lunedì 11 gennaio 2010

L'integrazione in Italia degli immigrati e...degli italiani

Qualche articolo su una questione cruciale che finora in Italia è stata affrontata in modo superficiale, irrazionale e quasi solo attraverso le lenti della cosiddetta sicurezza: l'integrazione dei migranti, e in particolare quelli di religione musulmana.

Ma oltre a chiedersi come gli immigrati di diverse etnie e religioni possano realmente integrarsi nell'attuale società italiana, è giunta l'ora di domandarsi anche se gli italiani riusciranno a integrarsi in una società multietnica e multiculturale come quella che si sta già modellando da sè in Italia.

La storia segue il suo cammino e niente può fermarla.


Integrazione e società
di Tito Boeri - Il Corriere della Sera - 11 Gennaio 2010

Caro Direttore
i terribili avvenimenti di Rosarno mostrano in modo inequivocabile quanto sia cruciale il tema dell’integrazione degli immigrati nella società italiana, su cui lei ha deciso di aprire un dibattito sul suo giornale.

Ci dicono che i flussi migratori sono non solo fonte di grandi benefici economici, ma anche di gravi tensioni sociali per le comunità che li ospitano. Dimostrano al contempo come sia riduttivo (e intellettualmente disonesto) confinare alla dimensione religiosa il problema dell’integrazione.

La tesi sull’”impossibile integrazione degli islamici” è stata sostenuta sulle sue colonne con riferimenti storici quanto meno azzardati (non è vero che i mussulmani hanno imposto la propria fede con forza in India sotto l’impero dei Moghul, non è vero che solo la cultura islamica ha prodotto chi si fa uccidere per uccidere, basti pensare ai kamikaze o ai guerrieri Tamil), e su testi di autori, come Toynbee, scomparsi 35 anni fa, quindi impossibilitati a studiare il lungo processo di integrazione delle minoranze islamiche nelle società europee contemporanee. Non un solo dato è stato citato a supporto di questa tesi così impegnativa.

Né sono stati presi in considerazione le statistiche che avevo fornito e che documentano che l’integrazione di minoranze mussulmane nei paesi a più antica immigrazione è difficile, ma tutt’altro che impossibile. Il compito di uno studioso è quello di fornire informazioni sui casi tipici, sui grandi numeri (di aneddoti ed eccezioni è costellata la nostra vita quotidiana).

Approfitto allora di questo spazio per far nuovamente parlare i dati, questa volta sulla realtà dell’immigrazione nel nostro paese, alla luce della prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini condotta in Italia, a cura della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nel novembre-dicembre 2009.

Primo dato: un italiano su tre non vorrebbe avere un mussulmano come vicino di casa; pochi meno di quanti non vorrebbero estremisti (di destra o sinistra) o malati di aids nella porta accanto; tre volte la percentuale di italiani che non vorrebbero ebrei come vicini di casa.

Secondo dato: gli immigrati in provenienza da paesi mussulmani parlano più spesso l’italiano, mandano i loro figli alla scuola pubblica e hanno più frequenti contatti con italiani delle altre minoranze, soprattutto dei cinesi. Terzo dato: gli immigrati, di tutte le etnie, lavorano più degli italiani (il loro tasso di occupazione è del 15 per cento superiore al nostro) sebbene circa un quarto di loro sia presente irregolarmente nel nostro paese, non abbia permesso di soggiorno e regolare contratto di lavoro.

Il primo dato spiega molte reazioni dei lettori; fa riflettere anche sul comportamento di chi, dopo aver compiaciuto la vox populi, conta il numero di commenti favorevoli raccolti sul sito web del suo giornale. Il secondo dato apre speranze sull’integrazione dei mussulmani nel nostro paese; soprattutto se sapremo investire, come in altri paesi, nel sistema scolastico, come strumento per trasmettere la nostra identità culturale.

Pone dubbi sulla decisione di imporre un tetto del 30 per cento agli immigrati nelle nostre scuole. Ci sono comuni in cui l’80 per cento della popolazione è straniera: dovremmo forse impedire ai figli di questi immigrati di andare a scuola? Il terzo dato è cruciale per capire come contrastare davvero l’immigrazione clandestina, nei fatti e non con le parole.

