sabato 30 gennaio 2010

USA-Cina: è iniziata la sfida del XXI secolo

Una serie di articoli sulle recenti tensioni nei rapporti tra USA e Cina, di cui la vicenda Google rappresenta solo uno dei vari aspetti.

La vera sfida del XXI secolo è ufficialmente cominciata e i due giocatori stanno mettendo in campo strategie completamente diverse per arrivare primi al traguardo.


Google attacca la Cina mentre si intensifica l'ostilità tra Washington e Pechino
di Webster G. Tarpley* - www.voltairenet.org - 21 Gennaio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Oriana Bonan

Nel regolamento dei conti tra Google e il governo cinese, i mezzi di comunicazione dipingono Google come un difensore della libertà su internet e un sostenitore dei diritti umani del popolo cinese.

Una totale ipocrisia, se si considera che Google fa parte di un cartello di società operanti in internet, che complottano assieme all’apparato d’intelligence statunitense, anche per la destabilizzazione di governi stranieri.

Ci si può stupire, allora, se le autorità cinesi percepiscono Google come un canale di propaganda nera? Comunque sia, l’attuale alterco non è altro che un elemento in un più ampio tiro alla fune geopolitico ed economico tra i due Paesi, in cui la Cina sembra avere la meglio.

L’escalation nel conflitto tra Google e la Repubblica Popolare Cinese interviene nel contesto del rapido deterioramento delle relazioni tra i due Paesi su molti fronti. Google fa parte di un cartello di società operanti in internet che, notoriamente, lavorano a stretto contatto con l’intelligence statunitense per scopi politici, ivi inclusi sovversione e rovesciamento di governi stranieri. Basta ricordare il ruolo centrale di Twitter nel tentato colpo di stato della CIA in Iran la scorsa estate [1].

La manipolazione politica per mezzo di Internet è una componente indispensabile della ricetta della CIA per condurre rivoluzioni colorate, rivoluzioni di velluto, golpe popolari e golpe postmoderni [2].

Quando internet viene introdotto in Paesi precedentemente autoritari, è spesso possibile abbindolare, manipolare e fomentare un gran numero di giovani entusiasti e politicamente poco sofisticati. I risultati sono spesso disastrosi.

In Georgia, una rivoluzione colorata ha portato al potere quel pazzo di Sakaashvili, che ha già dato inizio ad una guerra [3]. Yushenko, beneficiario della Rivoluzione Arancione del 2004, è appena stato pesantemente ripudiato dagli elettori dopo una presidenza catastrofica.

I postumi della sbornia e la disillusione che circondano Obama sono legati al fatto che egli, in un certo senso, ha preso il potere nella stessa maniera. Per queste ragioni, il governo cinese ritiene che ci siano validi motivi per cui è necessario impedire che le agenzie di intelligence occidentali iniettino enormi quantità di propaganda nera in Cina attraverso internet.

In ogni caso, questa questione riguarda puramente gli affari interni cinesi e gli Americani in particolare dovrebbero mettere ordine a casa propria prima di fare prediche al resto del mondo.

La mattina del 4 gennaio, il Los Angeles Times ha riferito che la Grande Firewall con cui il governo cinese filtra i contenuti online era momentaneamente venuta a mancare. Era opera degli Stati Uniti?

O forse la Cina credeva che fosse opera degli Stati Uniti? Circa dieci giorni dopo, Google, Adobe, e Northrop Grumman hanno accusato hacker cinesi di accesso ai propri siti per raccogliere informazioni.

Il governo cinese ha informato Google che, se avesse insistito nel violare la legge cinese, la società non avrebbe potuto continuare ad operare e Google ha annunciato la propria imminente dipartita dal mercato cinese. Negli uffici di Google in Cina girano voci di spionaggio.

Molti resoconti giornalistici asseriscono che Google si oppone alla censura per principio. Balle allo stato puro. Google sostiene la censura nella misura in cui essa è dettata dall’intelligence degli Stati Uniti.

Gli analisti e ricercatori che hanno esaminato a fondo le questioni relative agli attacchi dell’11 settembre e agli attentati del 7 luglio 2005 a Londra conoscono bene i molti modi in cui Google ha tentato di ostacolare l’accesso pubblico a dati ed analisi che non erano in linea con la narrazione ufficiale.

Google è stata fondamentalmente ostile nei confronti di chiunque criticasse le versioni ufficiali del governo statunitense in merito a queste provocazioni terroristiche sotto falsa bandiera. Dire che Google sia contraria alla censura è quindi un atto di ipocrisia monumentale.

Le relazioni sino-statunitensi si stanno deteriorando rapidamente verso una nuova Guerra Fredda o qualcosa di ancora peggiore. L’intera politica estera degli Stati Uniti è fortemente motivata da fattori anti-cinesi. Il Pakistan è fatto bersaglio di distruzione principalmente perché potrebbe costituire un corridoio energetico tra Iran e Cina a beneficio di quest’ultima [4].

Le azioni degli Stati Uniti in Yemen [5], Somalia, Sudan, Zimbabwe, Birmania, e in molti altri punti del pianeta sono fondamentalmente dettate dal desiderio di dare scacco matto alla Cina. Fatto sta che la Cina sta contrastando tutto questo in modo molto più efficace.

Alla recente conferenza di Copenhagen sul clima, la strategia di U.S.A. e Gran Bretagna si è basata sulla grande menzogna del riscaldamento globale per istituire una dittatura mondiale degli idrocarburi da usare poi per strangolare lo sviluppo economico di Cina, India e altre nazioni in via di sviluppo.

Come segnalato da resoconti sul Guardian britannico, il primo ministro cinese Wen ha diretto con successo un’operazione di bloccaggio con l’aiuto di Paesi come Sudan, Venezuela, Cuba, Bolivia e altri ancora, e nel mentre ha personalmente snobbato Obama diverse volte. In merito alle sanzioni contro l’Iran, i Cinesi avvertono che le bloccheranno nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e le stanno anche eludendo in vari modi.

Ora la Cina ha superato la Germania diventando il maggiore esportatore del mondo, e si stima che possieda circa 2,5 trilioni di dollari in valuta estera, gran parte della quale denominata in dollari. Una guerra commerciale tra Cina e U.S.A. su questioni come pneumatici e acciaio è divenuta una chiara possibilità.

Gli Stati Uniti continuano con l’incessante lagna sulla presunta fluttuazione sporca della valuta cinese, il renminbi. Gli Stati Uniti sono sull’orlo di un’imponente vendita di armi alla Repubblica di Cina (Taiwan), cosa cui Beijing non potrà non opporsi.

Persino peggiore sarà la visita del Dalai Lama alla Casa Bianca di Obama, che viene ora data come imminente. Sebbene sia idoleggiato da un branco di degenerati holliwoodiani, il Dalai Lama è in realtà un famigerato asset dell’intelligence occidentale, nonché il simbolo di un brutale regime di oppressione feudale che teneva la maggior parte della popolazione in stato di servitù della gleba e una significativa minoranza in schiavitù.

Il governo statunitense continua a trasferire significative somme di denaro alla sinistra Rebiya Kadeer e al suo World Uighur Congress, che il governo Cinese accusa di essere responsabili dei bagordi omicidi avvenuti in Xinjiang (Turkestan cinese) nel luglio del 2009 [6], per cui sono state ora pronunciate due dozzine di condanne a morte.

