Il Burkina Faso invece ha preso decisioni opposte...
Il fisico Luigi Sertorio, assieme al collega Guido Cosenza e a Giulietto Chiesa, ha scritto un libro intitolato significativamente La Menzogna Nucleare. Il testo critica con serrate argomentazioni l'intento del governo di costruire nuove centrali, un altro tipico caso in cui la "politica del fare" si presenta in realtà come una corsa affaristica dispendiosissima, tecnologicamente ed economicamente insensata. Nell'articolo, Sertorio riprende alcuni argomenti chiarificatori sulla questione nucleare in Italia.
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Poiché l'alimentazione elettronucleare civile italiana non è la continuazione di una realtà esistente, ma è una novità, il governo dovrebbe elaborare uno studio programmatico e sottoporlo alla discussione del Parlamento che a sua volta dovrebbe interloquire con tutti i cittadini.
Tuttavia il presente Parlamento è stato votato prima che il tema nucleare, che viene presentato non come idea teorica ma come pretesa esecutiva, saltasse fuori: ne segue che la dinamica dell’informazione su un problema così importante è anomala.
Il progetto nucleare italiano ha implicazioni decisionali immediate, ha implicazioni di strategia economica a lungo termine, e infine implicazioni tecnico-scientifiche su un intervallo di tempo di imprecisata lunghezza.
Osserviamo che queste tre fasi, inesplorate per l’Italia, sono all’opposto ben note e fanno parte della storia degli ultimi sessantasette anni per gli Stati Uniti. E’ necessario ricordare queste tappe essenziali.
- Il progetto Manhattan, 1943-45, frutto di circostanze scientifiche favorevoli e decisioni immediate, segretissimo, e mastodontico come impegno tecnologico e organizzativo, culminato con Hiroshima e Nagasaki.
- Il periodo della guerra fredda, 1945-91, dominato dalla produzione industriale di bombe nucleari, sommergibili nucleari e, in misura minore, di centrali elettronucleari civili. Naturalmente queste produzioni su larga scala nell’arco di tempo di oltre mezzo secolo hanno visto il succedersi di diverse generazioni di aggiornamenti tecnologici.
- Il problema aperto delle scorie nucleari. Anche qui segretezza alla sorgente e assenza di informazione alla base dei cittadini. Esiste il deposito di Yucca Mountain in Nevada? Quale capienza ha (quella presente e quella futura)? Quanti e dove sono i sommergibili nucleari dismessi (quanti sono attivi, quanti programmati)?
Quante e dove sono le bombe nucleari dismesse (quante attive, quante programmate)? Tutte le filiere dei cicli nucleari, incluso ovviamente il nucleare civile, finiscono a Yucca Mountain? Sappiamo che la risposta è no. Quali altri siti sono implicati?
Il progetto nucleare italiano è piccolino e palesemente non autonomo. L’Italia non fa parte del club nucleare del quale i membri più importanti sono USA, Russia, Inghilterra, Francia, Cina. Tra questi paesi esistono contrasti passati e presenti.
In tale dinamica l’Italia dal 1945 a oggi è stata implicata solo con un ruolo passivo. In conclusione i cittadini intelligenti dovrebbero porsi queste domande: “perché si propone questa visione del futuro del paese, da che radici parte, verso quale direzione si muove? “
Per rispondere a queste domande dobbiamo affrontare una analisi articolata su tre punti: scelte, spese, responsabilità.
Scelte
Quale è il panorama sociale ed economico al quale si riferisce l'alimentazione energetica elettronucleare? L'energia entra nella vita domestica, nei trasporti, nella produzione di beni semipermanenti o di consumo, in un mix che oggi è il risultato della crescita, mai veramente pianificata con una visione a lungo termine, avvenuta dopo le distruzioni materiali e morali della guerra, ossia il periodo che parte dal 1945.
Le vicende caratterizzanti la vita economica e sociale dell’Italia dopo la sconfitta della guerra non si articolarono per scelta politica libera, autonoma, ma per assoggettamento all’esorbitante superiorità militare e industriale del vincitore, l’America, che plasmava le relazioni e gli scambi di tutta la metà occidentale dell’Europa, quella raccolta sotto il trattato Nato e contrapposta all’altra metà appartenente al Patto di Varsavia. Sistemi economici e politici molto diversi anzi contrapposti in una guerra subdola e nascosta, la guerra fredda.
In generale possiamo dire che per l’Italia l'alimentazione energetica è stata basata sul petrolio, le fabbriche sono state inventate e sono state indirizzate a produzioni tutte basate sul petrolio, che veniva e viene fornito da poche sorgenti esterne al nostro paese. L'Italia in tutto questo periodo evolutivo ha importato la grande maggioranza dell'energia primaria.
E’ chiaro che l’assetto economico energivoro faceva molto piacere alle compagnie petrolifere americane, così come è chiaro che le iniziative autonome di Enrico Mattei furono sgradite, considerate sovversive e fermate non con le parole ma coi fatti.
Nel regime ipotetico in cui ci fosse una importante presenza dell'energia nucleare l'alimentazione sarebbe ancora più rigida e centralizzata e si aumenterebbe ancora di più l'allontanamento da un modello di vita collettiva del tipo ad alimentazione energetica diffusa, una dinamica sociale a rete anziché a polo erogatore.
Anche nel progetto nucleare l'Italia importerebbe energia primaria da sorgenti esterne e inoltre si orienterebbe verso un processo di erogazione e distribuzione poco flessibile.
Quale è la valutazione fornita dal governo sul futuro del paese che porta alla preferenza per la erogazione di energia nucleare estero-dipendente rispetto alla erogazione di energia diffusa, basata sulle risorse proprie del nostro territorio?
Ci possono essere ottime ragioni per la preferenza nucleare, ma ci può essere totale assenza di analisi progettuale su tale dilemma: la esposizione dei motivi della scelta è obbligatoria.
Oggi in Italia non esiste l'alimentazione nucleare, ed esiste una piccola penetrazione della tecnologia di alimentazione solare nelle sue tre forme o canali inorganici: termico, elettrico, eolico. Poi ovviamente c'è il canale organico o biologico, il cibo, quello tradizionale noto e sfruttato da sempre.
Peraltro, il trasporto dei generi alimentari a lunga distanza è basato sull'uso di mezzi energivori (tutti a loro volta basati sulla sorgente petrolio), che si contrappongono alla dinamica di produzione e consumo locale.
La movimentazione dei generi alimentari su lunghi tragitti può essere stata interessante in una certa fase di sviluppo per paesi a bassa densità di popolazione, ma è discutibile per un paese come l'Italia.
L'energia elettronucleare dovrebbe operare nel contesto generale della vita attiva e produttiva dell'Italia e quindi dovrebbe essere giustificata da scelte che tengono conto di varie alternative progettuali.
C'è certamente un dilemma, e dunque la scelta nucleare deve essere discussa molto seriamente e non fatta passare come semplice decisione settoriale. E’ chiaro che il posizionamento dell’Italia nel sistema di alimentazione nucleare globale è assoggettato a un complesso di pressioni esterne e queste non devono restare nascoste.
