Rimane però solo da chiedersi quando finirà l'atavica pazienza degli italioti e se questi riusciranno a far saltare il tappo di una bottiglia già stracolma di merda.
Altrimenti, chi può esili!
Nel Granducato di Curlandia stan succedendo delle cose assai curiose. Dei veri misteri gaudiosi. Ha cominciato un paio di mesi fa Pier Ferdinando Casini, politico di lungo corso, vecchia volpe, il quale, prendendo spunto dalla richiesta di arresto del sottosegretario Cosentino, poi puntualmente negata dalla Camera, aveva affermato: "La Prima Repubblica non è stata uccisa dai giudici di Mani Pulite, era già morta molto prima, quando si era chiusa in una difesa cieca della propria classe politica. Nel clima tempestoso di questi giorni una difesa assoluta e corporativa di tutto e di tutti ci metterà, prima o poi, in una situazione insostenibile nei confronti dell’opinione pubblica”.
Era un improvviso dietro front perché fino ad allora, da parte di tutto il centrodestra, le inchieste di Mani Pulite erano state considerate l’infamia delle infamie, colpevoli di "aver abbattuto, per via giudiziaria, un’intera classe politica" cui lo stesso Casini apparteneva. E Berlusconi, seguito da tutti i suoi, aveva addirittura dichiarato che Mani Pulite era stata "una guerra civile".
Adesso invece si ammette, da parte di Casini, che quelle inchieste avevano scoperchiato un marciume che ad un certo punto era diventato intollerabile per i cittadini. Pochi giorni fa il mellifluo Paolo Mieli ha dichiarato ad Annozero: "Come alla vigilia del 1992 sta per saltare il tappo".
Giuseppe Pisanu (Pdl), presidente dell’Antimafia ha detto: "La corruzione è dilagante, l’Italia può restarne schiacciata". Su Il Giornale Marcello Veneziani in un editoriale intitolato "Questione morale: pazienza (quasi) finita" scrive: "Ultima chiamata prima del baratro". E persino il vilissimo Vespa nella trasmissione di lunedì dedicata all’inchiesta di Firenze è stato un po’, solo un pochino, meno paraculo col Potere del suo solito.
Le più impressionanti sono le conversioni a U di Paolo Mieli e di Marcello Veneziani, due intellettuali che in questi quindici anni hanno avvallato tutte le Cirielli, le Cirami, le leggi “ad personam” e “ad personas”, i lodi Schifani e Alfani, il dimezzamento della prescrizione, per i reati di “lorsignori”, proprio mentre la durata dei processi, grazie anche alle leggi cosiddette “garantiste”, si allungavano e sono stati protagonisti di quella quotidiana, capillare, costante e devastante delegittimazione della magistratura italiana che ha finito per togliere ai rappresentanti della nostra classe dirigente, politica, amministrativa, imprenditoriale, quel poco di senso della legalità che gli era rimasto.
Tanto sapevano che, grazie ai vari marchingegni, non avrebbero mai pagato pegno, né penale né sociale. Mieli è stato complice attraverso i suoi editorialisti di punta, Angelo Panebianco, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ostellino, scatenati contro i magistrati, "l’uso politico della giustizia", il "giustizialismo" (termine che, come il suo contraltare, il "garantismo", non ha alcun senso se riferito a un magistrato: il quale non può applicare la legge né in senso giustizialista né garantista, semplicemente la applica e se non lo fa, per dolo o colpa grave, va denunciato alla Procura della Repubblica competente).
Panebianco è arrivato a scrivere sul Corriere diretto da Mieli: "La legalità, semplicemente non è, e non può essere, un valore in sé" (Corriere, 16/3/95). Marcello Veneziani è stato protagonista in prima persona militando nel Pdl per designazione del quale, e non certo per le sue preclare virtù, ha acchiappato un posto di consigliere di amministrazione della Rai, per cui è grottesco che adesso faccia le lagne sui meriti mortificati, sulle affiliazioni partitiche, sul clientelismo.
Chi sperano, costoro, di prendere per il culo? Tuttavia i contorsionismi di Mieli, di Veneziani e degli altri sono estremamente significativi.
Vuol dire che si stan rendendo conto che la gente che va in ufficio o in fabbrica o alza la claire della bottega alle sette del mattino e torna a casa la sera, più o meno alla stessa ora, stanca e scazzata, non ne può più, quale che sia il suo credo politico e ammesso che ce l’abbia (perché c’è un buon 30% di italiani che non si sente rappresentato da nessuno) comincia a non poterne più della corruzione, delle ruberie, dei soprusi, degli abusi, degli arbitri, della sistematica grassazione del denaro della collettività ad opera del sistema dei partiti, di destra e di sinistra, con i loro addentellati amministrativi e imprenditoriali proprio mentre la crisi economica la costringe a stringere la cinghia.