Un cittadino britannico accusato di essere uno spacciatore di droga è appena stato giustiziato dai Cinesi, che non hanno dimenticato le tre Guerre dell’Oppio dichiarate contro di loro da Londra allo scopo di introdurre con la forza nel mercato cinese narcotici letali.

Più importante, forse, di qualsiasi altro singolo disaccordo su questioni concrete, è stato il nuovo senso di sicurezza, fiducia in sé e autoaffermazione del governo cinese, emerso dopo la bancarotta dei sistemi bancari statunitense e britannico nell’autunno del 2008. Per molti decenni, la diplomazia cinese è stata tipicamente molto cauta, mantenendo un bassissimo profilo e un approccio moderato.

Il successo delle operazioni del primo ministro Wen a Copenhagen è una chiara indicazione dei grandi cambiamenti in corso in questo ambito. Evidentemente i Cinesi vedono Google come un simbolo di arroganza ed egemonismo che non sono più disposti a tollerare.


* Webster G. Tarpley è scrittore, giornalista, conferenziere e critico delle politiche estere ed interne statunitensi(www.tarpley.net ). Tra i suoi libri più recenti: Obama, The Postmodern Coup, The Making of a Manchurian Candidate , Barack Obama: The Unauthorized Biography e 9/11 Synthetic Terror . È un componente della conferenza Axis for Peace.


Note:

[1 ] The CIA and the Iranian experiment , di Thierry Meyssan, Voltaire Network; 19 giugno 2009.
[2 ] The Technique of a Coup d’État , di John Laughland, Voltaire Network; 5 gennaio 2010.
[3] The Secrets of the Georgian Coup, an ex-Soviet Republic , di Paul Labarique, Voltaire Network; 7 gennaio 2004.
[4 ] Obama dichiara guerra al Pakistan , di Webster G. Tarpley, rense.com; 15 dicembre 2009.
[5] Yemen: Behind Al-Qaeda Scenarios, a Geopolitical Oil Chokepoint to Eurasia , di F. William Engdahl, Voltaire Network; 6 gennaio 2010.
[6] Washington is Playing a Deeper Game with China , di F. William Engdahl, Voltaire Network; 13 luglio 2009.


Energia, finanza e geopolitica: ecco dove si gioca la vera sfida
di Marcello Foa - www.ilgiornale.it - 28 Gennaio 2010

Google è soltanto un pretesto. Dietro c’è ben altro. L’avvio di una strategia americana per ridimensionare la nascente potenza cinese. Un’azione preventiva e finora ben condotta, perché inaspettata.

Fino a poche settimane fa la situazione appariva molto diversa. Gli Stati Uniti, azzoppati da un debito pubblico enorme, erano finanziariamente ostaggi di Pechino, che da tempo compra a mani basse Buoni del Tesoro statunitensi, al punto da essere costretti ad accettare un direttorio: il G2, come l’avevano chiamato Obama e Hu al vertice di Londra della scorsa primavera.

Da allora, e fino alla fine del 2009, Washington aveva dato l’impressione di essere addirittura succube di Pechino. Chi non ricorda le imbarazzanti missioni del ministro del Tesoro Geithner per rassicurare e blandire le autorità cinesi?

O il rifiuto di Obama di incontrare il Dalai Lama? E il vertice sul clima di Copenaghen saltato soprattutto per le impuntature della delegazione di Pechino, subito assecondate dagli americani?

Ora sorge il sospetto che Washington abbia accentuato volutamente le proprie debolezze e, specularmente, la forza di Pechino, per poterla meglio sorprendere. La manovra indubbiamente è riuscita: solo ora il governo cinese si accorge del vero significato della crisi innescata da Google e non sembra avere predisposto le difese necessarie. Perché l’attacco non è e non sarà mai militare, ma sarà condotto usando tecniche non convenzionali.

L’America vuole indebolire la Cina, innervosirla, incoraggiare i tanti movimenti di protesta sia religiosi (vedi Tibet e la minoranza musulmana degli uiguri), sia sociali. Da qualche giorno Stratfor, un centro di ricerca vicino alla Cia, enfatizza, nel bollettino China Security Memo, le numerose proteste che avvengono quotidianamente nella Repubblica Popolare e che invece fino all’anno scorso venivano ignorate o minimizzate.

E tra breve Obama incontrerà proprio il Dalai Lama. I segnali sono chiari. L’America rialza la testa e sfida Pechino.

Con quale obiettivo? Washington potrebbe accontentarsi di indebolire la Cina e costringerla a ripiegare sulle vicende interne, ridimensionando le sue ambizioni planetarie. Oppure potrebbe cercare di farla implodere, come accadde con l’Unione sovietica.

In entrambi i casi la figura dello stesso Obama, il presidente pacifista che abbraccia il mondo e si schiera con gli oppressi, è perfettamente funzionale a questi disegni.

E perché proprio adesso? Semplice: Washington ritiene che la Cina sia cresciuta molto più del previsto ed è consapevole che il tempo gioca a suo favore. Dunque deve approfittare ora della propria supremazia; tra qualche anno potrebbe essere troppo tardi o troppo rischioso.

La crisi di Google si innesta, peraltro, in uno scenario di forte rivalità planetaria. E non solo per Taiwan o per le note diatribe commerciali che hanno spinto Washington a imporre dazi sui pneumatici cinesi.

Nello scorso decennio, mentre gli Stati Uniti si impantanavano in Irak e in Afghanistan, la Cina ne ha approfittato per ampliare la propria influenza in tutto il mondo, riuscendo a erodere alcune zone di influenza statunitense e diventando un concorrente diretto per il controllo delle risorse energetiche.

Ha avviato relazioni strettissime con l’Iran (e infatti continua a ostacolare l’approvazione di nuove sanzioni all’Onu), ma ha stabilito eccellenti rapporti con l’Arabia Saudita, tradizionale alleata degli americani, e ha messo radici in Africa, soprattutto nei Paesi ricchi di materie prima come l’Angola, il Sudan, persino il Sud Africa e, più a Nord, Marocco ed Egitto, anche questi grandi amici degli Stati Uniti.

Pechino ha bisogno di crescenti quantitativi di petrolio per finanziare il suo sviluppo economico, ma deve controllare anche le rotte dell’approvvigionamento. Oggi quasi tutte le petroliere transitano per lo Stretto di Malacca, che però è presidiato dalla Marina americana.

E allora la Cina sta elaborando soluzioni alternative: due oleodotti, uno con l’Iran via Kazakistan, l’altro attraverso il Myanmar (l’ex Birmania) e una rotta, via mare, lungo il cosiddetto «filo di perle», in cui le perle sono composte dall’isola di Hainan, quella di Woody al largo del Vietnam, Chittagong in Bangladesh e Gwadar in Pakistan.

E ancora: Pechino contribuisce in maniera decisiva agli sforzi del «Bric» ovvero dell’asse dei quattro Paesi emergenti - Brasile, Russia, India, Cina - che, seppur timidamente, intende proporsi come alternativa allo strapotere degli Stati Uniti. I cinesi hanno stretto rapporti commerciali anche in America Latina innanzitutto con il Venezuela, ma anche con l’Ecuador e l’Argentina.

