sabato 20 marzo 2010

Iran: la giornata dei videomessaggi rafforza il regime..

Oggi sembra proprio essere la giornata dei videomessaggi rivolti al regime iraniano e alla popolazione.

Barack Obama infatti ha mandato un videomessaggio a Teheran in cui dichiara che i dirigenti iraniani hanno deciso di ''isolarsi con una politica autodistruttiva che guarda al passato'' e che "l'Iran si rifiuta di vivere secondo le regole internazionali".
Aggiungendo infine che ''la nostra offerta di diplomazia e dialogo è ancora in piedi".

E sempre oggi anche l'esponente dell'opposizione iraniana Mir Hossein Moussavi, in un videomessaggio apparso sul suo sito web, ha dichiarato che "il movimento verde deve continuare a estendersi e a coinvolgere le diverse realtà del paese", esortando poi la popolazione "a continuare a rivendicare i diritti civili e politici legittimi garantiti dalla Costituzione iraniana" e auspicando infine di giungere a una consultazione elettorale libera "in cui poter esprimere le preferenze politiche".

Moussavi ha pure sottolineato che le persone uccise durante le manifestazioni di questi ultimi mesi sono da considerarsi "i martiri della rivoluzione, che hanno perso la vita per affermare il principio dell'indipendenza politica nel Paese", accomunandoli poi ai martiri della rivoluzione del 1979 e della guerra tra Iraq e Iran.

Basterebbero già queste ultime frasi per far ridere a crepapelle i leader del regime, ma se poi si pensa al fatto che si tratterebbe di martiri alla Neda - la bufala raffazzonata da chi di dovere, come ben documentano i due video in fondo al post -, allora il regime iraniano sta proprio in una botte di ferro.


Le sanzioni all'Iran fermeranno la guerra o la provocheranno?
di Simone Santini - www.clarissa.it - 16 Marzo 2010

Poco appare in superficie ma queste settimane devono aver visto un brulicare di incontri sotterranei a livello internazionale per preparare le famigerate sanzioni contro il regime iraniano accusato di voler costruire la bomba atomica.

Paesi più attivi, ovviamente, Stati Uniti e Israele ma forse con obiettivi diversi da quelli palesi.

Mentre i paesi occidentali sembrano ormai formare un blocco compatto a mostrare un volto duro verso Teheran, dubbi ed ambiguità si nutrono sull'atteggiamento delle due potenze orientali che siedono al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, Russia e Cina.

Più morbida e possibilista appare Mosca sulla questione delle sanzioni, mentre Pechino, che ha molto da perdere sul piano economico/commerciale e dal punto di vista geopolitico, sembra ancora riottosa.

Nelle scorse settimane, in un momento in cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto ricercare la massima distensione con Pechino, si è invece assistito ad una recrudescenza dei rapporti che appare in netta distonia con la previsione del nuovo secolo Pacifico.

Quasi una riedizione della guerra fredda dai toni molto aspri, fondata sulla diatriba degli attacchi alla libertà di Google in Cina (epifenomeno di una più ampia cyber guerra), sulla fornitura americana di sei miliardi di dollari in armamenti a Taiwan, cioè a quella che è ancora considerata dai cinesi continentali una provincia ribelle, infine sull'incontro di Obama col Dalai Lama, con lo sfondo delle rivendicazioni del Tibet.

Qualcuno ha interesse a far fallire un ampio sostegno internazionale alle sanzioni contro l'Iran? Sono state mosse tattiche secondo la logica del "poliziotto buono e poliziotto cattivo"? Probabilmente entrambi gli aspetti.

moshe_yaalonstanley_fischerA fine febbraio, infatti, una delegazione israeliana si è recata proprio in Cina a perorare la causa anti-iraniana. Gli esperti di Tel Aviv, guidati dal ministro per gli Affari strategici Moshe Ya'alon, hanno mostrato ai cinesi, secondo quanto riporta il quotidiano Ha'aretz, "il quadro completo di intelligence di cui dispone Israele circa il programma nucleare iraniano, il quale dimostra chiaramente come l'Iran stia sviluppando armi nucleari" e ricavando una impressione molto positiva dai toni dell'incontro.

Della delegazione faceva parte anche il capo della Banca centrale isrealiana, il finanziere ebreo-americano (nato in Rhodesia) Stanley Fischer, poi divenuto cittadino israeliano per poter ricoprire proprio la carica di Governatore centrale.

Eminente economista ed accademico (professore per dieci anni al MIT è stato relatore alla tesi di Ben Bernanke, ora a capo della Fed), ha ricoperto ruoli di vertice alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario Internazionale e in una delle più importanti banche mondiali, Citigroup.

Cosa ci faceva un finanziere di questo livello in un incontro bilaterale in cui si sarebbe dovuto parlare di aspetti tecnici e di intelligence su presunti programmi nucleari?

La posizione israeliana appare essere molto più complessa e sottile di quanto appaia in superficie. Come si può desumere dall'atteggiamento della leadership dello stato ebraico, ed espressa anche in pubbliche dichiarazioni (1), Tel Aviv mira ad un piano articolato.

Nel breve periodo dovranno approntarsi sanzioni che pubblicamente si richiedono estremamente aggressive ("sanzioni coi denti" secondo l'espressione del primo ministro israeliano Netanyahu), ben sapendo tuttavia che esse non potranno essere risolutive.

Vi è infatti la difficoltà tecnica di approntare misure che colpiscano il cuore del regime (individuato nelle milizie Pasdaran, che in questi ultimi anni hanno assommato potere politico con un crescente peso economico) senza gravare troppo sulla popolazione iraniana e che siano così realmente dolorose da convincere Teheran a cedere alle pressioni occidentali.

Inoltre sarà estremamente complicato ottenere il consenso di tutti i paesi interessati (Cina in testa) nonché eventualmente cinturare i confini con Iraq, Pakistan e Afghanistan, del tutto instabili e resi permeabili da traffici di ogni tipo.