Non ne può più di vedere costoro che piazzano figli, nipoti e cognati in impieghi remunerativi mentre i loro figli fanno una fatica boia a trovarne uno a bassissimo reddito o non ce l’hanno.
Ed è anche esasperata dalla pretesa di immunità che questa classe dirigente, Berlusconi in testa ma non solo, avanza per sé e che vuole rafforzare con la reintroduzione dell’immunità parlamentare, il divieto delle intercettazioni telefoniche, la truffa del "processo breve", i "legittimi impedimenti".
Quindi i vari Mieli, Veneziani and company cercano di smarcarsi per tempo o, forse, fuori tempo massimo. Anche coloro che, soprattutto nel Pdl, affermano che non è una “nuova Tangentopoli” dimostrano di avere paura che ci sia, come nel 1992-94, una nuova esplosione del furore popolare. Naturalmente mentre qualcuno cerca di defilarsi e di mettere le mani avanti, altri non rinunciano ai soliti espedienti.
Berlusconi, dopo aver affermato che i magistrati di Firenze “dovrebbero vergognarsi”, ha definito “birbanti” gli inquisiti e gli arrestati di questa mandata (che è l’equivalente del “mariuolo” affibbiato da Craxi a Mario Chiesa, per dar ad intendere che si trattava di una mela marcia in un cesto di mele sanissime).
Altri ancora parlano di singoli episodi mentre il professor Ernesto Galli della Loggia, nell’ennesimo tentativo di salvare i partiti, ha scritto su Il Corriere: “Non crederemo davvero che la corruzione italiana si riduce a quella dei politici? La verità è che è l’Italia la causa della corruzione”.
È il collaudato trucco del “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”. In ogni caso la corruzione non sale dalla società verso i partiti, come sostiene il Galli della Loggia, ma è vero il contrario.
In una democrazia corrotta i partiti comprano il consenso. E per comprarlo hanno bisogno di soldi, di corruzione, di tangenti, dell’uso a tappeto del clientelismo e dell’affiliazione paramafiosa. È così che la corruzione, discendendo giù per i rami, arriva alla società e la inquina.
Il Galli della Loggia scova le radici della corruzione italiana "nella nostra storia profonda" e, dopo aver vissuto per settant’anni sulla luna e senza aver mai mosso un dito per contrastare l’andazzo, scopre "che cosa è diventato questo paese".
Per la verità senza andare a pescare nelle “radici della nostra storia profonda”, io ricordo, non dovendo andare poi troppo lontano, anche un’altra Italia che dovrebbe essere nota anche al Galli della Loggia che è più anziano di me. Nell’Italia dei Cinquanta e dei Sessanta l’onestà era un valore per tutti.
Per la borghesia se non altro perché dava credito. Per il mondo contadino dove la classica stretta di mano valeva più di un contratto. E per il proletariato. E chi violava questi codici veniva inesorabilmente emarginato dalla propria comunità.
E comunque se l’Italia si è ridotta come si è ridotta è anche grazie al professor Ernesto Galli della Loggia e a tutti gli intellettuali azzeccagarbugli che invece di cercare di chiarire le idee alla gente gliele confondono. La classe dirigente di questo paese sta ballando sull’orlo di un vulcano. E qualcuno se ne sta rendendo conto.
Non so se, alla fine, il vulcano erutterà. Non so nemmeno se augurarmelo. Perché ho il fondato sospetto che se ci fosse una nuova “rivoluzione italiana” finirebbe, come dopo Mani Pulite, che a coglierne i frutti non sarebbero coloro che si sono battuti per realizzarla, ma gli eterni Mieli, Veneziani, Galli della Loggia, Pisanu, Cicchitto, Casini o i loro discendenti politici, intellettuali o carnali.
E come adesso ci tocca gridare, per disperazione, “aridatece Forlani”, allora saremo costretti a gridare, sempre per disperazione “aridatece Berlusconi”. Che almeno ci metteva la faccia e ogni tanto trovava anche qualcuno che gliela spaccava.
I valzer degli ineleggibili
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 1 Marzo 2010
La questione morale, invocata a gran voce dopo la sequela di scandali che hanno scosso la politica nostrana in modo pressoché bipartisan, e le imminenti elezioni regionali stanno costringendo il governo a escogitare delle misure che, almeno in apparenza, tutelino l’onorabilità e soprattutto la credibilità delle istituzioni.
Se il provvedimento anti-corruzione - varato in tutta fretta per metter una pezza agli affaires Bertolaso e Di Girolamo - non ha per ora oltrepassato la linea di fuoco del Consiglio dei Ministri, a tentare di redarguire i molti che hanno fatto della politica una ghiotta occasione di lucro dovrebbe arrivare ora un inaspettato giro di vite sull’eleggibilità dei condannati.
