venerdì 19 marzo 2010

Elezioni regionali: l'astensione è d'obbligo

Qui di seguito qualche articolo per ricordarsi che anche alle prossime elezioni regionali c'è un dovere da assolvere: ASTENERSI DAL VOTO!


Inquietanti invasioni di campo sull'astensionismo elettorale
di Sergio Cararo* - www.contropiano.org - 17 Marzo 2010

Lo spettro dell’astensionismo di massa aleggia sulle prossime elezioni regionali in Italia. Lo spettro si è già materializzato Oltralpe nei risultati elettorali francesi che hanno visto la sconfitta del partito di governo del centro-destra di Sarkozy.

Fatte le dovute differenze, l’indicatore della disaffezione di quote crescenti di popolazione dalla certificazione delle opzioni politiche a disposizione – le elezioni – alimenta questa volta sponsorizzazioni e preoccupazioni diverse dal solito.

A oggi il più preoccupato da un astensionismo che danneggerebbe le proprie liste, è lo schieramento di centro-destra, soprattutto nella sua filiazione più direttamente berlusconiana. “Prima il partito dell’astensione coincideva con elettori di sinistra delusi, magari intellettuali. Oggi no, di astensione puoi sentir dibattere in un mercato, o tra artigiani elettori classici del centrodestra” sottolinea il quotidiano La Stampa.

Gli fa eco un guru dei sondaggi come Renato Mannheimer, secondo il quale “Sì, stavolta un’alta astensione è una possibilità reale. Non di dimensioni francesi, magari; ma mai così alta prima da noi”. Non solo.

Un altro organo di informazione dei poteri forti – Il Sole 24 Ore – il 12 marzo dà ampio spazio, ma soprattutto legittimazione, ai risultati di un sondaggio condotto dalla SWG per conto della Fondazione “Italia Futura” di Luca Cordero Montezemolo, un altro businessman che più di qualcuno – da La Repubblica a parte del popolo viola – vorrebbe e vedrebbe bene nel posto di Presidente del Consiglio al posto di Berlusconi.

Secondo il sondaggio commissionato alla SWG di Trieste “Favorevole all'astensione è il 25% degli intervistati, contrario il 58%. Ma il dato cambia se si chiede di prendere in considerazione il caos che caratterizza la vita politica italiana e il particolare momento che accompagna le elezioni regionali. In questo caso il 35% dei cittadini ritiene che la scelta di non andare a votare o di votare scheda bianca sia legittima. Il dato sale ulteriormente, fino ad arrivare al 51%, se si prende in esame la classe di età tra i 18 e i 34 anni”.

I risultati del sondaggio servono alla fondazione di Montezemolo per affermare alcune cose:

1) L’astensionismo elettorale di fronte ai soggetti dell’attuale competizione politica non è più un tradimento del diritto-dovere del cittadino ma una forma di aperta e legittima obiezione di coscienza

2) Ad essere astensionisti non sono più gli elettori più esigenti o più radicali della sinistra o le popolazioni delle isole e del Meridione, ma quote crescenti di professionisti, imprenditori, ceti medio-alti delusi dall’estremismo berlusconiano e dalla pochezza del PD.

3) L’astensionismo cresce tra le nuove generazioni come forma di rifiuto attivo verso i lacci e lacciuoli politici e sociali del sistema Italia che ne impediscono la conquista di uno status sociale coerente con le proprie altissime aspettative, verso un sistema arretrato rispetto agli standard economici, politici e sociali europei.

Emerge insomma come una parte dei poteri forti (a partire da Montezemolo e Confindustria), una volta verificata la loro straordinaria ininfluenza politica ed elettorale nella pancia profonda del paese, questa volta tenti di usare la carta della delegittimazione attraverso l’astensionismo non in senso sovversivo ma come forma di pressione sull’attuale e troppo populista establishment politico.

Il loro interesse infatti non è certo quello di recuperare e favorire la partecipazione popolare ai processi politici, al contrario, essi sono stati tra i carri armati dell’introduzione del sistema elettorale maggioritario nel 1993 e delle sue maglie sempre più restrittive del suffragio universale.

