Che palle....
Giornalismo: credibilità zero
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 21 Marzo 2010
Le proteste, i ricorsi e le sentenze non sono serviti a nulla: il consiglio d'amministrazione della Rai non sblocca i programmi di approfondimento politico e, sebbene il direttore generale Mauro Masi - impegnato con devozione ad “aggiustare” gli innumerevoli problemi della tv pubblica - abbia invitato la commissione di vigilanza a sondare eventuali strade alternative, pare ormai chiaro che fino al 30 marzo non potremo più assistere a programmi come Annozero, Ballarò e, si, anche Porta a porta.
Il continuo rimpallo di colpe, responsabilità e giurisdizione, oltre a dare l’ennesima prova (se mai ce ne fosse ancora bisogno) di come a viale Mazzini l’abbonato non conti un bel niente, ha finito col privare gli elettori di quella finestra sull’Italia apparentemente in grado di mostrare una realtà diversa da quella confezionata dai proclami elettorali.
Per sopperire a questa mancanza, il regolamento sulla par condicio affida l’informazione alle tribune elettorali - di per sé inguardabili - e ai telegiornali, da sempre considerati il medium più efficace e diretto per arrivare in modo incisivo nelle case degli italiani.
Tutto questo avrebbe un senso se i diretti interessati, ovvero gli spettatori, considerassero autorevoli i mezzobusti che a pranzo e a cena li ragguagliano sul quotidiano: pare infatti che l’opinione che i cittadini hanno dei tg non sia delle migliori, anzi.
Secondo l’indagine condotta dalla società indipendente di ricerche, Simulation Intelligence, la stragrande maggioranza degli italiani considera i telegiornali alla stregua di organi di partito e non riesce a fidarsi del taglio dato alle notizie, troppo parziali per poter rendere appieno la verità.
Si scopre così che notiziari intoccabili sotto il punto di vista dello share, come Tg1 e Tg5, sono ritenuti obiettivi da meno di un italiano su quattro e non va meglio agli altri, attestati tutti (con l’eccezione del 21% concesso al Tg3) su percentuali inferiori al 20%.
Nel dettaglio possiamo vedere come Sky Tg24 riscuota solo il 19%, il Tg2 arrivi a malapena la 18% e il TgLa7 si piazzi male con il 15%, non ci sono sorprese invece per i due fanalini di coda, Studio Aperto e Tg4, attestati rispettivamente al 14% e al 13% della credibilità.
La spietatezza dei telespettatori non si esaurisce però solo nel giudizio di merito: secondo il campione intervistato dai sondaggisti, il 58% ritiene i telegiornali per nulla interessanti, il 79% non li reputa accurati e completi e, come sopraccitato, l’82 per cento non li considera imparziali e obiettivi.
Quella che si profila agli occhi del giornalismo televisivo è quindi praticamente un ecatombe professionale e, dati i risultati del sondaggio, pare che agli elettori non mancheranno poi così tanto i volti di Santoro, Floris e Bruno Vespa.
Il monito all’informazione è chiaro ed evidente, ma forse la colpa non è proprio tutta dei giornalisti: nel regno catodico e politico del Caimano, i tentativi di obiettività si sono tramutati per proclama in attacchi ad personam, in iettature da sibille dark e in faziosi contro-altari, atti solo a dimostrare come il re e la sua corte siano nudi.
L’esempio più lampante è proprio quel Marco Travaglio che, seppur esecrabile nei suoi modi altezzosi, è sempre stato tacciato di comunismo pur essendo dichiaratamente un uomo di destra.
Non che qui si voglia fare l’apologia del buon giornalismo, ma è evidente che la percezione delle notizie ha subìto in questi 15 anni una forte distorsione, un’alterazione che tinge necessariamente di rosso o nero la fattualità di una notizia e che spinge i telespettatori ad orientarsi solo in base all’appartenenza partitica di questa o quella testata.
Certo, “colleghi” come Fede o Minzolini, con il loro lampante servilismo, non aiutano la causa e se teniamo conto che ben il 92,8% dell’approvvigionamento informativo ha sede nel tubo catodico, non possiamo biasimare gli italiani in merito al loro giudizio sulle news televisive.
Che il web sia una soluzione lo pensano già in molti ed anche gli “epurati temporanei” come Santoro e Floris hanno deciso di sfruttarne le potenzialità per aggirare il divieto di messa in onda posto dalla Rai: se il primo ha organizzato per il 25 marzo a Bologna “Rai per una notte” - un evento da trasmettere in streaming e sulle piattaforme satellitari - il secondo è partito lo scorso 17 marzo con una trasmissione itinerante in 4 tappe “calde” come Torino, L'Aquila, Roma e Cosenza, visualizzabile sul sito della FNSI.
Che però i rischi connessi al medium siano tanti lo dimostrano i continui allarmi su Facebook - ormai microcosmo designato - e i suoi gruppi virulenti.