Rafforzando i controlli sui posti di lavoro per contrastare l’impiego in nero degli immigrati si può essere molto più efficaci che introducendo nuove leggi (come quelle che istituiscono il reato di immigrazione clandestina) destinate a non essere applicate. Non ho le rocciose certezze di alcuni suoi editorialisti che hanno risposte su tutto: dalle riforme costituzionali, al rapporto fra islam e immigrazione, al modo con cui salvare la Terra dagli effetti del cambiamento climatico. Essendo indiscutibilmente più limitato, temo di non avere risposte a molti quesiti posti dai lettori.

Ma di una cosa sono convinto: queste risposte non possono alimentarsi sui pregiudizi né essere trovate nelle (peraltro autorevoli) pagine di libri scritti alcuni decenni fa. Dovremo avere tutti l’umiltà di dubitare, di osservare per imparare, di farci aiutare dai dati e dai numeri. In fondo è proprio questo che trovo interessante nel mio lavoro.

La ringrazio ancora per lo spazio che mi ha gentilmente concesso.


Una replica ai pensabenisti sull'Islam

di Giovanni Sartori - Il Corriere della Sera - 5 Gennaio 2010

Il mio editoriale del 20 dicembre «La integrazione degli islamici» resta attuale perché la legge sulla cittadinanza resta ancora da approvare (alla Camera). Nel frattempo altri ne hanno discusso su questo giornale. Tra questi il professor Tito Boeri mi ha dedicato (Corriere del 23 dicembre) un attacco sgradevole nel tono e irrilevante nella sostanza. Il che mi ha spaventato.

Se Boeri, che è professore di Economia del lavoro alla Bocconi e autorevole collaboratore di Repubblica, non è in grado di capire quel che scrivo (il suo attacco ignora totalmente il mio argomento) e dimostra di non sapere nulla del tema nel quale si spericola, figurarsi gli altri, figurarsi i politici.

Il Nostro esordisce così: «Dunque Sartori ha deciso che gli immigrati di fede islamica non sono integrabili nel nostro tessuto sociale, non devono poter diventare cittadini italiani». In verità il mio articolo si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica. Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema.

Se poi a Boeri interessa sapere che cosa «ho deciso», allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume «Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei» (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino «La Democrazia in Trenta Lezioni » (Mondadori, 2008).

Ma non pretendo di affaticare la mente di un «pensabenista», di un ripetitore rituale del politicamente corretto, che perciò sa già tutto, con inutili letture. Mi limiterò a chiosare due perle del suo intervento. Boeri mi chiede: «Pensa Sartori che chi nasce in Italia, studia, lavora e paga le tasse per diventare italiano debba abbandonare la fede islamica?». Ovviamente non lo penso.

Invece ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione. Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica.

Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta. Al qual proposito l’esempio classico è quello delle comunità ebraiche che mantengono, nelle odierne liberaldemocrazie, la loro millenaria identità religiosa e culturale ma che, al tempo stesso, risultano perfettamente integrate nel sistema politico nel quale vivono.

Ultima perla. Boeri sottintende che io la pensi come «quei sindaci leghisti» eccetera eccetera. No. A parte il colpo basso (che non lo onora), la verità è che io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp. 78-80). Il mio pedigree di studioso è in ordine. È quello del mio assaltatore che non lo è.

Il Corriere ha poi pubblicato il 29 dicembre le lettere di due lettori i quali, a differenza del professor Boeri, hanno capito benissimo la natura e l’importanza del problema che avevo posto, e che chiedevano lumi a Sergio Romano. Ai suoi «lumi» posso aggiungere il mio? Romano, che è accademicamente uno storico, fa capo alle moltissime variabili che sono in gioco, ai loro molteplici contesti, e pertanto alla straordinaria complessità del problema. D’accordo. Ma nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre.

Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente. S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano. Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile «varia», appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento.

Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto). Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione.

Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civiltà.

Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai. Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima.

La fermezza e l'ipocrisia
di Angelo Panebianco - Il Corriere della Sera - 8 Gennaio 2010

Sappiamo da tempo che l'immigrazione è il fenomeno che forse più inciderà sul futuro dell'Europa. Conteranno sia la quantità dei flussi migratori che la qualità delle risposte europee. In Italia sembriamo tuttora impreparati ad affrontare in modo razionale e convergente un fenomeno col quale conviviamo ormai da anni.

Ci sono almeno tre temi su cui non c'è consenso nazionale e, per conseguenza, mancano codici di comportamento e pratiche comuni fra gli operatori delle principali istituzioni.

