sabato 13 marzo 2010

Update italiota

Un altro update delle vergognose vicende italiote.



Una questione di democrazia
di Ezio Mauro - La Repubblica - 13 Marzo 2010

Non è l'aspetto penale (di cui nulla sappiamo) il punto più importante dell'inchiesta dei magistrati di Trani che indaga il presidente del Consiglio, il direttore del Tg1 e un commissario dell'Authority sulle Comunicazioni.

L'ipotesi di concussione verrà vagliata dalla giustizia, e certamente il capo del governo avrà modo di difendersi e di far sentire le sue ragioni, o di far pesare le norme che bloccano di fatto ogni accertamento giudiziario sul suo conto, facendone un cittadino diverso da tutti gli altri, uguale soltanto all'immagine equestre che ha di se stesso.

Ma c'è una questione portata alla luce da questa inchiesta che non si può evitare e domina con la sua evidenza eloquente questa fase travagliata di agonia politica in cui si trova il berlusconismo. La questione è l'uso privato dello Stato, dei pubblici servizi creati per la collettività, della presidenza del Consiglio, persino delle Autorità di garanzia, che hanno nel loro statuto l'obbligo alla "lealtà e all'imparzialità", per non determinare "indebiti vantaggi" a qualcuno.

Siamo di fronte a una illegalità che si fa Stato, un abuso che diviene sistema, un disordine che diventa codice di comportamento e di garanzia per chi comanda.

Con la politica espulsa e immiserita a cornice retorica e richiamo ideologico, sostituita com'è nella pratica quotidiana dal comando, che deforma il potere perché cerca il dominio. Questi sono tratti di regime, perché il sovrano prova a mantenere il consenso attraverso la manipolazione dell'informazione di massa, inquinando le Autorità di controllo poste a tutela dei cittadini, con un'azione sistemica di minaccia e di controllo che avviene in forma occulta, all'ombra di un conflitto di interessi già gigantesco e ripugnante ad ogni democrazia.

Il controllo padronale e politico sull'universo televisivo (unico caso al mondo per un leader politico) non basta più quando la politica latita e la realtà irrompe. Bisogna andare oltre, deformando là dove non si riesce a governare, calpestando là dove non basta il controllo.

Così il presidente del Consiglio, a capo di un Paese in perdita costante di velocità, passa le sue giornate tenendo a rapporto un commissario dell'Agcom per confessargli le sue paure non per la crisi economica internazionale, ma per due trasmissioni di Michele Santoro, dove la libera informazione avrebbe parlato del processo Mills e del caso Spatuzza, corruzione e mafia.

I due parlano come soci, o come complici, o come servo e padrone, cercando qualche mezzo - naturalmente illecito perché la Rai non dipende né dall'uno né dall'altro - per cancellare Santoro: e l'uomo di garanzia propone al premier di trovare qualcuno che inventi un esposto (lui che come commissario dovrebbe ricevere le denunce e imparzialmente giudicarle) incaricandosi poi direttamente e volentieri di provvedere all'assistenza legale per il volenteroso.

Poi il premier parla direttamente con il direttore del Tg1, manifestando le sue preoccupazioni, e il "direttorissimo" (come lo chiama il primo ministro) il giorno dopo va in onda puntualissimo con un editoriale contro Spatuzza. Infine, lo statista trova il tempo addirittura per lamentarsi della presenza mia e di Scalfari a "Parla con me", una delle pochissime trasmissioni Rai che ha invitato "Repubblica": si contano sulle dita della mano di un mutilato, mentre il giornalismo di destra vive praticamente incollato alle poltrone bianche di "Porta a porta" e ad altri divani di Stato.

La fluida normalità di questi eventi, che sarebbero eccezionali e gravissimi in ogni Paese occidentale, rivela un metodo, porta a galla un "sistema". Citando Conrad, l'avevamo chiamata "struttura delta", un meccanismo che opera quotidianamente e in profondità nello spazio tra l'informazione e la politica, orientando passo per passo la prima nella lettura della seconda: in modo da ri-costruire la realtà espellendo i fatti sgraditi al potere o semplicemente rendendoli incomprensibili, per disegnare un paesaggio virtuoso in cui rifulgano le gesta del Principe.

Oggi si scopre che il premier è il vero capo operativo della "struttura delta" e non solo l'utilizzatore finale. Lui stesso dà gli ordini, inventa le manipolazioni della realtà, minaccia, evoca i nemici, suggerisce le liste di proscrizione, deforma il libero mercato televisivo, addita i bersagli.

Che farà quest'uomo impaurito con i servizi segreti che dipendono formalmente dal suo ufficio, se usa in modo così automatico e disinvolto la dirigenza della Rai e le Autorità di garanzia, istituzionalmente estranee al suo comando? Come li sta usando, nell'ombra e nell'illegalità, contro gli stessi giornalisti che lo preoccupano e che vorrebbe cancellare, in una sorta di editto bulgaro permanente?

La sfortuna freudiana ha portato ieri Bondi a evocare una "cabina di regia" di giudici e sinistre, proprio mentre il Gran Regista forniva un'anteprima sontuosa del suo iperrealismo da partito unico, a reti unificate.