Scrive ancora la Stampa (di proprietà della Fiat) che “Qualcosa di culturale è mutato nella percezione italiana. Alle politiche del ‘53 o del ‘58 votarono il 93,8 per cento degli italiani. Ma dalla svolta maggioritaria del ‘93 in poi è iniziato un calo costante, culminato col 35% di astensioni alle ultime europee”.

Quello maggioritario è dunque un sistema che volutamente allontana dal processo elettorale quasi un cittadino su tre perché, in nome della govenrabilità e dell'alternanza, lo costringe a votare su opzioni e candidati che ingabbiano l’esigenza di rappresentanza politica e ne eliminano quelle considerate incompatibili con la centralità degli interessi materiali della borghesia italiana.

Lo confermano la bassa partecipazione popolare alle elezioni nei paesi dove da sempre vige il sistema maggioritario. Lo incentivano non pochi pensatori “liberali” secondo cui l’esercizio della partecipazione alle sorti delle società è sempre stato un privilegio per i “migliori” che va negato al popolo dei semplici e dei meno abbienti.

In queste elezioni regionali siamo dunque in presenza di una “invasione di campo” da parte di una frazione della borghesia sul terreno dell’astensionismo elettorale inteso come opzione politica. Una invasione che cerca di agire questo strumento contro un’altra frazione del suo stesso blocco sociale.

E’ una situazione decisamente imbarazzante ed inquietante quando il nemico di classe si appropria di ogni spazio di espressione politica. E’ materia su cui riflettere e non solo per le prossime elezioni regionali.

La questione della rappresentanza politica dei settori popolari e della ricostruzione di un blocco sociale intorno a interessi di classe ben definiti, è una sfida che il politicismo della sinistra esistente ha continuato a rimuovere in modo decisamente suicida.

* Direttore di Contropiano


I partiti si cambiano solo così
di Massimo Fini - www.ilribelle.com - 17 Marzo 2010

Lasciamo perdere, per un momento, la questione Berlusconi e le inaudite pressioni, intimidazioni, minacce che il presidente del Consiglio ha esercitato su un commissario dell'Authority per le Comunicazioni, Giancarlo Innocenzi, perché si desse da fare per chiudere Annozero, zittire Floris e la Dandini, impedire che vengano ospitati personaggi sgraditi al Cavaliere, come Ezio Mauro, Eugenio Scalfari, o, dio guardi, Antonio Di Pietro. «Se lei avesse un minimo di dignità dovrebbe dimettersi» ha sibilato Berlusconi a Innocenzi.

Mentre è vero esattamente il contrario: se costui avesse avuto «un minimo di dignità» avrebbe dovuto mandare all'inferno l'energumeno ed eventualmente denunciarlo alla magistratura. Ma come avrebbe potuto il poveraccio?

È un uomo di Berlusconi, è stato sottosegretario alle Comunicazioni in un suo governo e un suo dipendente quale Direttore dei servizi giornalistici Fininvest-Mediaset.

Ci sarebbe voluto non un coniglio, ma un samurai disposto al kharakiri per contrastare la violenza dell'energumeno e reggere una situazione talmente anomala, grottesca e pazzesca che non ha paragoni in alcun altro Stato al mondo, democratico o non democratico, tanto da far dire persino al Direttore generale della Rai, Masi, che «cose simili non si vedono nemmeno nello Zimbawe».

Ma lasciamo perdere la questione Berlusconi-Innocenzi-Minzolini non solo perché Il Fatto Quotidiano, oltre ad essere stato il primo a darne notizia la sta trattando con l'ampiezza che merita, ma perché ne presuppone un'altra.

Al di là dell'atteggiamento particolarmente spudorato e violento dell'energumeno, la domanda è: quale indipendenza può mai avere la Rai-Tv, Ente di Stato, e quindi di tutti i cittadini, quando il Consiglio di amministrazione è nominato dai partiti, il presidente pure, la Commissione di Vigilanza anche, l'Autority per le Comunicazioni e ogni altra Autority idem, quando non c'è dirigente, funzionario, conduttore di programmi, giornalista, usciere il cui posto di lavoro non dipenda dall'appartenenza a una qualche formazione politica, da un rapporto di fedeltà e sudditanza, più o meno mascherato, diretto o indiretto, a qualche partito o fazione di partito?