E' evidente in conclusione che il tipo di società che si configura per il futuro non è lo stesso nel caso nucleare e nel caso solare. Quale futuro a lunga distanza il governo propone? Tale proposta deve essere esposta non solo al Parlamento ma in tutti i canali di discussione democratici.
Spese
Nel progetto nucleare la voce "spese" è peculiare perché implica un mix internazionale, ben diverso dal progetto solare che implica all'opposto un mix locale. Le spese si differenziano in tre fasi: costruzione delle centrali, gestione e alimentazione delle centrali, dismissione delle centrali.
I tempi tipici possono essere nella prima fase dell'ordine di 5 anni, nella seconda fase 50 anni, nella terza fase non si sa, perché l'insieme dei problemi da affrontare è complicatissimo.
A) La fase di costruzione implica sia aziende italiane sia aziende straniere, dove la differenza fra italiano e straniero può essere difficile, non netta, poiché le attività imprenditoriali multinazionali operano su una scacchiera del denaro di tipo globale. Tuttavia un certo flusso di denaro esce dallo stato italiano e tale flusso uscente deve essere documentato e giustificato.
B) La fase di gestione implica l'acquisto del combustibile e la discarica del combustibile esaurito, anno per anno. Tale dinamica sarà operativa per un periodo dell'ordine di grandezza di mezzo secolo.
Quali garanzie sa dare il governo presente sugli aspetti decisionali e burocratici dei problemi che si presenteranno per questo lungo periodo di tempo? Quali enti sono o saranno preposti al controllo di tale dinamica?
Non abbiamo in Italia alcuna esperienza per una gestione così importante per un tempo di tale durata. Non si parla di progetto (che può essere comprato da un ente straniero ben collaudato), ma di controllo, due aspetti ben distinti della realtà, persone e strutture gerarchiche diverse.
Un paragone potrebbe essere fatto con la costruzione e la gestione di grandi dighe e relativi bacini idrici artificiali. In questo caso l'esperienza italiana è stata tormentata e negativa, ingegneri progettisti bravi, valutazioni geologiche cattive, dialogo fra il calcolo scientifico e l’informatica burocratica assente. Un motivo di più per esigere delle garanzie.
C) La fase di dismissione. E' la più complessa, è quella che nessun paese che abbia sperimentato l'avventura nucleare ha saputo risolvere soddisfacentemente. Quando non ci sarà più petrolio chi azionerà i mezzi pesanti necessari per eseguire le opere di bonifica nucleare? Si manterrà attiva una ultima centrale nucleare onde alimentare le opere implicate nella bonifica delle centrali che la precedettero?
Responsabilità
L'assunzione di responsabilità ovviamente vale in tutte le fasi del progetto ma diventa particolarmente importante nella fase finale di dismissione delle centrali. Nessuno dei politici che decidono oggi sarà vivo nel periodo della dismissione.
La dismissione non è un lascito concettuale ma un ben preciso lascito fisico. Ciò che è deciso oggi è la prenotazione di azioni che dovranno essere intraprese fra oltre mezzo secolo.
Il governo attuale pensa di allocare delle risorse socioeconomiche oggi per tale problema futuro? Alternativamente è in grado di dichiarare che ha predisposto un meccanismo automatico o semiautomatico di seppellimento eterno delle centrali a fine vita? Si parlava molti anni fa di meccanismi di autoseppellimento, ma erano considerazioni al livello di fantascienza.
Quale soluzione ha scelto il governo italiano presente? Esistono dei precedenti, nella storia delle nazioni civili, di decisioni che implicano responsabilità alle quali non si può far fronte? Esistono, anche solo in teoria, leggi dello Stato scritte per gestire degli eventi non noti, quindi valide non per oggi ma per il lontano futuro?
Il ministro Scajola non mente sulle discariche nucleari futuribili perché non sa quello che dice, peggio, non può saperlo; però decide, ha il potere di nominare un ente incaricato di individuare i posizionamenti geologici, i metodi di scavo, e così parte una successione di artifici per coprire gli errori e le bugie: e alla fine, chi lo punirà fra cento anni?
In conclusione il problema delle responsabilità è enorme e inesplorato. Nei paesi in cui l'erogazione di energia elettronucleare civile è in opera già da diversi decenni, gli aspetti legali furono relegati alla struttura esistente del sistema assicurativo. Insomma alla legge civile.
Con la comparsa di eventi socialmente dannosi implicanti l'intervento delle compagnie di assicurazione sono nati dei contenziosi che sono tuttora irrisolti. Il Diritto degli stati e il Diritto internazionale sono impreparati di fronte a problemi nei quali le variabili causa, effetto, tempo, quindi i concetti di proprietà e responsabilità, sono mal definiti.
Per questo la tendenza è di sottomettere il nucleare civile al controllo militare, cioè fare tornare il nucleare civile sotto il dominio del nucleare militare, che è la matrice da cui tutta l'industria nucleare è nata e cresciuta a partire dagli anni fra il 1943 e il 1945 sia in USA che in Unione Sovietica. Vuole il governo italiano indirizzarsi su tale strada pericolosissima?
Non ci si muove sul terreno internazionale del potere militare nucleare solamente armati di furbizia, ma privi di forza, anzi essendo storicamente in posizione subalterna alla strapotenza americana.
La militarizzazione dei siti nucleari potrebbe implicare una dipendenza additiva rispetto alla dipendenza puramente economica. Così come l’Italia oggi deve accettare di essere portatrice di alcune fra le più grandi basi militari USA, potrebbe essere costretta ad accettare di essere portatrice di siti di discarica nucleare utilizzati anche da altri Paesi.
Questa prospettiva è di estrema importanza, è difficilissimo valutare ora le conseguenze storiche che possono essere implicate; non si possono tollerare patti internazionali segreti, questo punto deve essere chiarito dal governo, e i cittadini devono studiare, informarsi, e arrivare a creare dei canali intelligenti per pretendere che il governo si esprima con chiarezza su tali problemi.
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L’analisi della prima parte, scelte, spese, responsabilità, si confronta con il vuoto storico dell’Italia nella dinamica industriale nucleare, sia militare che civile. Non fa quindi stupire che il governo attuale non abbia fatto precedere la comparsa delle decisioni sul programma nucleare da una presentazione logica: non esiste, per questo, il fondamento culturale né dalla parte originante né dalla parte della cittadinanza passiva recipiente.
Il dialogo, che dovrebbe essere articolato, è purtroppo limitato in gran parte a due sole voci: l’asserzione autoritaria che le centrali nucleari moderne sono sicurissime, a cui si oppone la conoscenza della gestione clientelare e corrotta della cosa pubblica, di cui tutti i cittadini italiani sono espertissimi, che trasforma la sicurezza in paura.
La sicurezza esiste nel Laboratorio di Los Alamos, sede da sessantasette anni di eccellenza e disciplina, là dove ancora si ricorda il rigore di Oppenheimer, di Fermi, di Bethe, la sicurezza esiste nei libri di fisica e nei manuali della tecnica; la corruzione esiste nel tessuto della nostra società e delle nostre gerarchie. Il risultato del dialogo è zero, e la manovra dei filonucleari improvvisati ha via libera.