La coazione gelliana a ripetere ha spinto Cicchitto a evocare il "network dell'odio", proprio quando il Capo del network dell'amore insulta avversari e magistrati, in una destra di governo ormai e sempre più ridotta alla ragione sociale della P2, che voleva occupare lo Stato, non governarlo.

L'istinto ha condotto La Russa ad afferrare per il bavero un giornalista critico del leader, alzando le mani come la guardia pretoriana di un sovrano alla vigilia del golpe, proprio nel momento in cui un collaboratore si chinava in diretta televisiva sul premier suggerendogli la risposta giusta, in un fuori onda del potere impotente che certo finirà nei siparietti quotidiani di Raisat.

La verità è che ogni traccia di amministrazione è scomparsa, nell'orizzonte berlusconiano del 2010, ogni spazio di politica è prosciugato. Questo, è ora di dirlo, non è più un governo (salvo forse Tremonti, che bene o male si ricorda di guidare un dicastero), non è una coalizione, non è nemmeno un partito.

Stiamo assistendo in diretta alla decomposizione di una leadership, a un potere in panne, nella sua pervasiva estensione immobile che non produce più nulla, nemmeno consenso, se è vero il declino dei sondaggi.

Era facile prevedere che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile, e le istituzioni pagheranno nei prossimi mesi un prezzo molto alto. Non abbiamo ancora visto il peggio.

Ma non pensavamo a questo spettacolo quotidiano di un sovrano sempre più assoluto e sempre meno capace di autorità: costretto in pochi giorni a rimediare con un decreto di maggioranza a errori elettorali del suo partito, mentre è obbligato a bloccare il Parlamento con due leggi ad personam che lo sottraggono ai suoi giudici, sempre più ossessionato dalla minima quantità di libera informazione che ancora sopravvive in questo Paese.

Nessuno di questi problemi, ormai, si risolve nelle regole. La deformazione è il nuovo volto della politica, l'abuso la sua costante. Si pone una questione di democrazia, fatta di sostanza e di forma, equilibrio tra i poteri, rispetto delle istituzioni, ma anche semplicemente di senso del limite costituzionale, di rispetto minimo dello Stato e della funzione che grazie al voto dei cittadini si esercita pro tempore.

Questo e non altro - la cornice della Costituzione - porterà oggi in piazza a Roma migliaia di persone. È un sentimento utile a tutto il Paese, comunque voti. Un Paese che non merita questa riduzione miserabile della politica a calco vuoto di un sistema senza più un'anima, in un mix finale di protervia e di impotenza che dovrebbe preoccupare tutti: a sinistra e persino a destra.


Schiavi da mille euro al giorno
di Pino Cabras - Megachip - 13 Marzo 2010

Quanto costa uno schiavo, nel 2010? Chi fissa il prezzo di riferimento? E cosa fa uno schiavo per il Padrone? La cronaca degli ultimi scandali ci offre indizi. Prendete gli otto commissari dell'Agcom. Ognuno di loro è pagato 397mila euro l'anno. Sono più di mille euro al giorno. La ragione, si fa per dire, di quest'aberrazione è che così possono essere più indipendenti. Mille euro al giorno per poter dire dei no.

Poi uno legge delle intercettazioni riferite a uno dei commissari, e scopre che le sue giornate sono scandite dalle telefonate del Caimandrillo, uno che dovrebbe temere i suoi controlli e che invece lo ossessiona per epurare Santoro o altri residuati del palinsesto non ancora normalizzati, oppure per piazzare attrici a lui gradite.

Che differenza ci sarà allora tra il commissario Agcom Giancarlo Innocenzi e l'ormai ex senatore Di Girolamo? Questi ha appena confessato di aver intascato un milione e seicentomila euro per i suoi servigi in favore di chi lo chiamava schiavo. Se dovevano bastargli per la parte rimanente della legislatura erano poco più di mille euro al giorno, anche qui. I prezzi sono quelli.

Intanto fai la bella vita, e all'Ossesso orwelliano-brianzolo cerchi di dire sempre di sì. Così come fa quel direttore di un fu telegiornale, Augusto Minzolini. Lui non è uno schiavo come gli altri. Lui costa di più. È più uguale degli altri. Sicuramente costa oltre ogni decenza al fu servizio pubblico, che pure di lacchè ne aveva visti.

Ogni minuto in più di Minzolini al Tg1 sarà un minuto di schiavitù per lui, per l'informazione, e per i cittadini che pagano i prezzi, quando per vedere mille euro ci mettono un mese. Non dico di cacciarlo a pedate, il Minzolini, ma di cacciarlo sì, e subito.