Nel Sud est asiatico è considerata sempre di più come la vera potenza regionale di riferimento, a scapito, ancora una volta, degli Usa. Tutto questo, mentre le sue aziende fanno shopping in Europa, con un’attenzione particolare per i porti, a cominciare da quello di Atene. E se si considerano i programmi di riarmo, il quadro appare completo.

La Cina sta conducendo con intelligenza e discrezione un programma di espansione planetaria, che non ha finalità ideologiche, né militari. Non intende imporre il comunismo, né creare un nuovo impero, ma più pragmaticamente controllare le materie prime per alimentare il proprio sviluppo.

E questo spiega perché molti Paesi, soprattutto quelli autoritari, siano sensibili alle sue lusinghe: sanno che non dovranno affrontare pressioni in tema di diritti umani e democrazia, né sottostare ad alleanze militari.

La leva dell’espansionismo cinese è soprattutto economica e commerciale. E finora ha avuto successo. Per questo Washington ha deciso di agire, scontando evidentemente, anche il rischio di qualche ritorsione finanziaria. Che succede se Pechino inizia a liberarsi dei Buoni del Tesoro Usa?

Altro elemento su cui riflettere. La partita è complessa e affascinante. Prepariamoci.


Obama sfida la Cina e vende armi a Taiwan. Pechino: "Danneggia i nostri rapporti"
da www.repubblica.it - 29 Gennaio 2010

Dopo la vicenda Google, i rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti subiscono un altro scossone. L'amministrazione Obama, sulla falsariga di quella di George W. Bush, si appresta a vendere armi a Taiwan per un valore di 6 miliardi di dollari.

Una mossa che non poteva non suscitare la reazione di Pechino che considera l'isola una provincia ribelle ma parte integrante della madrepatria, di cui più volte ha minacciato l'invasione. Siamo indignati", ha detto il viceministro degli esteri He Yafei, per una decisione che "avrà un impatto negativo" sulle relazioni fra le due potenze.

Il Pentagono ha notificato al Congresso la richiesta di autorizzazione per vendere a Taiwan materiale bellico per 6,4 miliardi di dollari. Del pacchetto fanno parte 114 missili intercettori Patriot (2,81 miliardi), 60 elicotteri Black Hawk (3,1 miliardi), equipaggiamento per le comunicazioni dei cacciabombardieri F-16 di Taipei (340 milioni), 2 cacciamine classe Osprey (105 milioni) e 12 missili antinave Harpoon (37 milioni).

Si tratta della prima comunicazione di questo tipo fatta dall'amministrazione Obama. Il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley, aveva spiegato che "si tratta di una chiara dimostrazione dell'impegno dell'amministrazione di fornire a Taiwan gli armamenti difensivi di cui ha bisogno", precisando che gli Usa non avevano hanno ancora comunicato alla Cina in via ufficiale questa loro decisione.

Ma la Cina non ci sta. He Yafai ha inoltrato protesta formale all'ambasciatore americano a Pechino, Jon Huntsman. "I piani Usa mineranno definitivamente le relazioni sino-americane e avranno un impatto estremamente negativo sullo scambio e la cooperazione tra i due Paesi nei principali settori", si legge nel messaggio.

Pechino ha sospeso ormai da due anni ogni contatto di tipo militare con gli Stati Uniti dopo che l'allora presidente George W. Bush aveva presentato al Congresso, nell'ottobre del 2008, un progetto per vendere armi a Taiwan.

I rapporti tra Repubblica popolare e Stati Uniti non stanno attraversando un momento felice e anzi sono da tempo tesi su molti temi, tra cui i diritti umani, il Tibet e la sicurezza sui prodotti commerciali. Il viaggio in Cina in febbraio del segretario di Stato americano, Hillary Clinton, era parso aprire un nuovo capitolo nei rapporti tra i due paesi.

Nelle ultime settimane, invece, le relazioni sino-americane hanno conosciuto un ulteriore irrigidimento in seguito alla vicenda Google: gli Usa hanno apertamente accusato la Cina di "pirateria informatica" dopo che il motore di ricerca aveva reso noto che hacker cinesi erano entrati nelle caselle postali di dissidenti cinesi.

La Cina aveva respinto le accuse, e un portavoce del ministero dell'Informatica aveva definito "senza fondamento" le affermazioni di Google.


Google sfida la Cina
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 15 Gennaio 2010

Di regola, certe operazioni di politica globale dovrebbero farle gli Stati, o le confederazioni e unioni di Stati. Ma, di fronte ad un colosso dell'economia come la Cina, gli stati occidentali chinano la testa, vuoi perché la Cina detiene il loro debito pubblico, vuoi per evitare un aggravarsi della crisi economica in cui versa attualmente il modello capitalista.

Così, succede che di fronte alla sistematica violazione dei diritti umani dei suoi cittadini, a prendere posizione contro Pechino non sia l'ONU, o gli USA, o l'UE, ma un'azienda privata. Anzi, un colosso dell'industria informatica moderna: Google.

La società di Mountain View sostiene di avere le prove di svariati tentativi di violazione del suo sistema Gmail e di analoghi gesti ai danni di attivisti di movimenti a difesa dei diritti umani. Tutti casi di tentativi che, secondo i dirigenti di Google, sono caratterizzati da una chiara e inequivocabile matrice cinese. Governativa.

E la presa di posizione dell'azienda americana è talmente forte da essere, per la prima volta nel mondo, un ultimatum al governo cinese: Pechino non applicherà alcun filtro censorio, così come fatto finora, altrimenti Google lascerà del tutto il mercato cinese, nonostante sia uno di quelli in più rapida e significativa espansione.

"Abbiamo deciso", dichiarano sul blog ufficiale di Google, "che non abbiamo più intenzione di continuare a censurare i nostri risultati su Google.cn, per questo nelle prossime settimane incontreremo il Governo cinese per discutere le basi sulle quali potremo gestire un motore di ricerca senza filtri, nel rispetto delle leggi vigenti nel Paese. E siamo pienamente consapevoli che questo potrebbe portare alla chiusura di Google.cn e dei nostri uffici in Cina."

Immediate le reazioni, sia da parte degli utenti cinesi, sia a livello internazionale, a cominciare dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che ha avanzato richieste di spiegazioni direttamente al Governo Cinese.

In Cina c'è chi trova incomprensibile l'ipotesi prospettata da Google, sottolineando che l'uscita dal Paese, di fatto, è una ulteriore e ancor più drastica forma di censura.

E c'è anche chi non accetta le accuse al proprio Paese o, ancora, chi trova economicamente ingiustificabile che una multinazionale possa volontariamente tagliarsi fuori da un mercato con possibilità di crescita illimitate.

Molti, però, hanno salutato con favore l’ipotesi. Gli analisti economici, a livello internazionale, esprimono più di un dubbio sull’opportunità di escludersi da un mercato che sta al momento crescendo del 40% all'anno. Una tal scelta potrebbe avere degli effetti limitati sull'immediato, ma sul lungo periodo potrebbe rivelarsi disastrosa.