E la questione della Rai-Tv è solo la più emblematica e evidente dell'occupazione sistematica, arbitraria, illegittima che i partiti, queste associazioni private, hanno fatto di tutti gli apparati dello Stato, del parastato, dell'amministrazione pubblica, che poi ricade a pioggia anche sull'intera società (facciamo un esempio semplice semplice, tanto per capirci: a Firenze se sei architetto e non sei infeudato a sinistra non lavori).

Si parla tanto, di questi tempi, di riforme: istituzionali, costituzionali, della giustizia, eccetera. Ma la riforma più urgente, e principale, è quella dei partiti, nel senso di un loro drastico ridimensionamento, della loro cacciata da posizioni che occupano abusivamente, arbitrariamente, illegittimamente.

Ma in democrazia solo i partiti possono riformare i partiti. E non lo faranno mai perché questo vorrebbe dire perdere il potere con cui condizionano l'intera società italiana, abusandola, stuprandola, ricattandola, richiedendo ai cittadini i più umilianti infeudamenti per ottenere, come favore, ciò che spetta loro di diritto.

Come se ne esce? Agli inizi degli anni Ottanta, quando l'abuso e il sopruso partitocratico era ancora, nonostante tutto,ben lontano da quello di oggi, Guglielmo Zucconi, direttore del Giorno, quotidiano appaltato alla Dc e al Psi, mi permise di scrivere nella mia rubrica, Calcio di Rigore, un articolo in cui invocavo provocatoriamente, per l'Italia, la soluzione che il generale Evren aveva adottato per la Turchia dove l'occupazione, la corruzione, il clientelismo dei partiti aveva raggiunto vertici intollerabili, ma comunque ancora lontani da quelli dell'Italia di oggi.

Il generale Evren prese il potere, spazzò via tutta la nomenklatura partitocratica, e promise che, fatta una pulizia che in altro modo era impossibile, avrebbe restituito, entro cinque anni, il potere alle legittime istituzioni democratiche. Promessa che puntualmente mantenne.

E oggi la Turchia, pur in mezzo alle mille contraddizioni di un Paese la cui realtà è resa difficile dalla presenza di una fortissima minoranza curda, è un Paese "normale" con una maggioranza, un'opposizione, un premier che rispetta le leggi e la magistratura, e partiti che stanno al loro posto e nel loro ruolo, che è quello di coagulare il consenso, e non esondano in tutta la società civile.

Non è la Turchia che non ha i requisiti democratici per entrare in Europa. È l'Italia che non li ha più per restarci.


Sud e liste "inquinate". Le mafie si preparano al voto
di Giuliano Foschini e Conchita Sannino - La Repubblica - 19 Marzo 2010

A Napoli i magistrati della Procura antimafia hanno già acquisito le liste con tutti i candidati al consiglio regionale della Campania. E hanno cominciato a studiarle. Anche la commissione parlamentare Antimafia, dopo che il presidente Beppe Pisanu ha imposto ai partiti di sottoscrivere un codice etico, si è mossa: e in attesa che le prefetture comunichino ufficialmente le candidature non in regola con quel codice, ha raccolto un centinaio tra informative e segnalazioni di candidati considerati "a rischio".

Le elezioni 2010 in quattro regioni del Sud possono essere condizionate (inquinate o controllate) dalla criminalità organizzata. Che oggi non si limita a fornire pacchetti di voti ai partiti ma scende in campo con candidati propri, politici-affaristi che poi saranno a tempo pieno al servizio delle cosche.

È il modello Di Girolamo che può ripetersi all'infinito. L'obiettivo è mettere le mani su parte dei 169 miliardi all'anno gestiti dalle Regioni. Soprattutto appalti di ospedali e Asl, convenzioni esterne e consulenze della sanità, fondi per la formazione. Ma dove vogliono arrivare i clan della camorra e della 'ndrangheta? Di quanti voti dispongono? Quanti e quali candidati stanno mettendo in pista?

