La Horizon Bank di Bellingham, nello Stato di Washington, è la prima banca statunitense a fallire nel 2010, con le sue 18 filiali che riapriranno già oggi sotto l'insegna della Washington Federal Savings and Loan Association.
Il crack costerà alla Fdic, l'autorità federale che assicura i depositi, 539,1 milioni di dollari.
Intanto in Italia il tasso di disoccupazione a novembre ha raggiunto l'8,3%, il dato più alto dall'aprile 2004, mentre nell'Eurozona è salito al 10% a novembre, il massimo dall'agosto del 1998.
Invece nell'Unione europea a 27 paesi il tasso sale dal 9,4% al 9,5%, il massimo dall'inizio della serie statistica del gennaio 2000.
Insomma tre massimi da sempre....
Ma anche negli USA le cose non vanno affatto bene sul fronte occupazionale, con il tasso di disoccupazione rimasto stabile al 10% e gli impieghi che nel corso di tutto il 2009 sono scesi del 3%, cifra mai vista dal 1949.
Nel frattempo in Grecia, Lettonia, Irlanda e Austria si mantengono le dita incrociate nell'attesa di un possibile default.
Dall'Islanda alla Grecia, l'Ue rischia di esplodere
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 7 Gennaio 2010
L'Ue non aiuterà la Grecia a risanare i conti. A chiarirlo è Jurgen Stark, componente del board della Banca Centrale Europea in un'intervista a Il Sole 24 Ore nella quale afferma che «i mercati si illudono se pensano che alla fine i Paesi membri dell'Ue metteranno mano al portafoglio di Atene». Le difficoltà della Grecia, aggiunge, non dipendono dalla crisi ma «sono state create in casa».
Stark mette anche in guardia sul rally delle borse: gli aiuti all'economia rischiano di gonfiarne la crescita. Per questo, grazie anche alla tenuta dell'inflazione, «l'indicazione è che i tassi rimarranno fermi». Insomma, la Befana ci ha finalmente portato una voce chiara da Francoforte: la si attendeva da mesi, a dire il vero, ma meglio tardi che mai.
Non sarà certo contento il governo greco ma nessuno, ad Atene, in cuor suo sperava veramente in un bail-out in grande stile: o si faranno riforme draconiano, con il fortissimo rischio di instabilità sociale oppure si andrà verso il default, seppur controllato. Ma gli scricchiolii sulla tenuta della cosiddetta eurozona sono tutt'altro che conclusi.
L'Islanda è infatti nella bufera dopo la decisione del presidente della Repubblica, Olafur Ragnar Grimsson, di porre il veto alla legge con cui l'isola ratificava gli accordi con Gran Bretagna e Olanda per rimborsare i correntisti europei della Icesave, fallita nel 2008. Ed è di ieri la notizia che la Standard and Poor's ha messo sotto credit watch negativo il debito del paese, decisione che segue quella di Fitch che ha già declassato il debito di Reykjavik a BB+, con un outlook negativo.
Rientro dalle vacanze anticipato, quindi, per i deputati islandesi che si riuniranno domani (invece che il 26 gennaio, come inizialmente previsto): il Parlamento dovrà infatti votare e decidere se indire il referendum per il prossimo 20 febbraio sulla legge che autorizza l'uso di fondi pubblici per rimborsare per 3,4 miliardi di euro gli istituti di credito britannici e islandesi rimasti invischiati nel crac dell'ex stella del banking online nordico, la già citata Icesave: decisione non semplice poiché circa 60 mila persone, un quarto dell'elettorato, ha presentato per protesta una petizione contro la legge, invocando peraltro il referendum.
Immediate, ovviamente, le proteste di Gran Bretagna e Olanda che puntavano a recuperare quanto perso dai loro connazionali quando, in seguito alla bancarotta, i conti correnti sul web sono stati bloccati e per 400mila investitori, britannici e olandesi appunto, non c'è stato nulla da fare. I cittadini islandesi si sono subito salvati grazie alla garanzia totale dei depositi. Qualora si decidesse di rimborsare anche gli investitori stranieri, ogni islandese si troverebbe a dover saldare un debito di 13 mila euro.
