Ci vorranno comunque mesi prima di vedere la formazione del nuovo governo iracheno, visto che nessuna coalizione sembra essere dominante.
Qui di seguito si approfondisce il tema in questione e anche il probabile futuro che attenderà gli iracheni nei prossimi mesi. Per niente roseo.
Maliki in testa in tre province del sud, ma sono dati molto parziali
da www.osservatorioiraq.it - 12 Marzo 2010
I risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento che si sono tenute in Iraq il 7 marzo continuano a filtrare. Non si tratta di veri e propri annunci, non c'è fretta: sono dati parziali, e poco rappresentativi, ma, in mancanza di meglio, i media li riferiscono.
Rispetto ai primi numeri, quelli diffusi ieri, oggi è cambiato poco: l'Alleanza per lo Stato di diritto, la coalizione del premier Nuri al Maliki, continua a essere in testa in alcune province del sud, a maggioranza sciita. Ieri erano due, oggi sono tre: a Babel e Najaf si è aggiunta Muthanna.
Quanto alla lista guidata dall'ex Primo Ministro Iyad Allawi, Iraqiya, è prima nelle province di Diyala e Salahuddin, dove però i voti conteggiati finora sono un po' pochi.
L'Iraqi National Alliance (INA), la coalizione che raggruppa la gran parte delle forze sciite, e che contende il sud alla formazione di Maliki, è al primo posto in una delle province meridionali, ed è seconda in quelle dove è in testa la lista del premier.
Questo, il panorama complessivo.
I numeri non sono molto significativi, perché si tratta di risultati parziali, da tutti i punti di vista: riguardano solo 7 province su 18, e i conteggi sembrano andare decisamente a rilento. Dal canto suo, la Commissione elettorale irachena (IHEC) mette le mani avanti e anticipa che i dati relativi a tutte e 18 le province non arriveranno nemmeno lunedì.
A Babel, la lista di Maliki ha quasi il 42% degli oltre 160.000 voti finora conteggiati; a Najaf, il 47% - e qui i voti sono al momento oltre 116.000. A Muthanna, una provincia sciita del sud poco popolata (è quella che elegge il minor numero di deputati) che confina con l'Arabia Saudita, la coalizione del premier è in testa sui rivali dell'INA con 15.000 voti a 11.000 – ma qui è stato finora conteggiato solo il 18%.
In tutte e tre le province la formazione di Allawi è terza, ma ha il primo posto finora a Diyala, a nord-est di Baghdad, con oltre 42.000 voti, e a Salahuddin, nel nord, con oltre 34.000 – entrambe le province hanno però conteggiato solo il 17% delle schede.
01 - Baghdad 02 - Salahuddin 03 - Diyala 04 - Wasit 05 - Maysan 06 - Bassora 07 - Dhi Qar 08 - Muthanna 09 - Qadissiya 10 - Babel 11 - Karbala 12 - Najaf 13 - Anbar 14 - Ninive 15 - Dohuk 16 - Irbil 17 - Ta'amim (Kirkuk) 18 - Sulaimaniya |
Intanto i suoi leader denunciano brogli, e insinuano che la coalizione del premier starebbe facendo pressioni sulla Commissione elettorale per influenzare i risultati.
"Abbiamo la sensazione che ci siano un certo numero di tentativi per cambiare il risultato", dice uno dei suoi esponenti, Falah al-Naqib, aggiungendo che "il governo sta esercitando molte pressioni sulla commissione".
Gli sciiti dell'INA sarebbero invece in testa in un'altra provincia del sud: Maysan, già roccaforte del movimento di Muqtada al Sadr (i cui sostenitori sono nelle sue liste) – con 30.000 voti, e il conteggio che è arrivato al 23 per cento. Seconda la coalizione di Maliki, con quasi 23.000 voti.
E arrivano anche i dati (ovviamente parziali) di una delle tre province che compongono la regione del Kurdistan. A Irbil, dove finora è stato conteggiato circa il 28% dei voti, la Kurdistan Alliance, la coalizione che raggruppa il grosso delle forze kurde, compresi i due partiti principali, starebbe vincendo, con oltre 96.000 voti. Indietro, e di molto, il movimento di opposizione Goran, che di voti ne ha presi solo poco più di 20.000.
In attesa delle prossime puntate.