La scelta dell’informazione “fai da te” non implica solo il desiderio di conoscere per giudicare; sottintende un giudizio negativo e senz’appello nei confronti dell’informazione di regime. Vedova del giornalismo d’inchiesta, orfana di editori coraggiosi e vittima di verità confezionate sulla pelle della realtà, l’aspirazione ad una informazione libera in quanto indipendente - e indipendente perché libera - giace sotto i faccioni del minzolinismo.
Il giornalismo italiano - diversamente da quanto sarebbe auspicabile e da ciò che la deontologia prevederebbe - non svolge da quasi 30 anni il ruolo di cane da guardia del potere; né, tanto meno, difende gli utenti dalle menzogne dello stesso. Inevitabile quindi, la crisi di credibilità. I fatti, come diceva qualcuno, hanno la testa dura.
Informazione libera?
di Marco Cedolin - http://ilcorrosivo.blogspot.com/ - 18 Marzo 2010
Una nota del Gruppo Rizzoli Corriere Della Sera ha oggi comunicato l’ingresso nel Consiglio di amministrazione del gruppo, di Giovanni Bazoli, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle, Cesare Geronzi, Antonello Perricone, Giampiero Pesenti e Marco Tronchetti Provera. In persona.
Giovanni Bazoli, attualmente presidente del Consiglio di sorveglianza della banca Intesa San Paolo e presidente della finanziaria Mittel è un banchiere italiano di primaria importanza con alle spalle una lunga tradizione politica, già personaggio di spicco nelle vicende del Banco Ambrosiano ai tempi dello scandalo Calvi.
Luca Cordero di Montezemolo, presidente della FIAT e della Ferrari, della NTV che utilizzerà le neonate tratte per i treni ad alta velocità e dell’Università Luiss, nonché consigliere d’amministrazione del quotidiano La Stampa, fondatore del think tank Italia Futura ed indimenticato ex presidente di Confindustria, non ha certo bisogno di presentazioni.
Diego Della Valle, patron della Tod’s e cofondatore di NTV insieme a Montezemolo, più che di scarpe nella sua carriera si è sempre occupato di banche ed assicurazioni, arrivando a possedere partecipazioni rilevanti e ruoli di prestigio in seno a banca Comit, alla BNL, al gruppo Generali.
Cesare Geronzi vanta un curriculum degno di un thriller finanziario, tanti sono stati gli istituiti bancari di cui nel corso della vita è stato responsabile e gli scandali finanziari all’interno dei quali è incespicato per poi sempre rialzarsi più in forma di prima. Dal Banco di Napoli al Banco di Santo Spirito, dalla Banca di Roma, a Capitalia, fino a Mediobanca.
Oltre ad essere, attraverso gli istituti di credito da lui presieduti, fra i maggiori finanziatori dei prestiti allo Stato per la costruzione dell’alta velocità, ha sempre mostrato grande interesse per l’informazione. Il Tempo, L’Unità, il Manifesto e Tele Montecarlo, sono solo alcuni dei media oggetto di sue importanti partecipazioni.
Antonello Perricone, attuale amministratore delegato di RCS ha un passato come AD della Stampa e presidente della Publikompass, concessionaria di pubblicità del gruppo Fiat.
Giampiero Pesenti è il presidente di Italcementi, il più grande gruppo italiano nella produzione di cemento, al centro di scandali ed inchieste di ogni tipo che nel gennaio 2008 comportarono l’arresto per truffa dell’allora AD del gruppo Mario Colombini e successivamente indusse la Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta ad indagare Carlo Pesenti (padre di Giampiero) per concorso in riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, aggravati dall'avere avvantaggiato la mafia. Nonché consigliere d’amministrazione di Mediobanca, Unicredit e Rcs Media Group.
Marco Tronchetti Provera è da decenni alla guida del gruppo Pirelli, leader più che dei pneumatici del mercato immobiliare, oltre ad essere stato manager Telecom e azionista di riferimento in Olivetti. E’ Vice Presidente di Mediobanca e membro dell’Esecutivo di Confindustria, oltre a presenziare nel consiglio direttivo di JP Morgan, vantare interessenze in un fondo sovrano libico e far parte del gruppo italiano della Trilateral Commission.
RCS Mediagroup è il primo gruppo editoriale italiano che gestisce quotidiani, periodici, libri, pubblicità, agenzie giornalistiche, circuiti di radio locali e naturalmente informazione sul web. All’interno del suo azionariato, oltre ai personaggi sopraccitati possiamo trovare tutto il gotha dell’imprenditoria finanziaria ed industriale italiana, da Benetton a Mediobanca, dalla FIAT al gruppo Ligresti, da Intesa San Paolo a Banca IMI, da UBS al gruppo Merloni.
I maggiori gruppi bancari ed assicurativi, i maggiori produttori di cemento ed i maggiori cementificatori, i maggiori gruppi industriali ed i maggiori speculatori finanziari potranno mai produrre corretta e libera informazione?