Non c'è consenso, prima di tutto, su che cosa si debba intendere per «integrazione» degli immigrati. A parole, tutti la auspicano ma che cosa sia resta un mistero. Ad esempio, si può ridurla alla questione dei tempi per la concessione della cittadinanza? O ciò non significa partire dalla coda anziché dalla testa?

Poiché nulla meglio delle micro-situazioni getta luce sui macro-fenomeni, si guardi a che cosa davvero intendono per «integrazione» certi operatori istituzionali. Ciò che succede, ormai da diversi anni, in molte scuole, durante le feste natalizie (e le inevitabili polemiche si infrangono contro muri di gomma) è rivelatore.

Ci sono educatori (è inappropriato definirli diseducatori?) che hanno scelto di abolire il presepe e gli altri simboli natalizi, lanciando così agli immigrati non cristiani (ma anche ai piccoli italiani) il seguente messaggio: noi siamo un popolo senza tradizioni o, se le abbiamo, esse contano così poco ai nostri occhi che non abbiamo difficoltà a metterle da parte per rispetto delle vostre tradizioni.

Intendendo così il rispetto reciproco e la «politica dell'integrazione», quegli educatori contribuiscono a preparare il terreno per futuri, probabilmente feroci, scontri di civiltà. E lasciamo da parte ciò che possiamo solo immaginare: cosa essi raccontino, sulle suddette tradizioni, nelle aule, ai piccoli italiani e stranieri.

C'è poi, in secondo luogo, la questione dell'immigrazione islamica. Tipicamente (le critiche di Tito Boeri - 23 dicembre - e di altri, alle tesi di Giovanni Sartori - 20 dicembre - sulla difficoltà di integrare i musulmani, ne sono solo esempi), la posizione fino ad oggi dominante fra gli intellettuali liberal (e cioè politicamente corretti) è stata quella di negare l'esistenza del problema.

Come se in tutti i Paesi europei, quale che sia la politica verso i musulmani, non si constati sempre la stessa situazione: ci sono, da un lato, i musulmani integrati, che vivono quietamente la loro fede, e non rappresentano per noi alcun pericolo (coloro che, a destra, ne negano l'esistenza facendo di tutta l'erba un fascio sono altrettanto dannosi dei suddetti liberal) ma ci sono anche, dall'altro, i tradizionalisti militanti, rumorosi e assai numerosi, più interessati ad occupare spazi territoriali per l'islam nella versione chiusa e oscurantista che a una qualsiasi forma di integrazione.

E lascio qui deliberatamente da parte i jihadisti e i loro simpatizzanti. Salvo osservare che i confini che separano i tradizionalisti militanti contrari all'uso della violenza e i simpatizzanti del jihadismo sono fluidi, incerti e, probabilmente, attraversati spesso nei due sensi. Negare il problema è, francamente, da irresponsabili.

Ultima, ma non per importanza, c’è la questione dell’immigrazione clandestina, che porta con sé anche i fenomeni legati allo sfruttamento da parte della criminalità organizzata (e il caso di Rosarno ne è un esempio). Non c’è nemmeno consenso nazionale sul fatto che i clandestini vadano respinti.

Da un lato, ci sono settori (xenofobi in senso proprio) della società che non hanno interesse a tracciare una linea netta fra clandestini e regolari essendo essi contro tutti gli immigrati. Ma tracciare una linea netta non interessa, ovviamente, neanche ai fautori dell’accoglienza indiscriminata.

Non ci sono solo troppi prelati e parroci che parlano ambiguamente di accoglienza senza mettere mai paletti (accoglienza verso chi? alcuni? tutti? Con quali criteri? Con quali risorse?).

Ci sono anche operatori istituzionali che ci mettono del loro. Un certo numero di magistrati, ad esempio, ha deciso che il reato di clandestinità è in odore di incostituzionalità. Immaginiamo che la Corte costituzionale si pronunci domani con una sentenza favorevole alla tesi di quei magistrati.

Bisognerebbe allora mandare a memoria la data di quella sentenza perché sarebbe una data storica, altrettanto importante di quelle dell’unificazione d’Italia e della Liberazione. Con una simile sentenza, la Corte stabilirebbe solennemente che ciò che abbiamo sempre creduto uno Stato non è tale, che la Repubblica italiana è una entità «non statale».