Israele dunque sa che le sanzioni falliranno, anzi punta proprio su questo. In questa fase Tel Aviv si aspetta esclusivamente di ottenere per le sanzioni uno status giuridico internazionale autorevole. A fronte del fallimento sostanziale di tali misure, invece, questo potrà portare ad una escalation, molto probabilmente militare.

Solo una condizione catastrofica di tale tipo, anche se di breve durata, ma che minacciasse le forniture energetiche di tutto il pianeta, potrebbe giustificare il passo finale di questa strategia: isolare l'Iran definitivamente dal contesto internazionale, con un embargo totale attuato sotto controllo della potenza militare statunitense sui suoi confini.

Una condizione, insomma, del tutto simile a quella che venne imposta per oltre dieci anni all'Iraq dopo la prima guerra del Golfo. Preludio alla maturazione delle condizioni interne per un regime change.
È in questo contesto che va inserita e compresa la presenza del governatore della Banca centrale di Israele a Pechino.

Quale esponente di punta del mondo finanziario globalizzato, Stanely Fischer aveva molteplici funzioni: dire ai cinesi che, nel contesto attuale, le loro forniture energetiche non saranno strutturalmente compromesse dalla strategia in opera, magari perché le forniture iraniane saranno sostituite da quelle delle aristocrazie arabe del Golfo, e perché i prezzi potrebbero essere stabiliti precedentemente alla crisi attraverso operazioni finanziarie internazionali di cui lo stesso Fischer potrebbe essersi presentato come garante.

Fischer ha infatti lasciato trasparire una velata minaccia contro Pechino quando ha sostenuto che "un Iran nucleare farebbe rincarare il prezzo del petrolio" mentre appare evidente che una vera crisi militare sarebbe in tal senso molto più destabilizzante.

Come dire: accordatevi ora con noi su prezzi e forniture lasciandoci quindi le mani libere; anche se vi opponeste la guerra ci sarebbe comunque, in ogni caso voi non la potrete impedire ed a quel punto ne subireste tutte le drammatiche conseguenze.

Infine, la presenza di Fischer ha avuto un significato simbolico eppure altamente politico, ovvero rassicurare che tale manovra non è indirizzata contro gli ambienti finanziari cinesi, al contrario li si vuole supportare in vista di un possibile futuro scontro con l'attuale leadership politico/militare per il controllo delle strutture fondamentali del paese.

È l'attuale leadership cinese ad essere sotto attacco nell'affaire Iran, non il paese e le sue capacità produttive che possono essere invece un architrave del prossimo ordine mondiale.

Se il progetto di attacco all'Iran, come delineato, andasse in porto, questo avrebbe ripercussioni geopolitiche decisive di altissima importanza strategica. Sottrarre Teheran alla tutela, cooperazione, possibile integrazione con Pechino, significherebbe che la Cina dipenderebbe sempre più da fonti di energia controllate direttamente o indirettamente dagli Stati Uniti, e, essendo insufficienti e precarie quelle africane, non potrebbe far altro che cercare una penetrazione massiccia in Asia centrale, in Kazakistan e Turkmenistan particolarmente.

Ma qui troverebbe rapporti di forza ed interessi già consolidati. Non solo la presenza delle compagnie petrolifere occidentali ma soprattutto contratti di fornitura stipulati da Gazprom. È la Russia infatti il dominus in queste aree.

L'Asia centrale, venendo a mancare il bilanciamento fornito attualmente dall'Iran, diverrebbe contemporaneamente un autentico spazio vitale sia per la Russia che per la Cina, da terreno di possibile alleanza e cooperazione in ambito SCO (Shanghai Cooperation Organization) a terreno di scontro e concorrenza vitale.

Tutto ciò che la Cina riuscisse a sottrarre in quei mercati sarebbe automaticamente tolto ai russi e minerebbe la possibilità per Mosca di garantire la stabilità delle forniture all'Europa. La vittoria dell'Impero sarebbe a quel punto definitiva, potendo giocare Cina contro Russia, e potendo determinare col proprio appoggio la supremazia di una sull'altra.

Ma un appoggio alla Cina verrebbe concesso solo in cambio di un sostanziale mutamento nella politica del paese condotta dalla sua attuale dirigenza secondo logiche di interesse nazionale indipendente e di egemonia globale.

La patata bollente sembra dunque nelle mani dei leader cinesi ma nessuna delle loro possibili mosse appare vincente. Opporsi radicalmente alle sanzioni (e in questo modo assecondando la manovra usraeliana) le farebbe nascere già morte, aprendo immediatamente la strada al "partito del bombardamento".

Accettando le sanzioni si potrebbero guadagnare alcuni mesi di tempo, e tuttavia il loro fallimento decreterà davanti al mondo che tutte le opzioni pacifiche tentate sono cadute nel vuoto.

A Pechino ci può essere la tentazione di un gioco pericolosissimo: accettare la guerra contro l'Iran e sperare che i piani militari occidentali falliscano, magari fornendo sotto banco aiuto agli iraniani.

Il precedente del Kosovo non è affatto tranquillizzante, quando i cinesi comunicarono alle forze armate serbe i codici che consentirono per la prima volta nella storia militare l'abbattimento di un bombardiere invisibile Stealth.

Ma per ritorsione un missile intelligente americano, benché impazzito, colpì per "errore" l'ambasciata cinese a Belgrado. L'Iran non è il Kosovo e la posta in gioco è decisamente più alta, è impensabile che gli Stati Uniti consentano alla Cina una sfida diretta alla loro potenza militare senza una punizione esemplare che potrebbe davvero scatenare scenari apocalittici.

Alla fine Pechino sarà giocoforza costretta ad abbozzare e lasciare Teheran al suo destino, cercando di ricavarne i massimi vantaggi tattici. Ma la partita strategica sarà stata irrimediabilmente compromessa.

Accanto alle dinamiche di fondo fin qui riportate, esistono varie operazioni tattiche che nell'ultimo periodo hanno avuto sviluppi e colpi di scena. Riportiamo due aspetti di grande interesse.