Potranno mai raccontare che il TAV è una truffa, gli inceneritori avvelenano i cittadini, le “riforme” tanto auspicate rappresentano in realtà l’annientamento di ogni forma di stato sociale, le missioni di guerra servono unicamente ad incrementare i loro profitti, la mafia non è altro che un buon alleato con il quale fare ottimi affari, la politica è un circo equestre dove allevare “camerieri” di alto rango e l’informazione una sequela di slogan e bugie condite da promozioni pubblicitarie e partorite con il solo scopo di gestire l’orientamento del pensiero a favore di chi specula sulla finanza e sulle persone, cementifica, inquina, bombarda e annienta ogni sorta di diritti del cittadino per massimizzare il proprio profitto?
Il Manifesto, quello strano quotidiano di destra
da http:/sollevazione.blogspot.com - 19 Marzo 2010
Sorprendente il commento di Valentino Parlato (il manifesto di giovedì 18 marzo) all'intervento di Tremonti in Parlamento.
Dare addosso al Ministro dell'economia è senz'altro doveroso, ma Parlato l'ha fatto usando gli argomenti di Strauss-Khan e Mario Draghi impegnati nelle stesse ore a spiegare i loro punti di vista innanzi al Parlamento europeo di Strasburgo.
E' notorio che Tremonti, il "colbertista", non abbia a simpatia la globalizzazione e i banchieri (vedi il suo libro "La speranza e la paura"), mentre gli altri due ne sono i portabandiera e i paladini.
Solo per questo risulta quantomeno bizzarro, per non dire maldestro, che un quotidiano "comunista", malgrado la panoplia di capi d'accusa "di sinistra" che si potrebbero imputare al ministro di Berlusconi, vada invece a prendere le frecce nella faretra "di destra" di due pesi massimi del capitalismo globalizzato.
Lasciamo stare la tirata d'orecchi a Tremonti per avere definito "apprendisti stregoni" gli architetti della globalizzazione, quali appunto Strauss-Khan e Draghi (che equivale in un'implicita apologia degli stregoni). Ci chiediamo: come altro definirli visto l'esito disastroso della globalizzazione medesima?
Stucchevoli, ruffiane e gravi politicamente ci paiono le affermazioni successive. Sentite la rampogna rivolta al Ministro:
«Tremonti ha ignorato che questa crisi necessita di riforme strutturali e che aspettare, tentando piccoli rimedi aggrava il male, quasi come curare con l'aspirina un malato di polmonite.
Tremonti ha cercato di dissolvere la crisi italiana in quella internazionale, evitando di mettere a fuoco lo specifico della crisi italiana, che è cominciata da una decina d'anni con il rischio che se e quando l'economia mondiale riprenderà il suo passo, l'Italia continuerà a stare per terra. L'Italia stretta da una crisi economica che richiede investimenti di sostegno e da un debito pubblico, che li ostacola. Siamo vicini a un rischio Grecia.
La produttività è ferma o in calo da una decina d'anni e senza crescita della produttività le imprese e l'intera economia non sono competitive. Salvo l'Enel e l'Eni non ci sono più grandi imprese (questo governo non ha certo il coraggio di fare un nuovo Iri) e le piccole imprese, anche il ricco nordest, producono anche suicidi».
Argomenti presi in prestito dall'armamentario della Confindustria. Parole e concetti che ci farebbero una bella figura su Il Sole 24 Ore. E che invece erano sulla prima pagina de il manifesto.
Non avessimo anticipato l'autore, ci sarebbe piaciuto fare un indovinello del tipo: "Di chi sono queste affermazioni? Della Marcegaglia, di Draghi, di Ferruccio De Bortoli o di Mario Monti?"
Siamo sicuri che il lettore si sarebbe trovato in ambascia, non sapendo decidere su chi mettere la crocetta. Il bello è appunto che su chiunque l'avesse messa egli si sarebbe sbagliato.
L'autore è uno dei padri fondatori della "sinistra rivoluzionaria", che da "eretica" è diventata ortodossa praticante, ma non del credo fondato da Carlo Marx, e nemmeno di quello di A. Smith, bensì di quello ...di druidi come Draghi che sono stati alla guida, non dei Soviet, ma della Banca mondiale e della Goldmann Sachs e che in Italia ha co-pilotato (sotto l'egida politica di Prodi- D'Alema-Amato) la più colossale ondata di privatizzazioni della storia.
Leggere per credere.
La crisi raddoppia
di Valentino Parlato - www.ilmanifesto.it - 19 Marzo 2010
Il tempo, questa volta, ha giocato proprio un brutto scherzo al ministro Giulio Tremonti. Nello stesso giorno in cui gli è toccato difendere in Parlamento il governo Berlusconi, da Bruxelles arrivavano autorevoli messaggi che smentivano il suo dire. Il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, denunciava pesantemente le difficoltà e la fragilità dell'economia italiana nell'attuale crisi.