Nonostante l’abitudine, ci sorprende sempre che quanti hanno perennemente sulla bocca i peana sulla sacralità dei diritti dell’uomo, siano del tutto disinteressati alla sorte reale degli uomini, delle donne e dei bambini di cui si proclamano difensori.
L’importante, per loro, è affermare il principio e che le regole auree dell’ ideologia liberale siano rispettate. Lo abbiamo verificato, ancora una volta, leggendo i commenti della stampa sulle recenti elezioni irachene.
Dai media Usa è giunta la “direttiva” di considerare la consultazione elettorale come la prova che l’invasione dell’Iraq ha, finalmente, raggiunto i suoi obiettivi, avviando il Paese verso la pace e la democrazia. Missione compiuta è il messaggio da trasmettere, dimenticando quanto prematuramente il presidente Bush avesse dato, nel marzo del 2003, lo stesso annunzio.
Un po’ di prudenza, insomma, non guasterebbe. C’è però l’urgenza di giustificare un inaudito bagno di sangue con il trionfo finale del Bene. Chissà se le vedove e i figli di quanti nel frattempo sono stati massacrati condividono.
E’ utile verificare come tre importanti giornali italiani, di orientamento differente rispetto alla politica interna, abbiano usato, nelle loro cronache, più o meno gli stessi toni esultanti per descrivere la “vittoria della democrazia”.
Ovviamente, “il Giornale”, più accanitamente favorevole sempre e comunque agli Usa, rispetto al “Corriere della Sera” e a “Repubblica”, è quello che ha sciolto maggiormente le briglia alla fantasia nel celebrare la “grande prova democratica” del popolo iracheno, ma anche i resoconti degli altri due quotidiani erano immuni da dubbi.
Nei commenti dei rispettivi esperti di politica internazionale, il quotidiano di via Solferino è, invece, apparso un po’ più equilibrato, mentre “il Giornale” e “Repubblica”, così aspramente divisi nel giudizio rispetto al Cavaliere, si sono mostrati in quasi totale sintonia.
Sul “Corriere”, Franco Venturini non ha celato alcune delle incognite che gravano sul futuro dell’Iraq, ma ha ugualmente definito “storiche” le elezioni, rappresentandole come un sicuro successo, senza alcun dubbio circa la loro effettiva regolarità e, soprattutto, senza ricordare quale devastazione il Paese abbia dovuto subire per celebrare il “sospirato” rito democratico.
Di vittoria nella “battaglia della democrazia” ha scritto Bernardo Valli su “Repubblica”, rimarcando come la partecipazione al voto dei sunniti rappresenti un primo segnale di riconciliazione tra le diverse confessioni che, durante gli anni passati, si erano confrontate con le armi in pugno piuttosto che col voto.
Da questa sottolineatura di un’armonia ritrovata -in un Paese, si badi bene, dove i quartieri misti, nelle città, sono solo un ricordo dopo l’orgia di violenze settarie- ai toni lirici di Fiamma Nirenstein sul ”Giornale”, che si vanta personalmente del successo di quella “misteriosa aspirazione umana che è la libertà”, come fosse merito suo, c’è una differenza di stile, ma un uguale giudizio di fondo sulle conseguenze dell’invasione.
Il confronto tra questi editoriali mostra la sostanziale unanimità della stampa di impronta liberale, ovvero di tutta la grande stampa nei Paesi occidentali, rispetto alla tragedia irachena.
L’essenziale era, quindi, arrivare a una contesa accettata anche dai sunniti, ricostruendo così l’unità della nazione. Ne consegue che l’invasione statunitense è stata una scelta giusta e che le violenze, le devastazioni, i crimini accaduti sono stati un prezzo indispensabile per raggiungere l’obiettivo supremo della liberaldemocrazia dal volto islamico.
In questa concezione incredibilmente “formalistica” della politica, nessuno poi si fa domande sulla regolarità delle elezioni, cui non risulta abbiano partecipato osservazioni stranieri.
Eppure, qualche dubbio dovrebbe suscitarlo quella “Commissione Elettorale Irachena” che ha ammesso solo 1.800 candidati su 6.172, respingendo, tra l’altro, oltre 500 candidature con il pretesto di una vicinanza ideologica agli ideali del disciolto partito Baath.
In Iraq, diversi giornalisti indipendenti affermano che non c’è da fidarsi per quanto riguarda la conta dei voti che, tra l’altro, non si sa in quali tempi avverrà. E’, insomma, un processo elettorale un po’ misterioso e stupisce che quanti sono ultrasospettosi riguardo alle votazioni in Iran, dimostrino così poca curiosità dall’altra parte del confine.