Probabilmente, la cosa migliore da fare, al momento, è prendere con le dovute cautele un annuncio che sembra una presa di posizione, prima che una decisione già presa. Infatti, sul piatto della bilancia ci sono due questioni che stanno molto a cuore a Google: da un lato il ritorno d’immagine negli Usa, acconsentendo alle rigide richieste della censura cinese; dall'altro l’effetto boomerang sulla reputazione dei propri servizi presso gli utenti, che in Cina hanno sistematicamente ben poca sicurezza e privacy.

In occasione del suo ingresso sul mercato cinese, nel gennaio 2006, Google aveva scatenato una protesta nella comunità internazionale. Il motore fu costretto a rispettare le leggi in vigore in Cina e dunque censurare i risultati contrari alla politica locale.

Lo scorso giugno, Pechino aveva negato per alcune ore l'accesso a Google e Gmail per costringere il motore di ricerca ad eliminare alcune parole chiave dal suo sistema di ricerca automatica.

Oggi, sottraendosi alle leggi cinesi, Google di fatto rompe il patto di neutralità politica rispettato fino ad oggi, con pesanti conseguenze nei prossimi mesi: il braccio di ferro è appena all'inizio.

La risposta cinese è naturalmente politica: "La Cina è favorevole alle attività sul suo territorio delle società Internet internazionali che siano conformi alla legge cinese", é la dichiarazione ufficiale del Governo di Pechino, rilasciata dalla portavoce del ministero degli Affari esteri, Jiang Yu, che prosegue dicendo: "Internet in Cina è aperto e il Governo cinese ne incoraggia lo sviluppo e si sforza di creare un contesto che sia favorevole a ciò".

Sul piano economico, gli esperti del settore ritengono probabile che Google e il Governo cinese possano trovare un compromesso. Già in passato il gruppo californiano ha assunto posizioni drastiche, ma solo come tattica nella trattativa. "Sono sicuro che saranno pragmatici. Google è una società molto dinamica. Dubito che se ne andranno dalla Cina. La presenza nel Paese è cruciale, perché è lì che ci sarà la prossima ondata di crescita", rileva Christopher Tang, professore della Ucla Anderson School of Management.

Non bisogna dimenticare infatti che la Cina da sola ha circa 360 milioni di utenti Internet e il suo mercato dei motori di ricerca ha toccato un miliardo di dollari lo scorso anno. Il Governo cinese tuttavia pone stretti limiti all'accesso dei cittadini al Web, operando una censura automatica sui siti sgraditi.

Non è stata solo la portavoce del governo a prendere posizione sulla vicenda. Anche il ministro dell'Ufficio informazioni del Consiglio di Stato, Wang Chen, ha detto che pornografia online, frodi e "rumours", le cosiddette "voci", termine con cui i dirigenti cinesi indicano il dissenso in rete, rappresentano una minaccia.

E ha aggiunto che i media su Internet devono contribuire a "guidare l'opinione pubblica" in Cina, brutta espressione con la quale ha voluto ricordare tra le righe che, contando il maggior numero al mondo di utenti, è un mercato importantissimo per gli operatori internazionali, a condizione che accettino la censura imposta dal governo.

Nelle sue dichiarazioni Wang non ha mai citato espressamente Google. Ma sono parole che pesano, soprattutto la pretesa di "guidare l'opinione pubblica", che si scontra con uno dei caposaldi della democrazia, ovvero la libertà di opinione.

Difficile dunque immaginare un'intesa attorno ad un qualsivoglia compromesso. A Washington, Barack Obama ha fatto sapere, proprio in concomitanza con il braccio di ferro avviato da Mountain View, che lui e la sua amministrazione sono "convinti sostenitori della libertà per internet".

Sempre negli USA, il New York Times cita "fonti vicine all'indagine" condotta da Google, e spiega che gli attacchi oggetto della presa di posizione sono stati condotti contro 34 compagnie o entità che si trovano nella Silicon Valley, in California, sede dei server di Google usati da molti cinesi che vogliono sfuggire alla censura.

Che non colpisce solo i motori di ricerca, ma anche social network e siti di condivisione come Youtube, Facebook e Twitter. Rebecca MacKinnon, esperta di Internet in Cina, afferma che "Google ha subito negli ultimi mesi ripetute prepotenze e rischia di non poter garantire agli utenti la sicurezza delle sue operazioni".

Intanto, Google ha deciso di mettere a disposizione il suo motore senza filtri a tutti gli internauti cinesi. Così, da oggi, in Cina, usando Google, si può vedere la celebre fotografia divenuta simbolo della rivolta degli studenti alle autorità cinesi nel 1989 in piazza Tien an men, fino ad ora censurata. Una vera e propria provocazione. Una risposta politica, a costo di perdere vantaggi economici, che non arriva dall'ONU, ma da un'azienda privata.

Anche su questo non c'è da meravigliarsi: mentre gli stati occidentali hanno debiti pubblici sempre più alti, e con quote detenute sempre più spesso proprio dalla Cina (USA in primis), Google è un'azienda con un bilancio solido - certamente più solido di quelli statali - e non ha debiti con nessuno. Neanche con la Cina.


Pechino rassicura l'Occidente "Trascineremo la ripresa"
di Federico Rampini - La Repubblica - 29 Gennaio 2010

DAVOS - La Cina rivendica il ruolo di locomotiva: ha salvato il mondo da una recessione che senza di lei sarebbe stata ancora più pesante. Promette che il suo "consumatore frugale" diventerà sempre più disponibile ad acquistare prodotti occidentali, sarà il mercato di sbocco del futuro. E' pronta a un giro di vite nella sua politica monetaria, se necessario per evitare una bolla speculativa.

Ma ammonisce l'Occidente: guai se cederà alla tentazione del protezionismo, rifarebbe gli stessi errori che portarono alla Grande Depressione degli anni Trenta. Sono i messaggi che ha portato al World Economic Forum l'astro nascente della nomenklatura di Pechino, il vicepremier Li Keqiang, destinato entro un biennio a incarichi ancora più elevati (è in corsa per la poltrona di presidente o primo ministro).

L'arrivo della maxidelegazione cinese a Davos quest'anno ha avuto tratti spettacolari, quasi un'Opa lanciata dalla Repubblica Popolare sul summit svizzero. Con duecento tra alti dirigenti governativi, imprenditori e banchieri, la rappresentanza di Pechino ha fatto ombra a quella americana e a tutte le altre nazionalità.

Una prestigiosa palazzina a pochi metri dal centro del summit, che negli anni passati ospitava il quartier generale della Cnn, quest'anno è diventata la China House: affittata dalla tv di Stato Cctv e usata dalla delegazione di Pechino per eventi speciali e relazioni pubbliche. Sparpagliati in diversi alberghi, gruppi di cinesi hanno esposto bandiere rosse e improvvisato concerti serali di tamburi per festeggiare anche in trasferta il loro Capodanno.

Al vicepremier gli organizzatori del vertice hanno riservato il secondo posto nella gerarchia dei discorsi ufficiali, subito dopo il presidente francese Nicolas Sarkozy. Ma a differenza del francese, Li Keqiang non ha fatto polemiche dirette. Ha evitato accuratamente temi tabù come la "guerra del cyberspionaggio" contro Google. Ha interpretato il ruolo della superpotenza sicura di sé.