Il disegno di legge approvato in questi giorni in Parlamento è stato in realtà elaborato ben 15 anni fa dal giudice calabrese Romano De Grazia e dal penalista professor Mario Alberto Ruffo, e riguarda il divieto per i sorvegliati speciali di svolgere propaganda elettorale “in favore o in pregiudizio di candidati e simboli”.
Se di per sé il testo non aggrava le sanzioni per i malavitosi dediti agli intrallazzi politici (già privati del diritto di voto attivo e passivo), il ddl Lazzati va però a colpire quei politicanti che in ragione di una vittoria agognata si appellano ai suddetti soggetti per ampliare il consenso: per loro il nuovo ordinamento prevede la reclusione da 1 a 6 anni e, se la sentenza passa in giudicato, è contemplata l’ineleggibilità del candidato per un periodo non inferiore a 5 anni e non superiore a 10.
Inoltre, nel caso in cui il candidato sia stato effettivamente eletto attraverso il cosiddetto voto di scambio, l’organo istituzionale di appartenenza ha il dovere di dichiararne la decadenza formale dall’incarico.
Che questo sia uno dei pochissimi “mirabili atti” del governo Berlusconi quater sono in molti ad ammetterlo ma, dal momento che il lupo pur perdendo il pelo non necessariamente perde il congenito vizio, l’approvazione del disegno di legge ha scatenato una vera e propria diaspora all’interno del Popolo delle Libertà e della già fragile coalizione con la Lega; uno scontro in cui - come da copione - vediamo giustapposte l’ala finiana e i forcaioli padani contro la parte forzitaliota che ha fatto del garantismo la sua necessaria ragione di sopravvivenza e consenso.
La battaglia era già cominciata in Commissione Affari Costituzionali dove i commissari incaricati di valutare la costituzionalità della proposta, avevano discusso animatamente sui requisiti necessari alla decadenza del candidato colluso: i dubbi riguardavano soprattutto l’incertezza nel definire quale comportamento del candidato costituisse il discrimine tra la consapevolezza e la leggerezza.
Le remore però sono state messe da parte in nome di una rapida approvazione, volta soprattutto a dare un segnale concreto di contrasto alla criminalità dei colletti bianchi in vista delle delicate elezioni regionali, che si terranno tra meno di un mese ma che potrebbero rivelare l’effetto boomerang di una siffatta misura.
Al momento della votazione a Montecitorio si consuma infatti l’ennesima rottura tra i deputati della defunta AN e i leghisti, determinati ad arrivare ad un’approvazione in tempi rapidi, ed i pidiellini fedeli alla linea di Arcore che, forti della loro storia partitica, vedevano nella convalida del testo una “clava giudiziaria da armeggiare da parte di un Ciancimino qualsiasi”.
Se a questo si aggiunge il fatto che Lega ed ex An premono per estendere il ddl Lazzati a tutti i candidati iscritti nelle liste per le regionali, ben si capirà l’agitazione che serpeggia tra i banchi della maggioranza.
Siamo quindi alle solite, con una parte del governo che attacca i magistrati e con l’altra che li difende, con un presidente della Camera che crede che “una destra con la bava alla bocca non piaccia” e con un premier che, ormai incontenibile e incontentabile, paragona i pm ai talebani di Al Quaeda.
Che nel Popolo delle Libertà non esistesse più una linea politica condivisa lo avevano svelato gli atteggiamenti di aperta sfida che Fini aveva adottato nei confronti delle derive berlusconiane; ma su questa delicata questione è evidente che ormai le distanze non sono più tanto sul piano della mera tattica, quanto piuttosto toccano i principi fondamentali e gli assunti che stanno alla base dell’idea di centrodestra attuale.
Una versione della politica che ha una fisionomia sprezzante e che non può e non vuole ricorrere a figure di garanzia interposte - come appunto i magistrati - per avvalorare la bontà del suo operato, ma che si fonda sul consenso aprioristico creato da interminabili sequele di annunci ad effetto e dall’innegabile forza centripeta della figura di Mr. B., prova vivente della fallacia di una giustizia forzatamente portata da essere, se mai fosse possibile, ancor più intempestiva.
Chi si ribella ai corruttori
di Curzio Maltese - La Repubblica - 28 Febbraio 2010
"In Italia l'unica vera rivoluzione sarebbe una legge uguale per tutti". Mezzo secolo dopo le parole di Ennio Flaiano sono state portate in piazza. E' una bella emozione. Come ascoltare dal palco di piazza del Popolo Mario Monicelli, 95 anni, rivolto ai tanti ragazzi: "Non mollate, tenete duro e spazzate via questa classe dirigente".