Che cosa è infatti il reato di clandestinità? Nient’altro che la rivendicazione da parte di uno Stato del suo diritto sovrano al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, della sua prerogativa a decidere chi può starci legalmente sopra e chi no. Se risultasse che una legge, regolarmente votata dal Parlamento, che stabilisce il reato di clandestinità, è incostituzionale, ne conseguirebbe che la Costituzione repubblicana nega allo Stato italiano il tratto fondante della statualità: la prerogativa del controllo territoriale.

Né si può controbattere citando il trattato di Schengen, che consente ai cittadini d’Europa di circolare liberamente nei Paesi europei aderenti. Schengen, infatti, è frutto di un accordo volontario fra governi e, proprio per questo, non intacca il principio della sovranità territoriale.

La questione dell’immigrazione ricorda quella del debito pubblico. Il debito venne accumulato durante la Prima Repubblica da una classe politica che sapeva benissimo di scaricare un peso immenso sulle spalle delle generazioni successive.

In materia di immigrazione accade la stessa cosa: esiste un folto assortimento di politici superficiali, di xenofobi, di educatori scolastici, di intellettuali liberal, di preti (troppo) accoglienti, di magistrati democratici, e di altri, intento a fabbricare guai.

Fatta salva la buona fede di alcuni, molti, probabilmente, pensano che se quei guai, come nel caso del debito, si manifestassero in tutta la loro gravità solo dopo un certo lasso di tempo, non avrebbe più senso prendersela con i responsabili.


Come integrare Rutelli in una società avanzata? La vera sfida del multiculturalismo in Italia
di Andrea Franzoni - http://ilpensieroselvaggio.blogspot.com - 5 Gennaio 2010

Qualche giorno Giovanni Sartori, politologo, ed oggi Francesco Rutelli, marito di Barbara Palombelli, hanno sentenziato: l'integrazione degli islamici è velleitaria, ed il multiculturalismo è un'illusione.

I musulmani - hanno spiegato i saggi - non hanno intenzione di integrarsi, cioè di rispettare le nostre leggi, e storicamente non l'hanno mai fatto.

Ciò ha una ragione precisa: l'islam non ha in sè la separazione tra politica e religione, e quindi i musulmani non possono adeguarsi alle nostre leggi perchè in contrasto con il Corano. Il tutto condito con esempi "illuminanti" ed "approfonditi": l'epopea dell'impero Moghul nell'India del '500, e (sic) la mancata integrazione dei giovani delle banlieu parigine. In quanto a semplicismo e paranoia, quasi nulla da invidiare alla per nulla compianta Oriana Fallaci.

Ma proviamo a uscire un attimo dal mondo fantasy dello "scontro di civiltà", delle battaglie tra libri sacri e degli eserciti di soldatini teocratici che invadono e contaminano le caselle contigue, e proviamo a riaffacciarci per un attimo sulla vita reale, su quello che gli studiosi veri chiamano "Pratiche quotidiane".

Nella realtà i musulmani (escludendo rari casi di cronaca che hanno evidentemente a che fare con visioni culturali individuali e criminali, così come il mostro del Circeo non ha agito sulla base della cultura cristiana o italiana) già rispettano le nostre leggi da tempo.

Lavorano, mandano i figli a scuola, pagano le rate del mutuo, imparano l'italiano, si lamentano perchè non ci sono più le mezze stagioni, si incazzano se qualcuno gli ruba qualcosa.

Quali leggi hanno mai messo seriamente in discussione, qui o altrove? Se il problema dell'integrabilità dei musulmani è la loro presunta inconciliabilità con le leggi, è sotto gli occhi di tutti come questo problema non esista.

Non sono certo il pazzo con l'accetta o il radicale con il petardo nelle mutande a smentire l'integrazione di fatto, a livello civile e legale, del 99,9% dei musulmani europei, così come chi non è integrato non lo è certo per colpa del Corano ma per colpa di una sua interpretazione che, evidentemente, è ampiamente minoritaria.

Quali gravi conflitti hanno mai provocato i nostri vicini di casa musulmani nella loro obbedienza cieca al Corano? Lo spaccio, la violenza, l'abuso di spezie odorose non sono prescritti dal Corano.

Siamo davvero convinti che i musulmani italiani agiscano sulla base del Corano, e che il Corano sia un set di istruzioni a cui tutti aderiscono in maniera fedele? Chi segue il Corano: il 99% dei musulmani che non commettono reati di ragione religiosa, o l'1% che nutre fantasie estremiste o contrarie alla nostra costituzione?