Oportet ut scandala eveniant

di Massimo Fini - Il Fatto - 12 Marzo 2010

Chissà che questa vicenda tragicomica, ma anche trucida, delle liste elettorali truccate, con scambi di colpi proibiti fra gli esponenti delle opposte nomenklature, non disgusti il cittadino al punto da fargli finalmente capire che la democrazia rappresentativa non ha niente a che fare con la democrazia, ma è un sistema (meglio congegnato in altri Paesi ma che da noi sta perdendo la maschera) di oligarchie, di lobbies, di camarille, di associazioni paramafiose, che il cittadino è chiamato ogni tot anni a legittimare col voto perché possano continuare, sotto la forma di un'apparente legittimità, i loro abusi, i loro soprusi, le loro illegalità.

I segnali ci sono. E vengono non solo dal forte astensionismo segnalato dai sondaggi, e che non a caso preoccupa moltissimo gli oligarchi, ma dal fatto che per la prima volta un'esortazione all'astensionismo non viene da gruppuscoli extraparlamentari ma dall'autorevole ItaliaFutura, la Fondazione promossa da Montezemolo, per la penna di Carlo Calenda e Andrea Romano (che immagino giovani).

I due immaginano che dopo le elezioni i partiti, raccolto o piuttosto estorto in qualche modo il consenso, continuino con le loro manfrine, le loro lotte intestine, i loro mascheroni che ogni giorno ci arringano dagli schermi televisivi senza che il giornalista, col microfono sotto il loro naso come una sputacchiera, abbia il coraggio, o la possibilità, di fare un'obiezione. E a questo pensiero, ai Calenda e ai Romano, gli vien da svenire.

Io che assisto a questi spettacolini da una quarantina d'anni non posso avere il loro stesso sgomento. Però la dose della mia nausea è, credo, di gran lunga superiore. Chi sono questi uomini che, al governo, nelle regioni, nelle province, nei grandi comuni, ci comandano e che noi, con un masochismo abbastanza impressionante che «dovrebbe lasciar stupiti gli uomini capaci di riflessione» come notava Jacques Necker già nel 1792, paghiamo perché ci comandino?

Sono uomini senza qualità la cui legittimazione è tutta interna al meccanismo "democratico" che li ha messi in orbita. La loro sola qualità è di non averne alcuna.

Ma perché mai io dovrei, perdio, farmi comandare da Gasparri, da Bonaiuti, da Bersani, da Franceschini? In queste congreghe di ominucoli, baciati in fronte dal truffaldino meccanismo elettorale, gli unici ad avere una qualche personalità sono quasi sempre dei delinquenti o dei mezzi delinquenti. E non si sa davvero che preferire perché, come diceva Talleirand, «preferisco i delinquenti ai cretini, perché i primi, perlomeno, ogni tanto si riposano».

Torna in auge anche il "qualunquismo", altra parola tabù per le oligarchie. Il Qualunquismo fu il movimento creato dal commediografo Guglielmo Giannini nel primo dopoguerra. Proponeva, in sostanza, l'abolizione dei partiti mentre il governo sarebbe stato affidato a un "Ragioniere dello Stato" che lo avrebbe tenuto per cinque anni, senza possibilità di rinnovo del mandato. Il Qualunquismo era troppo in anticipo sui tempi. Benché la partitocrazia fosse già ben presente nel Paese (nasce col Cln) le ideologie, liberalismo o marxismo, erano ancora forti e una scelta "o di qua o di là" poteva avere ancora un senso.

Ma oggi che i sedicenti liberali sono diventati illiberali (non solo in politica interna ma anche estera) e la sinistra, o presunta tale, ha abbracciato i gaudiosi meccanismi del libero mercato, la nostra unica alternativa è di scegliere da quale oligarchia preferiamo essere comandati, schiacciati, umiliati, pagando il tutto a prezzi, umani ed economici, altissimi. Ben venga quindi un "Ragioniere dello Stato". E poiché in Italia ormai il più pulito c'ha la rogna io farei, come nel calcio, una campagna acquisti all'estero. Un Gaulaiter tedesco andrebbe benissimo.


Il colpo di grazia

di Luigi Ferrajoli - www.ilmanifesto.it - 9 Marzo 2010

La sola regola che questa maggioranza sembra capace di rispettare è la sistematica violazione di ogni altra regola, soprattutto se costituzionale. L'aggressione al lavoro compiuta dalla legge approvata al Senato mercoledì scorso va ben al di là dell'aggiramento dell'art.18 dello Statuto che stabilisce il diritto del lavoratore ingiustamente licenziato alla reintegrazione da parte del giudice nel posto di lavoro.

Essa equivale a una deregolazione e, di fatto, a una vanificazione delle garanzie giurisdizionali di tutti i diritti dei lavoratori. Il diritto del lavoro era già stato dissestato, nella sua parte sostanziale, dalla precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Questa legge è un colpo di grazia anche alla sua parte processuale, dato che vale a esautorare la giurisdizione da tutte le questioni di lavoro. È questa, del resto, la linea di questo governo in tema di giustizia: i processi - il processo del lavoro, il processo penale «breve» o variamente impedito o paralizzato - semplicemente non vanno fatti.