Nel frattempo, ovviamente, è partito il balletto dei cds. Il costo di protezione contro il rischio di default sul debito dell'Islanda è cresciuto: gli swaps a cinque anni sono saliti a 466 punti base, dai precedenti 444 della chiusura Usa di martedì. Ma non solo. Il “caso” Icesave e le modalità con cui verrà gestito da Reijkyavik verrà preso in considerazione nell'accogliere o meno la richiesta dell'isola di aderire all'Unione Europea: la Commissione sta preparando un'indagine ai 27 paesi membri su quando l'Islanda potrà fare il suo ingresso.
Le cose potrebbero complicarsi, visto che il Ministro inglese alle finanze Paul Myners ha già fatto sapere che la controversia sul debito da 3,8 miliardi di euro potrebbe avere un effetto sul supporto britannico all'ingresso dell'Islanda nella Ue: e vista la nazionalità del nuovo Mister - anzi, Mrs - Pesc europeo, c'è da credergli. Ci sono arrivati, il nodo è al pettine. Peccato che, ad occhio e croce, ora sia l'Islanda a ben guardarsi dall'ingresso nella Ue. Ecco cosa scrivevo il 28 luglio scorso: «Non ho mai detto - il testo del mio ultimo articolo ne è la prova - che a mio avviso esiste un problema storico-etnico-culturale per l’ingresso dell’Islanda dell’Ue. Non lo penso affatto, soprattutto alla luce di chi abbiamo fatto allegramente entrare finora e di chi sta per farlo. Detto questo, se anche la Bei ha fatto l’errore di indicizzare obbligazioni in corona islandese ora inesigibili (che dire dei regolatori dormienti quando mezza Europa operava sul forex scommettendo anche la moglie sul cross tra euro e corona danese?), nessuno mi toglierà dalla testa che prima di gettarsi in un investimento bisognerebbe informarsi: e il fatto che le tre banche islandesi fossero esposte a liabilities pari a 11 volte il Pil del paese lo sapevano tutti, erano il più grosso hedge fund del mondo. Se uno vuole rischiare va benissimo, non si lamenti però poi se picchia la faccia contro il muro… Non sarà l’Ue a dover pagare dazio, sarà l’Islanda a riprendersi prima del previsto e dire “no grazie” al nodo scorsoio dell’agganciamento all’euro che sta devastando, ad esempio, la Lettonia. Qualche cifra. I disoccupati, nonostante il default globale dell’economia del paese, sono il 9,1% e tendono a scendere in maniera rapida mentre la media dell’eurozona è il 9,5% e tende a salire in maniera devastante. Quest’anno la contrazione dell’economia sarà del 7%, sempre meglio del 9,8% dell’Irlanda. Inoltre, parola di chi è appena tornato da lassù, non si era mai visto un boom del genere del turismo - soprattutto giapponese ben fornito di yen - e di vita notturna, soprattutto di europei: qualcuno comincia a parlare di “Ibiza artica”. Il perché è presto detto: la corona islandese ha perso metà del suo valore rispetto all’euro dopo il crollo delle sue banche, la vecchia cara svalutazione che attrae. Insomma, tra due-tre anni quando gli islandesi saranno chiamati a dire sì o no all’adesione Ue, si troveranno di fronte a un’economia nazionale già in netta ripresa, mentre dall’altra parte la bomba a orologeria della disoccupazione sarà già esplosa. Il problema vero è l’economia reale, non la finanza. Già oggi la disoccupazione giovanile è al 34% in Spagna, al 28% in Lettonia, al 25% in Italia e al 24% in Grecia e continua a salire». Scusate ma partendo da queste cifre, come faranno a Bruxelles a vendergli la favoletta della protezione garantita dall’euro, soprattutto se questa garanzia comporta il pagamento di 3,8 miliardi di euro a Gran Bretagna e Olanda? In effetti, poi, l’Islanda sarà già in surplus da quest'anno dopo aver toccato un picco di deficit del 25% del Pil: messi male, certo, ma certamente meglio di Irlanda e Lettonia. Per non parlare, ora, della Grecia. E l'Austria, se non risolve in fretta la grana delle esposizioni a Est delle sue banche ormai semi-nazionalizzate, è destinata a fare la stessa fine. La Befana, quindi, ci ha portato finalmente chiarezza da Francoforte. Ma anche un sospetto che sa ogni giorno di più di sentenza: l'Europa che si continua ad allargare, spesso artificialmente, quest'anno rischia l'implosione. O un ridimensionamento di dimensioni sostanziali. Tanto più che oltre alla Grecia, anche Italia, Germania e Francia devono rifinanziare il proprio debito in scadenza quest'anno: ci sarà da ridere, con l'aria che tira sui mercati e le svalutazioni bancarie tedesche alle porte. Ridere. Più che altro piangere.