Un seggio in vendita

Il "tariffario" per il seggio non è omogeneo. Le istruttorie e le sentenze giudiziarie più recenti raccontano che ci sono angoli del Paese in cui l'elezione in Regione può costare la contenuta cifra di 15 mila euro, come per le 'ndrine calabresi. E ci sono metropoli dagli intrecci malavitosi, come Napoli, dove la stessa carica si acquista con 60 mila euro, oltre alla promessa di lavori pubblici e forniture per i clan.

Poi ci sono padrini che non hanno bisogno né di compravendite né di appalti: sono i livelli decisionali del potere criminale che, dalla Sicilia alla Lombardia, puntano a legarsi direttamente con la finanza e le grandi imprese. Accade nel Paese dei 30 mila affiliati organici alle cosche e dei centomila galoppini del voto inquinato.

Dove, solo negli ultimi tre anni, le forze di polizia hanno denunciato per associazione mafiosa oltre 7 mila persone. Spiega il procuratore antimafia di Napoli, Giandomenico Lepore: "Il controllo sulle liste è uno screening di rito. Non siamo un ufficio elettorale, dobbiamo solo verificare se siano commessi reati di compravendita del voto". Ma intanto il 10% dei candidati "segnalati" all'Antimafia ha già alle spalle una condanna, o un rinvio a giudizio, o un'indagine per voto di scambio con i clan.

Le mani della camorra

Il caso più clamoroso è a Napoli. Roberto Conte, 43 anni, espulso dai Verdi e dal Pd, torna in una lista che sostiene il candidato presidente del Pdl, Stefano Caldoro. L'ex consigliere regionale è stato condannato in primo grado, otto mesi fa, per concorso esterno in associazione mafiosa, con l'accusa di avere "acquistato" dalla camorra la sua elezione alle regionali del 2000. Ora ha scelto la lista Alleanza di popolo.

Conte è anche l'unico degli impresentabili per il quale un padrino pentito, Giuseppe Misso, abbia confermato la costituzione del patto politico-mafioso. Ma qual è la sua storia? Per tre volte, racconta la sentenza, Roberto Conte incontrò il boss Misso. Il padrino lo riceveva nel centro storico di Napoli. Secondo il giudice, a fine corsa, il neo-eletto Conte tornò in quell'appartamento blindato a ringraziare il boss.

Lo stesso Misso, due anni fa, ha rivelato le ragioni di quell'accordo: "Ho incontrato il candidato Conte almeno in tre circostanze, sempre a casa mia (...). Quando parlo di un mio proposito di guadagnare molto da questo rapporto, mi riferisco ai discorsi che avvenivano frequentemente tra me e il Conte, al fatto che la sua elezione avrebbe permesso al gruppo Misso di aprire un ciclo delle vacche grasse, gare dei lavori pubblici, forniture di servizi a enti pubblici". Il boss del quartiere Sanità aggiunge: "Avevo iniziato a sostenere molte spese per mandare in giro i galoppini. Così un giorno Sasà Mirante (un affiliato, ndr) ricevette direttamente dalle mani di Conte una somma di 120 milioni, ovviamente tutta in contanti, poi portata a me, a casa mia".

Dalla storia di Conte ha preso le distanze, ufficialmente, persino un supergarantista come Nicola Cosentino, il coordinatore campano del Pdl per il quale il Gip di Napoli ha chiesto l'arresto per concorso in associazione mafiosa. I sospetti ovviamente toccano anche le elezioni comunali e provinciali. A Caserta, per esempio, per la Provincia l'Udc mette in lista Luigi Cassandra che, in campagna elettorale, riceve una diffida dei carabinieri a non frequentare più personaggi in odore di camorra. Il partito lo invita a ritirarsi. Ma lui rifiuta, e annuncia addirittura un ricorso.

Pacchetti di controllo

Un business che cambia modalità, quello del traffico di voti. Ma non al punto da non lasciar tracce, come spiega Franco Padrut, storico segretario della Camera del Lavoro a Palermo, uno dei maggiori esperti italiani di flussi elettorali. "Sono rimaste intatte negli anni alcune caratteristiche del controllo del voto, come l'espressione della preferenza, meglio se multipla.