Il popolo viola è tornato a Roma, tre mesi dopo la gigantesca manifestazione di San Giovanni. La piazza è più piccola, i numeri ridotti, ma il clima allegramente rivoluzionario è lo stesso, anzi più convinto e maturo.
Cinquantamila persone convocate in pochi giorni per protestare contro le ennesime leggi ad personam, con la sola rete, stavolta senza un euro o un pullman messo a disposizione da partiti e sindacati, sono un successo e la conferma di un movimento in crescita. Non è difficile capire perché.
Più dei partiti d'opposizione e dei sindacati, il popolo viola è diventato il riferimento per l'Italia indignata dalle nuove tangentopoli. Non è più solo questione di antiberlusconismo.
La manifestazione di Piazza del Popolo convocata contro i cosiddetti legittimo impedimento e processo breve, è diventata nei fatti una protesta contro gli ultimi scandali, dalla Protezione civile all'affare Fastweb-Telecom. Una rivolta contro un'intera classe dirigente corrotta, come ha detto Monicelli.
La maggioranza degli italiani è convinta di trovarsi di fronte a un sistema di corruzione peggiore di quello rivelato diciotto anni fa da Mani Pulite. Ma la differenza è che allora in piazza a sostenere la "legge uguale per tutti" andavano i partiti di sinistra, centro e destra, dalla Lega al Pds all'Msi. Ora c'è soltanto il popolo viola a sventolare la bandiera della legalità.
Un movimento anomalo, nato su Internet, nel paese occidentale dove la rete è meno diffusa. L'unica grande nazione peraltro, a parte la Cina comunista, dove sono allo studio leggi per censurare l'informazione in rete. Mentre nel resto d'Europa i governi riformisti finanziano l'accesso gratuito a tutti i cittadini.
In Italia molto si è rubato in questi anni, ma moltissimo rimane da spartirsi in una nazione ricchissima, inconsapevolmente ricca, di beni comuni. Siamo alla vigilia della privatizzazione dell'acqua, contro il parere dell'85 per cento degli italiani, ma senza nessuno in Parlamento che si opponga davvero.
In silenzio, si vendono o svendono ai privati pezzi di Paese, porti, spiagge, l'immenso tesoro culturale, il servizio sanitario e la scuola. Un'occasione senza precedenti per affari miliardari fra la mala politica e l'imprenditoria o la prenditoria al seguito.
Gli ostacoli da rimuovere sono pochi, tutto sommato. La Corte Costituzionale, la Corte dei Conti, qualche pugno di magistrati, l'informazione non asservita. E il popolo viola. Le cronache di queste settimane, con le decine prima e ora centinaia di "casi isolati" e "birbantelli", sembrano proprio la punta di un iceberg.
Ma esiste il rischio che, diciotto anni dopo, l'Italia della corruzione si prenda una storica rivincita su quella degli onesti. È questa paura che riempie del colore viola le piazze romane. Con o senza il sostegno dei partiti di opposizione, che l'altra volta non avevano aderito ma s'erano presentati in piazza con decine di esponenti e stavolta hanno aderito ma non si sono visti. Come sempre, difficili da capire.
Prescrizione o assoluzione, sta a lui la scelta
di Eugenio Scalfari - La Repubblica - 28 Febbraio 2010
È molto difficile immaginare lo sforzo e la tensione morale prima ancora che politica che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, deve fare per arginare lo sconfinamento continuo, le provocazioni e gli insulti che Berlusconi lancia ogni giorno contro l'assetto istituzionale e costituzionale dello Stato.
La lettera che Napolitano ha inviato ieri al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è l'ultima e più esplicita testimonianza di questa esondazione berlusconiana, arrivata al punto di definire "talebani" i magistrati inquirenti e giudicanti, rei ai suoi occhi di applicare le leggi alle quali egli vuole sottrarsi con tutti i mezzi a sua disposizione.
Del resto Napolitano non è il primo a dover fronteggiare questa situazione di estremo disagio in cui versa la Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi si sono anch'essi dovuti scontrare loro malgrado con analoghe difficoltà e analoghi travagli.
Sono ormai quindici anni che il Quirinale deve ergersi come antemurale contro la furia berlusconiana; ma mai come in questa legislatura quella furia aveva raggiunto un'aggressività così pericolosa, esplicita, mirata ad abbattere ogni equilibrio, ogni garanzia, ogni ostacolo e lo spirito stesso della Costituzione repubblicana.
Chi ha avuto la fortuna di poter osservare da vicino Scalfaro, Ciampi, Napolitano, ha conosciuto le loro angosce ma anche la loro tenace fermezza e la serenità con le quali si sono comunque mantenuti al di sopra delle parti, non avendo altro fine che la difesa della Costituzione, la lotta contro i privilegi, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'equilibrio dei poteri previsto dallo Stato di diritto.