Il banchiere e il pescatore (Islanda, Grecia e Polonia)
di Francesco Giavazzi - Il Corriere della Sera - 8 Gennaio 2010
Islanda, Grecia e Polonia, tre Paesi alla periferia dell’Europa, tre diverse esperienze nella crisi, che aiutano a capire i costi, i benefici e il futuro dell’euro a un decennio dalla nascita dell’unione monetaria. La Polonia è l’unico dei 27 Paesi dell’Unione europea a chiudere il 2009 con un + davanti alla crescita.
Un’intelligente politica economica ha combinato un forte taglio delle tasse per sostenere i consumi, con un deprezzamento del cambio che ha fatto sì che l’aumento dei consumi non si trasformasse in maggiori importazioni ma in domanda per le imprese di casa. Se la Polonia fosse già nell’euro, indebolire il cambio per sostenere l’economia non sarebbe stato possibile.
La Grecia è sull’orlo di una crisi di debito. Diversamente dalla Polonia sarà l’euro a salvarla. Innanzitutto perché la Banca centrale europea ha continuato ad accettare titoli greci come garanzia sui propri prestiti alle banche di Atene anche quando il debito greco ha cominciato a scricchiolare.
Ma soprattutto perché la paura degli effetti di un default, con la probabile conseguenza di un’uscita dall’euro, ha dato al governo greco la forza necessaria per una svolta e l’avvio di un piano di stabilizzazione fiscale.
Ieri l’altro Jürgen Stark, membro tedesco del consiglio direttivo della Banca centrale europea, ha detto a Il Sole 24 Ore: «Non si illudano i greci che l’Europa li salvi». In realtà li salverà, un po’ per la reazione positiva che la crisi sta provocando in Grecia, un po’ perché, se la Grecia dovesse uscire dall’euro, imercati comincerebbero subito a chiedersi: chi sarà il prossimo? E l’Unione monetaria potrebbe disfarsi.
Un anno fa, nel momento più grave della crisi, l’Islanda chiese di poter avviare il processo di ammissione all’euro, pensando che l’appartenenza all’Unione monetaria avrebbe potuto evitare una crisi sul debito.
Era evidentemente un’illusione: la dimensione delle prime banche greche non raggiunge la metà del Prodotto interno lordo; quella delle due sole banche islandesi è pari a dieci volte il Pil. Mentre la Grecia, con un po’ di aiuto e di pressione dal resto dell’Europa sarà in grado di rimettersi in piedi, questo in Islanda è impossibile.
Ieri a Reykjavik il presidente della Repubblica si è rifiutato di firmare una legge che impegnava il Paese a onorare i debiti contratti dalle sue banche, ora nazionalizzate. Se l’Islanda fosse stata nell’euro, probabilmente avrebbe firmato e, secondo me, avrebbe sbagliato.
Perché i pescatori islandesi dovrebbero sopportare le conseguenze della follia scellerata dei banchieri loro concittadini? Gran parte dei debiti delle banche islandesi sono depositi in conto corrente di amministrazioni locali britanniche che non si sono mai chieste perché un conto corrente nella filiale inglese di una banca di Reykjavik pagasse un tasso d’interesse doppio o triplo rispetto all’analogo deposito alla Barclays. Perché quei pescatori dovrebbero pagare per la stupidità di questi amministratori pubblici?
La crisi ha rafforzato l’euro ma ha anche sfatato alcuni miti. Appartenere all’unione monetaria non è sempre necessario: se l’economia è solida, come lo è quella polacca, mantenere la flessibilità del cambio può dimostrarsi uno strumento molto utile.