Siamo sicuri che i loro modelli, ed il clima in cui vivono, non siano sempre più identici ai nostri? Siamo sicuri che le esigenze comuni e le pratiche quotidiane "loro" siano diverse dalle "nostre", che i loro modi di vedere le cose siano statici ed immutabili?

"Loro", nella realtà, sono mediamente più laici e molto più post-moderni di "noi", che siamo così infantili da arrabbiarci se il mondo civile lamenta l'anomalia di uno stato laico in cui ogni edificio pubblico è griffato "Santa Sede".

E non solo: siamo "noi", con i decreti sicurezza, le discriminazioni sull'assegnazione delle case, i respingimenti, i mille ostacoli alla cittadinanza, i bonus bebè ai soli italiani, le retate e gli abusi, che mettiamo in discussione le nostre leggi, la nostra costituzione.

E cosa ci aspetta nel futuro, dalle seconde generazioni? I loro figli, oggi, studiano, bevono, corteggiano le ragazze, giocano a calcio, tornano dai nonni se capita in estate giusto per esibire la loro estraneità e i loro modi italiani, crescono rielaborando individualmente e creativamente gli input che la società trasmette loro.

Nessuno ha nei propri programmi la creazione di un Califfato islamico, quanto piuttosto l'acquisto dell'ultimo modello di telefono cellulare o, magari, di una casa con la bionda dei suoi sogni.

E gli individui palesemente non integrati, i pochi radicali, non sono tali sicuramente in quanto musulmani (la maggioranza è sorprendetemente integrata, come visto), ma in reazione ad una percezione personale di estraneità e di opposizione da parte della società "ospitante".

Caro Rutelli: i giovani delle banlieu parigine che bruciano i cassonetti non hanno nulla a che fare con l'islam. Non manifestavano contro la costituzione repubblicana o per la poligamia, ma perchè vivono in una società (tra l'altro costruita - per scelta esplicita - secondo un paradigma non multiculturale ma assimilazionista) che li esclude e che non li considera cittadini: per richiedere l'applicazione della retorica costituzionale, non per invocare il Califfato.

Se perseguiremo anche noi una politica di esclusione di fatto e di goffo assimilazionismo post-coloniale, come sembra, ci ritroveremo anche noi con problemi simili: ma non sarà certo per colpa del Corano.

Proviamo a rovesciare il problema. Rutelli, e chi la pensa come lui, è veramente integrabile in una società laica ed avanzata?

E' pronto per vivere in una società non più mono-religiosa, in uno stato non più etico, in uno stato non più mono-razziale, in una collettività in cui molti non vanno al catechismo ed in cui qualcuno non ritiene la pizza il piatto più buono del mondo?

E' pronto a vivere in una società in cui i benefici non vengono attribuiti sulla base del colore, della razza, della nazionalità, ma sulla base della necessità e del merito?

E' pronto ad aprire gli occhi anche di fronte a chi non vive nei salotti o nelle accademie, ma nella polvere e nella storia? E' pronto, in preda com'è alle paure, ai semplicismi, agli essenzialismi, ai pregiudizi, ad integrarsi nel secolo ventuno?

Ho i miei dubbi.

La storia si sta muovendo: il mondo, a dispetto dei vecchi e dei giovani tromboni, è fluido, e la gente come Rutelli corre il rischio di rimanere indietro. L'integrazione di Rutelli (e di chi sta alla sua destra) nel paese plurale e laico che l'Italia necessariamente diventerà: è questa, oggi, l'ombra maggiore che si staglia sul nostro futuro meticcio e multiculturale.


Scuola, i saldi dell'integrazione
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 11 Gennaio 2010

La scuola del Ministro Gelmini inizia l’anno con l’annuncio del tetto massimo del 30% per la presenza di alunni stranieri nelle classi italiane. L’annuncio arriva nel giorno della rivolta degli schiavi immigrati di Rosarno e a corononamento di un anno pessimo, fatto di riforma a singhiozzi che ha seriamente compromesso il diritto all’istruzione, lasciandosi alle spalle tanti docenti disoccupati, classi numerose e alunni disabili senza adeguate ore di sostegno.

Ma non era abbastanza. Il clima d’insofferenza e d’intolleranza ormai dilagante verso gli immigrati, doveva trovare una consacrazione formale da parte delle Istituzioni e nessun luogo poteva essere più adatto se non quello dell’educazione pubblica.