Ho scritto più volte che il vero bersaglio nel mirino di Berlusconi è il presidente della Repubblica, i tre presidenti della Repubblica che si sono succeduti al Quirinale.
Verrà pure il momento che questa storia segreta dovrà essere scritta e si vedrà allora quanto gli italiani debbano a quei tre uomini che sono riusciti a preservare la libertà di tutti richiamando i principi di moderazione, rispetto reciproco e condivisione delle norme che stanno a fondamento della convivenza sociale.
Non a caso il Quirinale è destinatario di un altissimo consenso da parte degli italiani; al di là e al di sopra delle preferenze politiche e degli steccati che ne derivano, i cittadini riconoscono unanimemente dov'è l'usbergo che tutela l'unità della patria e la coscienza morale della nazione. Questa compattezza ci infonde fiducia e ci stimola a superare il fango e le lordure che insozzano in modo ormai intollerabile la vita pubblica del nostro Paese.
* * *
L'episodio più recente che ha provocato l'ira funesta di Silvio Berlusconi è stata la sentenza della Cassazione che, a Sezioni unite, ha giudicato prescritto il reato di corruzione in atti di giustizia dell'avvocato Mills, lasciando aperto il processo per lo stesso reato nei confronti del presidente del Consiglio. La Cassazione ha dato torto alla Corte d'appello milanese che aveva condannato Mills a quattro anni e mezzo di carcere.
Secondo le Sezioni unite il processo Mills era caduto in prescrizione da tre mesi e mezzo. Non così per Berlusconi, nei confronti del quale il processo continuerà fino a quando decadrà anch'esso per scadenza dei termini nella primavera del 2011.
In un primo momento il premier sembrava aver gioito (e con lui tutti i suoi "replicanti") della sentenza delle Sezioni unite che "aveva dato torto ai giudici di Milano". Ma il giòito è durato poco di fronte all'evidenza: il processo continua per la semplice ragione che il reato è tuttora da giudicare ed è un reato di estrema gravità perché il premier è accusato di aver corrotto un magistrato e "comprato" una sentenza. Per Mills non c'è stata assoluzione ma prescrizione dei termini.
Per Berlusconi sarà probabilmente altrettanto: nel marzo del 2011 sarà probabilmente prescritto ma non assolto e per un uomo politico che guida il governo nazionale questa situazione gli evita il carcere ma non cancella le macchie infamanti di quel reato.
Che può fare il premier per evitare questo scorno e cancellare quelle macchie?
Alla ripresa del processo i suoi avvocati potrebbero decidere in suo nome di rinunciare alla prescrizione e chiedere al Tribunale di riconoscere la sua estraneità rispetto ai reati.
Se si comportasse in questo modo acquisterebbe una credibilità della quale ha molto bisogno ed anche altre iniziative legislative in corso, come per esempio quelle preannunciate contro la corruzione, le guadagnerebbero.
È infatti evidente a tutti quale valore si possa dare a inasprimenti di pena per reati di corruzione quando chi propone tali inasprimenti è lo stesso soggetto che si sottrae al suo processo utilizzando la prescrizione i cui termini sono stati abbreviati da 15 a 10 anni dalla legge Cirielli "ad personam".
Non dimentichiamo infine che sono attualmente all'esame del Parlamento due leggi rispettivamente già votata una alla Camera e l'altra al Senato, sul "legittimo impedimento" e sul "processo breve". Ambedue hanno la stessa finalità di estinguere i procedimenti in corso contro il premier per decadenza dei termini o per improcedibilità, senza mai poter arrivare a sentenza sul merito del reato, se sia stato commesso oppure no.
Questo è il punto di fondo e dipenderà soltanto da Berlusconi se vorrà che sia dimostrata la propria innocenza o preferirà fuggire dal processo. Non sarebbe del resto la prima volta; tra il 1999 e il 2003 fu prescritto già quattro volte: nel lodo Mondadori, nell'illecito finanziamento del Psi per 21 miliardi di lire date a Bettino Craxi, nel falso in bilancio Fininvest e nell'acquisto del calciatore Lentini da parte del Milan, pagato in Svizzera con fondi neri della Fininvest. In nessuno di quei casi Berlusconi chiese di rinunciare alla prescrizione. Ora ne avrebbe l'occasione di farlo. Meglio tardi che mai. Lo farà? Lo spero, ma non ci credo.
* * *
Il bavaglio alla stampa è un'altra delle leggi mirate a diminuire il tasso di libertà e di opposizione al malaffare che imperversa. Si obietterà che giornali e giornalisti sono parte in causa e che quindi la loro (la nostra) opposizione a quel disegno di legge è di natura corporativa. Può darsi.