In conclusione il programma nucleare del governo italiano è caratterizzato da insipienza e segretezza. Invece vorremmo vedere in azione saggezza e cultura alla guida dei progetti tecnici e industriali, e chiarezza nelle strategie della dinamica della nazione. Ma esistono tali virtù altrove, nel grande mondo che ci circonda?
Limitiamoci a considerare due nazioni, Germania e Stati Uniti. Un buon motivo per limitarci a questa scelta è che la Germania è stata la culla dell’industrializzazione europea basata sulla sorgente fossile carbone già nell’ottocento, e poi anche nazione portatrice della cultura scientifica da cui nacque la fisica nucleare nella prima metà del Novecento; ha qualcosa da insegnarci.
Gli Stati uniti sono cresciuti sul flusso d’alta marea della industrializzazione basata sull’abbondanza della sorgente fossile petrolio e poi sono diventati, a partire dal 1945, la massima potenza nucleare.
Ebbene la Germania è oggi al primo posto nel mondo per la ricerca e sviluppo della tecnologia solare, eolica e da biomassa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la nostra attenzione è polarizzata sulle recenti dichiarazioni del presidente Obama relative al finanziamento statale per la costruzione di “alcune” centrali elettronucleari. Le parole del presidente americano, ad ascoltarle con attenzione, sono un capolavoro di scaltrezza dialettica.
E’ noto che in USA una piccolissima parte della popolazione segue il discorso politico; chi ascoltava il discorso di Obama sul nucleare, e ora chi discute sulle sue parole, è una minoranza di persone letterate, orbene queste persone sono state invitate al dialogo, al dibattito razionale sul dilemma nucleare e ambiente, invitate a pensare alla solidità dell’economia nazionale, all’orgoglio della nazione, al futuro.
Chi segue la stampa americana sa che tale tipo di dibattito è già in corso da tempo e quindi, stimolati dalle parole del presidente, si può continuare a scrivere e parlare e scambiarsi opinioni per tantissimo tempo.
A cosa serve guadagnare tempo? A portare avanti la dinamica industriale nucleare, l’aggiornamento della tecnologia dei sommergibili nucleari, tecnologia per la quale è in atto una transizione evolutiva sia per il normale ritmo industriale di rinnovamento (il ciclo è rozzamente valutabile in dieci o quindici anni) sia per l’innovazione imposta dalla emergenza delle nuove tecnologie russe e cinesi.
Infatti le caratteristiche prestazionali della flotta sottomarina sono intimamente legate alle caratteristiche della tecnologia missilistica - si parla ovviamente di sommergibili portatori di missili balistici.
La ricerca e sviluppo nucleare è realizzata da tre o quattro complessi industriali; si tratta di attività complicatissime che richiedono competenze specialistiche implicanti anni di educazione di fisici, ingegneri, tecnici spesso operanti in simbiosi, ed è proprio da questa realtà che nascono i tempi tipici ciclici dell’aggiornamento della produzione citati prima.
L’America con Truman ha aperto la strada all’era delle armi nucleari prodotte su larga scala, ma la proliferazione tanto temuta dalle persone intelligenti è avvenuta, solo l’ingenuità o l’ignoranza dei politici credeva che le armi nucleari potessero restare un segreto e un privilegio nelle mani del Pentagono. I fisici, a partire da Einstein e Fermi, hanno sempre saputo che non è così, e furono loro gli iniziatori dei ragionamenti sulla logica globale del disarmo. Non ascoltati.
Ora è compito dell’America continuare a gestire, in qualità di nazione più potente, il precario stato di cose dell’armamento nucleare globale. E questo ingrato compito spetta al presidente Obama.
L’Italia si trova a un bivio. Tentare la strada della leadership nella scienza del futuro, l’ecofisica, e nelle tecnologie che ne conseguono, ossia entrare in collaborazione e competizione con la Germania.
Questa sarebbe la decisione orgogliosa, nella tradizione dell’eccellenza che avevamo nell’era di Edoardo Amaldi, quando le nostre università erano alla frontiera della fisica delle alte energie, dell’astrofisica.
In senso profondo l’ecofisica è nella filiera di questa grande matrice di pensiero. Oppure seguire la strada del continuo vassallaggio, ora verso l’America, domani non si sa, Arlecchino tende a essere servo di due padroni.
Perché l’Italia non deve tornare al nucleare e deve invece sviluppare le energie rinnovabili
Lettera Aperta
ai candidati alla carica di Governatore nelle Elezioni Regionali
Siamo un gruppo di docenti e ricercatori di Università e Centri di ricerca. In virtù della conoscenza acquisita con i nostri studi e la quotidiana consultazione della letteratura scientifica internazionale, abbiamo già da tempo sentito il dovere di esprimere la nostra opinione sul problema energetico con l’appello riportato sul sito: www.energiaperilfuturo.it.
Poiché le Regioni sono direttamente coinvolte nelle scelte di politica energetica, in occasione delle ormai prossime elezioni vogliamo illustrare anche a voi, candidati Governatori, i motivi per i quali riteniamo che il ritorno dell’Italia al nucleare sia una scelta strategicamente sbagliata e ogni sforzo debba invece essere concentrato sullo sviluppo delle energie rinnovabili.
Una corretta politica energetica deve basarsi anzitutto sulla riduzione dei consumi mediante l’eliminazione degli sprechi e l’aumento dell’efficienza energetica, poi sullo sviluppo dell’energia solare e delle altre energie rinnovabili.
Le Regioni italiane possono e devono giocare un ruolo importante, anche perché la direttiva europea 28/2009 obbliga l’Italia, entro il 2020, a ridurre i consumi, ridurre le emissioni di CO2 e a coprire il 17% dei consumi finali con energie rinnovabili. E’ un percorso virtuoso, nel quale non c’è spazio per il nucleare.
Mentre i costi delle energie rinnovabili scenderanno certamente nei prossimi 10 anni, i costi del nucleare sono per loro natura non ben definiti e destinati ad aumentare, tanto che probabilmente la costruzione delle centrali, se mai inizierà, dovrà essere molto probabilmente sospesa perché fra dieci anni il nucleare non sarà più economicamente conveniente.
In molti paesi d’Europa, Germania in testa, è in atto una silenziosa rivoluzione basata su una filiera che parte dalle attività di ricerca nelle Università, negli enti pubblici e nelle aziende e si estende alla produzione di materiali, alla sperimentazione di impianti su larga scala e all’installazione diffusa di impianti domestici.
L’idea di un abbattimento sostanziale delle emissioni di CO2 e di una forte indipendenza energetica sta, in quei paesi, uscendo dalla dimensione del sogno utopico e entrando in quella di un concreto fattore di sviluppo che traina l’economia e produce posti di lavoro.
L’enorme ulteriore vantaggio di una scelta in favore delle energie rinnovabili sta nel fatto che un euro di investimento oggi può cominciare a produrre energia e a contribuire all’indipendenza energetica in pochi mesi.
Nel caso del nucleare, invece gli enormi investimenti di oggi porteranno a produrre nuova energia nel migliore dei casi tra dieci o quindici anni.