Un esempio lampante arriva proprio dal ciclo delle elezioni regionali 2005-2008 dove, al Sud, è stato registrato un tasso di preferenze molto più alto rispetto alla media nazionale: l'89,6% in Basilicata, l'86 in Sicilia, il 78 in Puglia e Abruzzo, il 76 in Campania mentre la media italiana è del 51". Ma qual è l'incidenza del consenso mafioso nella formazione della rappresentanza? Si calcolava un volume di 4 milioni di voti, fino a qualche lustro fa.

Aggiunge Padrut: "L'incidenza oggi è meno vistosa, ma profonda. Il condizionamento la criminalità organizzata tende a esercitarlo su altri livelli: il controllo della spesa pubblica, gli apparati amministrativi. E con l'entrata in vigore del Porcellum il condizionamento delle mafie si è spostato sulla compilazione delle liste più ancora che sul voto". Ancora una volta il Sud è il banco di prova di questo nuovo modello di infiltrazione nello Stato. Dice Antonio Laudati, ex pm a Napoli e oggi procuratore capo di Bari: "Le mafie non scelgono "il" partito. Lavorano sul multitasking, condizionano da una parte all'altra e oggi più che il controllo del territorio seguono il denaro e la capacità d'acquisirlo. Puntano a inquinare le decisioni su questioni economiche o finanziarie".

Per i magistrati campani Paolo Mancuso e Giovanni Melillo "oggi la camorra ha minori capacità strategiche, ma ha rinsaldato i legami con gli affari, e la politica appare subordinata. Il codice di autoregolamentazione per la selezione dei candidati, approvato all'inizio degli anni Novanta dalla commissione parlamentare antimafia, è rimasto lettera morta".

Mafia-politica Spa

In Puglia corre Mario Cito, tarantino, numero uno della lista civica che sostiene il candidato presidente del Pdl Rocco Palese a Taranto, figlio di quel Giancarlo condannato fino in Cassazione per associazione mafiosa. Lui, il figlio, non ha accuse a carico. Anzi, una sì: quella di aver messo sui suoi manifesti elettorali la foto di papà invece della propria.

In Basilicata tra i candidati al consiglio regionale rispunta l'uscente Luigi Scaglione, capolista per la lista Popolari uniti che appoggia il candidato presidente di centrosinistra, Vito De Filippo. Scaglione è indagato della procura di Potenza per concorso esterno in associazione mafiosa: è accusato di essere stato alla Regione l'uomo di riferimento del clan camorristico guidato dal boss Antonio Cossidente, ora in cella. Non era una questione di amicizia. Ma di affari. Quali affari? Con quali meccanismi viene cementato il patto tra politici e mafiosi?

Scaglione, sostiene la Procura, "avrebbe offerto il personale contributo politico e il sostegno del suo partito per la realizzazione del nuovo stadio sportivo di Potenza che l'organizzazione criminale voleva costruire". In cambio "avrebbe ottenuto l'appoggio elettorale dagli associati in occasione delle elezioni politiche del 2008", dove era candidato un amico di Scaglione. Alla base dell'indagine ci sono centinaia di pagine di intercettazioni telefoniche che testimoniano i rapporti esistenti tra il candidato Scaglione e il boss Cossidente.

È il 29 ottobre del 2007, per esempio, quando nello studio di un professionista di Potenza i due si incontrano. "Ti ho chiesto - dice il boss al politico - uno sforzo, perché noi siamo propensi ad aprire, a intavolare una trattativa. Tu che cose vorresti (...) garantisci tu per le persone". "L'unica condizione - gli risponde Scaglione - è creare un'opportunità di investimento per il quale qualcuno si senta coinvolto (...) Troviamo per esempio una forma di investimento... Una società costituita apposta che sia propensa a costruire un nuovo stadio".

Effettivamente la società la fonderanno: la Immobiliare Gemelli Sr, gestita da un prestanome. Ma Scaglione sembra pensare a tutto: "Io posso creare le condizioni per presentare un progetto finale, dove riusciamo a ottenere finanziamenti dall'esterno. (...) Però poi qualcosa la devi mettere tu nero su bianco, cioè i rapporti sono più tuoi (...) è chiaro che va costituita la società, ci sono i fondi europei per queste cose... Sai, io aspiro a parlarne nel consiglio regionale". Il boss apprezza il discorso. È contento, e ringrazia il politico: "Così - dice Cossidente - non cacciamo nemmeno i soldi alla fine (...) Luigi, tu sei secondo me il miglior tramite, il miglior rappresentante, la migliore persona di fiducia". Scaglione, sostengono i carabinieri della procura di Potenza nelle mille pagine di informativa depositate, sapeva con chi aveva a che fare. Per la cronaca, il candidato senatore amico di Scaglione e dei clan non fu eletto. Ora però Gigi ci riprova.