Esattamente un anno fa, qui a Davos lo aveva preceduto il premier Wen Jiabao. Che nel momento più acuto della crisi mondiale lanciò dallo stesso palcoscenico una promessa solenne: "La Cina nel 2009 continuerà a crescere, con un aumento del Pil dell'8%". Il suo vice ieri ha potuto assaporare il trionfo: "Abbiamo fatto di più, l'anno scorso la crescita ha raggiunto l'8,7%".

Una perfomance inaudita, viste le circostanze, che mette la Repubblica Popolare in una posizione di forza. Li ne ha rivendicato il merito alla decisa azione del governo, che nel gennaio 2009 varò una manovra di spesa pubblica da 400 miliardi di euro, quasi dell'entità di quella americana ma partendo da una situazione ben più florida dei conti pubblici.

"Abbiamo agito con tempestività e determinazione - ha detto - e la spesa pubblica ha contribuito per sei punti di crescita del Pil. Abbiamo dato un contributo positivo alla crescita degli altri paesi: le nostre importazioni sono cresciute fino al secondo posto nella classifica mondiale".

Conoscendo le critiche verso i veti di Pechino che hanno contribuito al fiasco di Copenaghen, il vicepremier ha sottolineato che nella manovra di investimenti pubblici hanno avuto un peso rilevante le energie rinnovabili: "Dovranno soddisfare il 15% del fabbisogno nazionale entro il 2020".

Ha illustrato la strategia di sviluppo della nazione più popolosa del pianeta: "Vogliamo abbandonare i settori manifatturieri arretrati, puntando invece sull'innovazione e le attività produttive più avanzate".

Ma l'Occidente non deve avere paura, ha spiegato Li, perché il mercato cinese sarà ricco di opportunità. "Siamo ancora una nazione in via di sviluppo, per il reddito pro capite ci collochiamo solo al centesimo posto mondiale. Ogni anno dieci milioni di contadini emigrano dalle campagne nelle città. In passato il nostro popolo era famoso per la sua frugalità nei consumi, ma ora le aspettative di un tenore di vita migliore si diffondono, lo abbiamo visto con il successo ottenuto dai nostri incentivi per le vendite di elettrodomestici nelle regioni rurali".

Dunque è interesse dell'Occidente riprendere la via della liberalizzazione degli scambi mondiali. "Il protezionismo - ha ammonito Li - avrebbe come conseguenza quella di esasperare la crisi. A causa delle guerre commerciali dopo il 1929 il mondo sprofondò nella Grande Depressione". Nessun cenno alle accuse di Sarkozy, che il giorno prima aveva parlato di "manipolazione della moneta" e "concorrenza sleale".

Il vicepremier invece ha rivendicato una riforma delle istituzioni di governance globale, a cominciare dall'Fmi, per renderle più rappresentative delle nuove gerarchie tra le nazioni.


Lo Yen sconfigge Mao
di Giuseppe Zaccagni - Altrenotizie - 30 Gennaio 2010

La Cina è divenuta il primo Paese esportatore del mondo e la terza economia del pianeta; il livello del suo export ha raggiunto i 1.070 miliardi di dollari. E così un miliardo e 340 milioni di persone vivono, lavorano, producono, consumano, sognano, soffrono, mettono al mondo figli in un Paese che, mese dopo mese, guadagna nuovi e significativi record.

Ad esempio quello relativo al fatto che nel 2009 il suo mercato automobilistico ha superato quello americano, guadagnandosi con 13 milioni di vetture vendute, un nuovo primato.

Altro grande risultato della Cina d’oggi riguarda la costruzione di un aeroporto in una zona considerata la più alta del mondo, a 4.500 metri. I lavori per le piste e la stazione comincer?nno l’anno prossimo nella Regione Autonoma del Tibet, 230 chilometri a Nord di Lasha, la capitale. Con costi anch’essi da record: 180 milioni di euro.

Nell’elenco dei successi c’è poi quello che annuncia la Cina come secondo mercato mondiale dei diamanti, con la borsa di Shanghai cresciuta del 16,4 per cento, raggiungendo gli oltre 1,5 miliardi di dollari, dietro solo agli Stati Uniti. Secondo le più accreditate fonti ecomiche, tutto questo è il risultato della crescita del Paese (nel 2009 all'8,7 per cento), mentre il resto del mondo si dibatteva nella recessione.

Di conseguenza lo sviluppo stabile dell'economia e la domanda di gioielli è continuata a crescere, in special modo per i diamanti. Tanto da poter affermare che l’anno da poco concluso - lo scrive l’agenzia Xinhua - ha portato la Cina a superare il Giappone divenendo il secondo mercato di consumatori del mondo per diamanti dietro agli Stati Uniti.

Intanto, sempre sul fronte dell’economia nazionale, c’è da rilevare che la Cina ha diffuso i dati sul Pil che, nel 2009, ha toccato i 4.910 miliardi di dollari, mentre quello di Tokyo, secondo proiezioni, dovrebbero arrivare a 5.100 miliardi di dollari.

Quanto alla situazione strategico-militare, Pechino mette in mostra alcuni successi. Si fa forte dei passi avanti nel campo dei sistemi di difesa antimissile. Nelle settimane scorse, infatti, ha effettuato un test significativo, in risposta agli Usa che hanno dato via libera alla vendita a Taiwan di missili Patriot, capaci di respingere attacchi aerei e missilistici. «Il test - ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri cinese Jiang Yu - è di natura difensiva ed in linea con la politica di difesa non aggressiva della Cina».

E in un breve dispaccio dell’agenzia ufficiale, si sostiene che il missile antimissile «non ha lasciato detriti» nello spazio e «non ha messo in pericolo nessun velivolo spaziale in orbita».

Ma tutto questo sta anche a significare che la Cina punta sempre a mostrare i muscoli anche nei confronti di Taiwan, isola di fatto indipendente dal 1949, che la dirigenza di Pechino ritiene parte del suo territorio nazionale. Intanto gli osservatori diplomatici di Mosca, riferendosi anche alle posizioni di esperti taiwanesi e occidentali, ritengono che Pechino ha oltre mille missili puntati sull’isola.

Ma, a parte queste impennate di forte militarismo, c’è un bilancio positivo per l’economia generale del paese e per una serie di progressi sociali. Si consolida la ripresa, seppure con qualche segnale di surriscaldamento dell’economia.

Il colosso asiatico - lo afferma il South China Morning Post - ha chiuso il 2009 con una crescita del prodotto interno lordo dell’ 8,7%, e ormai il sorpasso sul rivale giapponese appare a un passo e con esso la palma di seconda economia planetaria dopo gli Stati Uniti d’America.

La crescita del Gdp nel 2009 vale 4.700 miliardi di dollari, pari a quello del Giappone per l’anno precedente. Il primato cinese sarà registrato ufficialmente quando, il mese prossimo, Tokyo certificherà la sua crescita per il 2009, probabilmente inferiore del 6% rispetto al 2008.

La ripresa - lo evidenzia il Time Asia - é soprattutto merito delle misure anticrisi del governo, che alla fine del 2008 ha varato un pacchetto di provvedimenti a sostegno dell’economia del valore di quasi 600 miliardi di dollari. L’obiettivo è raggiungere e superare il colosso nipponico.

