mercoledì 13 gennaio 2010

Berlusconi e la sua eterna telenovela con la Giustizia

Qualche articolo sulle noiose, interminabili, ripugnanti, vergognose vicende processuali del cosiddetto premier.

Il 2010 comincia così com'era finito il 2009, con questa eterna telenovela di cui si attende con impazienza l'ultima puntata: quella cioè con i processi celebrati, le sentenze definitive pronunciate e la scritta The End a caratteri cubitali sullo schermo nero.


L'eterno ritorno
di Massimo Giannini - La Repubblica - 13 Gennaio 2010

La "fase due" del governo, che contemplava la "rivoluzione fiscale" e le "grandi riforme nell'interesse del Paese", corre sullo stesso binario dal quale si è mossa la terza legislatura berlusconiana. All'indomani del trionfo del 13 aprile 2008 il primo atto dell'esecutivo fu il Lodo Alfano.

Oggi, venti mesi dopo, il primo atto della "ripartenza" è un decreto legge che sospende i processi del presidente del Consiglio. Nella parabola del Cavaliere non esiste un nuovo inizio, ma solo un eterno ritorno.

Oggi, il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare quella che, ad un parziale e sommarissimo esame, appare come l'ennesima "ghedinata", benché concepita molto meglio delle precedenti.

Il provvedimento ha una tortuosa discendenza giuridica. Congelerà i procedimenti penali nei quali il pm abbia chiesto e ottenuto, durante il dibattimento, "contestazioni suppletive" a carico dell'imputato (Berlusconi rientra nella fattispecie, avendone subite sia nel processo Mills che in quello sui diritti tv Mediaset).

La norma "sospensiva", studiata come sempre dagli avvocati-parlamentari del premier, si renderebbe necessaria per consentire allo stesso imputato, sottoposto ai nuovi addebiti, di scegliere il rito abbreviato (che in base al codice attuale gli sarebbe permesso solo nella fase precedente, cioè nell'udienza preliminare).

Il tutto, sulla base di un principio di "parità" di trattamento del cittadino di fronte alla legge fissato dalla Corte costituzionale in una sentenza pubblicata giusto il 14 dicembre scorso, passata inosservata ma foriera di effetti "straordinari" (nel senso letterale, cioè "non ordinari").

È sulla base di questa sentenza, infatti, che Berlusconi può sperare in un via libera al decreto da parte del presidente della Repubblica. Volendo seguire le sue false promesse di riconciliazione disseminate in queste ultime settimane, verrebbe da chiedere al premier perché non ha anticipato a Giorgio Napolitano l'intenzione di presentare questo provvedimento nel suo incontro al Quirinale di due sere fa.

Oppure, volendo seguire le sue eversive minacce di strumentalizzazione formulate in questi ultimi mesi, si potrebbe chiedere al premier perché oggi gli torna utile la pronuncia di quel "covo di comunisti" rinchiusi nel palazzo della Consulta, e se anche quella costituzionale, stavolta, si possa definire "giustizia a orologeria". Ma mettiamo da parte la correttezza istituzionale e la coerenza personale, che è materia indisponibile nel presidente del Consiglio.

Mai come in questo caso, di fronte ad una vicenda così delicata, ci rimettiamo alla saggezza del Capo dello Stato. Al suo ruolo di custode delle regole e di garante delle istituzioni. Sta a lui valutare se una misura "straordinaria" come questa (sia pure finalizzata a colmare una lacuna dell'ordinamento vigente già rilevata dalla Consulta) possieda effettivamente i requisiti di "necessità e urgenza" richiesti dalla Costituzione.

Sta a lui giudicare se una sospensione dei processi, che consenta all'imputato di esercitare anche in fase dibattimentale il diritto al rito abbreviato, si possa raggiungere anche attraverso la semplice "fisiologia" della procedura penale (cioè le decisioni dei singoli giudici, attraverso le istanze di remissione), oppure attraverso il ricorso alla legislazione ordinaria (cioè le decisioni del Parlamento, attraverso un disegno di legge).