Intanto, a sette anni dall’invasione, la violenza, anche se diminuita di intensità, continua a martoriare l’Iraq. Ne soffrono particolarmente i cristiani, che durante il regime di Saddam erano una comunità abituata a vivere in piena libertà la propria fede religiosa.
In questo caso, i cantori delle radici giudaico-cristiane minacciate dall’islamismo, non sembrano molto preoccupati di tale “danno collaterale” verificatosi dopo la presa di Baghdad da parte delle truppe Usa.
Si risponde che la democrazia è una lezione difficile da imparare, ma che col tempo tutto si sistemerà perché, quando la gente capisce di avere cominciato a vivere nel migliore dei mondi possibili, la smette di scannarsi e affina le proprie virtù civiche.
Quanto sia costata la lezione, però, ancora nessuno lo sa con sicurezza. Gli occupanti, infatti, tengono il conto dei propri morti, ma si disinteressano del numero delle altre vittime. La differenza tra le diverse stime è enorme: si va da una cifra di 100mila vittime come conseguenza più o meno diretta dell’invasione a oltre un milione.
Di sicuro si è verificato un massacro di proporzioni enormi, che tutta la ferocia di Saddam non sarebbe riuscita a produrre in altri decenni di potere. Il Paese in “via di pacificazione” è ancora devastato, i profughi, all’interno della nazione o all’estero, sono molte centinaia di migliaia, quasi tutte le famiglie piangono uno o più caduti, gli odi tra gruppi etnici e fedi diverse mietono, ogni giorno, nuove vittime e ipotecano negativamente il futuro del Paese.
Il regime di Saddam sarà stato feroce quanto si vuole (probabilmente molto meno di come si racconta sui nostri giornali), ma era riuscito a costruire uno Stato sociale che, relativamente agli standard della regione, era più che decoroso ed ora non esiste quasi più.
La classe intellettuale dell’Iraq –medici, scienziati, avvocati, professori universitari- era vasta e attiva, ma è una di quelle che è stata colpita più duramente. Molti dei sopravvissuti sono fuggiti all’estero e si calcola che ci vorrà più di una generazione per ricostruire un ceto intellettuale come quello di un tempo, con le conseguenze negative immaginabili.
E, però, dice la stampa occidentale, si è riusciti a celebrare le elezioni. Bene, visto il bel risultato ci si predisponga ad invadere qualche altra decina di Stati nel mondo retti da dittatori : con qualche milione di morti si dovrebbe riuscire a trasformali in tante meravigliose democrazie come le nostre. Cosa potrebbero volere di meglio?
Nelle ultime ore ho seguito su blog di diversi giornali, italiani e stranieri, i titoli sulle elezioni irachene. E’ passato lo stesso messaggio: iracheni in massa alle urne, vince la democrazia. Ho letto diversi editoriali in cui più o meno veniva ripetuta la stessa tesi: un passo avanti, ci sono ancora molti rischi, ma è la dimostrazione che l’Irak sta andando verso la normalità e dunque in una vera democrazia.
Tutto plausibile, eppure….Osservo che in questo caso lo spin ha funzionato alla grande: siccome pochi giornalisti ormai si occupano regolarmente di Irak e pochissimi ci sono stati girando liberamente è facile, per gli spin doctor, far passare il messaggio voluto, perché manca un riscontro oggettivo e visivo della realtà.
Ad esempio: decine di candidati sunniti sono stati esclusi a pcohi giorni dal voto perché ex membri del partito Baat. E ancora: l’affluenza alle urne è stata del 62%, alta considerate le bombe e le minacce, eppure non plebiscitaria
Ma l’aspetto più importante è stato taciuto, da quasi tutti. Una rimarchevole eccezione è quella dell’inviato inglese Robert Fisk, che sull’Independent di ieri, ha spiegato che la democrazia in Irak non è uguale a quella occidentale, ma è ritagliata sul modello libanese o cipriota. Ovvero le quote dei deputati in Parlamento sono in gran parte determinate su basi etniche e di clan, talvolta addirittura settarie.
E sarà questo il criterio che verrà seguito per determinare il nuovo governo. A queste elezioni hanno partecipato 6mila candidati di 86 partiti; ci vorranno settimane per sapere chi è stato eletto e sarà tanti mini partiti che verrà formata l’alleanza di unità nazionale che sosterrà il governo.
