebbe passare dal Baluchistan iraniano a quello pakistano – un anatema per Washington. Il TAPI è l’eternamente problematico gasdotto Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, sponsorizzato dagli USA, che dovrebbe attraversare l’Afghanistan occidentale, via Herat, e prolungarsi fino a Kandahar e Gwadar.

Il sogno di Washington è fare di Gwadar una nuova Dubai – mentre la Cina avrebbe invece bisogno di Gwadar come porto, ed anche come base per pompare il gas attraverso un lungo gasdotto verso il territorio cinese. In un modo o nell’altro, tutto dipenderà da quanto verranno prese sul serio le rivendicazioni locali. Islamabad paga una miseria ai baluchi per assicurarsi i diritti di sfruttamento, e gli aiuti allo sviluppo sono trascurabili; il Baluchistan è trattato come una regione di seconda classe. Il sogno di trasformare Gwadar in una nuova Dubai non significa necessariamente che i baluchi della regione beneficerebbero del boom; in molti casi essi potrebbero essere addirittura privati della loro terra.

Come se nono bastasse, vi è il fatto che, nel Nuovo Grande Gioco in Eurasia, il Pakistan è un elemento chiave sia per la NATO che per la Shanghai Cooperation Organization (SCO), della quale il Pakistan è un paese osservatore. Perciò, chiunque si aggiudicherà il Baluchistan incorporerà il Pakistan come corridoio chiave di transito, o per il gas iraniano proveniente dal gigantesco campo “South Pars” (giacimento offshore di gas naturale situato al confine tra Iran e Qatar, è considerato uno dei più importanti del mondo (N.d.T.) ) o per gran parte della ricchezza caspica proveniente dalla “Repubblica del Gas”, il Turkmenistan.

Arriva la cavalleria

Ora immaginiamo migliaia di soldati americani – appoggiati dall’aviazione e dall’artiglieria – che si riversano in questo deserto lungo lo sterminato e disabitato confine tra Afghanistan e Baluchistan, che si estende per 800 chilometri. Sono i rinforzi di Obama che dovrebbero in teoria distruggere i raccolti di oppio nella provincia di Helmand in Afhganistan. Essi cercheranno anche di stabilire una presenza significativa nella remotissima provincia di Nimruz, regione a maggioranza baluchi nel sudovest dell’Afghanistan. Basterà un nonnulla perché essi, nella loro caccia alle bande talebane, prendano di mira il Baluchistan pachistano. E questo sarebbe certamente il preludio per una invasione americana di fatto del Baluchistan.

Cosa farebbero i baluchi? Si tratta di un interrogativo molto complesso.

Il Baluchistan è senza dubbio una regione tribale – proprio come le FATA. I capi tribali locali possono essere tanto arretrati quanto Islamabad è negligente nei loro confronti (ed essi non sono neanche esattamente un esempio di rispetto dei diritti umani). Si potrebbe dunque tracciare un parallelo con la valle di Swat (il distretto nella North-West Frontier Province (NWFP) che attualmente è oggetto di un’offensiva dell’esercito pachistano contro i Talebani – offensiva che è all’origine della grave crisi umanitaria di questi giorni (N.d.T.) ).

La gran parte delle tribù baluchi sono sottomesse all’autorità di Islamabad – eccetto, in primo luogo, i Bugti. Poi vi è l’Esercito di Liberazione del Baluchistan (Baluchistan Liberation Army, BLA), che sia Washington che Londra definiscono gruppo terroristico. Il suo leader è Brahamdagh Bugti, che opera intorno a Kandahar (a sole due ore da Quetta). In una recente intervista rilasciata ad una emittente pachistana, egli non avrebbe potuto essere più settario, sottolineando che il BLA si sta preparando ad attaccare i non baluchi. I baluchi sono inclini a considerare il BLA come un gruppo di resistenza. Ma Islamabad lo nega, affermando che il supporto di cui esso gode non supera il 10% della popolazione della provincia.

Il fatto che Islamabad tenda non soltanto ad essere negligente, ma anche ad avere la mano pesante con i baluchi, certamente non aiuta; nell’agosto del 2006, le truppe di Musharraf uccisero il leader locale, estremamente rispettato, Nawab Akbar Bugti, un ex governatore provinciale.

Vi sono discussioni molto controverse sul fatto che il BLA stia diventando ostaggio o meno di servizi segreti stranieri – dalla CIA al britannico MI6, al Mossad israeliano. In occasione di un mio viaggio in Iran, mi fu impedito di andare nel Sistan-Baluchistan nell’Iran sud-orientale poiché, secondo la versione di Teheran, agenti infiltrati della CIA provenienti dal Baluchistan pakistano erano implicati in attacchi transfrontalieri sotto copertura . E non è un segreto per nessuno, nella regione, che a partire dell’11 settembre gli USA virtualmente controllano le basi aeree baluchi di Dalbandin e Panjgur.