Ma di questo provvedimento, nel frattempo, possiamo denunciare senz'altro la rovinosa conseguenza politica. Ancora una volta, il Paese e il Parlamento sono paralizzati dalla permanente ossessione giudiziaria del presidente del Consiglio. Le istituzioni sono ostaggio della sua costante emergenza processuale. In questo clima (come dimostra il surreale annuncio sulle tasse e su due sole aliquote Irpef) per il governo non esiste un'altra "agenda".

Non esistono altre "priorità". Soprattutto, non esistono "riforme". Com'è logico e giusto, di fronte all'ennesima forzatura del Cavaliere il Pd chiude tutte le porte al confronto. Anche quelle poche che erano state aperte, con troppa fretta e troppa approssimazione.
Bersani, legittimamente, aveva detto: discutiamo di tutto, a patto che il premier rinunci alle leggi "ad personam".

È successo l'esatto contrario, ed ora l'opposizione annuncia l'ostruzionismo, com'è suo dovere in una democrazia degna di questo nome. Così finisce il gigantesco equivoco del "dialogo", che in realtà era solo una colossale trappola. Così svaniscono i propositi gandhiani del premier.

A prenderla sullo scherzo, torna in mente un vecchio film di Massimo Troisi: pensavo fosse amore, invece era un calesse. Ma nell'Italia berlusconiana, ormai, non c'è proprio niente da ridere.


Che cosa è un processo giusto
di Luigi Ferrarella - Il Corriere della Sera - 13 Gennaio 2010

E se gli aspiranti riformatori della giustizia facessero prima un salto a Cassano d’Adda, sezione distaccata del Tribunale di Milano? Qui non la carenza, ma l’assenza ormai da mesi di cancellieri sta totalmente bloccando la registrazione di 450 sentenze civili e 520 decreti ingiuntivi già fatti: tutti provvedimenti di giustizia ordinaria, spicciola ma importante per la vita delle persone, che i giudici hanno già deciso, ma che formalmente non esistono e dunque non possono dispiegare i loro effetti per i cittadini che li attendono.

Ma non sembra essere questa «la durata indeterminata dei processi» dai quali proclama di volerli «tutelare » il riscritto disegno di legge sul «processo breve», soave etichetta che dovrebbe rendere digeribile «la tagliola» sui processi (diritti d’autore al pdl Gaetano Pecorella): quasi che un cittadino dovesse felicitarsi di veder garantito il proprio diritto a constatare in breve l’estinzione del processo penale da cui attende giustizia, e non invece di ottenere in breve il risultato dell’accertamento, cioè la sentenza che fa scaturire diritti, obblighi, sicurezze e risarcimenti.

«La giustizia perfetta non esiste », notava nel 1974 Carlo Bo nell’articolo «La regola di Ponzio », ma «dovrebbe esistere una giustizia sollecita, responsabile, che non si abituasse a sostituire il proprio tempo, soddisfatto nella tranquillità, al tempo senza risposta di chi attende». E in effetti solo un incosciente oggi potrebbe assuefarsi al match tra Italia e Somalia in fondo alle classifiche annuali della Banca Mondiale sui tempi e costi per far rispettare un contratto.

O rassegnarsi al malsano «federalismo giudiziario» delle abissali disparità tra tribunali, che per l’esito di un fallimento a Reggio Calabria o Ascoli fa mettere in cantiere battesimo, comunione e cresima dei figli, mentre a Trieste fa aspettare 4 volte meno. E il vero decreto-competitività per le imprese sarebbe quello che le sottraesse alla «tassa» occulta (2,2 miliardi la stima annuale) che l’inaffidabilità tempistica della giustizia, specie civile, scarica su ogni azienda.

Solo che la risposta del governo alla «regola di Ponzio»—processo breve, rincorsa a 18 mesi di quasi automatico legittimo impedimento per il premier, e nel frattempo decreto legge per fermare subito e per 2 mesi i processi nei quali, proprio come i suoi, vi sia stata una modifica delle imputazioni — è sbagliata.

Per il clima che compromette, proprio quando pareva potersi avviare in Parlamento una limpida discussione tra le coalizioni almeno sui corretti termini di una costituzionalizzazione di prerogative delle cariche istituzionali.