A metà febbraio la AIEA (Agenzia Atomica Internazionale) ha divulgato un rapporto che lancia l'allarme sulla possibilità che l'Iran stia effettivamente lavorando alla bomba atomica. Il rapporto, confidenziale, non si basa in realtà su investigazioni e dati riscontrati dai propri ispettori ma su notizie di intelligence provenienti in questo caso dai servizi segreti tedeschi.

Informazioni in realtà tutt'altro che nuove e che circolano negli ambienti dei servizi occidentali e periodicamente fatte filtrare alla stampa con piccoli aggiustamenti per determinarne un senso di novità.

L'analista britannico Nafeez Mosaddeq Ahmed (2) ha rilevato trattarsi invece sempre della stessa documentazione di "fabbricazione" americana, i cosiddetti "studi allegati" che fin dalla fine della scorsa estate erano serviti a Israele per mettere in cattiva luce l'allora direttore generale dell'Aiea El Baradei accusandolo di averli occultati.

El Baradei, più volte, aveva invece sottolineato come sul suo tavolo (e non solo sulla questione iraniana) fossero giunti vari dossier di dubbia provenienza (alcuni poi dimostratisi falsi), dunque tutti da verificare, e che questo compito spettasse esclusivamente agli ispettori della stessa Agenzia operando sul campo.

In nuovo direttore, il giapponese Yukiya Amano, ha mostrato un nuovo approccio alle problematiche, ovvero usare l'Agenzia non nella funzione naturale di verifica e controllo ma quale cassa di risonanza di notizie e documenti provenienti da servizi segreti occidentali. Questo getta un'ombra sulle future attività della Aiea e sulla sua imparzialità.

abdelmalekrighiLo scorso 23 febbraio le forze di sicurezza iraniane hanno catturato Abdolmalek Righi, capo del gruppo ribelle sunnita Jundallah attivo nella regione del Belucistan, già autore di numerosi attacchi terroristici, tra cui, nell'ultimo anno, quello contro alcuni alti ufficiali dei Pasdaran in ottobre alla vigilia dei negoziati di Vienna sul nucleare, e contro la moschea di Zahedan in maggio, durante l'ultima campagna elettorale.

L'aereo su cui Righi stava volando è stato intercettato sui cieli iraniani mentre si stava dirigendo da Dubai in Kirghizistan e costretto ad atterrare. Pare che Righi stesse per incontrare un alto responsabile dell'amministrazione americana, poi indicato da fonti iraniane in Richard Holbrooke, consigliere speciale di Obama per Afghanistan e Pakistan.

Riportiamo le sconvolgenti rivelazioni di Righi ottenute dalle autorità iraniane dopo il suo arresto. Non è possibile verificare se e quanto esse siano state estorte o manipolate, ma la loro gravità è tale da non poter certo essere ignorate. La fonte è il sito italiano della radio-televisione IRIB (Islamic Republic of Iran Broadcasting) che a sua volta cita la rete satellitare iraniana in lingua inglese Press-Tv.

Confessa Abdolmalek Righi:
"Dopo che Obama venne eletto, gli americani ci contattarono e mi incontrarono in Pakistan. Lui (l'agente americano/ndr) mi disse che gli americani chiedevano un colloquio [...] Io all'inizio non accettai ma lui ci promise grande cooperazione. Disse che ci avrebbero dato armi, mitragliatrici ed equipaggiamenti militari; ci promisero pure una base militare in Afghanistan, a ridosso del confine con l'Iran [...]

Il nostro meeting avvenne a Dubai e anche lì ripeterono che ci avrebbero dato la base in Afghanistan e avrebbero garantito la mia sicurezza in tutti i paesi limitrofi all'Iran in modo che potessi mettere in atto le mie operazioni [...]

Nei nostri incontri gli americani dicevano che l'Iran aveva preso la sua strada e che al momento il loro problema era proprio l'Iran e non al-Qaeda e nemmeno i talebani; solo e solamente l'Iran. Dicevano di non avere un piano militare adatto per attaccare l'Iran; questo, dicevano, è molto difficile per noi. Ma la CIA contava su di me perché riteneva che la mia organizzazione fosse in grado di destabilizzare il paese [...]

Un ufficiale della CIA mi disse che era molto difficile per loro attaccare l'Iran e perciò il governo USA aveva deciso di dare supporto a tutti i gruppi anti-iraniani capaci di creare difficoltà al governo islamico. Per questo mi dissero che erano pronti a darci ogni sorta di addestramento, aiuti, soldi quanti ne volevamo e la base per poter mettere in atto le nostre azioni".

Note:

(1) Si veda ad esempio l'intervista a Benyamin Netanyahu citata in "Fuochi d'estate sul Medio Oriente"
http://www.clarissa.it/esteri_int.php?id=1266

(2) http://networkedblogs.com/p28334256


Nucleare iraniano: storia, politica, diritto e strategie
di Alfredo Musto - www.eurasia-rivista.org - 16 Marzo 2010

Sullo sfondo della questione nucleare iraniana c’è una contesa strategica.

Da un lato c’è l’elaborazione da parte di Teheran di un programma energetico e di sviluppo che si lega ad un ridisegnamento della propria prospettiva geopolitica, dall’altro c’è l’intenzione di Washington -oltre che di Tel Aviv- di tracciare una direttrice, di circoscrivere il futuro modus operandi di un importante attore regionale come l’Iran, verso cui muove le proprie attenzioni nelle vesti di prima potenza globale cui, in quanto tale, spetterebbe la facoltà di indirizzo, azione e controllo.

Naturalmente, l’intera contesa ha una gerarchia di obiettivi e priorità, così come una gerarchia di attori geopolitici che in vario grado sono protagonisti, sia per peso ed influenza storico-politica nelle relazioni internazionali, sia per il ruolo che ricoprono a livello regionale medio-orientale.

Il percorso storico

Le origini nucleari dell’Iran risalgono al periodo della reggenza monarchica di Reza Pahlavi, quando correvano buone relazioni con l’amministrazione americana e nella visione kissingeriana l’Iran era una pedina spendibile in chiave antisovietica.

