mercoledì 17 marzo 2010

USA-Israele: il solito gioco delle parti

Come era facile prevedere, Israele non rinuncia a costruire nuovi insediamenti a Gerusalemme Est e, secondo il New York Times, sarebbe stato dato il via libera ad oltre trecento nuove abitazioni nel sobborgo di Neeve Yaakov.

E già si parla della ripresa dell'Intifada, dopo la "Giornata della rabbia" caratterizzata da duri scontri tra palestinesi e forze dell'ordine israeliane a causa dell'inaugurazione di una sinagoga nella Città vecchia, e di una montante tensione tra Israele e Stati Uniti dopo che il governo israeliano ha respinto le tre condizioni poste da Obama: oltre alla marcia indietro sui nuovi insediamenti annunciati durante la visita del vicepresidente Joe Biden, un gesto significativo e sostanziale nei confronti dei palestinesi e una dichiarazione pubblica che accetti l'inclusione nei negoziati di tutte le questioni centrali, tra cui lo statuto di Gerusalemme.

Mah, sarà...ma sembra piuttosto il solito vecchio gioco delle parti tra USA e Israele alle spalle e ai danni dei palestinesi.


Israele, il giorno della collera
di Luca Galassi - Peacereporter - 16 Marzo 2010

Il giorno dopo le insolenti dichiarazioni del Primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ("continueremo a costruire insediamenti come abbiamo fatto negli ultimi 42 anni"), gli Stati Uniti sospendono la visita dell'inviato speciale in Medio Oriente, George Mitchell.

La Casa Bianca vuole risposte, pena la definitiva cancellazione della missione di Mitchell e l'ulteriore aggravamento di una crisi che in questi giorni ha fatto toccare ai rapporti tra i due Paesi il minimo storico.

L'alta tensione e' iniziata alla vigilia della visita del vice-presidente Joe Biden, con l'annuncio della costruzione di 112 nuove case, proseguita durante i colloqui tra Biden e Netanyahu con la presentazione di un piano per edificare 1.600 unita' abitative e ha raggiunto il suo apice con il Primo ministro israeliano che ha deciso di gettare la maschera sulle reali intenzioni del suo governo, ostaggio sempre di piu' della destra e della lobby dei coloni.

Non e' solo a rischio il processo di pace, ma un'intero quadro di relazioni diplomatiche e di equilibri geopolitici che, con la mediazione Usa e l'avallo dei palestinesi dopo un anno di stallo, si stavano faticosamente ricreando.

Mentre nei giorni scorsi il protocollo imponeva a Biden di fare buon viso a cattivo gioco, oggi l'amministrazione Obama ha deciso di lanciare un chiaro messaggio agli israeliani, e l'inviato speciale Mitchell verra' convocato dal Segretario di Stato Usa Hillary Clinton per discutere alla Casa Bianca la delicata questione mediorientale.

Washington terra' Mitchell 'in attesa' fino a quando Tel Aviv non avra' convinto gli americani dell'impegno concreto a favore del dialogo. Questo potra' avvenire solo se il progetto delle 1.600 case a Ramat Shlomo verra' sospeso e se Netanyahu fara' un 'gesto concreto' verso i palestinesi, dichiarando che tutte le materie 'calde' del conflitto mediorientale, incluso lo status di Gerusalemme, verranno incluse nei prossimi colloqui.

La posizione di Netanyahu ha acceso la miccia della protesta palestinese. Manifestanti palestinesi e poliziotti israeliani si sono scontrati nella mattinata in varie zone di Gerusalemme Est, nel giorno in cui il movimento islamico Hamas ha proclamato'la giornata della coller' per protestare contro le 'provocazioni' di Israele. I principali scontri sono avvenuti nel campo profughi di Shuafat e all'entrata della localita' di Isawie, dove giovani manifestanti palestinesi hanno lanciato pietre agli agenti.