Per le distorsioni che introduce nel merito, ad esempio applicandosi nell’ultima versione anche alle imprese indagate, e così avvantaggiando Impregilo nel processo a Napoli sui rifiuti, o Telecom e Pirelli nel processo a Milano sui dossier illegali.

E per il consueto sapore agro del metodo, restituito anche stavolta dalla permanenza della norma transitoria che, estinguendo tutti i processi senza sentenza di primo grado a due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio, conclama la volontà del premier di liberarsi in questo modo dei due nei quali è imputato di corruzione in atti giudiziari del teste Mills e di frode fiscale sui diritti tv Mediaset.


Se il processo corto rischia di diventare una prescrizione corta
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 8 Gennaio 2010

La prima riunione operativa dell’anno il convalescente Berlusconi l’ha tenuta a Villa S. Martino col ministro della Giustizia Angiolino Alfano, rientrato in anticipo dalle ferie, e col suo avvocato e deputato, Nicolò Ghedini. Tema: il ddl sul "processo breve" ora ribattezzato "processo corto" per renderlo, riferiscono le cronache, "meno indigesto alla Lega".

A tutti piacerebbe un processo "breve" o "corto" che sia, perché significherebbe: certezza della pena per i colpevoli, assoluzione in tempi ragionevoli degli innocenti, minore durata delle carcerazioni preventive e, qualora si decidesse di ripristinarlo nella sua interezza, possibilità di garantire il segreto istruttorio e tutelare l’onorabilità delle persone coinvolte a qualsiasi titolo in un procedimento penale.

Ma il "processo corto", senza una preventiva e radicale modifica dell’intero impianto giuridico, si risolverebbe in "prescrizione corta". Certo non sarebbe il processo, certa sarebbe l’assoluzione per tutti e non solo per i procedimenti in corso ma anche per quelli futuri (ben di più e ben di peggio quindi di un’"amnistia mascherata" ma un’"amnistia permanente").

Ciò che occorre fare è ripulire e smagrire drasticamente la nostra procedura penale. Il vizio di base del nostro Codice è che, a differenza di quelli anglosassoni che prendono dal diritto romano, è impiantato sul sistema bizantino. Il diritto romano, contadino, pragmatico, privilegiava la velocità delle procedure sulla certezza assoluta della giustizia dei verdetti.

Il diritto di Gaio e Giustiniano è invece una stupenda cattedrale gotica, fatta di pesi e contrappesi, di misure e contromisure, che pretende di eliminare l’errore. In realtà oltre ad allungare in modo abnorme le procedure non ottiene nemmeno il suo scopo: perché a distanza di anni i testimoni non ricordano o ricordano male o sono morti, le carte sono ingiallite, illeggibili o sono andate perdute, eccetera.

Il nostro Codice presenta quindi possibilità pressoché infinite di ricorsi, di controricorsi, di impugnazioni, di eccezioni di incompetenza (per territorio, materia, funzione), di ricusazioni, di revisioni, il tutto spalmato su tre gradi di giudizio dove anche l’ultimo, quello della Cassazione, attraverso il grimaldello della coerenza della motivazione col dispositivo è diventato, caso unico al mondo, un giudizio di merito.

A questo impianto farraginoso che ha sempre posto dei gravi problemi di funzionalità fin dagli anni Cinquanta (ma allora, perlomeno, il numero dei reati era minore) si sono aggiunte, dopo Mani Pulite, una serie di norme cosiddette "garantiste" per trarre di impaccio tangentisti, politici, lorsignori vari (lo stesso Berlusconi è stato salvato sei volte dalla prescrizione) che hanno inzeppato ulteriormente il Codice di procedura penale rendendolo, soprattutto per i reati finanziari e contro la Pubblica Amministrazione, pressoché inservibile.

Arrivare al "processo corto" comporta quindi un lungo, e pensato, lavoro di repulisti e il problema non può essere certo risolto con un decreto legge varato in tutta fretta per sottrarre Berlusconi ai suoi processi, soprattutto da quello Mills in cui, se si sta alle motivazioni della sentenza di primo grado di condanna dell’avvocato inglese, difficilmente il cavaliere salverebbe la ghirba.