La profezia di Seminara

In Calabria con 15 mila euro si compra il voto di un'intera cittadina. Cassano Jonico nello specifico. In pratica si acquista un seggio. Lo ha fatto nel 2005 Franco La Rupa, ex consigliere regionale dell'Udeur. "Fu lui - scrivono i pm di Reggio - a stringere attraverso l'intermediazione di Luigi Garofalo un accordo con Antonio Forastefano, boss della 'ndrangheta, in forza del quale si impegnava a corrispondere denaro in cambio di voti". Quindicimila euro, appunto.

La Rupa ora non ci riprova. Non lui direttamente, per lo meno. In lizza con la lista Noi Sud, che appoggia il candidato presidente del Pdl, Giuseppe Scoppelliti, c'è suo figlio Antonio. "Vergogna", ha gridato in commissione Antimafia Angela Napoli, deputata del Pdl che contro "queste candidature in odore di 'ndrangheta" ha annunciato che alle prossime elezioni non andrà a votare.

In Calabria, secondo i dati arrivati all'Antimafia, i candidati a rischio sono 21: 16 sostengono la candidatura di Scopellitti, cinque quella di Loiero. Il procuratore capo di Reggio, Giuseppe Pignatone, spiega: "La 'ndrangheta si muove sempre quando ci sono interessi in ballo, succede nell'economia e anche nella politica, l'esperienza ci dice che ha sempre votato e fatto votare. È quindi ipotizzabile che succeda anche per le prossime elezioni".

Ma a favore di chi? Il procuratore non fa nomi. La Napoli sì: il primo è quello di Tommaso Signorelli (Socialisti uniti), anche lui con Scopellitti presidente. Il candidato fu arrestato nel dicembre del 2007 nell'inchiesta della Dda di Catanzaro che portò allo scioglimento, per infiltrazioni mafiose, del Comune di Amantea. Era lui - dice la procura antimafia - "il politico di riferimento del clan" che per tre anni almeno (dal 2004 al 2007) avrebbe favorito i Gentile-Africano nell'acquisizione degli appalti e dei servizi nel porto di Amantea. Capolista dell'Udc (che qui corre con il Pdl) è Pasquale Tripodi, ex assessore regionale Udeur. Di lui parla il pentito Cosimo Virgiglio, e dei suoi rapporti con il boss Rocco Molé, poi fatto fuori dai cugini Piromalli nel febbraio de 2008.

In Calabria ci sono poi quelli che non ci saranno. Domenico Crea, consigliere regionale uscente, è in carcere da due anni per concorso esterno in associazione mafiosa con i clan della Locride. Nel 2009 è stato condannato anche Pasquale Inzitari, astro nascente dell'Udc reggino, consigliere provinciale.

I boss si sono vendicati del suo tradimento facendo saltare in aria ad aprile del 2008, con un'autobomba, il cognato Nino Princi. E, due mesi fa, gli hanno ammazzato il figlio Francesco. Nel mirino dei magistrati anche Mariano Battaglia, candidato alle scorse regionali. È stato arrestato per l'operazione Topa, che si occupò delle infiltrazioni mafiose nel comune di Seminara.

Seminara è un paesino dell'Aspromonte nel quale i clan sono in grado di controllare i voti uno per uno. Nel fascicolo del pm Roberto Di Palma c'è un'intercettazione nella quale i boss dicono che, alle comunali, la lista da loro sostenuta prenderà 1050 voti. A spoglio terminato i magistrati ne conteranno 1056.


L'opposizione di Pier Furby
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 18 Marzo 2010

“Non scenderemo in piazza perché la vera opposizione si fa in Parlamento”. Così parlò Pier Ferdinando Casini alla vigilia della manifestazione che, lo scorso sabato, ha visto a Roma oltre duecentomila persone, arrivate da tutta Italia per protestare contro lo spudorato aggiramento delle regole attuato dal Governo con il decreto salva-liste.