La polizia ha reagito sparando proiettili di gomma, granate stordenti e gas lacrimogeni. Scontri analoghi sono scoppiati anche in altre zone di Gerusalemme Est, nelle cui strade la polizia ha schierato 3mila agenti, che controllano anche gli accessi alla citta' per impedire che i palestinesi di cittadinanza israeliana residenti in Galilea arrivino a dare man forte ai manifestanti.

La polizia da cinque giorni ha bloccato gli accessi alla Spianata delle Mosche e ha rafforzato le misure di sicurezza in tutti i quartieri della Citta' Santa, in previsione delle violenze annunciate dal governo di Hamas in segno di protesta anche per l'inaugurazione di una storica sinagoga nel quartiere ebraico della Citta' Vecchia di Gerusalemme: si tratta della 'Hurva' (rovina, in ebraico), una sinagoga inaugurata nella notte dopo esser stata ricostruita per la terza volta negli ultimi 250 anni.


Usa-Israele: crisi o farsa?
di Carlo M. Miele - www.osservatorioiraq.it - 15 Marzo 2010

Può l’annuncio della costruzione di 1600 nuovi alloggi a Gerusalemme Est, nel quartier ultra-ortodosso di Ramat Shlomo, mettere in pericolo la storica relazione tra Sati Uniti e Israele?
Per Michael Oren, ambasciatore israeliano a Washington, non vi sono dubbi: Quella in corso è della peggiore crisi degli ultimi 35 anni.


Per arrivare a un periodo altrettanto teso – sostiene il diplomatico - bisogna risalire al 1975, quando l’allora segretario di Stato Usa Henry Kissinger chiese al primo ministro israeliano Yitzhak Rabin un ritiro parziale delle proprie truppe dalla penisola del Sinai, occupata nel corso della guerra del 1967.

Di certo, alla Casa Bianca non è piaciuta la tempistica dell’annuncio, fatto proprio mentre il vicepresidente Joe Biden era nella regione per far ripartire il processo di pace tra israeliani e palestinesi, fermo da oltre un anno.

Secondo David Axelrod, uno dei più stretti collaboratori del presidente Barack Obama, si è trattato di un vero e proprio “insulto” nei confronti degli Stati Uniti.

La gravità dell’episodio è dimostrata anche dal fatto che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia sentito il bisogno di scusarsi pubblicamente, dicendosi “profondamente dispiaciuto” e tirando in ballo il “disguido diplomatico”.

Tuttavia, e come ha scritto su Ha’aretz l’analista politico Akiva Eldar, le dichiarazioni ufficiali di Israele e quelle dell’amministrazione Obama possono essere lette anche diversamente.

Affermare – come ha fatto Netanyahu – che si sarebbe dovuto evitare che i piani per le nuove case nel quartiere di Ramat Shlomo fossero approvati proprio durante la visita di Biden equivale a contestare le modalità dell’annuncio, ma non il suo contenuto, ossia l’edificazione di nuove colonie nei Territori palestinesi occupati.

Stesso discorso vale per le dichiarazioni successive del vicepresidente Biden, che ha fatto sapere di avere apprezzato l’impegno di Netanyahu a garantire che incidenti del genere non si ripetano in futuro.

Nella sostanza, quello che emerge dallo “scontro” diplomatico tra i due storici alleati è una nuova accettazione da parte americana della politica pro-colonie adottata dello Stato ebraico a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.

La sola cosa certa in tutta questa vicenda è l’annuncio israeliano – non ritrattato – della costruzione migliaia di nuovi alloggi a Gerusalemme Est, in quella che per i palestinesi dovrebbe diventare la capitale del loro futuro Stato.

Un nuova iniziativa che allontana la creazione di quello Stato palestinese “funzionale, indipendente e non frammentato” auspicato – almeno a parole - da tutta la comunità internazionale.