Nel 2001 ebbi occasione di incontrare alcuni simpatizzanti del BLA. Citando il drammatico tasso di alfabetizzazione, pari ad appena il 16% (“è la politica del governo mantenere il Baluchistan arretrato”), essi lamentavano il fatto che la maggior parte della gente nella regione ancora non disponeva di acqua potabile. Essi sostenevano di godere dell’appoggio di almeno il 70% della popolazione. Affermavano anche di essere uniti, e di coordinarsi con i baluchi iraniani. Ed insistevano che “il Pakistan ha trasformato il Baluchistan in un acquartieramento USA, cosa che ha gravemente danneggiato i rapporti tra gli afghani e i baluchi”.

Nel complesso, non solo i simpatizzanti del BLA, ma i baluchi in generale sono categorici: sebbene siano pronti a rimanere entro una confederazione pachistana, vogliono molta più autonomia.

Il gioco ha inizio

Quanto sia cruciale il Baluchistan per Washington lo si può dedurre dallo studio “Baloch Nationalism and the Politics of Energy Resources: the Changing Context of Separatism in Pakistan” di Robert Wirsing, del think-tank “Strategic Studies Institute” dell’esercito americano. Prevedibilmente, tutto ruota attorno al “Pipelineistan”.

La Cina – che ha costruito Gwadar, e che ha bisogno del gas proveniente dall’Iran – deve essere emarginata con qualsiasi mezzo. L’ulteriore elemento paranoico del Pentagono è che la Cina potrebbe trasformare Gwadar in una base navale ed in questo modo “minacciare” il Mare Arabico e l’Oceano Indiano.

L’unico scenario accettabile per il Pentagono sarebbe che gli USA si impadroniscano di Gwadar. Ancora una volta, questa sarebbe una fondamentale confluenza tra il Pipelineistan e l’impero americano delle basi militari.

Il controllo di Gwadar non solo permetterebbe di bloccare il gasdotto IPI a vantaggio del TAPI, ma aprirebbe anche l’appetitosa opportunità di una lunga via di terra che dal Baluchistan porta a Helmand, Nimruz o Kandahar, o – meglio ancora – a tutte e tre queste province dell’Afghanistan sud-occidentale. Dal punto di vista del Pentagono (e della NATO), dopo la “perdita” del Passo Khyber, questa sarebbe la via di rifornimento ideale per le truppe occidentali nell’eterna (ed ora rinominata) GWOT (”global war on terror”).

Durante il governo di Asif Ali Zardari ad Islamabad, il BLA – sebbene già dotato di un’ala politica e di un’ala militare – si sta riorganizzando e riarmando, mentre l’attuale primo ministro del Baluchistan, Nawab Raisani, è sospettato di avere legami con la CIA (ma non vi sono prove decisive a questo proposito). A Islamabad vi è il timore che il governo abbia distolto gli occhi dalla questione del Baluchistan, e che il BLA possa realmente essere utilizzato dagli USA per obiettivi di balcanizzazione. Islamabad ancora non sembra aver prestato ascolto alla rivendicazione chiave dei baluchi: vogliamo trarre vantaggio dalle nostre ricchezze naturali, e vogliamo l’autonomia.

Dunque, quale sarà il futuro di Gwadar, la nuova “Dubai” del Baluchistan? L’IPI o il TAPI? Invisibile ai radar dello show mediatico rappresentato dal recente incontro Obama-Karzai-Zardari a Washington, tutto è ancora da giocare su questo fronte di importanza cruciale nel Nuovo Grande Gioco dell’Eurasia.



USA ed Emirati Arabi contro l'Iran
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 22 Maggio 2009

Il presidente americano Barack Obama ha dato il suo personale via libera ad un accordo nucleare tra Usa ed Emirati Arabi Uniti. L'intesa potrebbe fruttare miliardi di dollari alle industrie Usa. L'accordo infatti, autorizza gli Emirati ad acquistare dagli Usa materiale nucleare a fini energetici, con la garanzia che tale materiale non sarà riprocessato. "Sono giunto alla conclusione che questo accordo aumenterà, e non metterà a repentaglio, la sicurezza del nostro paese", ha detto Obama in conferenza stampa. "Lo scopo", si legge in un comunicato della Casa Bianca, "è di provvedere al crescente bisogno di energia elettrica di quel Paese del Golfo". Obama ha firmato mercoledì l'accordo, che era stato progettato durante la presidenza Bush, sostenendo che esso "promuoverà la difesa e la sicurezza comuni e non sarà, al contrario, un rischio".

Secondo il giornale di Dubai in lingua inglese The National, il via libera dato da Obama all'accordo, noto come Accordo 123, è stato accolto bene dal mondo degli affari americano: saranno infatti società degli USA a competere per la realizzazione delle strutture previste dall'accordo, il cui valore si aggira intorno ai 40 miliardi di dollari. In base alle clausole dell'accordo, gli Emirati Arabi non saranno, come sono attualmente, esportatori di energia, ma importeranno carburante che servirà ad alimentare i reattori nucleari.