Bene le elezioni, rappresentano un importante passo avanti, ma nel valutare l’Irak bisogna restare lucidi. Gli assetti del Paese verranno decisi fuori dal Parlamento, seguendo logiche religiose e settarie, e sotto l’influenza, talvolta occulta e talaltra palese, degli Stati Uniti e dell’Iran.
Non esattamente una vera democrazia… basta esserne consapevoli. O sbaglio?
Per un alleato degli Stati Uniti le elezioni sono questione di vita o di morte
di Ned Parker - The Los Angeles Times - 12 Marzo 2010
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorioiraq.it
L’ex leader di una milizia ha contribuito a riportare l’ordine a Baghdad, poi è stato arrestato dalle forze di sicurezza che adesso gli stanno dando la caccia.
Raad Ali ha osservato le elezioni nazionali domenica scorsa rintanato in una zona fuori Baghdad, nell’anonimato. Qui nessuno gli dà fastidio: persone che non lo conoscono pensano che sia solo un altro degli sfollati iracheni dalla capitale.
Le giornate sono lunghe, e sente la mancanza della moglie e dei figli – e crede che i risultati delle elezioni determineranno se potrà tornare a casa o se dovrà andare in esilio, lontano dai suoi cari.
Con le sue camicie dal colletto abbottonato, i pantaloni casual, e il consueto sorriso, Ali sembra un umile impiegato statale, o un commesso zelante che si sta avviando verso una mezza età paffuta. A mostrare la sua preoccupazione è solo la barba di qualche giorno.
Poco più di due anni fa, stringeva la mano al Generale dell’esercito statunitense Ray Odierno, a Ghazaliya, che una volta era il suo quartiere, dove comandava uno dei primi gruppi a Baghdad di un movimento paramilitare sunnita che ha contribuito a riportare la calma nella capitale. Adesso le forze di sicurezza irachene gli stanno dando la caccia, nonostante abbia combattuto l’Esercito del Mahdi e “al Qaeda in Iraq” nel suo quartiere, nella parte ovest di Baghdad.
Ali prega che le elezioni nazionali risolvano il suo problema: se vince Iyad Allawi, pensa che per lui ci sarà un posto nel suo Paese; se vincono Nuri Maliki o altri sciiti fondamentalisti, crede che la persecuzione non finirà mai. Sarebbe solo questione di tempo prima di venire messo in carcere e separato per sempre dalla sua famiglia.
"Se non vince Allawi, il futuro è cupo", dice. "Prenderanno di mira tutti".
Secondo lui, il rancore risale a prima del 2003, quando era un ufficiale delle forze speciali irachene, e quelli che oggi governano combattevano lo Stato dall’esterno. Queste divisioni ancora non si sono rimarginate.
Né Ali né le forze armate statunitensi sanno quali siano le accuse specifiche nei suoi confronti, solo che contro di lui è stato spiccato un mandato che lo accusa di terrorismo.
Ali non è il solo a nascondersi: parla di amici che hanno lasciato la capitale prima delle elezioni. Secondo un alto funzionario dell’esercito Usa, più di 60 membri di gruppi sunniti tribali, paramilitari, e religiosi - a Baghdad e nella cintura rurale attorno alla città - sono stati incarcerati dall’estate scorsa: alcuni sono finiti nelle prigioni gestite dalle forze speciali irachene o dalla ”Brigata Baghdad”, un’unità dell’esercito controllata da Maliki.
"Forse c’è un piano per creare scompiglio nelle zone sunnite", dice il funzionario militare. Gli arresti hanno aggiunto un’ulteriore sensazione di paura alle dinamiche della politica irachena, assieme alle più pubblicizzate purghe contro i ba’athisti durante la campagna elettorale.
La vita di Ali in clandestinità è iniziata quando gli americani si preparavano a lasciare le città, la scorsa primavera, in base al nuovo accordo di sicurezza fra Iraq e Stati Uniti. Nel marzo scorso, forze di sicurezza irachena avevano fatto irruzione in casa sua, vicino a una base militare Usa, dove comandava le sue truppe paramilitari.
Dopo otto giorni in carcere, un giudice aveva ordinato il suo rilascio e fatto cadere le accuse nei suoi confronti, comprese quelle che venivano da un informatore segreto, secondo cui lui era un capo locale del gruppo “al Qaeda in Iraq”.