Nel ’76 il presidente Ford autorizzava lo Scià all’acquisto e all’utilizzo di tecniche innovative ai fini dell’estrazione e della lavorazione del plutonio, mentre nel ’78 si formulava l’accordo Washington-Teheran sull’energia nucleare e per la cooperazione nella ricerca dei giacimenti di uranio, con General Electric e Westinghouse in gara per la vendita e la costruzione dei reattori.

L’iniziativa delle compagnie americane (ma contratti furono stipulati anche con francesi e tedeschi) era affiancata da quella del Pentagono per la vendita di armi ed equipaggiamenti per esercito e polizia iraniane in cambio di forniture di petrolio.

L’avvento del khomeinismo mutò anche in questo campo il quadro delle relazioni.

Teheran provò a giocare una carta di riavvicinamento con partners occidentali per la costruzione di nuovi reattori alla fine del conflitto con l’Iraq, trovando però spazio solo sull’altro fronte, quello russo.

Nel corso degli ultimi anni è maturata tanto un’accelerazione iraniana sul programma nucleare, quanto una radicalizzazione americana nella considerazione strategica mediante l’elaborazione nel 2002 dell’asse del Male Iran-Iraq-Corea del Nord, anno in cui i russi cominciano la collaborazione per il sito nucleare di Bushehr sul suolo iraniano.

Seguirà, come si verifica tutt’oggi, un continuo incrocio di dichiarazioni d’intenti, minacce, controlli, trattative e rimandi tra Teheran, l’Aiea e in primis USA, Francia e Gran Bretagna.

La fase più tormentata si sviluppa a partire dal 2005, quando il presidente Bush, dopo la vittoria di Ahmadinejad, ricorda che di fronte ad una minaccia nucleare “nessuna opzione è esclusa, compresa quella della forza”, mentre Washington Post e The Nation sostengono che il piano d’attacco all’Iran elaborato dallo Strategic Command prevede l’uso di armi convenzionali e nucleari su oltre 400 obiettivi.

Di rimando, il presidente Ahmadinejad, all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, proclama che l’Iran non rinuncerà a produrre energia nucleare per scopi civili usando uranio arricchito, prerogativa riconosciuta dal Tnp firmato nel 1974, che permette ai paesi membri di costruire sotto tutela internazionale impianti che comprendano tutte le fasi del ciclo del combustibile nucleare, compreso l’arricchimento. Teheran vuol mostrare anche una garanzia “interna”, ovvero il divieto sancito per il proprio governo di intraprendere attività nucleari nel settore militare.

Attualmente, gli impianti dispiegati sul territorio sono quello di Natanz per l’arricchimento dell’uranio, di Esfahan per la riconversione e la purificazione dell’uranio naturale, di Arak per la produzione di acqua pesante per un reattore di ricerca, di Anarak per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi, e quello di Bushehr di costruzione russa, ancora da ultimare.

Tali impianti – non tutti completati o a pieno regime – sono stati dichiarati all’Aiea, ma le rilevazioni di intelligence israelo-americane mirano ad avvalorare l’ipotesi di impianti clandestini atti a supportare un progetto di tipo militare. E siffatte rilevazioni costituiscono un’arma di pressione mediatica ancor prima che diplomatica.

Ad oggi la risultante dell’operato del 5+1 racchiuso nella formula carrot and stick consiste nel tris di risoluzioni 1737 e 1734 del 2006 e 2007 più la 1803 del 2008, in seno al Consiglio di Sicurezza Onu (nei dettagli qui http://www.exportstrategico.org/iran.htm).

Il nodo politico-giuridico

Un fattore cruciale al centro dell’odierno dibattito è il rapporto che intercorre tra lo sviluppo nucleare di tipo civile e la possibile conseguente opzione di tipo militare da parte di Teheran, parallelamente alla volontà degli altri Paesi interessati di acconsentire o meno ad un programma nucleare tout court.

Uno sviluppo pacifico, come in linea di diritto è sancito, dovrebbe essere accettato purchè adeguatamente circoscritto e monitorato onde impedirne sbocchi militari ai sensi del Trattato di non proliferazione.

Tuttavia, in termini più concreti e realistici, – esulando dalle questioni strettamente di diritto e considerando l’uso che di esso si fa nell’azione politica internazionale ove contano le maggiori posizioni di forza – l’uso civile stesso del nucleare da parte di Teheran, prodromo ad una svolta energetica più autonomista, è già di per sé motivo di attenzione e di scelte da operare, sulla base della considerazione che esso costituirebbe un volano per un più importante sviluppo dell’Iran sul piano economico con conseguenti risvolti sul piano politico.

Di qui, il focus sulla prospettiva dell’uso militare, per quanto non immotivato o secondario, non è nel breve termine il principale motivo del contendere, ma semmai un elemento nel dibattito strategico di medio-lungo periodo non solo dell’Iran stesso, ma anche delle altre potenze.

Al centro non c’è l’intenzione di scoprire quanto manca alla bomba, ma di registrare a che punto sia il programma di elaborazione nucleare.

Allo stato attuale delle cose, Stati Uniti ed alcuni Paesi europei sono diplomaticamente attivi nell’impedire che questo prosegua, sulla scorta di considerazioni sia politiche che strategiche, mentre l’Iran è deciso a portarlo avanti poichè esso rispecchia un suo legittimo diritto.

Ecco dunque che – per quanto il tutto oscilli tra risoluzioni, norme e fattori di ordine squisitamente politico – il dato che si registra evidenzia che se da una parte si assiste alla messa in opera del processo necessario per l’utilizzo dell’uranio da parte degli Iraniani, dall’altra si sospetta si stiano conducendo delle “attività segrete” per scopi militari, alla luce anche dell’ultimo rapporto dell’Aiea.

Di qui, appare ai più evidente che l’attuale fase diplomatica stia scavalcando la distinzione tra uso civile e uso militare per focalizzarsi essenzialmente su un Si o su un No al programma nucleare. Il responso, nella sua essenza, maturerà a prescindere da valutazioni tecnico-scientifiche e verterà su orientamenti prettamente politici, rispetto a cui trattati o risoluzioni fungeranno da corollario.