In materia di lavoro questa fuga dalla giurisdizione avviene ora attraverso la violazione del diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti, stabilito dall'art.24 della Costituzione. Questo diritto non è solo un diritto fondamentale. Si tratta di un meta-diritto alla tutela giurisdizionale dei propri diritti, in assenza del quale tutti gli altri diritti sono destinati a rimanere sulla carta. Ebbene, questa norma-chiave del costituzionalismo democratico è stata da questa legge aggredita, nelle controversie di lavoro, sotto ben tre profili.

Il primo profilo, il più clamoroso e insidioso, è quello espresso dall'art.33 comma 9. Questa norma, inserita in un labirinto illeggibile di 52 articoli dedicati alle materie più disparate, prevede la possibilità che nei contratti di lavoro sia pattuita la cosiddetta «clausola compromissoria», cioè la decisione delle parti «di devolvere ad arbitri le controversie che dovessero insorgere in relazione al rapporto di lavoro».

In altre parole, all'atto dell'assunzione il lavoratore potrà vedersi costretto, per essere assunto, a sottoscrivere la rinuncia alla garanzia giurisdizionale e la remissione delle future controversie, incluse quelle relative alla reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall'art.18, alla decisione equitativa di un arbitro privato. Ora, come si sa, l'arbitrato è una forma di giustizia privata adottata di solito da soggetti forti, come le grandi imprese commerciali, che con esso intendono raggiungere una più rapida soluzione delle liti.

Per questo, a tutela dei soggetti più deboli, il codice di procedura civile lo esclude in via di principio per tutte le controversie che abbiano ad oggetto diritti indisponibili, primi tra tutti i diritti dei lavoratori. La violazione dell'art.24 e dell'art.3 2^ comma della Costituzione da parte di questa legge è perciò clamorosa.

Il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti, tanto più se indisponibili come quelli in materia di lavoro, è infatti un diritto fondamentale, inalienabile e a sua volta indisponibile. E non può certo una legge ordinaria consentirne la disponibilità per via contrattuale: che poi vuol dire avallare il ricatto cui i lavoratori possono essere sottoposti al momento del contratto.

Ma nella legge c'è una seconda aggressione al diritto di azione dei lavoratori stabilito dall'art.24 della Costituzione.

L'art.32, 1^ comma, riduce «il controllo giudiziale» in tutti i casi in cui le leggi «contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso», limitandolo «esclusivamente all'accertamento del presupposto di legittimità» ed escludendolo dal «sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive» del datore di lavoro.

Ora è chiaro che le violazioni dei diritti dei lavoratori riguardano, di solito, non tanto la forma, quanto il merito dei provvedimenti dei datori di lavoro; e che perciò questa singolare limitazione del ruolo del giudice e degli spazi della giurisdizione si risolve anch'essa in una generale limitazione, ovviamente incostituzionale, del diritto dei lavoratori di agire in giudizio a tutela dei loro diritti.

Non basta. L'art.32 2^ comma introduce, tramite un'altra limitazione del ruolo del giudice, un'ulteriore restrizione del diritto di azione del lavoratore: «nella qualificazione del contratto di lavoro e nell'interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo del 10 settembre 2003, n.276... salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione». Il giudice, in breve, è vincolato a queste certificazioni rimesse alle speciali «commissioni di certificazione».

Riemerge qui, in forme ancor più grottesche, una vecchia aspirazione del centro destra, che già in passato tentò di includere tra gli illeciti disciplinari l'interpretazione del giudice palesemente in contrasto con la lettera della legge.

Ben più radicalmente, infatti, l'attività interpretativa del giudice viene ora preclusa dal fatto che queste certificazioni extra-giudiziali vengono dichiarate vincolanti, in aperto contrasto con l'art.101 della Costituzione secondo cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Se allora fu coltivata l'illusione che il giudice possa essere «bocca della legge», oggi si vorrebbe che egli fosse ridotto a «bocca delle certificazioni».

Domanda: come è possibile che di questo mostro giuridico, destinato, a me pare, a una sicura pronuncia di incostituzionalità, nessuno - né l'opposizione, né i sindacati - si sia accorto nei due anni della sua gestazione?


Lettera dal fondo dello sfacelo

di Marino Badiale e Massimo Bontempelli - 10 Marzo 2010

L’Italia, dopo tre decenni di decadimento civile e morale, è giunta ormai al suo sfacelo come nazione e come società. Il lavoro non vi ha più diritti, dignità, ascolto. Ogni legalità è travolta dal potere delle mafie, dalla regolazione dei rapporti economici e professionali attraverso la corruzione, grande o piccola, e da costi e tempi, per molti insostenibili, del ricorso al sistema giudiziario.

L’avvelenamento dei suoli, dei corsi d’acqua e delle catene alimentari è oltre il livello di guardia. Istituzioni come la scuola e l’università, fondamentali per il paese, sono ormai distrutte, nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica.

Le città sono soffocate da una circolazione automobilistica insensata, che sequestra le strade e avvelena l’aria. Mancano servizi che rispondano a esigenze reali, talvolta drammatiche. I rapporti tra le persone sono imbarbariti. E su tutto questo si è abbattuta la crisi economica mondiale che sta mettendo in questione, per larghi settori dei ceti subalterni, anche livelli minimi di benessere.