Può darsi che inconsciamente dentro di noi questo sentimento vi sia. Ma noi possiamo invocare a nostro favore il fatto che la libertà di stampa è un principio tutelato dalla Costituzione che ne fa anzi uno dei requisiti principali della democrazia.
La nostra opposizione del resto non riguarda il tema delle pene detentive minacciate contro i giornalisti che non ottemperino agli obblighi normativi. Nell'ultima versione di quel disegno di legge sembra che le pene detentive siano state tolte, ma la nostra opposizione resta fermissima.
Ci rendiamo ben conto che riferire intercettazioni (peraltro solo quando siano state rese pubbliche dai magistrati inquirenti) utilizzando i testi in modo parziale col rischio di fraintenderne il senso compiuto, può arrecare gravi danni alla privatezza delle persone intercettate e soprattutto a quelle casualmente coinvolte nelle conversazioni.
Questi difetti possono essere rimossi con disposizioni intelligenti che obblighino i giornalisti a riferire i fatti con parole proprie e/o con brani virgolettati ma compiuti di senso.
In questi casi il giornalista non potrà difendersi dietro il velo del virgolettato ma riferirà con parole proprie assumendosi la piena responsabilità di quanto scritto e dovrà difendersi in giudizio dall'eventuale querela per diffamazione. Si potrà anche (secondo me si dovrebbe) far cadere dinanzi al magistrato il diritto al segreto sulle fonti quando si riferiscano fatti e notizie ancora secretati.
Tutto ciò detto, vietare alla stampa ogni accesso alla fase istruttoria del processo è una pretesa inaccettabile e incostituzionale. La fase istruttoria è delicatissima poiché è in quella sede che si formano e si rassodano gli indizi di colpevolezza o di innocenza e i materiali probatori che poi saranno valutati e circostanziati nel corso del dibattimento.
L'attenzione della stampa sull'operato delle Procure e della polizia giudiziaria è materia di primaria importanza perché il controllo dell'opinione pubblica su tutte le fasi del processo scoraggia e comunque rende note eventuali manovre di insabbiamento, sistematicità dei rinvii richiesti dai difensori, collusioni sempre possibili tra i magistrati che indagano e le parti indagate. La presenza della stampa è utile, oso dire più nella fase istruttoria che in quella dibattimentale.
Le responsabilità di giornali e giornalisti debbono essere a loro volta accuratamente indicate e le sanzioni eventualmente inasprite, ma il divieto d'accesso non può essere accettato e il divieto di riferire radicalmente respinto.
Continuo a pensare che il bavaglio alla stampa violi un principio costituzionale che neanche il potere legislativo può cancellare. Né potrebbe farlo una legge di modifica della Costituzione trattandosi di un principio indisponibile.
L'ipotesi ventilata sulla Stampa da Luca Ricolfi di creare un apposito organo di regolamentazione autonomo rispetto alla magistratura e cogente verso i giornali mi sembra una costruzione barocca che si infrangerebbe non appena si dovessero scegliere i modi per formare questo improprio tribunale, esso sì di natura corporativa.
Quanto all'altra proposta dello stesso Ricolfi di consentire ai giornali l'accesso alle fonti in fase istruttoria e riferirne "a rotazione periodica" tra le varie testate, mi sembra una proposta che mi permetto di definire ridicola.
A volte il potere corrompe non le tasche dei probi ma i loro cervelli. E questo non è un rischio remoto ma estremamente attuale tra quelli che stiamo correndo.
Sono un cittadino dell'Italistan
di Antonio Di Furia - La Repubblica - 26 Febbraio 2010
Pubblicata nella rubrica LETTERE di Corrado Augias de La Repubblica con il titolo Nel paese di “Mario il Mago”
Sono un cittadino dell’Italistan. Vivo a Milano 2, in un palazzo costruito dal presidente del Consiglio. Lavoro a Milano in un’azienda di cui è azionista il presidente del Consiglio.
L’assicurazione dell’auto è del presidente del Consiglio, come l’assicurazione della mia previdenza assicurativa. Compro il giornale, di cui è proprietario il presidente del Consiglio, o suo fratello, che è lo stesso.
Vado in una banca del presidente del Consiglio. Esco dal lavoro faccio spese in un ipermercato del presidente del Consiglio, dove compro prodotti realizzati da aziende partecipate dal presidente del Consiglio.
Se decido di andare al cinema, ho una sala del circuito di proprietà del presidente del Consiglio, dove guardo un film prodotto e distribuito da una società del presidente del Consiglio (questi film godono anche di finanziamenti pubblici elargiti dal governo presieduto dal presidente del Consiglio).