Il tutto, al vaglio di un approccio scevro da ideologismi e forzature distorsive, evidenzia in fin dei conti che il fattore bomba è irrilevante a fronte di quello che in realtà è il vero fattore imprescindibile: il ruolo geopolitico di Teheran.

Il Tnp (Trattato di non proliferazione nucleare) -nei suoi capisaldi di disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare e nel riconoscimento dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) quale organo di monitoraggio delle attività e dei trasferimenti di tecnologie- è ciò a cui fa riferimento il 5+1 (Usa, GB, Francia, Russia, Cina + Germania) nel condurre le trattative e ciò attraverso cui l’Iran deve muoversi per legittimare il suo programma, in stretta collaborazione con l’Aiea.

Ma il Tnp si presta ad una serie di considerazioni sia tecniche che politiche tali da non renderlo, da solo, risolutivo della disputa sul nucleare iraniano, sia per una serie di buchi e inadempienze rispetto a determinate norme, sia per le scelte dei vari Paesi che rientrano nelle loro specifiche strategie politiche.

Di fatti, alcuni punti sono oggetto di argomentazioni critiche, specie da parte di Paesi non nucleari ma, si badi bene, in particolar modo da parte dei due rivali dichiarati, Iran e Israele:

  • gli Statunitensi e i Cinesi non hanno ancora provveduto alla ratifica del Ctbt (Comprehensive Test Ban Treaty) per la messa al bando degli esperimenti atomici, a differenza di Gb, Francia e Russia;
  • l’art. 6 Tnp prevede che le nazioni in possesso di armi nucleari si adoperino contro la corsa agli armamenti e per un processo di smantellamento totale degli armamenti. Ciò non sembra trovare effettiva applicazione, anche in considerazione degli accordi USA-Russia, i quali vertono su di una riduzione significativa ma non ne intaccano la dotazione in misure considerevoli;
  • il valore simbolico e l’assenza di implicazioni giuridiche delle c.d. “garanzie negative relative alla sicurezza”, cioè l’impegno formale delle nazioni nucleari firmatarie di non ricorrere all’utilizzo di ordigni atomici tra di loro e nei confronti delle altre confirmatarie che non ne sono in possesso. Qui, vi è discrepanza tra le dichiarazioni formalizzate e i contenuti delle attuali dottrine militari;
  • lo scarso impegno delle potenze atomiche per l’estensione generalizzata del regime di non proliferazione. Tre Stati nucleari quali India, Pakistan e Israele stesso sono tutt’ora fuori dal Tnp e i presupposti perché ci entrino sono ad oggi assenti.

Sulla base di tali rilievi – nello squilibrio esistente tra Paesi legibus soluti, extra legem e contra legem -, quanto legittima risulta la posizione impeditiva e sanzionatoria nei confronti del programma nucleare di Teheran?

Risulta, invece, quanto il Trattato sia incongruente e obsoleto alla luce delle mutate relazioni internazionali.

Esso fu elaborato nell’ottica di una concezione verticale secondo la quale le potenze nucleari dovevano rimanere tali mentre quelle che non lo erano dovevano rinunciare a divenirlo, in cambio semmai di un’opzione di tipo civile-pacifico sotto rigido monitoraggio internazionale. Di non poco conto, poi, la liberà volontà tanto di aderirvi che di recedervi.

Relativamente al Vicino Oriente, la scelta nucleare della Repubblica Islamica rischia di rompere uno schema che sino ad oggi le grandi potenze hanno creduto di poter mantenere: i Paesi detentori di petrolio non necessitano di energia atomica, quelli che non ne hanno mancano però pure dei mezzi atti all’implementazione delle centrali e del ciclo produttivo.

Sotto il profilo militare poi, il diniego ad armi atomiche si baratta con le forniture di armi convenzionali. Dunque, il nucleare per nessuno salvo che per Israele, per il quale vige uno status di eccezionalità in virtù delle note posizioni occidentali.

Se gli Iraniani dovessero raggiungere il traguardo, un effetto domino metterebbe in discussione gli equilibri regionali con ripercussioni anche nelle strutture economiche e nei rapporti di cooperazione tra gli Stati, tanto più che la materia del nucleare, data la sua valenza strategica, esula dalla logica del libero mercato e costituisce uno strumento politico-statuale, con il ruolo preminente dei gruppi del settore e i loro relativi schemi di penetrazione e influenza.

Il presidente americano Obama sembra sia intenzionato ad un riassetto del Tnp, il che presupporrebbe un riposizionamento che non potrebbe non considerare a questo punto, nella regione mediorientale, la relazione che intercorre tra l’Iran stesso e Israele.

Va da sé che la nebulosa atomica di Tel Aviv rimane una discriminante, a meno di non volerle continuare a riconoscere i caratteri di “legittima eccezionalità”, nonostante ad esempio la risoluzione 487 del Consiglio di Sicurezza delle N.U.

Gli oppositori del nucleare iraniano agitano il sospetto che Teheran –che non ha sottoscritto un protocollo ad hoc aggiuntivo al Tnp- possa condurre il proprio programma ai sensi del Trattato, per poi uscirne una volta conseguiti mezzi e know-how e così perseguire autonomamente fini militari.

Gli iraniani potrebbero avallare la legittimità delle loro scelte in entrambe le direzioni esse si volessero compiere. Il progetto a scopo pacifico – diritto riconosciuto – troverebbe fondamento giuridico e attuazione tecnica nel solco del quadro normativo internazionale (Tnp e affini).

Ma, a fronte di un persistente squilibrio internazionale -connesso ad autonome strategie nazionali- nella fabbricazione e detenzione di ordigni atomici, essi potrebbero trovare politicamente fondato (magari uscendo dal Tnp stesso) un progetto a scopi militari tale da porli fuori da un effettivo stato di subordinazione rispetto ai contendenti geopolitici, Israele innanzitutto.

In linea generale, un rilancio del Tnp o una sua più coerente riproposizione indurrebbero ad un gioco ”a carte scoperte”. Ma gli israeliani non hanno alcuna intenzione di rinunciare ad un elemento fondamentale della loro strategia difensivo-espansionistica quale appunto l’esclusiva sulla deterrenza nucleare, punta di diamante per un ruolo egemone nell’area.