Di questo sfacelo, effetto di un meccanismo economico esclusivamente volto al massimo profitto di breve periodo, è responsabile in prima battuta l’attuale casta politica, che è la facilitatrice di quel meccanisno, e che dimostra, nella sua interezza, di disinteressarsi sia dello stato drammatico del paese sia della crisi economica, e di essere unicamente interessata ai propri interni e interminabili giochi e controgiochi di potere.

Ma corresponsabile dello sfacelo è anche chi vota per uno qualsiasi dei raggruppamenti interni a tale casta, e quindi anche chi alle prossime elezioni regionali darà il suo voto ad una delle sue liste. Basta infatti un po’ di onestà intellettuale per prendere atto dell’evidenza, e cioè che, se la casta berlusconiana è l’espressione di quanto di peggio c’è in Italia, il restante arco politico, dal centro alla cosiddetta sinistra radicale, contribuisce a generare quel peggio.

Il ceto politico di centro, centro-sinistra e sinistra non si preoccupa infatti minimanente di fare qualcosa contro lo sfacelo del paese, non dà mai ascolto al mondo esterno alla casta politica, fa prendere le decisioni riguardanti la vita collettiva a burocrati di partito emersi da squallidi giochi di potere, agisce soltanto sulla base di opportunistiche motivazioni di breve periodo.

I politicanti di centro, centro-sinistra e sinistra, insomma, non risolvono nessun problema, per cui la loro opposizione a Berlusconi si riduce ad una pantomima nella quale conta l’apparenza e non la realtà, mentre i meriti vengono mortificati e le speranze spente.

Tutto ciò contribuisce a creare individui intellettualmente e moralmente degradati, interessati al mondo fittizio delle immagini anziché ai problemi reali del paese, e dunque predisposti ad apprezzare e seguire qualsiasi irresponsabile cialtrone abile nel vendere illusioni.

Abbiamo dimostrato nei nostri scritti la necessità storica della comparsa di questa casta politica priva di progetti e del tutto autoreferenziale[1].

Tale necessità è insita nella configurazione dei rapporti tra poteri economici, funzioni statali e attività politiche derivate da ben individuabili trasformazioni del capitalismo e scelte della sinistra tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso.

I ceti politici attuali e i loro difetti sono quindi espressione di fondamentali dinamiche storiche, e la loro incapacità di risolvere i problemi reali e di esprimere dirigenti che non siano assolute mediocrità non rappresenta quindi un errore politico o di selezione dei gruppi dirigenti, ma esprime la loro essenza, il loro codice genetico.

Pensare di liberarsi del settore peggiore della casta votando quello meno peggiore (o che in un certo momento appare tale, magari solo perché è all’opposizione), è quindi, nella migliore delle ipotesi, un’autoillusione politicamente poco intelligente, e deplorevole per i danni che contribuisce ad arrecare all’Italia.

La scelta del male minore, infatti, risulta, in questa fase storica e rispetto a questa casta politica, la via che alimenta e rende vincente il male maggiore, perché non corregge minimamente la tendenza storica al continuo peggioramento della realtà sociale, tendenza a cui l’intera casta politica è omogenea.

La storia recentissima lo rivela nella maniera più evidente a chi abbia l’onestà di ricordarla per quello che è stata. Berlusconi, vinte le elezioni nel 2001, ha governato nella maniera più rovinosa per il paese fino al 2006, ma cominciando a perdere vistosamente consensi a partire dal 2004. E’ sembrato quindi relativamente facile e molto ragionevole, all’opinione pubblica antiberlusconiana, cacciarlo definitivamente votando per la coalizione di centro-sinistra guidata da Prodi.

E infatti quest’ultimo vince le elezioni del 2006, sia pure di strettissima misura (vi è infatti una sorprendente rimonta del centro-destra per l’effetto congiunto della potenza illusionistica ed alienante delle televisioni berlusconiane e dell’insipiente povertà del messaggio prodiano), ma guadagnando comunque il premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale.

Facciamo ora un esperimento mentale. L’immagine che il medio elettore di sinistra ha di Prodi è probabilmente quella di un ex-democristiano sostanzialmente onesto.

Proviamo però a pensare che tale elettore abbia avuto il coraggio morale di informarsi un po’ meglio su chi sia Prodi, e sia venuto quindi a conoscenza della tante tracce che fanno sospettare un Prodi meno onesto di quel che si vuol far sembrare, e del fatto accertato che si tratta di un uomo della Goldman Sachs, la potentissima banca speculatrice[2], dalla quale è stato per anni lautamente stipendiato, con conseguenti conflitti di interessi messi in luce, per esempio, dalla stampa britannica.

Immaginiamo inoltre che il medio elettore di sinistra si sia reso conto che un uomo così organicamente legato alla grande finanza speculatrice internazionale non potrà mai, per la contraddizion che nol consente, governare a vantaggio del lavoro, della legalità, dell’indipendenza nazionale, dell’ambiente.