Il provvedimento del Ministro fonda le ragioni di questa regolamentazione d’accesso nella tutela della didattica dell’integrazione e nell’impedimento di classi-ghetto per soli stranieri. Il dato interessante è che il Ministro parli genericamente di alunni non italiani. L’omissione di specifiche che darebbero indicazioni necessarie e molto importanti ai dirigenti scolastici, tradisce l’ambizione autentica che ha ispirato le carte.

La scuola dei presepi e del bianco natale, quella delle classi ponte, quella dei cori per soli cattolici, quella che deve tenere i crocefissi sulle cattedre. Una scuola che non abbia tracce evidenti di altre culture o di altri stranieri. Una scuola per soli italiani che si disturbi per somma bontà cristiana di riservare qualche aula ai figli degli immigrati.

L’elemento che inficerebbe la corretta didattica, nel caso di forte presenza di stranieri, sarebbe la non conoscenza della lingua italiana. Davvero bizzarro che un obiettivo della scuola si trasformi in una premessa imprescindibile di accesso. Strano soprattutto per la velocità di apprendimento che i più piccoli hanno sulle lingue straniere.

Vale lo stesso per i bambini e i giovani italiani che parlano ricorrendo agli idiomi dialettali e che non conoscono la vera lingua italiana e la sua grammatica? No, se la memoria non ci tradisce. Solo qualche mese fa la proposta della Lega di insegnare i dialetti a scuola, rubando tempo alla didattica tradizionale, non aveva destato ilarità o rimbrotti dal governo e la Gelmini, pur non ravvedendone l’urgenza, l’aveva considerata una proposta interessante. E la didattica e l’italiano?

Il tetto massimo del 30% di stranieri può, anche per la fumosità dei termini e delle indicazioni utilizzate, aprire la strada a discriminazioni pesantissime e, soprattutto, inficiare sul lungo periodo l’unica seria possibilità di integrare diverse culture in un Paese che, come tutto l’Occidente, vive la grande odissea dell’immigrazione.

Chi sono poi gli stranieri da limitare? I figli d’immigrati appena arrivati in Italia che non parlano bene la nostra lingua? I figli di seconda generazione, che da tempo appartengono alla nostra società e al nostro Paese? E cosa accadrà per quelli in eccesso? Andranno a finire nelle classi ghetto, che il Ministro voleva scongiurare, per imparare l’italiano con una bella etichetta sulla schiena che li faccia riconoscere da tutti come alunni non italiani?

Se la smania dei tagli non avesse ispirato la riforma dei numeri, avremmo ancora le famose ore di compresenza e i docenti, ora disoccupati, sarebbero stati, adesso più di prima, preziosi nel lavoro di integrazione necessario a portare a termine il programma ministeriale (quello che rimaneva incompleto ben prima che arrivassero gli stranieri) e nell’opera straordinaria e difficile di portare sui banchi di scuola tanti mondi diversi.

Una lezione di civiltà che proprio nella scuola pubblica i figli di tutti avrebbero dovuto imparare, lasciando ai grandi tutto il tempo della delusione e del cinismo realistico. Sfuma così, con quest’annuncio d’italianità che puzza di fascismo, il progetto di una pacifica convivenza di diverse culture e si avvicina il rischio per tutti di un futuro che vuole parlare una sola lingua e credere in un solo dio.