Siamo praticamente alla teoria dei giochi ma a partire da una situazione di non parità.

La partita nucleare, può dirsi, consta di due fasi.

La prima è quella attuale, vale a dire quella della transizione verso l’energia o l’arma, a seconda dei punti di analisi. I partners occidentali vorrebbero vincere già qui.

La seconda è quella dell’effettivo raggiungimento o possesso del nucleare.

Volendo prestarsi all’ipotesi della detenzione dell’arma come scenario plausibile, se da un lato risulterebbe concreto ciò che ora non è, cioè il rischio di un conflitto atomico, dall’altro verrebbe a formarsi un equilibrio della deterrenza reciproca, il che esorcizzerebbe prese di posizioni estreme degli attori, anche perché in campo nucleare le dichiarazioni ideologiche sono depotenziate dinanzi alla teoria del first strike, cioè del primo colpo capace di essere devastante al punto da rendere impossibile una reazione/rappresaglia.

In questo scenario “del terrore”, la deterrenza manterrebbe eventuali conflitti ancora sul binario convenzionale o comunque asimmetrico.

Le pressioni israeliane e statunitensi (corroborate da quelle europee), nonostante l’evidenza delle rilevazioni ufficiali non delinei un quadro allarmistico e di acclarate violazioni, stanno mirando alla creazione di un’emergenza internazionale nei confronti della Repubblica Islamica mediante il ricorso a:

  • scrupolosa gestione mediatica degli eventi interni ed esterni
  • abile inserimento nelle vicende di potere
  • supporto in varie forme ai contrasti sociali
  • fervente attività di intelligence
  • pressioni economico-finanziarie, sia quelle estemporanee e dirette come le sanzioni, sia quelle più ampie e complesse che potrebbero definirsi “sistemiche”, in quanto direttamente legate al peso e all’influenza nelle dinamiche internazionali
  • pressioni di ordine politico-diplomatico su Paesi, organismi ed istituzioni.

Questa linea di condotta naturalmente –lo si accennava prima- sottende implicazioni prettamente politiche che travalicano gli aspetti negoziali sul nucleare.

Dunque, l’impasse, nell’altalenante stop and go circa le attività di arricchimento, risente di oggettive difficoltà dovute a:

  • la non netta individuazione della natura nonchè precaria definizione dell’oggetto stesso del negoziato
  • un quadro normativo intricato e incongruente (come nel caso del rapporto tra Tnp e Safeguards Agreement)
  • ambiguità a lungo termine delle proposte della comunità internazionale sulle ipotesi di programma, e rifiuto nel breve di quelle avanzate da parte iraniana
  • reciproche diffidenze
  • incertezza circa la collocazione di Teheran sullo scacchiere internazionale.

Aspetti economici e sanzioni

L’Iran è tra i massimi detentori ed esportatori mondiali di riserve di petrolio e gas, ma registra una scarsa capacità di raffinazione che comporta un’alta percentuale di importazione di benzina rispetto al 70% delle proprie esportazioni che riguardano appunto il petrolio.

Sopporta un notevole costo di produzione e un forte deficit di energia elettrica tali da motivare la scelta del nucleare. Sulla tenuta economica del Paese gravano diverse difficoltà interne che sono nelle mire stesse del regime sanzionatorio applicato.

Ma al centro di un nuovo pacchetto di sanzioni potrebbe esserci il traballante sistema creditizio con un peso di ben 48 miliardi di dollari di prestiti non onorati, circa il 25% del totale dei prestiti emessi, che rappresentano circa il 20% del totale delle disponibilità bancarie.

Il basso costo del denaro, fortemente voluto dal governo, è un motivo di attrito con la banca centrale. Il tasso d’interesse nominale è al 12%, il tasso d’inflazione sfiora il 30%, scarso è l’incentivo al risparmio, mentre si tenta di stimolare le rendite finanziarie con la possibilità di giocare tra il tasso praticato dalle banche e quello dei mercati non ufficiali.

La liquidità facile ha reso possibile bolle speculative nel settore immobiliare in Iran come a Dubai –dove gli iraniani esercitano cospicue attività- e sembrerebbe che l’intervento di Abu Dhabi nei confronti di quest’ultimo sia stato influenzato da Washington in direzione contraria agli interessi di Teheran.

Secondo indiscrezioni, la bozza elaborata nell’ultimo giro di consultazioni chiederebbe una vigilanza rafforzata sulle transazioni legate alla banca centrale e di imporre restrizioni a nuove banche iraniane all’estero, una misura che potrebbe ostacolare un eventuale tentativo di Teheran di superare la stretta sulle transazioni con le istituzioni finanziarie iraniane creandone di nuove.

Finora Russia e Cina hanno continuato un prolifica collaborazione con l’Iran, di cui sono fondamentali fornitori di armi e partners commerciali, e non hanno mostrato cedimenti sostanziali di fronte alle pressioni americane, ribadendo la priorità della via diplomatica e bocciando la discriminante di un inasprimento delle sanzioni. L’asse non vacilla, sembrerebbe.

E’ una fase in cui il cosiddetto dialogo serve a studiare le mosse e a prender tempo.

Ma proprio la variabile tempo potrebbe giocare a favore degli Statunitensi: la crisi economica, il deficit energetico, le turbolenze interne al’apparato di potere e ad una parte della società iraniana, le manovre esterne, ancor prima di eventuali nuove sanzioni, potrebbero costringere Teheran ad un logorio tale da inchiodarla all’impasse sul programma nucleare, inducendola, quindi, a cedimenti. Washington, a quel punto, da una maggiore posizione di forza, potrebbe stringere la morsa.

* Alfredo Musto, dottore in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università La Sapienza di Roma), collabora con “Eurasia” e “Africana”



Il sistema sanitario in Iran
di Pascal Sacré - www.mondialisation.ca - 24 Febbraio 2010
Traduzione a cura di S. Sorokin www.comedonchisciotte.org

Dietro la propaganda mediatica un´altra immagine dell´Iran

Da diversi anni l´Iran è oggetto di denigrazione agli occhi del pubblico occidentale mentre il suo governo, attraverso la figura del presidente Ahmadinejad, viene sistematicamente demonizzato.