Immaginiamo infine che, avendo in tal modo capito che un governo Prodi sarebbe stato un “male minore” troppo malefico, non lo abbia votato alle elezioni del 2006. Avrebbe allora vinto il “male maggiore”, Berlusconi, ma un Berlusconi con un consenso popolare decrescente, che avrebbe incontrato nella società opposizioni sempre più consistenti, da cui avrebbe potuto prendere avvio una ricostituzione del tessuto civile e morale del paese, unico presupposto per superare con il tempo il berlusconismo (la sconfitta del berlusconismo nel breve periodo è comunque illusoria, perché si tratta del precipitato di un decadimento della fibra morale del paese che sopravviverà alla stessa ingombrante presenza dell’uomo).

Torniamo ora dall’immaginazione alla storia reale. Nelle elezioni del 2006 Prodi ha sconfitto Berlusconi. Il suo governo non ha fatto nulla per restituire dignità e diritti al lavoro: l’immensa ricchezza concentrata nei grandi patrimoni non è stata minimamente toccata, di conseguenza nulla è stato restituto ai lavoratori, né sotto forma di servizi sociali, né sotto forma di un diminuito prelievo fiscale, mentre il promesso cuneo fiscale è stato fatto a profitto delle imprese, senza nessun beneficio per i lavoratori, vittime nello stesso tempo dei tagli di bilancio in funzione del risanamento finanziario.

Il governo Prodi non ha fatto nulla per ristabilire in Italia un minimo principio di legalità, e basti menzionare a questo proposito, per evitare un discorso di dettaglio che sarebbe lunghissimo, Mastella nominato ministro della Giustizia, DeGennaro commissario straordinario per la Campania, Pollari consulente governativo, Pomicino nella commissione antimafia, e l’indulto esteso ai reati di corruzione. Il governo Prodi non ha fatto nulla per invertire la tendenza al progressivo degrado ambientale.

Quanto poi all’indipendenza nazionale, il servilismo verso gli Stati Uniti è stato totale, con il rifinanziamento della missione di guerra in Afghanistan, l’acquisto di sistemi d’arma offensivi, l’autorizzazione all’ampliamento della base di Vicenza, ed il moralmente vergognoso segreto di Stato opposto da Prodi, a conferma di quanto già fatto da Berlusconi, all’indagine sul rapimento in Italia di Abu Omar, spedito dagli americani verso le torture egiziane, in spregio alle leggi italiane.

Nulla, insomma, è venuto dal governo Prodi che potesse far percepire ai lavoratori un’attenzione ai loro interessi e, più in generale, una sollecitazione alla rinascita etica e culturale del popolo italiano. Il risultato è che, ad un popolo sempre più degradato, la grigia realtà di Prodi ha fatto dimenticare una disaffezione a suo tempo iniziata verso Berlusconi, ed ha reso preferibili le illusioni vendute dal grande illusionista mediatico. Berlusconi è così tornato a governare, nel 2008, con un consenso e una forza che non avrebbe avuto se avesse direttamente vinto le elezioni del 2006.

Chi voglia abbandonare viltà e rassegnazione, e cercare di trarre insegnamenti dalla storia, non può avere dubbi sul fatto che affidarsi ai settori di centro, centro-sinistra e sinistra della casta politica per sconfiggere il berlusconismo è come cercare di distruggere una mala pianta coprendola del concime che la fa crescere. Il berlusconismo è una mentalità degradata profondamente attecchita nella società italiana dopo un lungo periodo di decadenza iniziato negli anni del craxismo.

Non ci sono scorciatoie politicistiche di breve periodo per sconfiggerlo, tanto meno scorciatoie che pretendano di utilizzare pezzi di casta superficialmente in opposizione ad esso, ma nel profondo imbevuti della sua stessa incultura, della sua stessa separazione fra parole e fatti, tra propaganda e realtà, e solo dotati di stile retorico e comportamentale generalmente meno rozzo.

L’impegno ad ampio spettro e di lunga lena per sconfiggere il berlusconismo non può dunque esprimersi altro che in un contrasto duro ed intransigente contro l’intera casta politica cialtrona, corrotta, incolta, parassitaria, parolaia e prepotente che occupa le isituzioni statali e locali, senza far caso alle sue distinzioni e contrapposizioni interne di potere e di affari.

E’ facile a qusto punto aspettarsi la tipica domanda polemica, figlia della viltà e della rassegnazione: chi dovrebbe andare a sostituire i politici attuali? Qual è l’alternativa? Che è come dire, dal chiuso di un edificio saturo di gas che ci sta soffocando fino alla morte: ma se usciamo, chi c’è fuori ad accoglierci? Dove troveremo le prime cure?

Evidentemente coloro che così obiettano non si sentono abbastanza soffocati dallo sfacelo attuale, perché vi si sono per certi versi adattati, sono anch’essi un po’ imbevuti, senza saperlo, di berlusconismo. La risposta è che un’alternativa non nascerà mai se prima non si inizia la lotta contro l’intera casta politica, in funzione di ciò di cui c’è oggettivamente bisogno.