Un aspetto, questo, che non figura direttamente nell’agenda del governo, ma che ha tuttavia un forte valore simbolico dati i rapporti storici tra le due nazioni estremo orientali e la diretta competizione sui mercati, sia come esportatori, sia come acquirenti di materie prime.

Sulla base di queste informazioni e note analitiche, Altrenotizie ha girato a vari politologi occidentali e russi la domanda di ordine sociologico che più circola negli ambienti degli ossevatori: “Cosa è avvenuto in Cina – nella realtà nazionale e nella situazione economica - nel giro degli ultimi anni?”. Le risposte sono di vario tipo, ma sempre concentrate sulle ripercussioni morali e sociali.

Com'era prevedibile – si sostiene – c’è stato e c’è un ritorno all'economia capitalistica che ha determinato, in seno alla società cinese, degli spostamenti interiori, dei rivolgimenti spirituali, che vanno in senso opposto a quelli che il comunismo avrebbe voluto operare.

La società cinese, quindi, imborghesisce? La risposta è che si era mirato a stabilire l'eguaglianza dei compensi, dei guadagni, del tenore di vita fra tutte le classi sociali. Ma ora le disuguaglianze ricompaiono e si accentuano. Nelle campagne rispuntano i grossi proprietari e le distanze, fra costoro e i contadini poveri, si allargano man mano.

Molti fra questi ultimi, privi di bestie da lavoro, di strumenti, di macchine agricole, danno in affitto il loro boccone di terra, paghi di ricevere una piccolissima parte del raccolto, e si collocano come salariati nelle campagne o nelle città, con compensi miserabili e con orari di lavoro esasperanti.

D'altra parte, ogni contadino che riesce ad estendere la sua proprietà, ha bisogno di mano d'opera salariata, e così il salariato agricolo da fenomeno temporaneo ritorna a figurare come una istituzione stabile della società.

Lo stesso accade nelle città. Lo sottolinea il China Daily (un quotidiano in lingua inglese che esce a Pechino) il quale precisa che nella capitale molti commercianti arricchiti sfoggiano il loro lusso e che, con i commercianti, ricompaiono gli intermediari, i sensali, che accumulano fortune che ora più che mai sembrano scandalose.

Ci sono, quindi, di nuovo, operai poveri e contadini ricchi, operai qualificati e operai non qualificati, artigiani, commercianti grossi e piccoli, alti e bassi funzionari dello Stato e del Partito, professori, liberi professionisti, tecnici specializzati: tutti si distinguono fra loro in ragione del danaro che guadagnano e della vita che conducono.

E così non solo cambia l'aspetto esteriore della società, cambia anche il suo spirito. Con le discriminazioni, economiche e sociali, che non sono soltanto un fatto; sono un nuovo criterio politico. Sembra proprio che i capi del governo abbiano abbandonato l'ideale dell'eguaglianza, materiale e morale, fra i cittadini: quella eguaglianza nel cui nome erano partiti in guerra contro la vecchia società.

E ai tecnici, che lo Stato chiama a dirigere le sue imprese, si concedono stipendi parecchie volte superiori al salario medio degli operai manuali, si assegnano alloggi più o meno lussuosi e si pongono a loro disposizione auto di servizio.

Si richiede, intanto, che gli operai obbediscano ai direttori, agli ingegneri, che nelle fabbriche la gerarchia venga assolutamente rispettata e che la disciplina sia ferreamente osservata.

Restano sulla scena del Paese, accanto ai grandi ed innegabili successi, ampie zone d’ombra. Con 150 milioni di cinesi che si trovano sotto la soglia di povertà. E per chi può, ora il governo ha deciso di riaprire i bordelli. Mao nel 1949 li aveva chiusi ed oggi i comunisti li riaprono. Sorgono come funghi a Dongguan, nel cuore industriale del Paese.

Qui sono già all’opera 300mila prostitute controllate e certificate. Si muovono in una rete di bar, saune, centri di massaggi e discoteche. E il partito e le strutture amministrative garantiscono, con 300 ispettori, l’ordine e la sanità. Le prostitute, al momento, sono oltre 300mila e il settore impiega stabilmente 800mila addetti.

Ma per Pechino non si tratta di “prostituzione” bensì di "sostegno umano". Prezzi modici, dicono gli occidentali che hanno visitato Dongguan: due ore standard, con "doppio amplesso su letto ad acqua", costano tra i 15 e gli 80 euro. Il capitalismo ci vede bene anche con gli occhi a mandorla.


Usa e Cina: uno perde, l'altro vince
di James Petras - www.rebelion.org - 6 Gennaio 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Marisa Cruzca

Introduzione

Il capitalismo asiatico, in particolare Cina e Corea del Sud, è in concorrenza con gli Stati Uniti per il potere mondiale. Il potere asiatico globale ha una crescita economica dinamica, mentre gli USA perseguono una strategia di costruzione di un impero con i mezzi militari.

Lettura di una edizione del Financial Times

Anche una lettura superficiale di un singolo numero del The Financial Times – come quella del 28 dicembre 2009-ci fa capire le diverse strategie di costruzione di un impero. In prima pagina, il principale articolo sugli Stati Uniti parla dei conflitti militari in atto e della “guerra contro il terrorismo”, sotto il titolo di “Obama chiede la revisione dell’elenco delle organizzazioni terroristiche”.

Paradossalmente ci sono due articoli nella stessa pagina, uno sulla Cina che parla della inaugurazione del treno passeggeri più veloce al mondo e della decisione di mantenere la loro moneta legata al dollaro USA per promuovere il loro settore di esportazioni.

Mentre Obama è focalizzato sulla creazione di un quarto fronte di battaglia (Yemen) nella “guerra al terrore” (dopo l’Iraq, Afghanistan e Pakistan), il Financial Times nella stessa pagina informa che un trust della Corea del Sud ha vinto un appalto di 20.400 milioni di dollari per sviluppare l’energia nucleare ad uso civile negli Emirati Arabi Uniti, battendo i suoi concorrenti americani ed europei.

A pagina due del FT c’è un lungo articolo sulla nuova rete ferroviaria cinese, sottolineando la sua superiorità nei confronti del servizio ferroviario degli Stati Uniti. Il treno cinese d’ultima generazione ad alta velocità unisce due importanti città distanti 1.100 km, in meno di tre ore, mentre “l’Espress” della compagnia Amtrack, nordamericana “impiega tre ore e mezza per coprire i 300 km da Boston a New York.”

Mentre le ferrovie statunitensi si logorano per mancanza di fondi e di manutenzione, la Cina investe 17.000 milioni di dollari nella costruzione delle sue linee.

Inoltre sono in preventivo la costruzione di altri 18.000 km di linee del suo sistema ultramoderno entro il 2012, mentre gli USA investiranno altrettanti soldi nel finanziamento dell'offensiva militare in Afghanistan e Pakistan, e nell’apertura del nuovo fronte bellico nello Yemen.

La Cina costruisce un sistema di trasporti che collega i produttori e i mercati del lavoro nelle province interne con i centri di produzione e porti situati sulla costa, mentre a pagina quattro del FT si legge come gli Stati Uniti sono ancora aggrappati alla politica di affrontare la “minaccia islamica” in una “infinita guerra al terrorismo”.