Buuuurini
di Giovanni Giovannetti - www.ilprimoamore.com - 10 Gennaio 2010

Ruud Gullit diceva che se sei miliardario e giochi nel Milan sei anche meno negro. Ma Balotelli (nella foto,ndr) non è Desally o Weah o Seedorf o Vieira o Thuram o i compagni di squadra Eto’o o Muntari; all’interista gli inutili idioti non perdonano di essere nero e contemporaneamente italiano, così come prima di lui non l’hanno perdonato al romano Fabio Liverani (padre italiano e madre somala) oggi al Palermo, il primo calciatore «di colore» a vestire nel 2001 la maglia della nazionale, seguito un anno dopo dal ferrarese Matteo Ferrari, padre italiano e madre guineana, oggi in Turchia al Besiktas. Liverani e Ferrari: due tra i primi a essere presi di mira da cori razzisti come «non ci sono neri italiani»; due meticci, come il presidente degli Stati Uniti Barak Obama (padre keniano e madre americana di discendenza inglese); o come il cestista ex nazionale e portabandiera all’Olimpiade di Sydney 2000 Caltron Myers (padre caraibico e madre pesarese); o come il giovane brianzolo Fabiano Santacroce (padre italiano e madre brasiliana), ora al Napoli e compagno di squadra in nazionale under 21 del “nero” di Brescia superMario Balotelli, uno che parla il dialetto meglio dei lumbàrd Bossi e Maroni e meglio dei buuuurini che periodicamente incrocia in molti stadi, quelli sì paradigmatici di un Paese in crisi di identità e costantemente in cerca del ‘nemico’, gli stessi che cortocircuitano di fronte all’interista e a ciò che felicemente rappresenta insieme ai Liverani, ai Ferrari, ai Myers, ai Santacroce (e agli Obama): che la storia umana è da sempre multietnica e meticcia; che l’accelerazione attuale non è reversibile, specie in un Paese come il nostro, in profondo declino demografico economico culturale, un Paese “salvato” da 4.500.000 immigrati: una magmatica svolta epocale da vivere in presadiretta, una svolta tra le più significative dell’intera storia nazionale.

Si acuiscono le contraddizioni e, in ambito sportivo, ben più dei colleghi, oggi paga dazio il giovane fenomeno calcistico e mediatico Mario Balotelli. Paga anche in nome di tanti giovani italiani come lui.

Ma di più pagano i non-ancora-italiani sospinti tra noi da guerre e miseria, e trattati come braccia senza diritti tra gli agrumeti di Rosarno o tra i pomodori del Casertano; oppure quando diventano manodopera stagionale a basso costo tra gli ortaggi del Cremonese o tra i vigneti della Val Versa. Se la monda del riso fosse ancora manuale, statene certi a mollo nell’acqua e per quattro soldi oggi trovereste loro.

A Rosarno è andata come a Villa Literno nel 1989 e meglio che a Castelvolturno nel settembre 2008, luogo dove la banda del camorrista Beppe Setola – latitante dopo la fuga da Pavia – fece strage di sei braccianti africani.

A Rosarno invece è stata "solo" guerriglia. Qui comanda la ’ndrangheta, che in Calabria taglieggia 20.000 braccianti stagionali con un ‘pizzo’ di 5 euro quotidiani; qui amministrano i ‘caporali’, che esigono 2 euro e mezzo per il trasporto nei campi e altrettanti per il ritorno in schifose topaie (secondo Roberto Saviano, «contro le mafie gli immigrati sono più coraggiosi di noi»).

Un giorno, i figli del nigeriano bracciante irregolare e del rifugiato politico dal Togo feriti in Calabria – se non loro stessi – saranno «uno di noi», come già SuperMario Balotelli, nato e cresciuto in Italia, da sempre «uno di noi».

L’immigrato africano e il calciatore italiano sono due facce della stessa medaglia, tenuti entrambi a misurarsi con il razzismo emendato dal senso di colpa, che senza più freni inibitori ha progressivamente colonizzato il senso comune.

Lo dico da antirazzista e da juventino tanto incallito quanto pentito oltre che da esteta del calcio giocato, di quelli che allo stadio cantano «non ne possiamo più della pay tivù», noi che egoisticamente abbiamo benedetto l’apertura delle frontiere calcistiche, così che anche al pavese stadio “Fortunati” da qualche tempo si incontrano brasiliani come Inàcio Joelson, francesi come Milan Thomas, argentini come Pato D’Amico, oppure si godono le triangolazioni di prima e in velocità tra gli Andrea Ferretti e i Benny Carbone, fenomeni che non trovano spazio in serie A o B, giocate tali e quali a quelle che, da bambino, vedevo solo a San Siro o al vecchio Comunale di Torino – di certo non in C o in D – con in più squadre corte, giocatori che scalano e molto agonismo e atletismo.

Ma sto divagando. Sono tra i pochi o i molti che dopo i cori bianco e soprattutto neri di Bordeaux rivolti a Balotelli (e chissà perché), il 25 novembre scorso si sono vergognati di tifare Juve e di vivere nello stesso Paese da cui provenivano queste pavide ugole.

Ma, forse, diceva Gullit, se sei miliardario e giochi nel Milan sei anche meno straniero. Se invece quattrini non ne hai e procuri qualche spicciolo a Rosarno lavorando fino a 15 ore al giorno per 2 euro all’ora, allora ti sparano, e ti senti più «negro» e straniero degli altri.