Contemporaneamente, e sempre da Bruxelles, il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, affermava che nell'attuale crisi il ritardo delle necessarie riforme avrebbe potuto dare sbocco a «rivolte sociali».
Vale ricordare che Tremonti, in Parlamento, ha definito «apprendista stregone», chi in Italia avvertiva il medesimo pericolo. Dare dell'«apprendista stregone» a Strauss-Kahn appare quanto meno improprio e autolesionista.
Il fatto è che ieri, in Parlamento, il ministro Giulio Tremonti, con una puntigliosa e minimalista difesa dell'operato del governo Berlusconi, ha eluso del tutto il problema della gravità e pericolosità della crisi, che non è cominciata ieri e che di questo passo rischia di durare per altri quattro o cinque anni. Tremonti ha ignorato che questa crisi necessita di riforme strutturali e che aspettare, tentando piccoli rimedi aggrava il male, quasi come curare con l'aspirina un malato di polmonite.
Tremonti ha cercato di dissolvere la crisi italiana in quella internazionale, evitando di mettere a fuoco lo specifico della crisi italiana, che è cominciata da una decina d'anni con il rischio che se e quando l'economia mondiale riprenderà il suo passo, l'Italia continuerà a stare per terra.
L'Italia stretta da una crisi economica che richiede investimenti di sostegno e da un debito pubblico, che li ostacola. Siamo vicini a un rischio Grecia.
La produttività è ferma o in calo da una decina d'anni e senza crescita della produttività le imprese e l'intera economia non sono competitive. Salvo l'Enel e l'Eni non ci sono più grandi imprese (questo governo non ha certo il coraggio di fare un nuovo Iri) e le piccole imprese, anche il ricco nordest, producono anche suicidi.
C'è la disoccupazione, ma molto numerose sono le ore non lavorate, annunciano altri incrementi di disoccupazione e miseria. L'avvertimento di Strauss-Kahn è fondato e pesante, soprattuto per il nostro paese.
La disoccupazione indebolisce il sindacato e le sue lotte democratiche: si apre così uno spazio pericoloso per la rabbia e la repressione autoritaria.
Ha detto bene Bersani. Dopo tanto rumore su processi brevi, intercettazioni e via dicendo, finalmente in Parlamento (con l'ovvia assenza del presidente del consiglio) è stato messo in discussione un problema serio e grave, «ma il governo è venuto in aula a mani vuote».
In effetti Tremonti ha fatto il conto delle cosette fatte, ma non all'altezza della gravità della crisi.
Il flop di Silvio e l'Italia alternativa
di Pino Cabras - Megachip - 21 Marzo 2010
L'uomo è il più spregiudicato nel campo politico italiano, e quindi mai scommettere a cuor leggero sulle sorti di Silvio. Eppure questa volta i limiti dell'avvenura berlusconiana sono evidentissimi. La prova di forza della piazza è fallita. Lo spettro del suo declino manda odori e segnali fortissimi.
Certo, il cronista del Tg1 ha definito piazza San Giovanni «stracolma». Difficile per lui contraddire l'uomo che comanda a bacchetta il suo direttore, anche quando spara che «siamo un milione».
Erano insomma 50mila persone, a essere generosi. Ma più di ogni altra cosa era la qualità della partecipazione a rivelare il flop e l'aria da fine impero.
In troppi, fra i pochi manifestanti, non rientravano nello schema dei militanti o portatori d'interessi del blocco sociale del centrodestra. C'erano un po' troppi figuranti, persino certi spaesati ragazzi reclutati tramite liste di lavoratori interinali. O pensionati in gita rimborsata, gratificati dal sentire l'eloquio del venditore di pentole non sul bus ma dal palco e con doppiopetto da premier.
Quelli che non erano figuranti, anche i più cinici, non potevano comunque scaldarsi davanti alla gragnuola di cazzate che sentivano sulla questione delle liste – il cuore della manifestazione - dal loro peraltro adorato Capo.
Uno che non sia un idiota o non sia Gasparri semplicemente sa che non è colpa dei sovietici se il Pdl non ha una sua lista a Roma. Le ambizioni di riscrittura orwelliana della realtà possono essere le più megalomani, ma certi fatti hanno una loro durezza incontrovertibile.
Uno può recitare per convenienza una parte, può essere lì perché sostiene i suoi candidati e le sue cordate, può tenere famiglia, può stringersi al suo partito in un momento di difficoltà, perché ci tiene.
Uno può fare tutto questo. Ma se non gli hanno reciso le connessioni della corteccia prefrontale dell'encefalo tramite la loro asportazione o distruzione diretta, non può credere a quelle cazzate: sa che le liste sono monche per responsabilità del suo partito, e non di altri.
Gli basta aver letto con un po' di buon senso i giornali, persino i suoi quotidiani borchiati. E allora rimane tiepidino, vive e applaude alla giornata, e si guarda intorno per capire come si riorganizzerà il suo blocco politico e sociale quando il capo del regime personale dovrà farsi da parte, forse fra poco tempo. E intanto sa che una bugia così palese non la può vivere come un'intima verità. Entusiasmarsi sarebbe proprio troppo.