Se rimango a casa, guardo la tv del presidente del Consiglio, con decoder prodotto da società del presidente del Consiglio, dove i film realizzati da società del presidente del Consiglio sono interrotti da spot realizzati dall’agenzia pubblicitatria del presidente del Consiglio. Faccio il tifo per la squadra di cui il presidente del Consiglio è proprietario.
Guardo anche la Rai, i cui dirigenti sono stati nominati dai parlamentari che il presidente del Consiglio ha fatto eleggere. Se non ho voglia di tv, leggo un libro, la cui editrice è di proprietà del presidente del Consiglio.
E’ il presidente del Consiglio a predisporre le leggi, approvate da un Parlamento dove molti dei deputati della maggioranza sono dipendenti e/o avvocati del presidente del Consiglio, il quale governa nel mio esclusivo interesse. Per fortuna!
L'Italia è fondata sulla merda della Seconda Repubblica
di Moreno Pasquinelli - http://sollevazione.blogspot.com - 26 Febbraio 2010
Quali conclusioni dopo "Tangentopoli 2"?
La Chiesa sta a Gesù Cristo come il capitalismo storicamente realizzato sta ad Adam Smith.
Ma su questo torneremo più avanti. Vorremmo svolgere prima brevi considerazioni sul vero e proprio tsunami di sterco che si sta abbattendo sul nostro paese.
Parliamo della “frode tra le più più colossali della storia d’Italia” (così la definisce il Gip Aldo Morgigni), ovvero dell’affaire Fastweb-Telecom.
La prudenza di certi commentatori (“non è ancora una seconda tangentopoli”) fa il paio con le patetiche e autoassolutorie dichiarazioni dei Berluscones: “non sono coinvolti i partiti stavolta, ma singoli politici corrotti”.
Fatta salva la premessa che dei partiti veri e propri non esistono più da tempo, essendo diventati delle cricche feudali in mano ad autentici capi bastone.
Rimosso lo strato d’intonaco, l’affresco che emerge è agghiacciante. Ricorda L’Inferno dipinto da Luca Signorelli al duomo di Orvieto.
Due aziende leader delle Tlc dedite al malaffare. Manager del calibro di Silvio Scaglia (che The Time insignì nel 2003 del titolo di “Global tech guru”) la cui ascesa si spiega proprio perché maghi della truffa.
Ingenti fondi neri ricavati dalla immane frode fiscale. Collusione consapevole degli istituti di credito (non solo svizzeri). Denaro riciclato grazie alla ‘Ndrangheta. Criminali comuni che fanno da tramite tra alta finanza, politici e alte figure istituzionali.
Ex pistoleros fascisti che millantano rapporti con la CIA che fanno da ruffiani tra ‘ndranghetisti, politici e funzionari di polizia. Politici a loro volta eletti grazie all’aiuto determinante di criminali comuni e alla manipolazione delle elezioni. Una montagna di immondizia frammista a lusso sfrenato. I “furbetti del quartierino” ci fanno la figura dei nani.
Questo succintamente il quadro che emerge dal vaso di Pandora aperto dall’inchiesta della Procura di Roma. Uno tsunami appunto, destinato ad avere ripercussioni profonde sul quadro politico e in modo diretto sulle prossime elezioni regionali, che Berlusconi, avventatamente, ha voluto trasformare in un plebiscito: “o con me o contro di me”.
Una vera e propria pistola puntata alla tempia dell’italico popolino, un popolino che il Cavaliere megalomane considera ormai un ammasso di servi della gleba rotti a tutto, di sonnambuli disposti ad abboccare ad ogni sua fanfaluca.
Questo neo-duce meneghino non dovrebbe dimenticare che se è capo lo è di un popolo levantino, quantomai fulmineo nell’abbandonare il caporione perdente, tanto più se è un capocomico.
Siamo davanti all'ennesimo atto dello sfascio della cosiddetta “seconda Repubblica”, uno sfascio che travolgerà non solo la destra, ma pure la sinistra sistemica, nessuna conventicola esclusa.
Da tempo andiamo dicendo che chi tocca questi lebbrosi muore. Sull’orlo dell’abisso vediamo invece partiti e partitini fare a gara per affiancarsi ai due blocchi bipolari per strappare qualche regalia, qualche posto di consgliere o di assessore, o di presidente della municipalizzata (giù giù fino all’ultimo usciere del Palazzo).
La bagarre politica diventata un mezzo per la scalata sociale. Kafkiano tentativo di risurrezione quello dei sinistrati, visto che si erano già suicidati prima nel prodismo poi nell’Arcobaleno.
Altri, in fondo a sinistra, si stanno dimenando per raccogliere firme e presentare liste. Come Tersite sotto le mura di Troia. Errore fatale l’elezionismo. Che senso ha partecipare ad una gara truccata? Con sbarramenti elettorali capestro, con una censura sistemica chiamata “par condicio”, sapendo che la competizione implica l’investimento di un mucchio di quattrini per cui solo i potenti e la malavita hanno chance di essere ascoltati.