Il primo a spingere al parossismo questa retorica offensiva nei confronti dell´Iran è stato il governo di George W. Bush, ben noto per il suo “rispetto per i diritti dell´uomo e della libertá di espressione” (1), per la sua “lotta contro la tortura e le ineguaglianze” (« Kidnappés par la CIA, les charters de la torture », a cura di Trevor Paglen e A.C. Thompson, edizioni Saint-Simon), per la sua “etica elettorale” (hacking democracy) e per il suo “attaccamento alla trasparenza e alla verità”: falsi pretesti ( 2)

Con lo slogan neocon di Asse del Male (Axis of Evil) l`Iran è stato «pubblicizzato» in tv, nei telegiornali e sui giornali come uno stato canaglia, etichettato così dal paese che conta il maggior numero di prigionieri al mondo, 2,3 milioni ( 3) ( in pole position rispetto alla Cina).

Da allora in poi questa immagine distorta di un Iran terrificante è profondamente ancorata e impressa nell`animo di numerosi occidentali.

Il contenzioso tra Stati Uniti e Iran risale sicuramente all`occupazione dell`ambasciata americana a Teheran, nel 1979, che causò la rottura dei rapporti diplomatici tra i due paesi. La qual cosa tuttavia non impedì a Ronald Reagan di vendere armi all`Iran per finanziare i contras in Nicaragua ( Irangate). In ogni caso...

Prima di questo, rovesciando per ragioni di nazionalizzazione del petrolio iraniano Mossadeq, eletto nel 1953, Washington e la CIA hanno permesso, e sostenuto, quaranta anni di dittatura dello Shah Phalavi, un regime molto poco compatibile con la libertà di espressione e con i diritti umani, senza che questo scatenasse, al contrario di oggi, le grida indignate di filosofi, politici e media occidentali.

Questi ultimi, che all'epoca non avevano niente da ridire della Savak e delle terribili torture della polizia segreta dello Shah, oggi mal sopportano gli eccessi dei Guardiani della Rivoluzione.

In seguito, elezioni definite come truccate (senza uno straccio di prova), frasi mal tradotte ( 5), un programma nucleare presentato come avente fini bellici, repressioni di manifestanti e oppositori qualificate come bagni di sangue, un supposto antisemitismo insopportabile, hanno concorso a rafforzare l`immagine diabolica del governo iraniano al punto che oggi, per l`Occidente, esso incarna il Male Assoluto. La sua posizione non è più dentro l`Asse del Male del «pacifico» Bush, esso è il Male.


Una delle cartine che ci mostra un Iran nucleare, pieno di centrali atomiche… Possiamo lasciargliene una, se ci prendiamo tutte le loro case di cura ?

Sono state ripescate poi, in maniera opportuna, immagini di un governo intollerante che opprime il suo popolo e le sue donne a colpi di manganello, che confonde politica e religione e per il quale l`arresto e la tortura hanno preso il posto del dialogo e del dibattito critico, così «cari» agli occidentali.

Conoscete il sistema sanitario iraniano?

Secondo l`Organizzazione Mondiale della Sanità, questo sistema ha permesso di ridurre del 70 % la mortalità infantile in questo paese, l'Iran Islamico, nel corso di trent`anni. ( 7).

Il Dottor Aaron Shyrley, primo pediatra di colore nel Mississipi del 1965, lo conosce bene il modello iraniano, e a settantasette anni, vorrebbe importarlo nel delta del Mississipi, dove il tasso di mortalità infantile è il più alto degli Stati Uniti ( 50% in più rispetto alla media nazionale) e dove l`aspettativa di vita è la più fragile del paese. Aaron, assieme a due colleghi, ha trascorso dieci giorni in Iran nel Maggio 2009.

Nell`Ottobre del 2009 sono stati quattro medici iraniani, di cui uno membro del Ministero della Sanità, a trascorrere una settimana nel Mississipi. C'è una certa morale in questa storia di cui nessuno parla sui grandi network della televisione occidentale.

Quella di un pediatra di colore che ha subito durante la sua militanza per i diritti civili le violenze da parte della polizia, che ha contribuito alla creazione del più grande centro comunitario di sanità dello Stato, e che ha accolto degli iraniani nel profondo Sud al fine di ispirarsi al loro sistema di accesso alle cure mediche: che lezione per tutti i filosofi, filantropi e politici che abbaiano sull`Iran e che gettano letame su questo paese.

Malgrado la quantità di milioni di dollari iniettate dal governo federale, pochi sono stati i riscontri nella diffusione delle cure mediche basilari. L`Iran conta 17000 case di cura, dei dispensari rurali che impiegano addetti locali alla sanità.

A tutt`oggi oltre il 90% dei 23 milioni di iraniani che risiedono in aree rurali hanno accesso alle prestazioni sanitarie grazie a questo sistema, secondo i responsabili, e in modo gratuito (8).

Senza che questo trovasse eco nei media occidentali interessati a parlare dell´Iran solo quando c´è la possibilitá di dirne male, senza grande clamore Stati Uniti ed Iran hanno dato discretamente il loro sostegno all´iniziativa proposta nel delta, dove la maggior parte della popolazione è di colore.

L´Istituto nazionale della sanità ( National Health Institute) americano ha a sua volta dato la propria approvazione, come conferma un testo pubblicato sul sito internet dell´istituto: Il notevole successo dell´idea iraniana di case di cura […] apporta speranza e ispirazione alle autoritá del delta del Mississipi» (9).

Durante la visita in Iran il dottor Aaron Shirley, il pediatra di colore che ha ideato il progetto ha dichiarato, ridendo: «Mi sono sentito piú sicuro in Iran che nel Mississipi degli anni 60».

Gli iraniani che sono andati in America invece hanno avuto uno shock, constatando l´immensa povertà dell´America rurale quando sono arrivati a Baptist Town, un dedalo di vie fangose, terreni abbandonati e baracche incuneate tra due binari e un acquitrinio. Niente scuole, niente cliniche, nessun centro comunitario.