Non che la piazza sia stata solo questa disperazione. Il Caimandrillo riesce ancora a far scomparire nei media quanto esce dal suo campo.
Mentre discutiamo di questa manifestazione, infatti, altre due – e pure belle imponenti, molto ben riuscite – hanno attraversato Roma e Milano nella stessa giornata del 20 marzo, rispettivamente per dire no alla privatizzazione dell'acqua e per commemorare le vittime delle mafie.
Il Tg1 le ha oscurate: non c'è da stupirsi, c'è solo da guardare in cagnesco il bollettino del canone Rai.
Ma anche le testate non arrendevoli a Berlusconi si sono comunque sintonizzate sulla sua agenda, e hanno messo quelle manifestazioni in secondo piano. Peccato, perché lì non c'erano comparse a gettone. E non c'erano – come è invece accaduto al livoroso corteo del Partito dell'Amore – orribili cartelli che irridevano alla memoria di Borsellino.
Lì c'è un'altra Italia, attenta a un'ideale civico e a un senso di bene comune ancora radicato - la legalità, l'acqua - che i principali media non sanno raccontare e i principali partiti non sanno più rappresentare. Quel mondo c'è, è proprio corposo, e da lì si dovrà ripartire quando le contraddizioni della crisi e il carico della corruzione butteranno giù il sistema della Seconda Repubblica. Il passaggio non è indolore, e richiederà inventiva politica e culturale.
Balle ed ecoballe: l'emergenza c'è ancora
di Davide Pelanda - Megachip - 20 Marzo 2010
Ricordate le “eco balle”? Con il piano di Berlusconi e Bertolaso per far sparire i rifiuti in Campania dovevano essere incenerite tutte. E così, degli inceneritori che sarebbero dovuti sorgere proprio per bruciare 4 milioni e 300 mila tonnellate di rifiuti, imballati in tutta la regione partenopea (conteggio il nostro fermo al 2008, quando a Villa Literno il deposito era grande come un paese di 3 mila abitanti ndr), per ora neanche l’ombra.
E infatti a Napoli e dintorni continuano a pullulare di sacchetti di rifiuti che non vengono ancora differenziati: ancora oggi si è al di sotto del 20%.
Mentre intanto arrivava Berlusconi per la campagna elettorale per le Regionali, la via principale che percorreva era più pulita della Svizzera, mentre il resto della città aveva montagne di rifiuti.
Ma il tanto sbandierato inceneritore di Acerra inaugurato nel 2009, ha difficoltà a funzionare come si deve, secondo cioè i parametri di legge: infatti i parametri di polveri sottili, i cosiddetti PM10, ad esempio non rientrano nella normativa.
E dunque nel cosiddetto triangolo della morte Acerra-Nola-Marigliano, dove c’è il più alto tasso di leucemie e tumori del Mezzogiorno, il Comune di Acerra ha deciso di ritirare i propri rappresentanti dall’Osservatorio ambientale del termovalorizzatore, istituito dal governo, in segno di protesta contro il mancato confronto con le istituzioni sovracomunali per le decisioni prese sull’impianto.
È stato il sindaco Tommaso Esposito ad annunciare che l’ente comunale intraprenderà tutte le iniziative necessarie per difendere il diritto di Acerra a non essere calpestata.
Ad Acerra, secondo Esposito, «il termovalorizzatore e la sua realizzazione rimangono una ferita democratica inferta a questo territorio e a questa comunità e l’Osservatorio non può esserne il ‘cappello’.
Nessuno può immaginare che quella parte del territorio, dichiarata con enfasi di interesse strategico nazionale, sia stata definitivamente ‘espropriata’ alla comunità acerrana e tutte le decisioni che si assumono e si continuano ad assumere prescindano totalmente dalla volontà dei cittadini. Il mancato confronto delle istituzioni con l’Amministrazione comunale di Acerra non può continuare ad essere tollerato».
Il sindaco, infine, sottolinea che l’Osservatorio Ambientale è stato utile, in una fase di gestione straordinaria, per assicurare un’informazione sulle attività e le vicende dell’impianto, ma anche per definire e approvare un progetto, fortemente voluto dal Comune di Acerra, di monitoraggio epidemiologico e ambientale, di valenza regionale, che richiede l’istituzione di una struttura di alto profilo tecnico-scientifico, che potrà avviarsi se e quando governo nazionale e Regione Campania decideranno di passare ai fatti.
Ma rimangono ancora sul piatto questioni legate allo scarico delle acque, al sistema di controllo della radioattività e della valutazione del mercurio, il percorso delle scorie in uscita dall’impianto e la speciazione delle particelle pm10.