Il maggior beneficio dell’euro, come insegna la crisi greca, è lo sprone a fare le riforme. Ma poi bisogna farle. L’Europa non può farle per noi.
Le tre sorelle che vogliono fare fuori l'Europa
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 8 Gennaio 2010
Prima di tutto, onore a Francesco Giavazzi che ieri, nell’editoriale di prima pagina del Corriere della Sera, proponeva al pubblico della grande stampa nazionale il tema della crisi islandese e i timori che questa sta creando in Europa in caso di un possibile crac sul debito pubblico.
Averne di economisti e giornalisti di questo coraggio e lungimiranza. Questo ci impone, però, di andare ancora più a fondo e capire, al di là degli errori compiuti dai governi e della varie istituzioni economiche e monetarie in questi anni, chi stia per lanciare il vero e proprio attacco all’Europa e alla sua stabilità: le agenzie di rating.
Prima di tutto va sottolineato che le tre maggiori agenzie di rating (denominate, “le tre sorelle”) sono delle entità private strutturate come società per azioni e quindi parte della logica di mercato e sottoposte al principio del massimo profitto possibile.
Inoltre, questi rigidi guardiani del mercato e della politica, capaci con un loro downgrade di decidere le sorti di paesi e popoli, hanno partecipazioni dirette - anche attraverso i membri dei loro consigli direttivi - delle più grandi corporations internazionali e delle più grandi banche internazionali, le stesse coinvolte nelle operazioni di finanza derivata e responsabili del disastro da cui non riusciamo a uscire.
La Standard & Poor’s(S&P), ad esempio, è sussidiaria della multinazionale McGraw-Hill Companies, con sede centrale a New York, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e presente in quasi tutti i settori economici. Questa major, proprietaria anche dell’influentissimo settimanale Business Week, nel 2005 vantava un fatturato di qualcosa come 6 miliardi e un profitto di 844 milioni di dollari.
All’interno del board direttivo, dal 2006 a oggi, si possono trovare membri del Board of Directors della United Technology (multinazionale degli armamenti), della ConocoPhillips (petrolio ed energia), della “Transition Advisory Committee on Trade” del presidente George W. Bush, padre dell’ex capo della Casa Bianca, il presidente della Citigroup Europa e uomo di punta della Henry Schroder Bank di Londra, il presidente della Coca Cola Co, alti responsabili della Credit Union del FMI-World Bank, dirigenti di primo livello della British Petroleum, il presidente dell’assicurazione State Farm Insurance Company (gigante del settore assicurativo, bancario e immobiliare), il direttore della Helmyck & Payne, colosso del settore petrolifero e già membro del Transition Advisory Team Committee on Education della presidenza di George W. Bush (padre), il presidente della farmaceutica Eli Lilly (che in passato ha vantato tra i suoi dirigenti anche Kenneth Lay), il direttore dell’IBM, già membro nel 2002 dell’Homeland Security Advisory Council (l’apparato dell’antiterrorismo).