Una politica rivolta allo sfruttamento delle potenzialità del solare e delle altre fonti rinnovabili e alla riduzione razionale dei consumi sarà un motore importante per una nuova fase di sviluppo nel nostro paese.
Nel documento allegato vengono esaminati in dettaglio i motivi per un no al nucleare. Nel chiedervi di aderire all’appello sulle scelte energetiche pubblicato sul sito www.energiaperilfuturo.it che è già stato firmato da più di 2000 docenti e ricercatori e da oltre 8000 cittadini, siamo a vostra disposizione per discutere il problema energetico in modo più approfondito nelle sedi opportune.
Il Comitato energiaperilfuturo.it
Vincenzo Balzani (Presidente), Università di Bologna
Vincenzo Aquilanti, Università di Perugia
Nicola Armaroli, Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna
Ugo Bardi, Università di Firenze
Salvatore Califano, Università di Firenze
Sebastiano Campagna, Università di Messina
Marco Cervino, Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna
Luigi Fabbrizzi, Università di Pavia
Michele Floriano, Università di Palermo
Giovanni Giacometti, Università di Padova
Elio Giamello, Università di Torino
Nazareno Gottardi, già ricercatore dell’EURATOM (Commissione Europea)
Giuseppe Grazzini, Università di Firenze
Francesco Lelj Garolla, Università della Basilicata
Luigi Mandolini, Università “La Sapienza”, Roma
Giovanni Natile, Università di Bari
Giorgio Nebbia, Università di Bari
Gianfranco Pacchioni, Università Milano-Bicocca
Giorgio Parisi, Università “La Sapienza”, Roma
Paolo Rognini, Università di Pisa
Renzo Rosei, Università di Trieste
Leonardo Setti, Università di Bologna
Franco Scandola, Università di Ferrara
Rocco Ungaro, Università di Parma
Allegato
I motivi del no al nucleare
Come è noto, il Governo centrale spinge per il ritorno dell’Italia al nucleare e l’ENEL ha stipulato un accordo preliminare con la ditta francese AREVA per l’acquisto di quattro centrali di tipo EPR da 1650 MW.
Per dar ragione di questa scelta si fa ricorso ad argomentazioni che a prima vista possono apparire fondate, ma che in realtà sono facilmente confutabili sulla base di dati ampiamente disponibili nella letteratura scientifica ed economica internazionale.
Si sostiene che l’energia nucleare è in forte espansione in tutto il mondo, ma si tratta di un’informazione smentita dai fatti.
Da vent’anni il numero di centrali nel mondo è di circa 440 unità e nei prossimi anni le centrali nucleari che saranno spente per ragioni tecniche od economiche sono in numero maggiore di quelle che entreranno in funzione.
In Europa il contributo del nucleare alla potenza elettrica installata è sceso dal 24% del 1995 al 16% del 2008. L’energia elettrica prodotta col nucleare nel mondo è diminuita di 60 TWh dal 2006 al 2008. In realtà, quindi, il nucleare è in declino, semplicemente perché non è economicamente conveniente in un regime di libero mercato.
Se lo Stato non si fa carico dei costi nascosti (sistemazione delle scorie, dismissione degli impianti, assicurazioni), oppure non garantisce ai produttori di energia nucleare consumi e prezzi alti, il tutto ovviamente a svantaggio dei cittadini, nessuna impresa privata è disposta ad investire in progetti che presentano alti rischi finanziari di vario tipo, a cominciare dalla incertezza sui tempi di realizzazione.
Negli Stati Uniti, dove non si costruiscono centrali nucleari dal 1978, il Presidente Obama, nel suo discorso di insediamento ha detto: “utilizzeremo l’energia del sole, del vento e della terra per alimentare le nostre automobili e per far funzionare le nostre industrie”.
La recente decisione del Governo americano di concedere 8,3 miliardi di dollari come prestito garantito ad un’impresa che intenderebbe costruire due reattori nucleari non modifica sostanzialmente la situazione.
Obama è evidentemente condizionato dalla fortissima lobby nucleare americana, capeggiata dalla Westinghouse che, volendo vendere all’estero i suoi reattori, deve costruirne almeno qualcuno in patria.
La notizia, peraltro, conferma la necessità per il nucleare di ricevere aiuti statali ed è accompagnata (si veda Chem. Eng. News 2010, 88(8), p. 8, February 22, on line February 18) da due interessanti informazioni: la Commissione di sicurezza ha riscontrato difetti nei progetti della Westinghouse e non ha dato il suo benestare alla costruzione dei reattori in oggetto, e l’Ufficio del Bilancio del Congresso ha manifestato preoccupazione perché c’è un’alta probabilità che il progetto fallisca e vadano così perduti gli 8,3 miliardi di dollari dei contribuenti.
Si sostiene che lo sviluppo dell’energia nucleare è un passo verso l’indipendenza energetica del nostro Paese, ma anche questa è una notizia falsa, semplicemente perché l’Italia non ha uranio.
Quindi, nella misura in cui il settore elettrico si volesse liberare dalla dipendenza dei combustibili fossili utilizzando energia nucleare, finirebbe per entrare in un’altra dipendenza, quella dall’uranio, anch’esso da importare e anch’esso in via di esaurimento.
Si sostiene che con l’uso dell’energia nucleare si salva il clima perché non si producono gas serra. In realtà le centrali nucleari, per essere costruite, alimentate con uranio, liberate dalle scorie che producono e, infine, smantellate, richiedono un forte investimento energetico basato sui combustibili fossili.
In ogni caso, le centrali nucleari che si intenderebbe installare in Italia non entreranno in funzione prima del 2020 e quindi non potranno contribuire a farci rispettare i parametri dettati dall’Unione Europea (riduzione della produzione di CO2 del 17% per il 2020).
Si afferma anche che la Francia, grazie al nucleare, è energeticamente indipendente e dispone di energia elettrica a basso prezzo. In realtà la Francia, nonostante le sue 58 centrali nucleari, importa addirittura più petrolio dell’Italia.
E’ vero che importa il 40% in meno di gas rispetto all’Italia, ma è anche vero che è costretta ad importare uranio. Che poi l’energia nucleare non sia il toccasana per risolvere i problemi energetici, lo dimostra una notizia pubblicata su Le Monde del 17 novembre scorso e passata sotto silenzio in Italia: pur avendo 58 reattori nucleari, la Francia attualmente importa energia elettrica.
Secondo voci ufficiali, la costruzione (si noti, solo la costruzione) delle quattro centrali EPR AREVA che si vorrebbero installare in Italia, costerebbe complessivamente 12-15 miliardi di €, ma la costruzione in Finlandia di un reattore dello stesso tipo si è rivelata un’impresa disastrosa.
Il contratto prevedeva la consegna del reattore nel settembre 2009, al costo di 3 miliardi di €: a tale data, i lavori erano in ritardo di 3,5 anni ed il costo era aumentato di 1,7 miliardi di €; ma non è finita, perché in novembre le autorità per la sicurezza nucleare di Finlandia e Francia hanno chiesto drastiche modifiche nei sistemi di controllo del reattore, cosa che da una parte causerà ulteriori spese e ritardi e dall’altra conferma che il problema della sicurezza non è facile da risolvere.