Per uscire dal baratro sociale e spirituale nel cui fondo attualmente ci troviamo non basta assolutamente cacciare Berlusconi con tutta la sua cerchia di disgustosi manutengoli e profittatori, e non basta neppure cambiare qualcuno degli obiettivi che si propongono i ceti politici di destra, centro e sinistra. Ciò di cui c’è urgente, disperato bisogno per non affondare sempre più è l’inversione stessa della logica che oggi guida tutte le scelte politiche.

C’è bisogno di smettere di colmare i deficit di bilancio tassando in maniera esorbitante e macchinosamente oppressiva il lavoro, le professioni e la piccola impresa, e di cominciare a prelevare risorse da tre fonti: tassando duramente i grandi patrimoni nati dalla speculazione finanziaria ed immobiliare e dall’evasione fiscale, eliminando tutte le missioni militari all’estero e l’acquisto dei connessi sistemi d’arma, riassorbendo le rendite della corruzione attraverso l’eliminazione della medesima.

Un mezzo indiretto ma importante per sconfiggere la corruzione e nello stesso tempo per allargare le entrate statali senza incidere su salari e servizi, sarebbe quello di una tassazione di tutte le inserzioni pubblicitarie alla televisione e negli spazi pubblici.

Con tutti questi mezzi si otterrebbero risorse immense, di cui c’è bisogno per creare, o ricreare, una serie di servizi sociali gratuiti sostitutivi di quelli di mercato, aumentando per questa via le disponibilità dei lavoratori senza neanche bisogno di aumentarne le retribuzioni monetarie, e riassorbendo la disoccupazione con tutto il personale necessario a farli funzionare, contro la logica attuale di produrre disservizi riducendo dovunque il personale.

C’è bisogno di scegliere non più secondo la logica affaristica e mercantile, ma secondo la logica di ristabilire e tutelare i diritti del lavoro e della salute. C’è bisogno di scegliere quali opere costruire secondo la logica di evitare il consumo ulteriore del territorio e di proteggerne l’integrità, concentrandosi sulla manutenzione costante e sui piccoli aggiustamenti delle infrastrutture esistenti, e bloccando quindi tutte le cosiddette grandi opere, che servono soltanto a mettere in moto appalti, tangenti e corruzione, spesso a vantaggio delle mafie.

C’è bisogno di una logica di contrasto intransigente della corruzione, accentuando i controlli di legalità della magistratura mediante procedure semplificate e rapida esecutività della sentenze. E il discorso potrebbe e dovrebbe continuare.

Per poter impostare un simile rivolgimento rispetto alle logiche attuali, bisogna in sostanza abbattere il regime della casta politica, con i suoi addentellati nei media, nell’economia, negli apparati statali.

Non sembri eccessivo definire l’attuale realtà politica italiana come “regime”. Si può parlare di regime quando il sistema politico è guidato da un’unica logica, e i portatori di logiche alternative sono emarginati dalle istituzioni e nella società civile e non hanno accesso se non occasionale a nessun tipo di tribuna.

La nozione di “regime” è logicamente indipendente dal fatto che il sistema politico ammetta oppure no pluralità di partiti. L’Ungheria di Horthy presentava pluralità di partiti, ma si trattava di un regime, perché i vari partiti eprimevano la stessa logica. Mentre la Germania guglielmina non era un regime: benché il potere reale fosse saldamente i mano ai ceti dominanti, i socialisti, portatori, almeno per una fase, di una logica alternativa rispetto ai ceti dominanti, erano presenti in parlamento e avevano mille ramificazioni nella società civile.

In Italia siamo in presenza di un regime, e questo lo si vede da come siano emarginate o assenti, nel dibattito pubblico, posizioni che esprimano logiche davvero alternative, come quelle sopra ricordate. Lo si vede anche da come ormai tutti i percorsi professionali non dipendano mai da meriti e da regole trasparenti, ma dipendano invece dal patrocinio di qualche partito che conta.

Proprio come all’epoca del regime mussoliniano la tessera del partito fascista era la condizione per far carriera, così è oggi, con la sola diifferenza che il partito benefattore e corruttore non è unico, ma plurale. Ma se si accetta questo punto, il fatto cioè che l’Italia è oppressa dal regime di una casta politica che sta portando il paese allo sfacelo, è chiaro che ciò di cui c’è bisogno è un nuovo CLN, una nuova lotta di liberazione nazionale.

Le forze per dar vita a questa lotta ci sono, e fanno riferimento a tre aree, che si distinguono dall’istanza principale sulla quale si focalizzano: da un parte l’area che si ispira a principi di giustizia sociale (più o meno l’area di chi, fuori dalla casta, si definisce ancora “comunista”), poi l’area di chi mette al centro il problema della legalità (“popolo viola”, “grillini”, “Il Fatto Quotidiano”), infine l’area degli ecologisti (ovviamente quelli veri, estranei alla piccola burocrazia del partito verde). Queste forze sono per il momento bloccate da alcuni ostacoli.

Il primo, più evidente ma meno importante, sta nel loro essere minoritarie: è un dato di fatto, ma non è così importante perché tutti i grandi rivolgimenti partono sempre da minoranze.