Colonialisti piromani. Torni lo spirito non violento della Prima Intifada. Intervista a Hanan Ashrawi
di U. D. G.- L'Unità - 17 Marzo 2010

Quello israeliano è un governo di piromani. Sistematicamente hanno dato fuoco ad uno possibilità di dialogo e hanno scelto la strada dello scontro frontale. Con un’aggravante ulteriore rispetto al passato: stavolta hanno esaltato l’aspetto religioso, ideologico, nella loro logica militarista e colonizzatrice. Ciò che sta avvenendo a Gerusalemme, su Gerusalemme riporta alla memoria la “passeggiata” di Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee: la provocazione che innescò la seconda Intifada».

A ricordarlo è una delle personalità più rappresentative della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, parlamentare, più volte ministra dell’Anp, la prima donna portavoce della Lega Araba, oggi paladina dei diritti umani nei Territori.

«I falchi israeliani – riflette Ashrawi – si sentono al di sopra di tutto e di tutti. Hanno umiliato il vice presidente Usa (Joe Biden), hanno chiuso la porta in faccia a Obama, fatto orecchie da mercante alle critiche dell’Unione Europea... È un delirio di onnipotenza che rischia di scatenare in Medio Oriente una nuova, devastante guerra di religione».

Gerusalemme è tornata ad essere teatro di violenti scontri...
«C’è chi ha puntato a questo, inanellando una serie di decisioni provocatorie che hanno chiarito, qualora ce ne fosse stato il bisogno, qual è la logica che anima coloro che oggi governano Israele...».

Quale sarebbe questa logica?
«Quella militarista, colonizzatrice, impastata di nazionalismo e fondamentalismo religioso. La logica di chi non contempla il compromesso, di chi sfida apertamente le leggi internazionali, incurante delle critiche della comunità internazionale. Costoro sono dei pericolosi piromani che stanno dando fuoco alla polveriera mediorientale».

Come fermarli?
«Isolandoli. Con i fatti, non a parole. Facendo intendere loro, con i fatti, che il tempo dell’impunità è finito. Quando parlo di fatti, penso agli accordi economici e militari che molti Paesi, l’America e non solo, hanno con Israele. Penso a pressioni diplomatiche, a manifestazioni di protesta. Il silenzio è complicità con questi piromani».

C’è il rischio che si ritorni ai tempi, tragici, della seconda Intifada?
«La rabbia è tanta e rischia di esplodere. Noi palestinesi dobbiamo riflettere sugli errori commessi ed evitare di cadere nella trappola dei falchi israeliani. Ho sempre ritenuto che la militarizzazione dell’Intifada sia stato un grave errore che non dobbiamo ripetere. Tra gli “shahid” e la rassegnazione esiste una terza via...».

Quale?
«La via della rivolta popolare, non violenta, che recuperi lo spirito della prima Intifada, di quella “rivolta delle pietre” che riportò la questione palestinese al centro dell’interesse internazionale. La via della disobbedienza civile, quella del boicottaggio di tutti i prodotti israeliani che provengono dalle colonie. È la via che da tempo palestinesi e israeliani stanno praticando a Beilin (villaggio palestinese in Cisgiordania, ndr), opponendosi alla realizzazione del Muro dell’apartheid. È la protesta non violenta che palestinesi e israeliani stanno portando avanti contro la costruzione di nuovi insediamenti ebraici a Gerusalemme Est. Non è facile, lo so bene. Ma è la strada giusta».

Stati Uniti, Europa, il Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia) ribadiscono che l’unica soluzione possibile è quella fondata sul principio “due popoli, due Stati). È anche lei di questo avviso?
«Il principio è giusto ma la sua realizzazione si fa ogni giorno più problematica. Le basi di un accordo globale sono quelle delineate dalle risoluzioni Onu, indicate dalla Road Map... Non c’è nulla da inventare. Occorre la volontà politica di puntare al compromesso. Una volontà che non è propria dei “piromani” israeliani».

Tra i nodi da sciogliere c’è quello di Gerusalemme. Netanyahu ha affermato di ritenerla materia non negoziabile.
«Non negoziare lo status di Gerusalemme significa non voler negoziare una pace globale. Perché Gerusalemme è parte inalienabile della soluzione “due popoli, due Stati”. Uno Stato di Palestina senza Gerusalemme Est sua capitale non esiste in natura...».