Decretare per legge il "processo corto" significa di fatto rendere inutili, ma pur sempre costosi, i procedimenti per una lunga serie di reati, anche gravi e gravissimi. Farlo perché c’è un signore che, credendosi evidentemente "più uguale" degli altri, si rifiuta di sottoporsi alle regole del Paese di cui è premier mi pare oltre che devastante un insulto all’intera cittadinanza.


L'"ad libertatem" di Berlusconi
di Cinzia Frassi - Altrenotizie - 13 Gennaio 2010

Dopo l’aggressione del 13 dicembre, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi,è tornato sotto le luci della ribalta, baldanzoso come sempre, per un vertice strategico con i suoi a palazzo Grazioli. Il risultato dell’incontro è stata la solita operazione di marketing pseudo politico, che parla dell'ennesimo taglio alle tasse degli italiani, delle fantomatiche quanto sempre di moda "riforme costituzionali" e, naturalmente, della famosa ed inossidabile riforma della giustizia come ghiotto boccone al Parlamento.

Ci sarebbero, infatti, alcuni emendamenti al ddl sul processo breve per arginare la cause di incostituzionalità e per dare una calmata non solo all'opposizione, ma pure al presidente della Camera Gianfranco Fini. In sostanza, ci risiamo: il teatrino ricomincia e si finisce con il discutere ed azzannarsi su alcuni temi, quelli prescelti, mentre non si parla in alcun modo dei problemi reali del bel paese.

Fatto sta che attorno al vertice a palazzo Grazioli sembra essere scesa una certa coesione all'interno del partito del cavaliere: ora sul piatto della bilancia dell'attività di governo non ci sono solo il legittimo impedimento e processo breve a scatenare le polemiche, ma riforme e fisco.

Come dire di no? Il fisco, l'oggetto assoluto, l'emblema della vittoria di Silvio Berlusconi: quello che ti fa pagare meno tasse. Ad aggiungere alla sceneggiatura una certa credibilità, la salita al colle del Presidente del Consiglio, che va da Napolitano per metterlo al corrente della sua agenda, per cercare di lisciare l'ex comunista, ma soprattutto per mostrare a tutti che ancora una volta sono tutti con lui.

Magari non proprio tutti. Per primo Antonio di Pietro, Idv, che non abbassa i suoi toni da stadio. Intanto non usa la diplomazia quando gli chiedono della strada che a Milano si pensa di intitolare a Bettino Craxi e risponde che "una strada intitolata a Craxi si può fare a una sola condizione, che ci sia scritto sulla targa quello che é: politico, corrotto e latitante”.

E a proposito del rilancio sul processo breve, che recepirebbe le richieste dell’opposizione, risponde con lo stesso piglio: ''E’ una presa in giro, non abbiamo visto niente”. Per poi aggiungere: “Si vendono la pelle dell'orso prima di averlo catturato. Il processo breve é un provvedimento “ad personam”, quindi qualsiasi modifica può essere soltanto una lavata di faccia, un modo per allungare la mano e fregarsi il braccio”.

Reazioni anche dal Pd da uno spazientito Bersani che ci mette una certa ironia: "Sarebbe questa la prima mossa del partito dell'amore?”. Il segretario nazionale non ammette dietrofront sulle questioni che ruotano attorno alla giustizia e, deciso, si scaglia ancora contro le leggi “ad personam”, restate intonse però quando c’era pure lui tra le fila del governo.

"Non bastano i giochi di parole o le finte benevolenze verso l'opposizione a nascondere la realtà dei fatti. La nostra disponibilità è quella dichiarata più volte: si sospendano i provvedimenti che governo e maggioranza hanno annunciato e si discuta subito dell'ammodernamento del nostro sistema".

In sostanza dice no alle richieste di accondiscendenza e si dichiara disponibile solo sulla riforma della giustizia.

Ma, ancora una volta, a svolgere un'opposizione più pruriginosa è l'ex di Alleanza Nazionale, che ultimamente riesce ad infastidire la Lega e ad oscurare l’opposizione. "Le riforme vanno fatte e il confronto deve avvenire in Parlamento", dice Gianfranco Fini, da Palermo, davanti ad una platea di studenti andati ad ascoltarlo parlare del suo ultimo libro dal titolo (forse con un pizzico di satira politica) "Il futuro della libertà", da poco in libreria.