L’invasione e le guerre ai paesi musulmani hanno dirottato centinaia di milioni di dollari dei fondi pubblici verso una politica senza benefici per il paese, intanto la Cina modernizza la sua economia civile.

La Casa Bianca e il Congresso soddisfano e sovvenzionano lo Stato militarista e coloniale di Israele, con la sua base di insignificanti risorse di mercato, allontanandosi da 1.500 milioni di musulmani (FT , pag. 7), il Pil della Cina è aumentato di dieci volte negli ultimi 26 anni (FT , pag.9).

Mentre gli Stati Uniti hanno stanziato più di 1.400 miliardi di dollari a Wall Street e ai militari, aumentando il deficit fiscale e il deficit bancario, raddoppiando il tasso di disoccupazione e prolungando la recessione (FT , pag.12), il governo cinese ha lanciato un pacchetto di incentivi mirati ai settori interni del manifatturiero e della costruzione che ha prodotto una crescita dell’8% del PIL, una significativa riduzione della disoccupazione e “la ripresa delle economie coinvolte” in Asia, America del Sud e Africa (FT , pag12).

Mentre gli Stati Uniti sciupavano il loro tempo, le risorse e il personale nella organizzazione di “elezioni “ per conto dei suoi corrotti Stati satelliti in Afghanistan ed Iraq, e faceva da inutile mediatore fra il suo intransigente partner israeliano e il suo impotente cliente palestinese, il governo sudcoreano ha sostenuto un gruppo condotto dalla Kora Electric Power Corporation nella riuscita manovra di 20.400 milioni di dollari per l’installazione di centrali nucleari, aprendo così la strada a svariati altri contratti miliardari nella zona (FT , pag. 13).

Mentre gli USA spendono più di 60.000 milioni di dollari per il controllo interno nella crescita a dismisura dei suoi organismi interni di sicurezza in cerca di potenziali terroristi, la Cina investiva più di 25.000 milioni di dollari per consolidare i suoi scambi energetici con la Russia (FT , pag.13).

Quello che ci raccontano gli articoli e le notizie di una sola edizione, in un solo giorno, nel Financial Times , riflette una realtà più profonda che illustra la grande divisione del mondo d’oggi.

I paesi dell’Asia, con in testa la Cina, stanno raggiungendo lo status di potenze mondiali, a suon di grandi investimenti nazionali ed esteri nell’industria manifatturiera, nel trasporto, nelle tecnologie, nell’estrazione e lavorazione dei minerali.

Contrariamente, gli Stati Uniti sono una potenza in declino, con una società in caduta, risultato della costruzione dell’Impero con mezzi militari e della economia finanziaria speculativa:

1- Washington cerca clienti militari minoritari in Asia, mentre la Cina allarga i suoi accordi commerciali e di investimenti con importanti partner economici: la Russia, Giappone, Corea del Sud ed altri.

2- Washington prosciuga la sua economia nazionale per finanziare le guerre all’estero. La Cina estrae minerali e risorse energetiche per fomentare il suo mercato interno del lavoro e dell’industria.

3- Gli Stati Uniti investono in tecnologia militare per combattere contro i ribelli locali nei loro Stati satelliti, la Cina investe in scienza tecnologica per poter fare esportazioni competitive.

4- La Cina inizia a ristrutturare la sua economia per poter meglio sviluppare il paese all’interno, e conferisce maggiori spese sociali per correggere le disuguaglianze e i grandi squilibri, gli Stati Uniti riscattano e rinforzano il settore finanziario sfruttatore, che ha saccheggiato l’industria (riducendo i suoi attivi tramite fusioni e acquisizioni), e speculano su mete finanziarie senza impatto sul lavoro, sulla produttività e sulla competitività.

5- Gli Stati Uniti moltiplicano la guerra e l’ammasso di truppe in Medio Oriente, Asia meridionale, Corno d’Africa e nei Caribi. La Cina mette a disposizione investimenti e prestiti pari a 25.000 milioni di dollari per la costruzione di infrastrutture, estrazioni minerarie, produzione di energia e per le costruzione de impianti di assemblaggio in Africa.

6- La Cina firma accordi commerciali di migliaia di milioni di dollari con l’Iran, Venezuela, Brasile, Argentina, Cile, Perù e Bolivia, assicurando l’accesso all’energia strategica e alle risorse minerarie ed agricole; Washington offre 6.000 milioni di dollari di aiuti militari alla Colombia, ottiene dal presidente Uribe la cessione di sette basi militari (con le quali minacciare il Venezuela), appoggia un colpo militare nel Honduras, e denuncia il Brasile e la Bolivia perchè diversifichino le loro relazioni economiche con l’Iran.

7- La Cina incrementa le sue relazioni economiche con le economie dinamiche dell’America del Sud che rappresentano più dell’80% della popolazione del continente; gli Stati Uniti si associano con il fallito stato del Messico, che detiene il peggior ruolo economico dell’emisfero e nel quale potenti cartelli della droga controllano ampie regioni e sono profondamente infiltrati nel macchinario statale.

Conclusioni

Come paese capitalista la Cina non fa eccezione. Sotto il loro capitalismo vi è sfruttamento del lavoro, abbondano disuguaglianze di ricchezza e di accesso al benessere come altrove, i piccoli agricoltori si vedono sfollare a causa di progetti di megadighe, le aziende cinesi estirpano minerali ed altre risorse naturali nel Terzo Mondo senza troppi indugi.

Ma la Cina ha creato decine di milioni di posti di lavoro nell’industria ed ha ridotto la povertà molto più velocemente e per molte più persone nel lasso di tempo più breve della storia. Le sue banche finanziano soprattutto la produzione. La Cina non bombarda, non invade, non saccheggia altri paesi.

In compenso, il capitalismo statunitense è una mostruosa macchina militare mondiale che prosciuga l’economia nazionale e riduce il tenore di vita del paese pur di finanziare le sue interminabili guerre all’estero. I capitali finanziari, commerciali, immobiliari minano il settore manifatturiero, a beneficio della speculazione e delle importazioni a basso costo.

La Cina investe nei paesi ricchi di petrolio; gli Stati Uniti li attaccano. La Cina vende vassoi e ciotole per i matrimoni afghani, gli Stati Uniti bombardano le loro feste con i droni. La Cina investe in industrie estrattive, ma a differenza dei coloni europei costruisce ferrovie, porti, aeroporti e fornisce crediti a prezzi accessibili. La Cina non finanzia né arma guerre etniche, ne organizza “rivoluzioni colorate” come la CIA.

La Cina autofinanzia la propria crescita, il suo commercio ed il suo sistema di trasporto, nel frattempo gli USA stanno sprofondando sotto un debito di parecchi miliardi di dollari per finanziare guerre senza fine, per salvare le loro banche a Wall Street e appoggiare altri settori privi di produttività, mentre molti milioni di persone restano disoccupate.

La Cina crescerà ed eserciterà il suo potere attraverso i mercati economici, gli Stati Uniti entreranno in guerre senza fine verso il cammino del fallimento e del declino interno. La crescita diversificata della Cina è legata a partner economici dinamici; il militarismo degli Stati Uniti è vincolato ai narcostati, regimi sotto controllo dai signori della guerra, registi delle repubbliche delle banane e all’ultimo e peggiore regime razzista e coloniale dichiarato: Israele.