Il rilascio era avvenuto dopo un’azione di lobbying a favore della sua libertà da parte delle forze armate statunitensi. All’epoca, Ali era fiducioso di poter continuare a vivere normalmente: i suoi nemici lo avevano portato in tribunale, ed era stato prosciolto.
Invece, poche settimane dopo essere stato liberato, aveva ricevuto altre soffiate da alcuni amici nelle forze di sicurezza irachene che lo informavano che alcuni ufficiali avevano intenzione di incarcerarlo. L’estate scorsa, una volta era stato fermato per due ore dall’esercito iracheno, ma lo avevano lasciato andare perché non avevano un mandato.
A settembre, un forte presentimento lo aveva spinto a sistemare la sua famiglia da un’altra parte. Il giorno in cui stava traslocando, forze dell’esercito iracheno avevano fatto irruzione nel suo quartier generale, che prima era la sua casa. Per caso, Ali si trovava nella casa nuova a spacchettare, quando era venuto a sapere che le forze di sicurezza lo cercavano.
Aveva troncato i contatti con gli amici, e cercato di sparire dentro Baghdad. Si era abituato alla sua vita in clandestinità, dicendosi che fintanto che si teneva lontano da Ghazaliya, il governo iracheno non gli avrebbe dato fastidio.
Ma presto si era trovato a tener d’occhio lo specchietto retrovisore in cerca di macchine sospette, ed era diventato diffidente verso tutto.
Pochi mesi dopo, lui e la moglie avevano deciso che sarebbe stato meglio che lasciasse la città.
Dal posto in cui si nasconde, ogni tanto telefona al figlio adolescente e alle due figlie. E’ sempre stato quello che imponeva la disciplina, quindi dice ai figli di fare i compiti, e li rimprovera se disobbediscono alla mamma.
"Voglio vederli e sentire il loro odore", dice. "Mi mancano troppo".
Alcune volte si è arrischiato ad andare a Baghdad per vederli, e ha sorpreso la famiglia, telefonando quando era a pochi minuti da casa loro.
La moglie gli dice di lasciare il Paese se sarà necessario: lei farà finta che sia in carcere.
Se se ne andrà, andrà prima in un Paese arabo, e poi, forse, cercherà di andare negli Stati Uniti: spera che i suoi vecchi amici nelle forze armate Usa e all’ambasciata americana lo aiutino, ma con loro non ha più contatti veri e propri da quattro mesi. Spera che la situazione si definisca presto.
L’ultima volta che è stato a Baghdad, la figlia più piccola lo ha implorato di portarla con lui.
"Le ho detto che dopo le elezioni forse tutto cambierà", dice Ali, seduto su un divano nel suo nascondiglio, con la voce piena di affetto per la figlia. Ma poi il suo umore cambia.
"Onestamente, non ho speranza", dice. "Davvero, non ho speranza".
Il Giorno del giudizio è davvero dietro l'angolo?
di Tom Engelhardt - The Los Angeles Times - 10 Marzo 2010
Il Paese potrebbe effettivamente precipitare nel caos – ma questo potrebbe succedere, ed è successo, anche con la presenza delle truppe Usa.
Siamo in guerra a intermittenza con l'Iraq da quasi 20 anni, e con l'Afghanistan da 30: in tutto fanno quasi mezzo secolo di esperienza, totalmente negativa.
Tuttavia, un gruppo di opinionisti basati a Washington che va allargandosi sta chiedendo al Presidente Obama di prolungare la sventura, esortando l'Amministrazione a modificare i suoi piani – negoziati negli ultimi mesi dell'amministrazione di George W. Bush – per il ritiro di tutte le truppe americane dall'Iraq entro fine 2011. Ritirarsi secondo il calendario previsto, sostengono, sarebbe praticamente garanzia di violenza civile e spargimento di sangue etnico in Iraq.
Secondo questi profeti di sventura, il nostro ritiro in base al calendario stabilito incoraggerebbe le milizie sciite a organizzare un ritorno colmo di violenza; l'ingerenza iraniana negli affari iracheni aumenterebbe – portando ulteriore violenza. E il gruppo "al Qaeda in Iraq" si muoverebbe per riempire qualunque vuoto di potere con la propria agenda distruttiva.