Che senso ha concorrere a delle elezioni sapendo che siamo in un regime plutocratico e delittuoso e che appunto utilizza le urne per spacciarsi come democratico? Che senso ha, mentre cresce la quota di cittadini che si sta distaccando da questi furfanti, andare in direzione contraria, contribuendo a dare credibilità alla truffa elettorale?
Da tempo andiamo dicendo che la sola cosa che resta a tutti coloro che non si sono mai sporcati le mani con questo sistema putrescente è l’esodo dalla rappresentazione elettorale, rafforzare e non indebolire l’Aventino popolare, la fuga dalle urne.
Non siamo in America, oltre una certa soglia l’astensione lascerebbe il sistema in mutande. Tanto più ci lascerebbe il populismo che ci ripete fino alla nausea che la sua forza viene dal mandato ricevuto dagli elettori. Meno elettori, meno voti, meno populismo, uguale fine della seconda repubblica.
In questo letamaio la disobbedienza civile è il solo mezzo che ci resta, solo la disobbedienza insegna al popolo a riacquistare la dignità perduta. E solo un popolo che abbia riconquistato la dignità può fare una rivoluzione.
La crisi italiana si iscrive in quella economico-sistemica del capitalismo occidentale. Della prima sappiamo che tra le sue cause non secondarie c’è la crescita abnorme del malaffare e dell’aggiotaggio come modus operandi del turbo-capitalismo. Il capitalismo giunto al massimo grado di finanziarizzazione si configura come un vero e proprio capitalismo-truffa. Povero Smith!
Padre solo putativo del capitalismo, senz’altro si vergognerebbe della fine che ha fatto il suo figlio bastardo. Smith aveva posto la domanda di beni a fondamento dell’economia, in quanto essa metteva in moto la produzione. La “mano invisibile” del mercato avrebbe poi fatto sì che la quantità complessiva di tutte le merci sarebbe corrisposta alla domanda e determinato l’equilibrio complessivo.
Di qui la formazione dei prezzi. Ma egli precisava di intendere la “domanda effettiva”, ovvero solvibile. Distingueva infatti la “effettiva” dalla “domanda assoluta”, ovvero non sostenuta da una reale capacità d’acquisto.
Senza scomodare Marx, proprio Smith ci da quindi una chiave per capire una delle ragioni del disastro sistemico. Che, a partire dagli USA, pur di pompare all’infinito il meccanismo della produzione (inceppato da una crisi di sovrapproduzione globale e dalla curva discendente del potere d’acquisto dei salari), il sistema finanziario globale, banche centrali comprese, hanno artificialmente gonfiato e a dismisura la domanda assoluta (stampando carta moneta, abbassando quasi a zero i tassi d’interesse, elargendo prestiti facili e mutui subprime) rivelatasi poi in gran parte non solvibile. Come derivato di questo andazzo la crescita abnorme del malaffare e delle truffe finanziarie.
E’ qui che, volendo trovare la causa di questo harakiri, Marx ci giunge in soccorso, ovvero la caduta del saggio di profitto, ciò che misura il grado di valorizzazione del Capitale, la molla e il telos che quando si spezza determina il passaggio dalla ciclica crisi di sovrapproduzione alla depressione vera e propria, alla distruzione immane di forze produttive senza la quale nessuno rilancio del ciclo è possibile.
Tornando all’Italia: la depressione economica, monta sulle spalle di una crisi che era già sociale, istituzionale e morale. Nonostante il degrado politico, istituzionale e morale gli italiani non hanno fiatato per lungo tempo.
Non l’hanno fatto perché hanno barattato la dignità col benessere, perché hanno consegnato la loro anima al diavolo del consumismo. La depressione che attanaglia il capitalismo occidentale, intonando il de profundis della prosperità a buon mercato, smascherando il biscazziere, obbliga i giuocatori ad risvegliarsi dal sortilegio, e presentare il conto.
Non è automatico che la rivolta per il presente diventi una rivoluzione per il futuro. Che la protesta dei dominati contro i dominanti diventi una lotta per fuoriuscire dal capitalismo. Ma non c’è rivoluzione che non sia stata annunciata dalla rivolta generale.
Perché parliamo di rivoluzione democratica? Rivoluzione: perché nessun cambiamento profondo, nessuna trasformazione, sarà possibile in questo paese senza una rottura radicale, senza mettere mano alle fondamenta sociali, morali e politiche.
Democratica: perché deve coinvolgere la maggioranza del popolo, che con le buone maniere, o con quelle cattive, obbligherà i dominanti falliti a farsi da parte.