Fini dice che “il dibattito politico è vecchio, stanco e propagandistico” e, a proposito delle riforme, afferma: "Abbiamo bisogno di farle, chi vince le elezioni ha il diritto e il dovere di realizzarle, ma il Parlamento deve avere un ruolo, è in questa sede che si deve aprire il confronto o si vuole fare il dibattito solo nelle trasmissioni televisive?".

In sostanza, il presidente della Camera ribadisce la sua posizione sulle leggi “ad personam” e sottolinea di non essere disponibile a serrare le fila attorno al cavaliere. Secondo alcuni, l'asse dei finiani avrebbe una cinquantina di seguaci per mettere in crisi il governo, qualora insistesse sul lavorare esclusivamente alle cause intitolate a Silvio Berlusconi.

A chi gli chiede conto del suo argomentare “di sinistra” Fini risponde: “Basta con le etichette, parlare di ambiente o di immigrazione non è ne di destra ne di sinistra. Sono argomenti che riguardano tutti". Fuga ogni dubbio, quindi, circa il suo ruolo all'interno del Pdl e della sua tecnica politica volta a non confondersi, nonostante la fusione, con i metodi del cavaliere.

Perfino sull'immigrazione e sui fatti di Rosarno si esprime con certi toni e, comunque, in un modo non condivisibile dalla Lega, cui stanno particolarmente a cuore certe occasioni di mostrare ai suoi elettori di avere la mano forte. Si esprime molto pacatamente, infatti, sostenendo, sempre da Palermo, che "la politica deve guardare al futuro e non seguire gli umori della società, come è avvenuto a Rosarno con l'immigrazione".

Mentre la politica è ormai in scacco matto, dedicandosi completamente a se stessa e ai suoi vecchi meccanismi da prima serata, restano come sempre fuori dal dibattito i problemi reali che gli italiani intanto stanno fronteggiando; la crisi, la mancanza di lavoro, la produzione che si sposta fuori confine e i famosi conti alla quarta settimana. Cosa volete che siano di fronte al processo breve?


L'amore per se stesso
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 12 Gennaio 2010

È stata breve la stagione dell'amore di Silvio Berlusconi. Distratto o confuso dalle sue stesse dolci parole, il presidente del Consiglio non si è accorto dell'esplosione di odio assassino che ha attraversato Rosarno (non ha detto una sola parola su quella tragedia, forse perché in fondo quelli erano negri e gli altri terroni, per dirla con il Brighella che gli dirige il giornale di famiglia). Ora al rientro dalla convalescenza, concentratissimo, il capo di governo discute di libertà.

Le leggi ad personam, dice, non sono altro che "leggi ad libertatem". Amore, libertà. Le parole suonano bene e hanno un buon odore, ma non bisogna farsi ingannare. Le formule non accennano mai a un noi, sempre a un Io e dunque va meglio precisato l'orizzonte politico e istituzionale che si scorge: Berlusconi inaugura oggi la stagione dell'amore per se stesso, della libertà per se stesso.

Novità? Nessuna, naturalmente. Diciannove leggi ad personam ci hanno abituati, nel tempo, ai trucchi nascosti dietro una quinta scorrevole che qualche malaccorto definisce la volontà riformatrice di un governo, una sfida "costituente" da non lasciar cadere, l'opportunità di un confronto nel merito.

Il "merito", come si dice, è sempre lo stesso. Ha un nome, un cognome, una faccia, un passato da imprenditore creativo e spregiudicatissimo; un presente da capo di governo in conflitto d'interessi invasivo e perenne che disprezza la sovranità della Costituzione; un futuro da Primus, da Eletto che pretende un'immunità speciale dalla Legge.

È musica che conosciamo e Berlusconi, che non delude mai, non ce ne priverà nei prossimi mesi. Dice che ha lavorato intensamente alle tappe di una riforma fiscale. È una manovra di distrazione di massa, anche questa non nuova alla vigilia di ogni elezione. In realtà, ha riproposto un'iniziativa già fallimentare tre lustri fa (due aliquote) e irrealizzabile oggi, come tutti sanno e dicono a bocca storta.