«Nelle campagne di Nola, Acerra e Arigliano – sostiene padre Alex Zanotelli - sono stati sepolti centinaia di fusti di rifiuti tossici, rifiuti a non finire. Così i rifiuti tossici del porto di Marghera che sono finiti nel Casertano. Per cui tutta questa roba è ormai entrata nell’aria e anche nel ciclo alimentare. Si parla di sostanze quali diossina o metalli pesanti, come il nanoparticolato. Siamo davanti ad una tragedia immensa. Un inceneritore ad Acerra, che è già un disastro ecologico incredibile, è secondo me criminale».
Una bella piazza, un pessimo discorso
di Eugenio Scalfari - La Repubblica - 21 Marzo 2010
Ho aspettato il discorso di Berlusconi sul palco di piazza San Giovanni prima di scrivere queste righe. Pensavo che avesse in serbo qualche idea nuova, qualcuna delle sue promesse elettorali - per altro mai mantenute - che sorprendesse il Paese e spiazzasse l'opposizione.
E intanto, mentre si attendeva l'arrivo sul palco del Capo dei Capi, il Capopopolo, il Capopartito, il Capo del governo, ho guardato la piazza, le facce della gente, le loro parole ai microfoni delle televisioni. Le facce erano pulite, serene, allegre.
Doveva essere una festa, la festa dell'amore verso tutti, verso gli altri; una festa di popolo con le sue idee, i suoi bisogni, le sue speranze, come ce ne sono in tutte le piazze democratiche di questo mondo. Così era stato detto dagli organizzatori e così sembravano aspettarsi i partecipanti.
Ma poi è arrivato lui e l'atmosfera è cambiata. Le gente allegra è diventata tifoseria, quella che inveisce contro i giocatori avversari e contro gli arbitri ai quali è affidato il rispetto delle regole di gioco.
Una piazza, sia pure affollata, non cambia una situazione politica ma fornisce un elemento in più per valutarne i possibili esiti. Se all'inizio c'era attesa, alla fine il tono si è spento dopo un discorso che è stato uno dei più brutti che Berlusconi abbia mai pronunciato.
Ripetitivo, retoricamente bolso, con un tentativo di colloquiare con la piazza che ripeteva un logoro copione già visto molte volte con lui e con altri in epoche più remote: "Volete voi che vinca la sinistra?". "Nooo". "Volete voi che vinca il Popolo della libertà?". "Sììì".
"Volete voi il governo del fare?". "Sì". "Volete che aumentino le tasse?". "Noo". Ha promesso addirittura che il suo governo avrebbe vinto il cancro. Incredibile, ma è accaduto in quella piazza e da quel palco.
Naturalmente ha attaccato a fondo la sinistra descrivendola come una peste da cui lui e soltanto lui ha salvato il Paese sacrificando la sua privata libertà. Si è vantato di avere ridotto i reati di furto di rapina e di omicidio a livello minimo mai raggiunto. Di aver riportato l'Italia tra le grandi potenze col massimo rilievo che tutti gli altri gli attribuiscono.
Di aver bloccato l'immigrazione. Di aver fatto sciogliere i campi nomadi. Ha inneggiato a Bertolaso e ai provvedimenti di emergenza che hanno salvato il Paese. Ha ricordato per l'ennesima volta i rifiuti tolti a Napoli (adesso ci risono) e le case fabbricate a L'Aquila.
A metà spettacolo è arrivato al microfono Umberto Bossi e gli ha rubato per qualche minuto la scena. Non so se l'abbia fatto per distrazione o per sottile perfidia ma con il suo stentato parlottare Bossi gli ha conferito un merito che francamente non conoscevamo: quello di non aver firmato una direttiva europea sulla "famiglia trasversale"; un merito alquanto imbarazzante se attribuito proprio a Berlusconi.
Quanto al programma per i prossimi tre anni (infrastrutture, diminuzione delle tasse, ampliamento delle case senza bisogno di nessuna autorizzazione e, appunto, la vittoria sul cancro) c'è stato anche uno scivolone clamoroso.
La decisione di firmare davanti a quella piazza un patto con i candidati al governo delle Regioni, nel quale patto il governo da un lato e dall'altro le Regioni che saranno guidate dal centrodestra si impegnano a realizzare un programma comune con appoggio reciproco.
E le Regioni guidate dall'opposizione, si domanderà qualcuno? "Con loro è impossibile discutere" ha detto dal palco Berlusconi. Il capo del governo ha cioè pubblicamente annunciato che discriminerà le Regioni che in libere elezioni saranno presiedute dall'opposizione. Se questa è la libertà da lui difesa e promessa, stiamone se possibile alla larga.
Ma oltre alla sinistra l'attacco si è concentrato contro i magistrati mossi da intenti politici. Come distinguere quei magistrati dagli altri? Il metro è ovvio. Quelli che processano lui o i suoi amici sono politicizzati, gli altri fanno il loro mestiere.
L'attacco è stato particolarmente violento per i magistrati dei tribunali amministrativi di Roma e di Milano che "hanno volutamente truccato le carte per escludere il nostro partito dalle elezioni".