L’Italia non solo non ha uranio, ma non ha neppure la filiera che porta, con operazioni di una certa complessità, dall’uranio grezzo estratto dalle miniere all’uranio arricchito utilizzato nei reattori. Per il combustibile dipenderemo quindi totalmente da paesi stranieri, seppure amici come la Francia.
Non bisogna però dimenticare che la Francia a sua volta non ha uranio e che per far funzionare i suoi reattori ne importa il 30% da una nazione politicamente instabile come il Niger.
C’è poi il problema dello smaltimento delle scorie, radioattive per decine o centinaia di migliaia di anni, che neppure negli USA ha finora trovato una soluzione.
E c’è il problema dello smantellamento delle centrali nucleari a fine ciclo, operazione complessa, pericolosa e molto costosa, che in genere viene rimandata (di 100 anni in Gran Bretagna), in attesa che la radioattività diminuisca e nella speranza che gli sviluppi della tecnologia rendano più facili le operazioni. Si tratta di due fardelli che passano sulle spalle delle ignare ed incolpevoli future generazioni!
Il rientro nel nucleare, quindi, è un’avventura piena di incognite. A causa dei lunghi tempi per il rilascio dei permessi e l’individuazione dei siti (3-5 anni), la costruzione delle centrali (5-10 anni), il periodo di funzionamento per ammortizzare gli impianti (40-60 anni), i tempi per lo smantellamento alla fine della operatività (100 anni), la radioattività del combustibile esausto (decine o centinaia di migliaia di anni), il nucleare è una scommessa che si protende nel lontano futuro, con un rischio difficilmente valutabile in termini economici e sociali.
Di fronte ad una domanda di energia sempre crescente,fino ad oggi la politica adottata in Italia e negli altri Paesi sviluppati è stata quella di aumentarne le importazioni. Continuare in questo modo significa correre verso un collasso economico, ambientale e sociale. Oggi la prima cosa da fare è mettere in atto provvedimenti mirati a consumare di meno, cioè a risparmiare energia e ad usarla in modo più efficiente.
Autorevoli studi mostrano che nei paesi sviluppati circa il 50% dell’energia primaria viene sprecata e che l’aumento dei consumi energetici non porta ad un aumento del benessere, ma semmai causa nuovi problemi: in Europa nel 2008 gli incidenti stradali causati dall’eccessivo uso dell’automobile hanno provocato 39 mila morti e 1.700.000 feriti.
E’ possibile diminuire i consumi energetici in modo sostanziale con opportuni interventi quali l’isolamento degli edifici, il potenziamento del trasporto pubblico, lo spostamento del traffico merci su rotaia e via mare, l’uso di apparecchiature elettriche più efficienti, l’ottimizzazione degli usi energetici finali.
Anche in sede Europea, la strategia principale adottata per limitare la produzione di gas serra consiste nel ridurre il consumo di energia (20% in meno entro il 2020).
Quanto alle fonti di energia, l’Italia non ha petrolio, non ha metano, non ha carbone e non ha neppure uranio.
La sua unica, grande risorsa è il Sole, una fonte di energia che durerà per 4 miliardi di anni, una stazione di servizio sempre aperta che invia su tutti i luoghi della Terra un’immensa quantità di energia, 10.000 volte quella che l’umanità intera consuma.
Una corretta politica energetica deve basarsi sulla riduzione degli sprechi e dei consumi e sullo sviluppo dell’energia solare e delle altre energie rinnovabili. Come è già accaduto in altri paesi europei, una diffusa applicazione delle energie rinnovabili creerebbe in tempi brevi nuove imprese industriali ed artigianali e nuovi posti di lavoro.
Bisogna anche sottolineare che l’eventuale rientro nel nucleare, proprio a causa dei gravi problemi che pone e dei tempi che ipotecano largamente il futuro, non può avvenire senza il consenso politico della grande maggioranza del Parlamento e delle Regioni, alle quali spetta la competenza dell’uso del territorio.
L’espansione del nucleare non è una strada auspicabile neppure a livello mondiale in quanto si tratta di una tecnologia per vari aspetti pericolosa. C’è infatti una stretta connessione dal punto di vista tecnico, oltre che una forte sinergia sul piano economico, fra nucleare civile e nucleare militare, come è dimostrato dalle continue discussioni per lo sviluppo del nucleare in Iran.
Una generalizzata diffusione del nucleare civile porterebbe inevitabilmente alla proliferazione di armi nucleari e quindi a forti tensioni fra gli Stati, aumentando anche la probabilità di furti di materiale radioattivo che potrebbe essere utilizzato per devastanti attacchi terroristici.
Infine, è evidente che, a causa del suo altissimo contenuto tecnologico, l’energia nucleare aumenta la disuguaglianza fra le nazioni. Risolvere il problema energetico su scala globale mediante l’espansione del nucleare porterebbe inevitabilmente ad una nuova forma di colonizzazione: quella dei paesi tecnologicamente più avanzati su quelli meno sviluppati.
Nucleare, gestione, regioni
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 24 Marzo 2010
Dopo l'approvazione, nel luglio 2009, della cosiddetta "Legge Sviluppo" e del decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010 , sono state ormai poste completamente le basi per il ritorno dell'Italia alla produzione di energia elettrica da fonte nucleare.
Certo, sono ancora solo in parte definiti i criteri e le procedure per la localizzazione, la realizzazione e la gestione degli impianti nucleari. Su questi punti, il nostro Paese è adeguato, in quanto a competenze? O decenni di lontananza dal nucleare hanno fatto perdere le necessarie conoscenze?
Per approfondire questo tema delicatissimo, il Gestore dei Servizi Energetici ha richiesto a due importanti imprese di consulenza industriale, Accenture e Safe, di condurre uno studio riguardante proprio la disciplina della generazione elettrica per via nucleare. I risultati dello studio sono stati appena presentati, con l'obiettivo di fornire una panoramica del contesto internazionale e del quadro regolatorio di quattro Paesi ritenuti rappresentativi in tema di generazione elettrica da fonte nucleare: USA, Germania, Francia e Spagna.
Dall’analisi emerge come il nuovo quadro normativo italiano per il nucleare si sia adeguato, inseguendo i modelli esteri, alle principali caratteristiche delle altre nazioni. Anche se naturalmente nazioni diverse gestiscono le cose in modo diverso.
Così, il modello italiano inizia ad assomigliare ad un "ibrido" che acquisisce elementi sparsi qua e là. Ad esempio, l'idea di avere un'autorizzazione unica per la costruzione e l'esercizio degli impianti nucleari, previa certificazione del sito, si chiama "modello combinato", ed è adottato in particolare dagli USA, ma non dagli altri Paesi.
Quel che è comune un po' a tutti è che la licenza per l’esercizio di un impianto viene data con durata temporale limitata, ma i vari Paesi presentano una variabilità elevata proprio su tale durata, tra i 10 ed i 40 anni.