Il muro Netanyahu
di Lucio Caracciolo - La Repubblica - 17 Marzo 2010

Nel giro di pochi mesi, Israele ha rotto con il suo fondamentale partner regionale, la Turchia, e ha sfidato il suo unico alleato globale, gli Stati Uniti d´America. Follia? Masochismo? Non proprio. C´è del metodo in queste crisi. E c´è una logica nel modo in cui Israele le conduce.

Il metodo e la logica sono quelle dominanti in ogni democrazia: prima il consenso di chi vota, poi tutto il resto. Nel caso turco, per un Paese che si sente minacciato di distruzione dall´Iran, lo slittamento di Ankara verso il campo islamista è intollerabile.

Erdogan è considerato un traditore dell´intesa turco-israeliana, un sodale di Hamas e di Ahmadinejad. Tornare all´asse costruito negli anni Novanta su impulso dei due establishment militari, uniti dall´avversione per l´islamismo e per i velleitarismi arabi, è fuori questione.

Ma anche nella crisi con gli Stati Uniti, Netanyahu può contare sul consenso di gran parte della società israeliana. Su Gerusalemme non si discute. E un vero Stato palestinese non ci sarà mai. Solo che finora questo dissidio strategico fra Washington e Gerusalemme era coperto dalla diplomazia. Ora non più.

Obama è visto da molti israeliani come un cripto-musulmano. Più attento a guadagnarsi le simpatie del mondo islamico, a corteggiare gli ex "Stati canaglia", dall´Iran alla Siria, che a proteggere l´esistenza dello Stato ebraico. Netanyahu è convinto che alla Casa Bianca si stia complottando per provocare la caduta del suo governo, in favore di un gabinetto centrista, sperabilmente più aperto al negoziato con gli arabi e meno ossessionato dall´Iran.

Ipotesi molto teorica. Con l´opinione pubblica israeliana orientata a non cedere un palmo ai palestinesi, specie dopo che Hamas s´è installato a Gaza, è impensabile per qualsiasi leader israeliano impedire la costruzione di nuove case a Gerusalemme Est.

Sarà pur vero che Benjamin Netanyahu non sapeva del piano del suo ministro dell´Interno, Eli Yishai, di edificare 1.600 abitazioni nella parte orientale di quella che Israele considera la sua capitale eterna e indivisibile. Ma anche se lo avesse saputo non lo avrebbe impedito. Al massimo, avrebbe rinviato l´annuncio di qualche giorno, per non provocare il suo ospite americano, Joe Biden.

È possibile, anzi probabile, che nel medio periodo Israele paghi caro la sua intransigenza nei confronti dei pochi amici di cui ancora dispone. Ma fra i dirigenti dello Stato ebraico prevale lo sguardo corto, il tatticismo.

Forse perché sentono che immaginando scenari futuri, scoprirebbero che il tempo non lavora per Israele. Meglio restare alla stretta attualità. Per sentirsi tuttora la massima potenza regionale. L´unica nucleare – almeno finché Teheran non avrà la Bomba.

Se Obama si sbarazzerebbe volentieri di Netanyahu, nessuno dubita che l´impulso sia ricambiato. E la grave perdita di consenso del presidente americano, a pochi mesi dalle elezioni di mezzo termine, induce il leader israeliano ad affrontare il braccio di ferro con relativa serenità. Forte del consenso domestico e della debolezza interna e internazionale di Obama. Al quale si rimprovera di aver enfatizzato lo sgarbo a Biden, provocando secondo Michael Oren, ambasciatore di Gerusalemme a Washington, «la più grave crisi da 35 anni nei rapporti Israele-Usa».