Che la dichiarazione fosse in controtendenza rispetto alla pur insperata mobilitazione di quel Pd con cui divide i banchi della minoranza, ce lo si poteva aspettare da uno che con lo scudo crociato ci si è costruito la sua fortuna; quello che però si auspicava - soprattutto in vista della prossima chiamata alle urne - era che almeno Casini avesse il buon gusto di non smentirsi nell’immediato: quella è roba da premier e non gli si addirà mai.

Da quanto si è potuto apprendere leggendo il blog di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera dei flagellatori dell’Idv, erano infatti ben 17 i deputati dell’Udc assenti martedì al dibattimento sulla costituzionalità del decreto salva-liste: Michele Vietti, primo firmatario della mozione del partito, Rocco Buttiglione, Paola Binetti, Lorenzo Cesa, Francesco Bosi, Angelo Cera, Luciano Ciocchetti, Teresio Delfino, Antonio De Poli, Gian Luca Galetti, Mauro Libè, Gabriella Mondello, Savino Pezzotta, Michele Piasacane, Lorenzo Poli Nedo, Domenico Zinzi e ovviamente lui, Pier Ferdinando Casini.

Tenendo conto che la maggioranza è riuscita a salvare il decreto in corner, con uno scarto di soli 13 voti, possiamo leggere il comportamento dei deputati scudocrociati come l’ennesimo regalo fatto a quelli che dovrebbero osteggiare ma con cui in realtà si ritrovano spesso ad amoreggiare.

La storia della fu Democrazia Cristiana è infatti costellata di alleanze di facciata e intrisa di impareggiabile cerchiobottismo: è sufficiente vedere come per le regionali nel Lazio il partito di Pierfurby si sia schierato con Renata Polverini e con la peggiore rappresentanza del Pdl, vedi quel senatore Fazzone che meno di un anno fà impedì il commissariamento del comune di Fondi per infiltrazioni mafiose.

Pungolati in merito al colpo basso inferto a quella stessa opposizione da loro rappresentata alle Camere, gli esponenti dell’Udc non hanno potuto resistere alla ghiotta occasione di vittimismo in stile Azione Cattolica, e con Cesa hanno replicato candidi: “L’Udc non può contare né sui potenti mezzi televisivi né sulle disponibilità economiche del Pd e del Pdl. Per questo anche i suoi parlamentari vanno in prima persona nelle regioni dove si vota a fare campagna elettorale tra la gente”. Chapeau.

Date le premesse non ci si riesce a proprio a capacitare dell’insistenza con cui Bersani e il suo Pd vadano cercando l’alleanza di cotante personalità politiche: l’episodio della Puglia, in cui il partito pur di avere al suo fianco Casini era arrivato a rinunciare alla naturale intesa con Nichi Vendola - ovvero l’unica figura in grado di rappresentare perlomeno decentemente la sinistra istituzionale -, dovrebbe ben rendere il livello di schizofrenia raggiunto dal monstrum politico voluto da Walter Veltroni.

La spirale distruttiva che Bersani e i suoi hanno imboccato, scegliendo di fare sistematicamente ciò che ai loro elettori non piace, è palese in quello che potrebbe sembrare dilettantismo politico, ma che i più attenti sapranno decifrare come innegabile spaesamento di fronte alle continue sfide che un governo quale il Berlusconi quater di continuo propone.

Partecipare da protagonisti alla manifestazione di quel popolo viola snobbato e addirittura osteggiato solo 4 mesi fa, è prova incontrovertibile di come ormai i vertici siano definitivamente scollati da quella base che ha fatto dei residui del Pci un partito quantomeno eleggibile.

Chi una volta avrebbe votato i Ds, ora vota Di Pietro e le sue fin troppo semplici soluzioni, mentre chi prima, seppur turandosi il naso, si recava alle urne a mettere una croce sul male minore, ora si rassegna all’evidenza del fatto che ad oggi, in questa infinita telenovela politica, non ci siano reali alternative all’annichilimento.