Il meglio delle sue energie, come si scopre adesso, Berlusconi lo ha riservato al programma di libertà per se stesso dai processi, dalla giustizia per il presente e per il futuro. Appena rientrato sulla tolda del comando unico, è salito al Quirinale per informare il capo dello Stato delle sue trovate, dopo aver rassicurato i suoi che "Napolitano deve dargli una mano".

La prima trovata è un decreto legge (quindi, immediatamente esecutivo) che imporrebbe una sospensione di tre mesi ai processi in cui il pubblico ministero ha chiesto e ottenuto "contestazioni suppletive".

È accaduto durante il dibattimento contro David Mills, testimone corrotto e condannato in primo e secondo grado (Berlusconi è accusato di averlo corrotto, il processo paralizzato dai lodi immunitari deve ora ricominciare). Contestazioni suppletive anche nel processo per la compravendita dei diritti televisivi Mediaset, ancora in corso (Berlusconi è imputato di frode fiscale).

Se il decreto legge dovesse essere firmato perché "urgente" dal capo dello Stato, Berlusconi con quest'abito cucito a sua misura guadagnerebbe, senza patemi, il tempo necessario per condurre in porto il "processo breve" che prevede la durata complessiva di sei anni.

Una correzione che, se approvata, fulminerebbe - perché "estinti" - i processi che lo vedono imputato, ma - si sa - Berlusconi non si accontenta mai. Ecco allora la seconda idea originale progettata durante la convalescenza: perché non rendere liberi - e quindi immuni dalla legge, dal processo e dal giudizio - anche le società, dopo le persone?

Di qui, la proposta contenuta nell'emendamento, che oggi sarà presentato al Senato, di un'estensione del "processo breve" anche alle persone giuridiche, quindi alle società che devono rispondere di reati contabili, danni erariali, di responsabilità amministrative per reati commessi da figure apicali nell'interesse aziendale.

Mediaset ne ricaverebbe qualche sollievo nei suoi contenziosi giudiziari come la Pirelli-Telecom di Marco Tronchetti Provera, l'Eni e l'Italgas che devono rispondere di truffa ai danni dei consumatori, ma soprattutto Impregilo di Benetton, Ligresti e Gavio, per dire alla rinfusa di qualche processo già in corso.

È un'iniziativa non soltanto auto protettiva, allora. Elimina, con la separazione dei poteri pubblici (si crea un'area di immunità protetta dalla legge), anche ogni separazione tra la sfera pubblica e la sfera privata, tra poteri politici e poteri economici, una separazione essenziale che fa parte del costituzionalismo dello Stato moderno, "ancor prima della democrazia" aggiunge Luigi Ferrajoli.

Il ritorno all'attività di Berlusconi ha un pregio indiscutibile. Con una sola mossa e in poche ore, lascia cadere ogni maschera. Si libera dell'alibi della "riforma della giustizia".

Rende chiara la sua volontà e offre un saggio di quel che intende per "riforma costituzionale" agli incauti che hanno voluto credere nel suo "spirito costituente" condito dalla primitiva teologia politica del bene e del male, dell'amore e dell'odio. Egli, che è il bene, e addirittura l'organo monocratico che rappresenta la volontà dell'intero popolo sovrano, vuole soltanto costituzionalizzare se stesso, la sua anomalia, la concentrazione del suo potere, il suo conflitto di interesse.

Vuole riscrivere le regole comuni a partire dalla personalizzazione del suo potere che immagina e pretende separato da un Parlamento umiliato, immune dalla legge, confuso fino all'indistinzione con gli interessi economici che lo sostengono nella sua volontà di potenza. Berlusconi sa di sacrificare con la nuova tornata di leggi ad personam ogni possibilità di confronto con le opposizioni, ma ci ha davvero mai creduto in una discussione dagli esiti condivisi? È difficile crederlo.

Lo strappo di Berlusconi dimostra come al fondo del suo "spirito costituente" ci sia soltanto una vecchia idea che Gianfranco Miglio già nel 1994, con la prima vittoria della destra, espresse in modo brutale.

La Costituzione non è un accordo tra tutti sulle regole del gioco, ma è un "patto che i vincitori impongono ai vinti. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l'altra metà. Poi si tratta di mantenere l'ordine nelle piazze".