Per quanto riguarda la gestione delle scorie e lo stoccaggio definitivo, questo viene ovunque affidato a enti e società statali: si preferisce tenere uno stretto controllo pubblico sui materiali radioattivi e, pertanto, nessuno sogna neanche lontanamente di "privatizzarne" la gestione.
In questo campo, la comparazione evidenzia alcune differenze rispetto alle politiche per lo stoccaggio temporaneo: mentre in Germania e USA viene fatto dai diversi operatori sul mercato dell'energia, la Spagna preferisce una gestione centrale da parte degli enti nazionali.
Nel caso italiano la gestione delle scorie è affidata all'operatore per la parte di stoccaggio temporaneo, mentre spetta alla Sogin sia il deposito definitivo che le attività di smantellamento delle centrali in dismissione.
"Secondo la nostra analisi - dichiara Claudio Arcudi, Managing Partner di Accenture, Responsabile del settore Utilities Italia - due sono in particolare le leve sulle quali i leader dell'industria nucleare stanno affrontando ed elaborando con successo le proprie strategie e sulle quali ispirarsi per fondare il modello italiano: l'interoperabilità tra i diversi soggetti in campo e la standardizzazione degli impianti”.
L'interoperabilità ha l'obiettivo di massimizzare l'efficacia delle interazioni tra i vari attori (costruttori, operatori, autorità di sicurezza), cercando di mantenere un chiaro, trasparente e rapido flusso informativo, un elemento necessario per garantire il rispetto delle tempistiche, dei costi, ma soprattutto, si spera, della sicurezza.
La standardizzazione, cioè la costruzione in serie di impianti con le stesse caratteristiche, è una strategia adottata in particolare da Francia e Usa.
In pratica, nulla dovrebbe essere lasciato al caso, e soprattutto le scelte non andrebbero fatte con leggerezza, come fatto fino ad ora dalla politica italiana. Lo sottolinea Raffaele Chiulli, Presidente di Safe: "Si sente forte l’esigenza di assicurare che le scelte sul nucleare vengano fatte in base ad informazioni chiare, obiettive ed oneste calandosi nel contesto sociale, economico e ambientale del Sistema Paese", e la strada si fa in salita, soprattutto quando un governo inizia a "mettere fretta" su un passaggio delicato come quello nucleare.
Sottolinea ancora lo stesso Chiulli: "Non bisogna trascurare le concrete difficoltà che il nostro Paese si troverà ad affrontare perché, rimettere in piedi un settore che ancora non si è finito di smantellare, ripristinare i livelli di esperienza tecnica, le dimensioni e le competenze industriali necessarie non sarà né facile né gratuito.
Intanto, sul fronte industriale, procedono febbrilmente le attività: durante il fine settimana scorso, è stata conclusa un'intesa strategica e di partnership tra i francesi di Areva e Ansaldo Nucleare: l'accordo è stato raggiunto non senza difficoltà e manca ancora il via libera politico che sarebbe dovuto avvenire a Parigi con un incontro tra il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, quello francese dell'Ecologia, Jean-Louis Borloo e i vertici delle quattro società coinvolte, Edf, Enel, Areva e Ansaldo Nucleare.
Ma il tutto è stato rinviato al 9 aprile, nell'ambito della conferenza bilaterale Italia-Francia. L'accordo, spiega l'amministratore delegato di Enel Fulvio Conti, è "molto delicato", perché deve prevedere "una separazione della ricerca netta essendo Ansaldo da anni partner di Westinghouse, il colosso Usa ora controllato da Toshiba, detentore di una tecnologia nucleare differente e in concorrenza con quella di Areva".
Mentre il Gestore dei Servizi Energetici e l'industria vanno avanti lungo la strada tracciata forzatamente dal governo, il resto del Paese si preoccupa, e non poco. Il decreto legislativo n.31 del 15 febbraio 2010 è quello che indica in maniera dettagliata i siti dove saranno ubicate le future centrali nucleari e subito, anzi ancor prima della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, presidenti di Regioni e candidati presidenti di Regioni si sono affrettati a pronunciare i loro "no" decisi alla possibilità di ospitare impianti nucleari nel proprio territorio. D'altronde, era facile immaginarlo: l'ubicazione delle centrali nucleari è uno dei temi al centro della campagna elettorale per le regionali di domenica.
A tale proposito. il WWF Italia ha collezionato su e giù per la Penisola le dichiarazioni e le prese di posizione di tutti i candidati. Il risultato è per certi versi sorprendente, poiché anche molti candidati della stessa coalizione che ha la maggioranza in Parlamento hanno dichiarato che a casa loro non vogliono le centrali.
Certo, per far presa sull'elettorato e guadagnare qualche voto in più sul filo di lana, si è pronti a smentire anche i propri mentori e padrini politici, anche questo si sa. Nonostante questo voler apparire di colpo anti-nuclearisti (posizione poco credibile e poco in linea con il proprio stesso partito) sarà opportuno prendere nota di queste dichiarazioni, magari giusto per ricordarle quando, dopo le elezioni, parecchi cambieranno idea.
A tale proposito è interessante notare che ben 5 dei 12 candidati del Pdl alla presidenza delle Regioni, non vogliono centrali o comunque siti nucleari nel proprio territorio: Pagliuca (Basilicata), Formigoni (Lombardia), Polverini (Lazio), Palese (Puglia), Zaia (Veneto).
Contrari alla scelta nucleare tutti i candidati alla presidenza sostenuti dal Pd. La posizione dei candidati Udc è un po' più variabile. Da un lato, la scelta antinucleare prevale nettamente all'interno del partito, che in 6 Regioni (Basilicata, Liguria, Marche, Piemonte, Puglia e Veneto) si esprime per il no anche quando i suoi candidati corrono da soli. Dall'altro, l'Udc dice invece sì al nucleare in Calabria e Campania, in apparentamento con il Pdl.
Chissà quante di queste posizioni cambieranno radicalmente, in linea con i propri partiti di appartenenza, dal 30 marzo in poi.
Di sicuro, la battaglia sul territorio è appena al principio e si svolgerà in tutta Italia. Un po' assurdo che una battaglia tra pro e contro il nucleare debba svolgersi proprio nel Paese del sole, del mare, del vento. Ma con questa classe politica, è il minimo che possa succedere...
Acqua: in ballo c'è il futuro di tutti noi
di Ugo Mattei* - www.lastampa.it - 23 Marzo 2010
Caro Direttore,
in questi giorni il dibattito sulla privatizzazione dell’acqua, successivo all’approvazione del decreto Ronchi e alla decisione di sottoporlo a referendum ex art. 75 della Costituzione si sta arricchendo di importanti contributi. Alla vigilia della Giornata mondiale dell’acqua, il nostro Paese ha visto, sabato scorso, sfilare a Roma migliaia di persone che hanno protestato contro la nuova norma.
Se è vero che invariabilmente gli ultimi referendum non hanno raggiunto il quorum del 50% dei partecipanti dimostrando stanchezza dell’elettorato per uno strumento di democrazia diretta che dovrebbe essere usato soltanto come extrema ratio, è altrettanto vero che questa volta la posta in gioco è altissima. Un dibattito serio su questo tema è dunque essenziale perché davvero ne va di mezzo il futuro di tutti noi.