Il secondo e più serio ostacolo sta nel fatto che queste tre aree tendono ad essere divise ed anche in opposizione tra loro. Questa divisione è un errore grave, perché nella situazione italiana attuale ciascuna delle istanze sopra indicate si completa nel riferimento alle altre due, e separarle significa indebolirle e votarle alla sconfitta.

Ad esempio, chi lotta contro la casta in nome della giustizia sociale e dei diritti dei lavoratori spesso è diffidente nei confronti delle istanze di legalità. Ma in questo modo non si rende conto che la corruzione della casta non è un dato marginale e poco interessante, ma è l’espressione dell’asservimento della casta stessa ai poteri economici interni e internazionali che richiedono la distruzione dei diritti dei lavoratori.

La corruzione, cioè, è la forma specifica che assume in Italia l’asservimento del paese ai poteri economici interni e internazionali. Infatti un ceto politico che difendesse i diritti dei lavoratori dovrebbe lottare contro potentissime forze interne e internazionali. E’ pensabile che una qualsiasi delle bande di corrotti che costituiscono l’attuale ceto politico possa farlo?

Ovviamente no, appunto perché sono corrotti e i corrotti non hanno né il desiderio né la forza di lottare contro chi li foraggia. Ma se questo è chiaro, lottare contro la corruzione della casta significa appunto lottare contro lo strumento politico di quel potere economico che distrugge i diritti del lavoro, e il controllo di legalità è l’arma migliore per questa lotta.

Dall’altra parte, chi difende il principio di legalità ignorando la giustizia sociale e i diritti dei lavoratori commette un doppio errore. In primo luogo un errore di analisi, perché non vede come l’attacco alla legalità sia strettamente legato alle dinamiche del capitalismo contemporaneo.

In secondo luogo, di conseguenza, un errore politico, perché non capisce che l’appello alla legalità può vincere solo se si collega alla forza sociale dei ceti subalterni che lottano contro il degrado cui li condanna l’attuale sistema economico, mentre se li ignora o li considera con diffidenza l’appello alla legalità resta un tema minoritario. Analoghi discorsi valgono per le tematiche dell’ecologismo e della decrescita.

Per iniziare una lotta di liberazione nazionale dalla casta che ci soffoca, occorre dunque che queste tre aree superino gli ostacoli che le dividono e trovino un linguaggio comune. Condizione preliminare e irrinunciabile è però la rottura totale con l’intero arco della casta politica.

Occorre rompere ogni contiguità rispetto alla casta, occorre rinunciare completamente all’idea di influenzare questo ceto politico. I militanti onesti dell’IdV devono abbandonare il partito, dato che l’ultimo congresso ha segnato con chiarezza il suo ingresso nella casta.

Gli ecologisti onesti devono abbandonare al suo destino il ceto politico “verde”. Chi difende i diritti del lavoro deve rompere ogni contiguità col ceto politico “comunista” che non sa fare altro che contrattare con la casta principale un proprio piccolo ruolo come casta di scorta.

Per ritornare alle prossime elezioni regionali, in mancanza di una forza politica che esprima una logica alternativa a quella della casta, occorre cercare di capire quale sia il modo migliore per danneggiare il più possibile la casta stessa.

L’astensionismo sarà una scelta obbligata dovunque non siano in campo che le liste della casta: PDL e alleati, UDC, PD e alleati, sinistra. Meglio sarà, laddove siano presenti, il voto per liste che diano sicure garanzie di contrapposizione alla totalità della casta.

In quest’ultimo caso non bisogna dare troppo peso al fatto che i programmi di tali liste presentino contenuti non condivisibili, perché se davvero esse rifiutano ogni contiguità con la totalità della casta non avranno la possibilità di attuare i loro programmi.

Il voto per tali liste danneggerebbe però la casta per due motivi: in primo luogo farebbe diminuire le percentuali di voti guadagnati dai suoi partiti, che sono gli unici dati elettorali che ricevono attenzione, in secondo luogo gli eletti di tali liste potrebbero rappresentare un piccolo ostacolo alla casta proprio per la loro estraneità ad essa.

La scelta migliore, possibile purtroppo soltanto in pochi casi, sarebbe comunque quella del voto a liste di cittadini impegnati su temi di difesa della legalità, dell’ambiente, della solidarietà sociale, e conseguentemente in contrapposizione totale ed intransigente all’intera casta politca istituzionale.

In ogni caso bisogna avere chiaro che le elezioni resteranno un fatto interno al regime finché non nascerà una forza politica che contesti la logica di fondo delle attuali scelte politiche e si faccia portatrice di una logica alternativa. Far nascere una simile forza politica deve essere l’obiettivo principale di chi voglia lottare contro lo sfacelo del nostro paese.

Note:

[1] Si veda M.Badiale, M.Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, Genova 2005, e Id., La sinistra rivelata, Massari, Bolsena 2007.

[2] A suo tempo (1992) coinvolta nelle speculazioni contro la lira, che hanno portato danni ingenti all’Italia, e oggi in quelle contro la Grecia.