In verità a Milano quegli stessi magistrati dopo un più attento controllo hanno riammesso Formigoni. A Roma le cose sono andate diversamente perché le regole escludevano l'ammissibilità di una lista.
Pochi minuti dopo il discorso è arrivata la notizia che il Consiglio di Stato, con una sentenza ormai definitiva, ha respinto per l'ottava volta il ricorso del Pdl per la riammissione della sua lista nella provincia di Roma.
Tutti comunisti anche a Palazzo Spada? "Ma ci sarà una grandissima riforma della giustizia" ha minacciato il premier con aria truce. Una decimazione tra i giudici? Le "toghe rosse" all'Asinara? Infine il presidenzialismo: prima della fine di questa legislatura verrà stabilita anche l'elezione diretta del Capo dello Stato.
Non poteva mancare, quello è ormai un pensiero fisso, la sua tarda vecchiaia lui la vuole passare al Quirinale. Un discorso piatto, accusatorio, politicamente scadente, letterariamente pessimo. Deludente anche per i suoi che sono una bella gente un po' frastornata.
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I bisogni degli italiani, a qualunque parte politica appartengano, sono diversi da quelli che Berlusconi immagina.
Quando esordì in politica sedici anni fa aveva interpretato lo stato d'animo di una larga parte del Paese. Ricordate la Milano da bere di craxiana memoria? Ebbene, nel '94 non più soltanto Milano, ma tutto il Nord voleva una Padania da bere.
Poteri forti, piccole imprese, partite Iva volevano abbattere i recinti, le regole, i lacci e laccioli che impedivano una libera gara. Fu l'epoca del liberismo e chi aveva garretti più robusti agguantava la sua meritata parte di successo e di felicità.
Questa era la domanda che veniva dal fondo del Paese e chi meglio di lui poteva capirla e soddisfarla? C'erano dei nemici da sconfiggere per attuare questo programma e lui li indicò: la casta politica impersonata dai comunisti e dalla sinistra. Il fisco e la burocrazia.
E poi un uomo forte e antipolitico al vertice. Un partito-azienda ai suoi ordini. Le istituzioni da usare come una vigna di famiglia. Intanto si disfaceva il vecchio mito della classe operaia, si affermava l'economia globale, cresceva il boom della finanza e la bolla della "new economy".
La sinistra, di tutti questi fenomeni, capì poco o niente. Aveva un'altra visione del Paese che però in quel momento non corrispondeva alle domande, alle voglie, agli umori ed agli interessi della maggioranza.
La sinistra pensava ad una crescita equilibrata, alla redistribuzione sociale del reddito per diminuire le disuguaglianze, alla legalità, all'accoglienza dell'onda migratoria. Privilegiava, almeno a parole, il "welfare" rispetto ad un liberismo darwiniano. Strappò ancora qualche vittoria elettorale, ma il trend era già passato di mano.
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Il Berlusconi del 2007 è un fenomeno in parte diverso da quello del '94. È sempre un grande Narciso, un grande venditore e un grande bugiardo, ma alla passione per i propri privati interessi si è affiancata la passione per la politica. Che cosa c'è di più appagante della politica per un Narciso a 24 carati?
La sua politica non sopporta regole né ostacoli. Vuole che tutto sia suo. Perciò l'obiettivo primario è il presidenzialismo, l'investitura popolare e plebiscitaria per un presidenzialismo che faccia piazza pulita di tutte le autorità di controllo e di garanzia.
Che degradi il Parlamento, la Corte costituzionale, la Magistratura, insomma le istituzioni, al ruolo di consiglieri ed esecutori della volontà del Sovrano. Non più lo Stato di diritto ma lo Stato assoluto, il potere assoluto.
Il programma è questo ed è stato infatti questo il tono del suo comizio in piazza San Giovanni. L'obiettivo è la conquista del Quirinale come luogo di potere senza altri impedimenti. La grande riforma ha questo come scopo.
Qualcuno ha acutamente osservato che negli ultimi mesi l'onnipotente capo del governo e della maggioranza non è riuscito ad ottenere nemmeno l'eliminazione delle trasmissioni televisive della Rai a lui scomode. Le telefonate iraconde con l'Agcom e col direttore generale della Rai non sono riuscite ad ottenere il risultato voluto.
Ha dovuto utilizzare l'impuntatura d'un radicale membro della commissione di Vigilanza della Rai per poter azzerare tutte le trasmissioni di informazione del nostro servizio pubblico televisivo. Dunque un onnipotente impotente?
Diciamo meglio: un onnipotente alle prese con regole e autorità neutre ancora esistenti e operanti. Per questo la priorità numero uno è per lui il potere assoluto. Disfarsi di quelle regole e di quegli ostacoli.
Danneggiando pesantemente la Rai, favorendo pesantemente Mediaset che è cosa sua, come disse a Ciampi nel tempestoso colloquio del 2006 sul rinvio in Parlamento della legge Gasparri. Non vuole più essere un onnipotente impotente e neppure un potente limitato dalle regole e dalla legge. La legge la fa lui e lui soltanto.