Infatti, la consegna definitiva del controllo delle riserve idriche a soggetti privati multinazionali, voluta dal Decreto Ronchi costituisce la più significativa resa della sovranità politica a soggetti privati multinazionali avvenuta in Italia negli ultimi vent’anni.
Ciò è avvenuto con un semplice voto di fiducia (senza dibattito parlamentare) proprio mentre in tutto il mondo si sta cercando di ripensare il modello di sviluppo fondato sulla privatizzazione e sull’egemonia delle compagnie multinazionali per smussarne quantomeno i lati speculativi più inaccettabili.
Per esempio, il Comune di Parigi, dopo venticinque anni in cui due multinazionali si spartivano il controllo del mercato idrico, è tornato ad un modello di gestione pubblicistica con immediata riduzione delle tariffe ed aumento degli investimenti.
Infatti, abbiamo visto come la gestione «for profit» dei servizi idrici, come peraltro di tutti i servizi di pubblica utilità resi in regime di monopolio o di oligopolio (per esempio le Autostrade), comporti storicamente una riduzione degli investimenti ed un aumento dei prezzi.
Per far fronte a questo problema strutturale occorre perciò escogitare buoni strumenti non profit (su cui la cultura giuridica sta lavorando), i soli che consentono il prevalere di una logica ecologica di lungo periodo piuttosto che di quella economica di brevissimo periodo dettata dai valori delle azioni sui mercati finanziari.
La progressiva scarsità dell’acqua sta creando in tutto il mondo una corsa delle multinazionali al controllo di ogni risorsa idrica, perché si tratta di controllare una potenziale fonte di profitto ingentissima creato da un bisogno ineludibile, quello di bere ed irrigare.
Senza acqua la vita è semplicemente impossibile e ci sarà quindi sempre domanda di oro blu. Ma questa risorsa soddisfa un diritto fondamentale dell’uomo ed è troppo importante per essere gestita con a mente il solo profitto.
Il decreto Ronchi obbliga alla privatizzazione del servizio idrico costringendo ogni ente, (pubblico o privato che sia) che attualmente in modo diverso da territorio a territorio sta gestendo l’acqua a trasferire il controllo a società private entro fine 2011.
Questa scelta politica, provocando la simultanea offerta sul mercato di tutte le quote di gestione, avrà come effetto naturale la svendita del servizio creando le condizioni per un ennesimo regalo dal pubblico al privato.
È singolare come il decreto sia stato voluto da una maggioranza in cui una componente assai forte fa del federalismo e dell’autonomia dei territori una propria bandiera. Esso concretizza in realtà una mossa di centralizzazione nella gestione dell’acqua irragionevole, autoritaria ed estremamente pericolosa per la stessa sopravvivenza.
Molti amministratori locali, costretti a svendere strutture e tecnologie create negli anni sulla base della fiscalità generale, se ne stanno accorgendo. La speranza è che il dibattito referendario possa far capire questa drammatica realtà anche a quei cittadini che vogliono essere padroni a casa propria.
* Ugo Mattei (Professore di Diritto civile all’Università di Torino)
Legambiente e Altreconomia denunciano l'imbarazzante caso delle tariffe irrisorie che le Regioni fanno pagare alle industrie imbottigliatrici. Più che canoni di concessione sono regali che alimentano profitti miliardari. Si salvano Veneto e Lazio
Ecco le cifre di un business che a pensare male si potrebbe chiamare truffa colossale. Ma siccome non è ancora materia per la magistratura, accontentiamoci di definirlo strano, davvero molto strano.
L'Italia tra i tanti record discutibili detiene anche quello del paese con il maggior consumo di acqua minerale pro capite del mondo (205 litri a testa), più del doppio della media europea e americana.
In base agli ultimi dati disponibili di Beverfood, sono attive 189 fonti da cui attingono 321 marche di acque minerali (il 79% del prodotto viene inbottigliato nella plastica, solo 18% nel vetro).
Le aziende che la imbottigliano ricavano enormi profitti per un giro di affari che sfiora i 5 miliardi di euro (tra le imprese commercializzate in Italia la San Pellegrino, gruppo Nestlé, la San Benedetto, gruppo Danone, Rocchetta e Uliveto della Co.Ge.Di. coprono da sole i tre quarti del mercato italiano).
Nestlé possiede più di 260 marche in tutto il mondo (tra cui Levissima, Panna, San Bernardo, Pejo e Recoaro), Danone invece commercializza le «nostre» Ferrarelle, San Benedetto, Guizza, Vitasnella, Boario...
Altri numeri, invece, spiegano perché i «signori» delle acque minerali sono così capaci di far parlare bene di sé (le miracolose doti curative delle acque minerali, dette altrimenti pubblicità ingannevoli) e nello stesso tempo così astuti nell'imbastire periodiche campagne per screditare l'acqua del rubinetto: sono i numeri delle cifre enormi che spendono annualmente per le inserzioni pubblicitarie.
Attorno ai 350 milioni di euro (62% nelle tv, 14% sui quotidiani, 11% sulle radio, 10% sui periodici). Per dirne una, dopo le acque d'alta montagna che stanziano soldi per salvare i ghiacciai, è di queste ore la fondamentale notizia che il gruppo San Benedetto ha presentato un progetto per spingere i clienti al riciclo delle bottiglie di plastica.
Forse, a livello di immagine, questa è la questione più antipatica per le multinazionali dell'oro blu: nel 2008, solo in Italia, sono state utilizzate circa 365mila tonnellate di plastiche, per un consumo di 693mila tonnellate di petrolio e l'emissione di 950mila tonnellate di CO2 equivalente in atmosfera. Lucrano, e inquinano.
Ma allora, se questo è il business, se è vero che la regola numero uno del libero mercato dice che nessuno regala niente a nessuno, perché mai le Regioni italiane si ostinano a regalare le proprie fonti alle società imbottigliatrici? Siglando accordi, a volte «perpetuamente», a tariffe letteralmente ridicole?
La Lombardia, per esempio, dove le aziende godono di un regime di privilegio assoluto per emungere l'acqua dal sottosuolo: meno di 52 centesimo al metro cubo. Mezzo millesimo di euro, per un prodotto che al supermercato viene venduto a una cifra 1000 volte superiore.
Questo è solo uno dei tanti clamorosi esempi contenuti nel dossier Il far west dei canoni di concessione sulle acque minerali realizzato da Legambiente in collaborazione con Altraeconomia, che con un eccesso di generosità hanno anche stilato una classifica delle Regioni promosse, rimandate e bocciate.
Un lavoro meticoloso che ha ottenuto la stessa eco degli strali, i soliti, del solito Ettore Fortuna, presidente di Mineracqua. «Non è accettabile - ha detto, con involontario senso dell'umorismo - l'atteggiamento di attaccare gratuitamente chi, come gli imbottigliatori di acqua minerale, si occupano di prelevare l'acqua da luoghi incontaminati e isolati per portarla fino ai cittadini, mantenendola nella sua purezza e sicurezza».