E che dire di Fitch di New York, sussidiaria della multinazionale dei servizi finanziari Fimalac, con sede centrale a Parigi, di cui dal 2005 la multinazionale americana delle comunicazioni Hearst Corporation detiene il 20% del pacchetto azionario. Anche in questo caso, negli ultimi quattro anni, la sfilata di potenti all’interno del suo board è di tutto rispetto. Dirigenti della Renault e della Banque Suez, della banca Lazard Freres, della JP Morgan & Cie, della Cholet-Dupont (finanza), della Fremapi (metalli preziosi), uomini di Kommerzbank, della Ubs Warburg, di Paribas e della Nestlè. Infine, l’agenzia di rating Moody’s, sussidiaria della Moody’s Corporation, con sede centrale a New York, gigante che tra i suoi rappresentanti annovera, e ha annoverato, alti dirigenti della Stables Inc. e della Hasbro Inc (due giganti del settore vendite e servizi), della ING Group (settore bancario e assicurativo con base in Olanda), della Pfizer e della Exxon Mobil, di Citigroup, della multinazionale chimica Herculer, della KPMG (la multinazionale di consulenza finanziaria e di certificazione dei bilanci), della Sunoco (petrolio) e della Fannie Mae (che insieme alla Freddie Mac deteneva quasi per intero il pacchetto ipotecario immobiliare americano e che George W. Bush ha dovuto nazionalizzare per evitare il crollo totale dei mercati e la tragedia a livello globale). Non male è, visto che questi signori dovrebbero in maniera seria, rigorosa, lontana da ogni condizionamento dare giudizi su titoli, azioni, obbligazioni ma anche commodities e soprattutto stabilità e affidabilità degli Stati. E, invece, grazie agli interessi che devono difendere in nome del profitto a tutti i costi, queste agenzie non si sono limitate a sbagliare il 70% degli out look che hanno presentato negli anni, ma hanno contribuito alla crescita di quella finanza strutturata over-the-counter, che nel dicembre di cinque anni fa vedeva il totale del valore nozionale di tutti i derivati finanziari otc, cioè quelli che non appaiono sui bilanci delle banche e finanziarie che li sottoscrivono, raggiungere i 284.819 miliardi di dollari, cioè sette volte il Pil mondiale. Secondo l’ente statale di controllo sul denaro circolante negli Usa, il Controller of the Currency, a fine giugno 2006 la JP Morgan vantava da sola un valore nominale di derivati otc pari a 57.300 miliardi di dollari (cinque volte il Pil americano) e la Citigroup vantava 25.327 miliardi di dollari in derivati otc. E loro uomini sedevano nei board di due delle tre sorelle. Le stesse che oggi vogliono devastare l’Europa con i loro downgrade a orologeria: quella che può suonare come una denuncia bolscevica, è l’esatto contrario. Il libero mercato non può accettare commistioni di potere del genere nel cuore di chi è chiamato a emettere giudizi vincolanti sui soggetti che popolano il mercato stesso: è una questione di libertà e chiamiamolo fair play, altrimenti è come giocare una partita di calcio avendo un proprio amico fraterno come arbitro e la squadra avversaria costretta a giocare bendata. Questo è il capitalismo distorto che ci ha portato alla crisi globale iniziata due anni e mezzo fa e il suo perpetuarsi non può che creare danni ulteriori in un momento di grande fragilità generale: certamente i governi greci degli ultimi anni hanno colpe enormi, così come quelli italiano, tedesco e francese visto che per tutti sarà difficile rifinanziare sui mercati il debito pubblico a scadenza 2010, ma questo non può significare il dominio incontrastato di soggetti che tutto sono tranne che indipendenti, come avete potuto constatare da soli leggendo i curricula di chi ne compone i consigli direttivi. Serve una riforma seria, non quella seguita a Basilea 2, che tolga tutto questo potere alle agenzie di rating, serve un sistema di vigilanza politico-economico che vede i controllori essere soltanto una casta privilegiata dei controllati. Se invece di perdere tempo con le regolamentazioni degli hedge funds, che sulla crisi hanno pesato meno del 5%, all’ultimo G20 si fosse parlato di questo e di una seria riforma di quei pozzi neri che sono le dark pools dei circuiti over-the-counter, forse si sarebbe fatto un serio primo passo per uscire dalla crisi. Ma i governi, spesso, hanno tutto l’interesse a mantenere le cose come stanno. Avendo loro uomini proprio in quei boards of directors.
"La Costituzione islandese è basata sul principio fondamentale che il popolo è sovrano. E' responsabilità del presidente far sì che la volontà del popolo prevalga".
L'affermazione è di Olafur Ragnar Grimsson ( http://it.wikipedia.org/wiki/%C3%93lafur_Ragnar_Gr%C3%Admsson ) , presidente dell'Islanda, che ha rifiutato di firmare la legge ( http://periodicoitaliano.info/2010/01/07/islanda-il-rimborso-del-denaro-perso-nella-crisi-sara-deciso-da-un-referendum/ ) che prevede quattro miliardi di euro di compensazione al Regno Unito e all'Olanda, tra gli altri Paesi, per il fallimento della banca Landsbanki ( http://en.wikipedia.org/wiki/Landsbanki ) e la conseguente perdita dei depositi detti Icesave / http://en.wikipedia.org/wiki/Icesave_dispute ) di clienti europei.