Finora, l'Amministrazione e le forze armate dicono di sperare ancora di ritirarsi secondo il calendario previsto. Il mese scorso, tuttavia, il Washington Post ha riferito che l'esercito statunitense ha messo a punto piani di emergenza per posticipare il ritiro stabilito di tutte le truppe da combattimento dal Paese in agosto.
E Tom Ricks, uno specialista in questioni di sicurezza nazionale, ha scritto sul sito di Foreign Policy che il comandante in capo delle forze Usa in Iraq, il Generale dell'esercito Ray Odierno, ha chiesto ufficialmente che una brigata da combattimento rimanga nella città agitata di Kirkuk, nel nord, dopo il termine fissato.
Nel frattempo, un coro dei soliti esperti -- "giornalisti guerrieri", come li definisce Tom Hayden – sta cantando avvertimenti sempre più forti secondo i quali il maggiore di tutti i pericoli sarebbe un ritiro prematuro.
Ricks, ad esempio, ha raccomandato sul New York Times che l'amministrazione Obama dovrebbe "trovare un modo" per mantenere una "forza relativamente modesta, su misura" compresa fra i 30.000 e i 50.000 soldati, in Iraq "per molti anni a venire". (Questi numeri, cosa abbastanza strana, ricordano i 34.000 militari Usa che, a quanto scrive Ricks nel suo bestseller del 2006, "Fiasco," il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz aveva previsto come la futura guarnigione statunitense in Iraq nelle settimane precedenti all'invasione del 2003).
Kenneth Pollack, della Brookings Institution, che nel 2003 aveva suonato i tamburi di guerra per invadere l'Iraq, adesso è contrario a rimuovere troppo presto "il gesso" – la metafora che usa per definire la presenza delle forze armate Usa – sul "braccio rotto" dell'Iraq.
Kimberly e Frederick Kagan, che a loro volta avevano difeso la guerra fin dall'inizio, hanno scritto di recente un articolo per il Wall Street Journal chiedendo "una partnership militare a lungo termine con l'Iraq oltre il 2011", dicendo che per quella data il Paese non sarà ancora in grado di difendersi.
Bisogna riconoscere che l'Iraq è un casino. Sotto il nostro controllo, il Paese è crollato e bruciato, e non c'è nessuno che sostenga che l'abbiamo rimesso insieme. Molti miliardi di dollari in fondi dopo, gli Stati Uniti continuano a non essere in grado di fornire le cose più semplici, come elettricità costante o acqua potabile, a parti consistenti del Paese.
A anche se l'Iraq è nel caos, la nostra fiducia in noi stessi, il nostro – perché non dirlo? -- narcisismo, rimane intatto. Stiamo ancora, in qualche modo, specchiandoci in quello stagno, innamorati del volto benevolo, disponibile che vi si riflette. Ci siamo autoconvinti di poter vedere il futuro dell' Iraq, e che un futuro iracheno senza di noi sarebbe la desolazione personificata.
A rendere particolarmente forti le argomentazioni degli esperti-guerrieri è il fatto che essi le basano quasi completamente su cose che debbono ancora accadere e che potrebbero non verificarsi mai. Dopotutto, gli esseri umani si sono dimostrati tutt'altro che capaci di prevedere il futuro: la storia ci coglie regolarmente di sorpresa.
Sono ormai in pochi a ricordarlo, ma siamo passati per una versione di questa situazione - 40 anni fa, in Vietnam. Anche in quel conflitto agli americani venne detto ripetutamente che gli Stati Uniti non potevano ritirarsi perché, se ce ne fossimo andati, il nemico avrebbe lanciato un "bagno di sangue" in Vietnam del sud.
Questo futuro bagno di sangue dell'immaginazione compariva in innumerevoli discorsi e resoconti ufficiali. Divenne talmente reale che a volte sembrò mettere in ombra il bagno di sangue effettivo, quello che avveniva in Vietnam, e per anni fornì una spiegazione convincente del motivo per cui qualsiasi ritiro avrebbe dovuto essere rinviato in modo interminabile e a tempo indeterminato.
Quando tuttavia l'ultimo americano se ne andò sull'ultimo elicottero, il bagno di sangue non ci fu.
In Iraq, c'è una sola cosa certa: dopo la nostra invasione, e con le truppe statunitensi e quelle alleate a occupare il Paese in numero significativo, gli iracheni sono piombati in un bagno di sangue monumentale. E' avvenuto in nostra presenza, sotto il nostro controllo, e in buona parte grazie a noi.