Ha ragione il presidente Napolitano ad insistere sulla collaborazione di tutti alle riforme ed hanno ragione tutti gli osservatori che giudicano pessima una campagna elettorale che non si occupa affatto dei problemi concreti delle Regioni. Ma il tema posto dal Capopopolo e Capo del governo è lo stravolgimento della democrazia parlamentare in un regime di assolutismo ed è con questo tema che bisogna confrontarsi.
Il comizio di piazza San Giovanni ce lo conferma. L'opposizione può e deve parlare di sanità, precariato, occupazione, sostegno dei redditi, Mezzogiorno. Ma deve far barriera contro la richiesta di potere assoluto e plebiscitato. Questo ci dice la giornata di ieri ed è un tema che non può essere eluso.
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Lo Stato, nel senso della pubblica amministrazione, è a pezzi. Siamo in coda a tutte le classifiche internazionali. Una burocrazia elefantiaca, insufficiente, infiltrata dalla politica e spesso succube degli interessi anche illeciti.
Questa inefficienza dura da decenni e la responsabilità non è di Berlusconi ma di tutti i governi a partire dalla fine degli anni Settanta e forse anche da prima. L'amministrazione pubblica non è più stato un tema degno di attenzione mentre avrebbe dovuto essere l'obiettivo numero uno da perseguire.
Berlusconi però fa parte della lunga schiera dei governi responsabili di questa enorme disattenzione, ma quel tema non l'ha neppure sfiorato. Per lui la pubblica amministrazione è un cane morto da sotterrare nel momento stesso in cui il Sovrano assoluto sarà insediato.
L'amministrazione dovrebbe rappresentare la continuità dello Stato di fronte all'alternarsi dei governi. Garantire il rispetto degli interessi sociali individuali legittimi ma insieme a quello degli interessi generali. Nulla di tutto ciò è all'ordine del giorno.
Quando parlo di pubblica amministrazione parlo anche, anzi soprattutto, della Giustizia che ne costituisce la parte essenziale; parlo della sanità, della fiscalità, della rappresentanza all'estero, della gestione di Regioni e di Enti locali.
E parlo anche di governi. Il potere esecutivo fa parte della pubblica amministrazione anzi ne è il coronamento. Dovrebbe esserlo. In Usa il governo del presidente si chiama infatti Amministrazione. Ma quella è un'altra storia e un altro Paese.
Pubblica amministrazione, Costituzione, legalità: questo dovrebbe essere il programma di un serio partito democratico e riformista. Il presidenzialismo in salsa berlusconiana è l'antitesi del riformismo democratico.
Quanto alla lotta contro la corruzione, essa riguarda soprattutto i partiti. Dovrebbero darsi un codice etico e applicarlo puntualmente; prima che la magistratura si esprima, i partiti dovrebbero sospendere i loro membri indagati, una sospensione sul serio che non consentisse alcuna interferenza sulla politica.
Il caso Frisullo da questo punto di vista è fin troppo eloquente. Il caso Frisullo dimostra anche quanto sia fallace e falsa l'accusa contro le "toghe rosse" o politicizzate. Mentre Trani mette sotto inchiesta il premier, la procura di Bari arresta Frisullo.
L'Ordine giudiziario è un potere diffuso che viene esercitato dai magistrati secondo i loro ruoli, la loro competenza territoriale e i diversi gradi della giurisdizione, sicché è impossibile lanciare quotidianamente accuse nei loro confronti nelle quali eccelle il presidente del Consiglio. Da parte sua quelle accuse hanno una valenza eversiva che mina alle fondamenta lo Stato di diritto.
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I sondaggi d'opinione non possono esser resi pubblici in queste ultime settimane prima del voto, ma chi ascolta e analizza i sentimenti della pubblica opinione si è fatto un'idea del "trend" pre-elettorale e il trend è questo: la quota dei non votanti sembra essersi attestata intorno al 30 per cento.
Circa metà di questa astensione ha carattere permanente, l'altra metà ha carattere punitivo nei confronti dello schieramento di origine. Di questo 15 per cento gli esperti ritengono che almeno due terzi provenga da elettori di centrodestra. Astinenza significa sottrarre mezzo voto al proprio schieramento di provenienza.
Queste considerazioni non sono appoggiate da alcun sondaggio recente ma si deducono logicamente. Servirà la manifestazione di ieri in San Giovanni a modificare il trend? Credo di no. Il discorso di Berlusconi, l'abbiamo già detto, è stato di modestissima qualità.
L'intento era di spingere il suo elettorato al voto compatto senza smottamenti pericolosi, ma da questo punto di vista l'occasione sembra mancata. Ma può un Paese come il nostro esser guidato da un piazzista che vende prodotti vecchi e spesso avariati? Questo è il mistero che, speriamolo, le elezioni del 28 marzo dovrebbero cominciare a sciogliere.