Il Dottor Shirley recentemente ha fatto visita al congresso, a Washington, assieme ad un collega, per raccogliere fondi al fine di aprire delle case di cura di tipo iraniano a Baptist Town, alla periferia di Greenwood, e in altre quattordici zone del delta del Mississipi.

Il progetto del Mississipi mira a formare del personale medico ausiliario, poi ad inviarlo porta a porta per dispensare cure di base, come misurare la pressione arteriosa, o per delle profilassi di tipo igienico.

Per le cure più specialistiche, i pazienti continueranno ad essere indirizzati nelle cliniche e negli ospedali, e in seguito avranno la possibilità di essere seguiti a domicilio, al momento dell`avvio delle case di cura create nelle vicinanze (10), ispirandosi al sistema iraniano.

Il modello iraniano per salvare dalla morte dei bambini statunitensi che i milioni di dollari federali non arrivano a mettere al riparo dalla malattia e dalla miseria, che ironia, no?

Mentre gli Stati Uniti sperperano dei trilioni di dollari nelle loro guerre mondiali, all`estero, per dominare e saccheggiare il pianeta, i media e i grandi network americani sanno parlare solo dell`Iran demoniaco e tirannico.

Non se ne abbia a male Shimon Perez che dichiara che “l`Iran è un pericolo per il mondo” (11), esso è comunque un modello, per gli Stati Uniti in primis.

Durante le sue visite al Congresso il dottor Shirley avrebbe dovuto cercare di farsi ricevere dal presidente, e dirgli due paroline di tutto questo.

Nel delta del Mississipi è probabile che gli statunitensi vedano l`Iran in modo diverso rispetto al resto del mondo occidentale.

Note :

(1) Lynne Stewart in prigione: Quando la giustizia deraglia http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=16254
(2) http://www.liberation.fr/monde/010123608-les-935-mensonges-de-l-administration-bush-sur-l-irak
(3) http://www.legrandsoir.info/Crise-systemique-le-chaos.html
(4) La Gran Bretagna, gli USA e Israele creano il SAVAK, http://www.voltairenet.org/article15130.html
(5) Allusione al fatto che Ahmadinejad avrebbe affermato di augurarsi la scomparsa di Israele dalle mappe, mentre l'ONU ha confermato che la traduzione di questa frase di Ahmadinejad è erronea, dato che ha detto: «L'Imam ha detto che questo regime che occupa Gerusalemme deve scomparire dalla pagina del tempo ».
(6) 20 000 ebrei vivono in Iran, ben integrati, senza subirvi oppressioni da parte del regime.
(7) http://www.who.int/whr/2008/media_centre/iran_fr.pdf
(8) Op. Cit.
(9) Iran’s health houses provide model for Mississippi Delta, (in inglese) : http://www.fic.nih.gov/news/publications/global_health_matters/2009/1209_health-house.htm
(10) http://www.courrierinternational.com/article/2010/02/11/le-mississippi-seduit-par-le-modele-iranien
(11) http://www.alterinfo.net/Perez-L-Iran-cherche-a-prendre-le-controle-du-Moyen-Orient_a41922.html


Meglio tardi che mai
di Gianluca Freda - http://blogghete.blog.dada.net - 18 Marzo 2010

Anche in Iran si stanno finalmente accorgendo – con qualche mese di ritardo – della clamorosa truffa del “video di Neda”, che tanto scalpore suscitò nel giugno scorso.

Il video della “morte” della ragazza iraniana, pacchianamente fasullo e realizzato con immensa sciatteria, era parte integrante della strategia di destabilizzazione della Repubblica Islamica predisposta dai servizi d’intelligence israeliani e americani nel tentativo di delegittimare la rielezione di Ahmadinejad e provocare un cambio di regime nel paese.

I media occidentali hanno dato ampio risalto al finto “martirio” della giovane attrice, martirio che potrebbe tornare assai utile per garantire il consenso dei telepecori dell’ovest ad un eventuale attacco militare contro l’Iran (attacco che fortunatamente sembra farsi sempre meno probabile). Ancora qualche giorno fa, il TG3 ha dedicato alla vicenda un servizio grondante retorica, scempiaggini e retinopatie, nella miglior tradizione dell’informazione nazionale.

I due video qui sotto fanno parte di una serie di cinque filmati pubblicati sul sito iraniano www.aviny.com e segnalatimi da un lettore, che ringrazio.

Sono in lingua farsi, che non sono in grado di tradurre, ma dalle immagini risulta evidente che in Iran si stanno finalmente rendendo conto delle stesse anomalie che avevo segnalato su questo sito nove mesi fa (la fialetta di liquido rovesciata sul volto della ragazza, il “soccorritore” che inspiegabilmente si “immobilizza” per consentire al collega col telefonino di riprendere il grandguignolesco primo piano della ragazza, ecc).

Unica nota: nel secondo video compare purtroppo anche un errore, lo stesso che avevo commesso io nei giorni immediatamente successivi alla diffusione del filmato.

Vengono paragonate tra loro le tracce di sangue presenti sul volto della ragazza nei due video per evidenziarne la diversità e sostenere che si tratti di un’elaborazione con Photoshop.

Magari questi cialtroni sapessero usare Photoshop! In realtà le tracce di sangue sono diverse semplicemente perché le immagini raffrontate sono state riprese ad alcuni secondi di distanza l’una dall’altra.

Niente Photoshop, solo una pietosissima e ruspante messinscena nella quale Arash Hejazi (noto titolare di una casa editrice iraniana d’opposizione, con contatti con l’intelligence occidentale, fuggito precipitosamente all’estero subito dopo la pubblicazione online del video) schiaffa sul viso della ragazza un contenitore pieno di liquido rosso.

Una sciatteria che è caratteristica delle operazioni di propaganda dei servizi segreti, un vero e proprio marchio di fabbrica. Chi progetta queste recite è evidentemente convinto che il pubblico si berrà qualunque lacrimosa fandonia, per quanto realizzata coi piedi. Pare che, in fondo, non abbia poi tutti i torti.