Il prossimo 20 febbraio si terrà un referendum promosso da 60.000 islandesi.
Toccherà ai cittadini decidere se ripianare il debito della banca attraverso le tasse. Quasi certamente gli islandesi voteranno no alla legge e si vedranno così negato l'ingresso nella UE per ritorsione.
Gli islandesi affermano un principio: i cittadini non possono accollarsi il debito delle banche. Lo Stato è pubblico e la banca è un istituto privato. Forza Islanda!
In queste vacanze mi sono riposato ed ho evitato di proposito articoli di Economia e Matematica. Ma casualmente mi è capitato di leggere un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 30 Dicembre nel quale si riportava un intervista a Domenico Siniscalco, ex Ministro dell’Economia ed ora vicepresidente di Morgan Stanley (lasciamo stare, per questa volta, i commenti sulla stretta correlazione tra governi e banche d’affari).
Siniscalco si è fatto scappare la seguente frase: ”l’ondata di inflazione è sempre una soluzione..pessimo rimedio ma sempre meglio degli altri due possibili: insolvenza o il prelievo di fatto forzoso”. Insomma, buon anno a tutti….
Personalmente sono convinto che l’iperinflazione non è affatto una soluzione (...) e di conseguenza non rimangono che le altre due alternative.
Nel 2009 la crisi apocalittica si è evitata in virtù della socializzazione delle perdite private (letteralmente l’opposto della compartecipazione dei profitti privati cui dovrebbe tendere ogni buon governo) con conseguente esplosione dei debiti pubblici.
Il debito pubblico rappresenta un’ ipoteca molto gravosa, un prestito di energia dal futuro che, se non associato ad una sana politica d’investimenti (come chiaramente non è stato fatto) è un fardello tremendo per la crescita economica.
Non è un caso che l’Italia, in seguito all’entrata dell’Euro ed alla impossibilità di giocare sulla svalutazione della moneta, è cresciuta (a prescindere dal colore politico del governo) sempre e comunque con percentuali da prefisso telefonico (il che è già un indice di stato di grazia, tenendo conto dei privilegi di alcune corporazioni che assurgono al ruolo di parassiti).
Le grandi potenze economiche si stanno italianizzando: in USA il debito pubblico ha raggiunto il 98%, in Giappone ha superato il 220%. Inoltre essi, insieme a Gran Bretagna e Spagna hanno deficit correnti superiori al 10%.
Non dimentichiamo che, escluso il Giappone, tutti i suddetti paesi hanno debiti privati enormi. Ho paura che pensare di tornare a crescere con debiti così grandi è come sperare di spingere alla massima velocità una macchina con sopra un elefante. E’ già molto che l’automobile non venga schiacciata.
I mercati azionari sono stati drogati dalla gigantesca immissione di liquidità e sono attualmente guidati dalle banche d’affari..basti considerare la percentuale di volumi spostati dal trading ad alta frequenza.
E’ dunque insulso considerare i mercati finanziari come indicatore dello stato dell’economia reale o peggio ancora come leading indicator del futuro dell’economia reale(…intendo la vera economia reale a cui si sottragga l’enorme mole degli incentivi).
Mercati finanziari e sistema reale sono ormai in assoluta divergenza e la possibilità di un improvviso squarcio del velo di Maya è sempre crescente.
L’acquisto degli asset tossici da parte delle Banche centrali ha nel contempo determinato un accoppiamento tra sistema finanziario e valutario. Ormai le monete gareggiano in una gara di debolezza.
La domanda non è chi è la più forte, bensi’ la meno debole e l’apertura di questo nuovo fronte sarà sorgente di turbolenze sempre maggiori. Vi è un serio rischio che talune importanti valute letteralmente si dissolvano nel corso dell’anno e rimangano nei libri di storia.
In particolare le isole britanniche rischiano di essere inghiottite dalle onde causate dal maremoto valutario prossimo venturo.
Ulteriori giochi di prestigio verranno fatti da parte delle banche centrali, ma con il nuovo anno i margini di manovra si assottiglieranno sempre di più…la battaglia è sempre più cruenta, il fronte è sempre più ampio e le truppe sempre più stanche.