Lo Stato del Golfo si è anche impegnato a non procedere autonomamente all'arricchimento dell'uranio e a non riutilizzare il carburante nucleare già usato. L'accordo in questione sarà sottoposto formalmente dal Segretario di Stato Hillary Clinton al Congresso americano e, se approvato, entrerà in vigore 90 giorni dopo la presentazione. Secondo il giornale di Dubai, gli Emirati sceglieranno entro quest'anno le compagnie alle quali affidare i lavori per la realizzazione del reattore. Si ritiene, tuttavia, aggiunge la fonte, che a competere potrebbero, oltre alle aziende americane, anche società giapponesi, francesi e russe.

Così si è arrivati al caso, storicamente più unico che raro, di vendere energia ad un Paese produttore ed esportatore di petrolio: gli Emirati Arabi Uniti importeranno combustibile, mentre contemporaneamente sono tra i maggiori produttori al mondo di combustibile fossile. Secondo molti analisti, di conseguenza, dietro non c'è solo un motivo economico. Infatti, se da un lato è vero che gli Emirati Arabi guadagnano dal petrolio tanti di quei soldi da non sapere più come spenderli, è anche vero che un accordo del genere, in pieno scacchiere mediorientale, appare come un tentativo di dare un esempio "virtuoso" al vicino Iran, accusato di voler fabbricare armi nucleari solo perché ha scelto di arricchire in proprio l'uranio, senza diventare dipendente da Paesi esteri.

Il combustibile nucleare americano dovrebbe andare ad alimentare una centrale di costruzione francese, provvista di due reattori nucleari EPR di terza generazione da 1.600 megawatt ciascuno, per la cui costruzione si sono accordati un anno fa il presidente francese Nicolas Sarkozy ed il ministro della difesa degli Emirati ed emiro del Dubai Mohammed Bin Rached al Maktoum. In cambio Parigi avrà anche una base militare da realizzare nel Golfo Persico, proprio di fronte alle coste iraniane, che gli permetterà di controllare altri due flussi energetici importanti: quelli di gas e petrolio.

Contemporaneamente, c'è da ricordare che gli Emirati hanno delle vecchie dispute territoriali non completamente risolte con Teheran, per cui i dissapori sono ancora vivi e vegeti. Con quest’accordo gli Emirati si pongono direttamente in un'ottica di contrapposizione con l'Iran e contribuiscono a rafforzare il dispositivo militare anti-iraniano. Proprio mentre il Segretario di Stato americano Hillary Clinton richiede all’Iran di "abbandonare ogni ambizione nucleare nell’interesse della propria sicurezza".

Dopo l’ennesimo lancio di un missile a lunga gittata da parte del regime di Teheran, che è costato anche l’annullamento della visita del nostro ministro degli esteri Franco Frattini, intervenendo, al sotto-comitato del Senato Usa per la supervisione dei fondi statali, la Clinton ha detto che "il nostro obiettivo è quello di persuadere il regime iraniano che perderà per quel che riguarda la sua sicurezza se proseguirà il suo programma di armamento nucleare. Un Iran nucleare armato di un sistema d'armamento disponibile rischierà di provocare una corsa agli armamenti in Medio Oriente e più ampiamente nella regione. Questo non sarà nell’interesse della sicurezza iraniana". Queste parole chiariscono molto di più delle analisi economiche il vero senso politico dell'accordo USA-EAU.

Accordo che, assieme a quello tra Emirati e Francia, contribuisce ad alzare la tensione, ad aumentare il rischio atomico e mette a portata di missile iraniano (è appena sulla sponda opposta del Golfo Persico) un nuovo bersaglio nucleare. Ma c'è anche da ricordare che la signora Clinton commette un'imprecisione quando dice che l'Iran rischia di provocare una nuova corsa agli armamenti: la corsa agli armamenti nel Golfo non è mai finita, continua dai tempi della guerra Iran-Iraq, è riccamente finanziata da americani, francesi e italiani, e russi. L’Iran è solo l’ultimo arrivato.

In questo quadro, la posizione degli Emirati Arabi è spesso stata quella di "correre da soli". Ne è un esempio il loro ritiro dal di unione monetaria dei paesi del Golfo. In tale occasione, l'agenzia di stampa nazionale ha precisato che la valuta degli Emirati resterà ancorata al dollaro USA e la politica monetaria non subirà variazioni. Gli Emirati avevano lanciato con altri quattro paesi del Golfo il progetto di una moneta unica e erano candidati ad ospitare la Banca centrale del Golfo che ha scelto, invece, come proprio quartiere generale l'Arabia Saudita.