La Cina attira i consumatori del mondo; le guerre globali degli Stati Uniti producono terroristi nel proprio territorio e all’estero.

La Cina potrebbe trovarsi di fronte ad una crisi e anche alle agitazioni dei lavoratori, ma ha i mezzi finanziari per risolverli. Gli Stati Uniti sono in crisi e potrebbero dover affrontare una sommossa interna, ma hanno esaurito il loro credito e le loro fabbriche sono all’estero, mentre le loro basi ed installazioni militari portano conti passivi, non attivi.

Ci sono sempre meno fabbriche negli USA disposte a riassumere i loro disperati lavoratori: uno sconvolgimento sociale potrebbe mostrarci i lavoratori statunitensi occupando con i loro scheletri i vuoti delle loro vecchie fabbriche.

Per diventare uno Stato “normale” dobbiamo ripartire dall’inizio: chiudere tutte le banche e le basi militari all’estero, tornare in Nord America. Dobbiamo cominciare una lunga marcia verso la ricostruzione di una industria al servizio delle nostre necessità nazionali, dobbiamo vivere dentro il nostro proprio ambiente naturale e abbandonare la costruzione dell’impero a favore della costruzione di una repubblica socialista democratica.

Quando è che prendendo il Financial Times , o qualsiasi altro giornale, leggeremo che i nostri treni ad alta velocità ci portano in meno di un’ora da New York a Boston? Quando saranno le nostre fabbriche a fornire i nostri negozi di ferramenta?

Quando costruiremo generatori di energia eolica, solare o marina? Quando potremo abbandonare le nostre basi militari e far sì che i signori della guerra, i trafficanti di droga e i terroristi si trovino ad affrontare la giustizia della loro propria gente?

Arriveremo a leggere tutto questo sul Financial Times ?

In Cina tutto ebbe inizio con una rivoluzione.........


E' già "made in Cindia" la locomotiva del mondo
di Federico Rampini - La Repubblica - 29 Gennaio 2010

Un decennio è "un tempo infinito" per fare previsioni, dice l'economista Kenneth Rogoff rispondendo al sondaggio organizzato da Repubblica tra gli esperti riuniti al World Economic Forum.

Non sembrano dello stesso parere i dirigenti di Pechino e New Delhi. Per i ritmi di aumento degli investimenti nella ricerca scientifica, la Cina e l'India hanno superato di slancio gli Stati Uniti.

Intanto Barack Obama, alle prese con una destra populista che cavalca la rivolta anti-tasse e anti-Stato, è costretto a tagliare i fondi all'istruzione. La California, un tempo la punta avanzata dell'innovazione, riduce le borse di studio e l'offerta di corsi universitari. Se è vero che "il decennio si prepara adesso", come ci ha detto il commissario europeo Joaquin Almunia, l'Occidente è partito sul piede sbagliato.

E' indicativo il fatto che quest'anno a Davos i "malati" sotto osservazione sono Spagna, Grecia, Lettonia: tutti paesi dell'Unione europea, due dei quali sono membri anche dell'Eurozona. Lontani sembrano i tempi in cui la bancarotta di uno Stato sovrano poteva minacciare solo paesi emergenti, era un virus endemico in America latina o nel sudest asiatico.

Questo decennio si apre all'insegna di una crisi fiscale spaventosa che attanaglia gli Stati Uniti, l'Unione europea, il Giappone. L'Occidente è condannato a impiegare i prossimi anni a smaltire debiti pubblici colossali, accumulati per la verità solo in parte a causa della recessione del 2008-2009.

A Oriente invece si trovano oggi i giacimenti di risparmio, disponibili per finanziare gli investimenti produttivi e l'accesso alla conoscenza.

Se siamo arrivati in queste condizioni, così sfavorevoli per noi, la ragione non va cercata solo nella sfera dell'economia. Il declino dei paesi di antica industrializzazione chiama in causa i sistemi politici. Il Welfare State europeo, che poteva diventare un modello d'esportazione per curare le tensioni sociali nei paesi emergenti, ha perso credibilità perché si è rivelato incapace di dedicare risorse alle giovani generazioni.

In quanto agli Stati Uniti, un autorevole esponente del partito democratico, Barney Frank (presidente della commissione Finanze alla Camera) ha descritto lucidamente a Davos i risultati della lunga egemonia culturale della destra: "Prima hanno rovinato lo Stato depauperandolo di risorse. Ora dicono che non si possono alzare le tasse perché i soldi dei cittadini andrebbero agli stessi burocrati inefficienti che furono responsabili del disastro-Katrina, o che furono incapaci di regolare i derivati e la finanza tossica".

Decenni di abbandono degli investimenti pubblici hanno portato alla decadenza tutte le infrastrutture vitali dell'America, proprio mentre la Cina spingeva l'acceleratore sulla loro modernizzazione.

Nel cuore della liberaldemocrazia americana si sono incrostate oligarchie potenti. I veti della lobby assicurativa contro la riforma sanitaria; la guerra di trincea che Wall Street si ostina a combattere contro le nuove regole sulle banche; la sentenza della Corte suprema che toglie ogni limite alle campagne politiche finanziate dal Big Business.

Tutto ciò mette a repentaglio quella vitalità del sistema democratico che avrebbe dovuto dare all'Occidente una flessibilità superiore rispetto al grande rivale che è il modello autoritario cinese. Se un regime illiberale dovesse rivelarsi più adatto dei nostri a investire sul futuro, imprimerebbe un segno terribilmente regressivo agli anni Dieci del terzo millennio.

Una globalizzazione governata dal G2 America-Cina si preannuncia gravida di tensioni: alla vigilia di Davos la sfida sulla "sovranità nel cyber-spazio" messa a nudo dal caso Google è un segnale premonitore. La relazione privilegiata sino-americana oscillerà costantemente fra l'inevitabilità di compromessi sugli interessi e l'incompatibilità sui valori.

Lo scenario del prossimo decennio deve includere altre variabili. La demografia darà una marcia in più all'India: tra natalità e progresso economico, il ceto medio della più grande democrazia mondiale sarà decuplicato entro il 2030.

Ma anche gli Stati Uniti su questo fronte sono favoriti: con un tasso di fertilità superiore del 50% a Russia Germania e Giappone, e grazie all'immigrazione, ci saranno ben 100 milioni di americani in più nel 2050.

La concentrazione delle popolazioni più vaste in Asia esigerà da quelle potenze soluzioni innovative al problema delle risorse alimentari e della scarsità di acqua: una catastrofe ambientale potrebbe far deragliare le loro traiettorie di successo.

Un fattore determinante del progresso sociale nei paesi emergenti sarà l'accesso delle donne all'istruzione. La qualità della governance risulterà decisiva sotto ogni latitudine. Insieme con il miglioramento nel tenore di vita e nelle conoscenze, diventerà più visibile e sempre meno tollerabile la tassa occulta della corruzione.

Se questo Davos 2010 è attendibile nei suoi segnali premonitori, a fine decennio per tenere un summit circondato da altrettanta attenzione bisognerà farlo a Shanghai.