Ma perché bisognerebbe tener conto degli antefatti storici quando i nostri esperti e i nostri strateghi hanno un tale accesso privilegiato a un futuro altrimenti ignoto? Nell'anno che verrà, sulla base di ciò che stiamo vedendo oggi, tali argomentazioni probabilmente si intensificheranno. Le profezie terribili sul futuro dell'Iraq senza di noi si moltiplicheranno.
E' vero che in Iraq potrebbero accadere cose terribili. Potrebbero accadere mentre siamo lì. Potrebbero accadere quando ce ne saremo andati. Ma la storia produce le sue sorprese più regolarmente di quanto immaginiamo – persino in Iraq.
Nel frattempo, vale la pena ricordare che neanche gli americani possono occupare il futuro. Esso non appartiene a nessuno.
Allawi, l'uomo del dialogo. "Le etnie per me non contano"
di Bernardo Valli - La Repubblica - 9 Marzo 2010
Il profilo è quello di un aristocratico; l'espressione oscillante tra dolcezza e ironia è quella di un intellettuale; il corpo appesantito è quello di un sedentario, più burocrate che uomo d'azione. In carne ed ossa Ayad Allawi non riflette il personaggio che uno immagina dopo avere scorso la sua agitata, rocambolesca, biografia politica e privata.
Lo incontro perché è uno dei protagonisti del dramma iracheno che più esprimono lo spirito di riconciliazione, ed anche l'emergere di una tormentata e salutare tendenza laica, alle origini delle riuscite elezioni legislative. Le quali hanno segnato una svolta, poiché la minoranza sunnita che alimentava l'insurrezione armata ha votato in massa, per la prima volta, insieme alla detestata maggioranza sciita al potere.
Il rifiuto sunnita resta ancora annidato in cuori e cervelli, ma adesso, dopo le legislative del 7 marzo, dovrebbe prevalere l'accettazione politica, la condivisione, delle istituzioni fino a ieri respinte. L'intesa è stata faticosa e resta precaria. È prematuro annunciare la fine della violenza, o esaltare il trionfo della democrazia. Ma un importante passo verso quegli obiettivi tanto a lungo ritenuti irraggiungibili, perché sommersi dal sangue, c'è stato.
Ayad Allawi fu il primo capo di governo dopo la dittatura di Saddam Hussein, sotto la rigida amministrazione politica e militare degli invasori americani. Gli chiedo se pensa di essere sul punto di diventare di nuovo primo ministro, questa volta eletto dagli iracheni. Gira le spalle all'ampia finestra dell'ufficio di garbata eleganza, senza un oggetto o una carta fuori posto, e la sua massiccia sagoma si staglia pacifica, rassicurante, in armonia con l'atteggiamento cordiale. Naturalmente dice di non saperlo.
Si conosceranno i risultati soltanto tra pochi giorni. Allarga le braccia. Ma la sua modestia ha un limite. Aggiunge che un avversario politico, Ammar Hakim, capo di un'alleanza sciita, gli ha appena telefonato per felicitarlo. E questo è un buon segnale. Inoltre ricorda che ha letto con soddisfazione quel che ha scritto Henry Kissinger di lui. Il vecchio Henry pensa che lui sarebbe il primo ministro migliore.
In effetti, stando ai vaghi sondaggi, Ayad Allawi (64 anni) potrebbe contendere seriamente il posto di capo del governo a Nuri Kamal al-Maliki, il primo ministro uscente. I due sarebbero in testa. Lo spoglio dei voti sarà comunque laborioso, litigioso, e potrebbe ovviamente riservare sorprese.
Non voglio lusingarlo, ma gli esprimo quel che molti pensano, e che mi sembra un fatto obiettivo: e cioè che la sua linea politica, al di là dell'imminente risultato elettorale, ha già prevalso con la forte, inedita partecipazione alle elezioni. In un certo senso lo si può definire un vincitore. La corsa alle urne di sciiti e sunniti insieme ha dimostrato il desiderio di riconciliazione, della quale lui, Ayad Allawi, è stato il più tenace promotore.
Si è prodigato, in concreto, nel recuperare i vecchi membri del partito Baath (il partito unico di Saddam Hussein) che non si erano resi colpevoli di delitti politici, e che emarginati, messi fuori legge dall'epurazione, si erano lasciati coinvolgere nell'insurrezione armata o erano di fatto dei fiancheggiatori. Lui, sciita, ed ex membro in gioventù del Baath, prima di passare a una tenace, radicale resistenza anti-Saddam, ha acceso un dialogo con quei sunniti, nel nome della laicità.