Il dossier di Legambiente, a dire il vero, se la prende con l'incomprensibile generosità delle Regioni. La Campania, per esempio - che prevede uno dei canoni più bassi per volume imbottigliato (0,3 euro per metro cubo) - se solo adeguasse il canone di 30 centesimi alla cifra di 2,50 euro potrebbe incassare 2,5 milioni di euro, rispetto ai 300mila totali.
Stesso discorso vale anche per il Piemonte (la regione più imbottigliatrice di tutti, con 1,7 miliardi di litri all'anno), dove con un legittimo adeguamento del canone alla cifra di 2,5 euro passerebbe da 1,2 a 4,2 milioni di euro.
Bocciata senza riserve anche la Puglia di Nichi Vendola, «che oggi non chiede nessun corrispettivo per il volume imbottigliato (circa 92 milioni di litri) e che potrebbe invece incassare annualmente 230mila euro in più».
Bocciate anche l'Emilia Romagna, insieme alla Puglia una delle regioni che ancora fanno pagare, «incredibilmente», solo sulla base della superficie della concessione e non sui metri cubi di acqua emunta o imbottigliata (19 euro per ettaro, cioé niente); le altre sono Sardegna, Molise, Calabria e Liguria.
Legambiente, «in un panorama nazionale davvero imbarazzante», promuove solo due regioni. Veneto e Lazio. La regione che sarà di Luca Zaia è quella che prevede il canone maggiore per volume imbottigliato (3 euro per metro cubo), oltre ad avere anche il primato per ettaro (118 euro in montagna, 588 in pianura).
Il canone, inoltre, prevede una sorta di «premio» per le aziende che utilizzano bottiglie in vetro e per quelle che imbottigliano quantità minori di acqua. Il Lazio, invece, da quest'anno ha aggiunto un ulteriore canone di 1 euro per ogni metro cubo emunto e non imbottigliato (sono milioni i litri che vengono sprecati nelle fasi di imbottigliamento).
Legambiente, tanto per rincarare la dose, ci tiene anche a precisare che già nel novembre 2006 era stato approvato il Documento di indirizzo delle Regioni italiane in materia di acque minerali naturali e di sorgente.
Prevedeva tre tipologie di canone: da 1 a 2,5% euro per metro cubo di acqua imbottigliata, da 0,5 a 2 euro per metro cubo di acqua utilizzata e almeno 30 euro per ettaro di superficie concessa.
Eppure solo cinque regioni hanno adeguato i canoni alle certo non stratosferiche linee guida nazionali. Strano, perché con questi ritocchi avrebbero solo da guadagnarci. Deve essere che nel far west delle concessioni, «i nostri», non arrivano mai.
Gli affari fanno acqua
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 23 Marzo 2010
La piazza del milione taroccato ha nascosto il corteo che sabato scorso in quelle stesse ore sfilava per difendere l’oro blu. In testa il profetico Padre Zanotelli, le numerose associazioni impegnate, fedeli di chiese cristiane e cittadini comuni.
La Giornata mondiale dell’acqua rende ancora più gravi le scelte del nostro governo. Anche su questo la maggioranza ha deciso di andare avanti a colpi di fiducia, togliendo a una questione politica di così grande rilievo ogni dignità e ogni possibilità di approfondimento.
Il Parlamento messo all’angolo non può ragionare - se non a vuoto - su cosa questo comporterà nelle regioni in cui c’è un problema forte di accesso all’acqua, delle conseguenze nefaste per l’agricoltura, dell’iniquità fuori controllo dei canoni e delle tariffe regionali e, soprattutto, dell’immoralità su cui poggia la speculazione del profitto sulla risorsa primaria della vita. E’ ancora una volta l’Italia dei Valori ad alzare i toni e a reagire scomposta all’ennesima immoralità del governo.
Lo scenario internazionale spinge alla ricerca di nuove soluzioni. La scarsità di acqua è - e sarà sempre di più - il motore di nuovi conflitti. La scelta dell’Italia arriva inoltre in controtendenza con quella di molti altri Paesi Europei.
La Francia, ad esempio, ha già deciso di tornare indietro sulla questione dell’acqua, riconoscendo il fallimento anche economico della scelta della privatizzazione. Prezzi da capogiro e cattive gestioni, che miglioravano solo in prossimità del rinnovo, hanno costretto molti comuni francesi a ritornare alla proprietà pubblica.
La qualità certificata della risorsa idrica pubblica, grazie alla buona pubblicità, non è presa in considerazione, né considerata attendibile e l’Italia è arrivata così ad essere il terzo paese al mondo per consumo di acqua in bottiglia. Un prodotto tra tanti altri sul bancone del supermercato.
Il far west dei canoni sulle minerali - ad esempio - basta a preparaci al peggio su quello che potrà accadere quando nelle nostre case entreranno le Spa dell’acqua senza passare per le bottiglie di plastica.
A parte il Veneto e il Lazio, infatti, Legambiente e Altreconomia denunciano tutte le altre Regioni italiane come inadempienti rispetto ai canoni previsti dalle linee guida nazionali. Una giungla normativa di cui le Istituzioni centrali sembrano curarsi davvero poco.
Segnala Bruxelles inoltre che i numeri dell’Italia sull’erogazione dell’acqua sono tutt’altro che positivi. Il sistema idrico ha gravissime falle, disperde enormi quantità d’acqua e il nostro Sud è sempre più assetato.
L'Istituto nazionale di economia agraria - Inea - (controllato dal Ministero delle Politiche Agricole), studi alla mano parla di ammodernamento delle reti idriche e di educazione al risparmio come misure anti-siccità. Ma qualcuno, in quale altro angolo del Palazzo, ha altri piani.
Molte regioni dell’Europa del Sud ricorrono sempre di più a desalinizzare l’acqua del mare, denunciando una situazione climatica sempre più difficile da sostenere e un bisogno crescente. Un buon motivo per fare affari a quanto pare.
La Giornata mondiale dell’acqua ci consegna numeri neri. Un miliardo di persone oggi sul pianeta ha difficoltà nell’accesso all’acqua e, entro il 2030, una persona su tre vivrà in zone in cui scarseggerà. Ogni giorno 4.900 bambini muoiono per tutte le malattie connesse all’assenza di acqua potabile.
Moltissimi Paesi, ad esempio il Kenya, hanno la mancanza di acqua in cima alla lista dei loro problemi; il business di chi potrebbe aiutarli, forse come ha fatto finora la Nestlè con il latte in polvere per tantissime donne africane mandate a morire di dissinteria, è facile immaginare. Un mercato diabolico che arriva a mettere i tentacoli sulla fonte della vita.
Sorella Acqua, umile e preziosa, come la celebrava Francesco d’Assisi, sembra non risvegliare nulla di quella mistica reverenza che ostenta vistosa il Presidente del Consiglio nel ringraziare il Papa per le parole dure - e in ritardo di anni - contro i pedofili, ricambiando la cortesia con la radiazione di Busi. Un mercato della fede che fa audience e che dà la nausea. Mentre gli assetati sono già succulenti numeri a tanti zeri, al santo Padre rimane giusto il tempo di una preghiera.