Il riferimento è allo scontro del marzo 1975 fra Kissinger e Rabin sul ritiro delle truppe israeliane dai passi di Jidda e Mitla, nel Sinai. Il primo, americano di origine bavarese ma ben consapevole delle sue radici ebraiche, avvertì il premier israeliano: «Tu sarai responsabile della distruzione del terzo commonwealth ebraico». «Tu non sarai giudicato dalla storia americana, ma dalla storia ebraica», replicò Rabin. Sei mesi dopo, Israele cedeva alle pressioni Usa.

È molto improbabile che nella crisi attuale Netanyahu possa innestare la marcia indietro. L´incidente verrà formalmente archiviato, prima o poi. Forse già domenica, quando Netanyahu andrà a Washington – sapendo che Obama non ci sarà perché in missione in Indonesia e Australia – per perorare la sua causa davanti all´Aipac, la principale lobby pro-israeliana negli Usa. Ma anche se scambierà sorrisi e strette di mano con Biden e Hillary Clinton, il contrasto strategico è destinato a restare.

Allo stato attuale del match, Obama è il perdente. Sembra passato un secolo – invece nemmeno un anno – da quando prometteva una nuova èra di dialogo con i musulmani e di pace in Medio Oriente, con ostentati inchini alla civiltà islamica e al contributo della cultura araba al progresso umano.

Il "nuovo inizio" non è mai iniziato. Le distanze fra Israele e i palestinesi sono aumentate. La diffidenza reciproca è insormontabile. Obama ha scoperto che l´America non può fare la differenza, perché in Terrasanta la stagione dei miracoli pare scaduta. Non si può imporre la pace a chi non la vuole. O fa finta di volerla, ma non ci crede.

Obama non è il primo presidente americano a sbattere contro il muro Netanyahu. Quando Bill Clinton lo ricevette alla Casa Bianca, stanco della lezioncina inflittagli dall´amico israeliano, sbottò: «Chi è la superpotenza qui?». Se Obama osasse ripeterlo a Netanyahu oggi, probabilmente incontrerebbe un sorriso di commiserazione. Perché fra amici gli incidenti si superano, i danni si riparano.

Ma ormai gli Stati Uniti non fanno più paura a nessuno. Nemmeno allo Stato che rischierebbe di essere spazzato via se non fosse per la protezione strategica americana.
Americani e israeliani sono una vecchia coppia. Continueranno a frequentare lo stesso letto, pur sognando sogni diversi. Ma senza un´intesa fra Washington e Gerusalemme i mille dossier mediorientali non potranno trovare soluzione. Anzi, si aggraveranno.

Incoraggiando gli estremisti, eccitando i fanatici. In Israele come fra gli arabi e i musulmani. Dall´Egitto all´Iraq, dall´Iran all´Afghanistan, lo stallo del motore israelo-americano intaccherà le posizioni di entrambi.
L´ultimo degli scenari immaginati da Obama quando lanciò il suo "nuovo inizio" era di approfondire la crisi israelo-palestinese.

La Terza Intifada, se mai scoppierà, si distinguerà per il marchio religioso. Ce lo annunciano gli incidenti di ieri nella Città Vecchia di Gerusalemme, che hanno suscitato emozione e rabbia nell´universo islamico. Il fallimento di venti anni di "processo di pace" ha trasformato la disputa fra nazioni in conflitto di religioni. Qui non c´è spazio per compromessi, perché la Verità non ne tollera.

Nella battaglia per Gerusalemme – tutta ebraica o tutta musulmana (con i quattro gatti cristiani arabi a rischio di diaspora o sterminio) – ogni vittoria sarà effimera, premessa di rancori e rivincite interminabili.

Riportare indietro l´orologio della storia, e ricondurre lo scontro nei classici canoni dei nazionalismi, è esercizio futile. Anche per il presidente della "superpotenza unica", mai così impotente nella regione e nel mondo.

Forse anche gli antiamericani più sfrenati vorranno interrogarsi sui danni che la crisi dell´egemonia a stelle e strisce può provocare, quando nessuno sa come riempire il vuoto scavato dalla beata incoscienza di chi, vent´anni fa, s´illudeva che la storia fosse finita. Con il suo apparente trionfo.