Laicità è un'espressione che gli va a genio. La preferisce a riconciliazione. Il suo concetto è lineare. È cartesiano in una società che non lo è. Qui è antisettario. "Secondo i miei principi laici non esistono sciiti e sunniti, ma semplici cittadini. Ed è su questa base che ho fondato il mio partito", mi spiega, aggiungendo poco dopo, quasi fosse una pezza d'appoggio, che da ragazzo ha studiato dai gesuiti. Al che replico che i gesuiti non sono particolarmente laici. "Forse, ma aprono la mente".
Ha sfidato la tradizione, i pregiudizi e soprattutto ha combattuto le rivalità etniche e religiose. Per anni l'hanno preso per un eretico. Per un complice del Baath clandestino. Ancora oggi fioccano le accuse in questo senso. Ma il paese dissanguato da anni di massacri e umiliazioni ha cominciato a dargli retta.
Cresciuto in una famiglia facoltosa, di proprietari, commercianti e uomini politici, l'allievo dei gesuiti si è poi laureato in medicina, e ha trascorso in esilio trent' anni in Occidente, soprattutto a Londra. Dove ha anche avuto una moglie cattolica.
Il lungo esilio è stato agitato. Non è stato quello di un pacifico medico. Ma la medicina in Iraq è spesso anche una preparazione alla politica. Abbandonato il partito Baath, del quale era un rappresentante all'estero, è diventato un attivo membro della resistenza al regime di Saddam. Al punto da partecipare a uno sfortunato complotto il cui obiettivo era di attentare alla vita del dittatore.
E i servizi segreti iracheni cercarono a loro volta di eliminarlo. Una notte del febbraio '78 fu sorpreso nel letto, nella sua casa del Surrey, e i sicari venuti da Bagdad lo lasciarono convinti d'averlo ucciso. Era invece in un bagno di sangue e con le gambe ridotte in poltiglia, ma vivo. Ci sono voluti degli anni per riattivare le gambe.
Gli chiedo se soffre ancora e lui si tocca un ginocchio e dice che nella memoria è rimasta una ferita. L'aristocratico dal fisico di un sedentario, un po' sovrappeso, mi si rivela all'improvviso l'uomo d'azione che è stato e che è. Non perché il suo sguardo cambi espressione, si faccia più tagliente, ma perché scopro nella sua cordialità, nella sua gentilezza qualcosa di metallico. Sembra fissa. Immutabile.
Giornali australiani, subito smentiti, e non solo dall'interessato, hanno raccontato che in un posto di polizia, dopo la caduta di Saddam Hussein, egli uccise a freddo sei prigionieri politici. Per dare un esempio. Una leggenda. Ma che ha contribuito alla sua fama di uomo forte. Deciso. Una fama tutt'altro che negativa in un paese in preda alla violenza e assetato di uomini capaci di domarla.
Durante la resistenza al regime di Saddam ha collaborato con la Cia e i servizi britannici. Un esule politico non ha molte scelte. Un uomo ancora degli americani? Egli è critico con loro, come quasi tutti i politici iracheni, nel paese che recupera a grandi passi l'indipendenza. Gli chiedo se è vero che molti, a Falluja, hanno votato per lui. Risponde: "Anche a Najaf".
La mia domanda non è casuale. Quando era primo ministro appoggiò la lunga operazione con la quale i marines smantellarono il feudo dell'insurrezione armata sunnita in quella città, lasciando poche case in piedi e molti morti sul terreno. Fu la più accanita battaglia in sette anni di occupazione.
Con la stessa tenacia chiese che la città santa di Najaf fosse strappata al controllo delle milizie sciite dissidenti. Gli elettori di Falluja e di Najaf non gli hanno serbato rancore. Anzi l'hanno votato, quasi volessero premiare la laicità, anche con i suoi risvolti violenti.
Non penso che abbiano dimenticato i morti, ma adesso sembra che apprezzino il superamento della sanguinosa divisione tra sciiti e sunniti. Le guerre civili conducono a conclusioni da esaminare con maggior profondità. Mentre uscivo dal suo ufficio il probabile futuro primo ministro (definito da un elettore "duro ma giusto") mi ha detto con un vero sorriso che ama il lago di Como.