sabato 6 marzo 2010

L'Iraq alla vigilia del voto

Domani si vota in Iraq per le elezioni del nuovo Parlamento iracheno.

Non sarà una giornata tranquilla visto che la fantomatica Al Qaeda, attraverso l'autoproclamato "Stato islamico in Iraq", ha dichiarato il coprifuoco nelle ore del voto dalle 6.00 del mattino alle 6.00 della sera in tutto l'Iraq e in particolare nelle zone sunnite.

E anche perchè, dalle 22.00 di sabato alle 7.00 di lunedì, le autorità irachene hanno imposto per motivi di sicurezza il divieto di circolazione a tutti i veicoli non autorizzati, e tutti gli aeroporti e le frontiere rimarranno chiusi.

Ma, a differenza delle precedenti elezioni del 2005, questa volta i sunniti sembrano intenzionati a votare.

Intanto oggi quattro persone sono rimaste uccise e almeno altre 50 sono state ferite in un attentato con autobomba nella città santa di Najaf. Due delle vittime sono pellegrini iraniani. L’auto è esplosa a meno di mezzo chilometro di distanza dal Mausoleo dell’imam Ali, meta del pellegrinaggio dei fedeli sciiti iraniani e iracheni nel centro città.

Insomma, il solito Iraq in stato di guerra ma senza nessun tragicomico caos pre-elettorale provocato da liste di candidati presentate in ritardo o con firme false...


Tra le bombe e i cortei di Bagdad le prime elezioni senza armi puntate
di Bernardo Valli - La Repubblica - 6 Marzo 2010

È brusco, a volte brutale, il passaggio dalla festa al dramma, dall´allegria alla paura, nel migliore dei casi da un prudente ottimismo a un contenuto pessimismo. È un ottovolante di umori.

Si seppelliscono i morti degli attentati di ieri (una ventina, la contabilità è incerta), qui a Bagdad, a Mossul e a Diyala, e nelle stesse ore rumorosi, trionfalistici cortei, con bande musicali e bandiere spiegate, preannunciano vittorie in elezioni non ancora avvenute.

Ma puoi anche percorrere chilometri di viali deserti, popolati da migliaia di ritratti di candidati sorridenti, che nascondono porte e finestre sbarrate.

Inciampi soltanto in posti di blocco, in autoblindo dell´esercito, in pattuglie della polizia in evidente stato d´allerta, ma senza la grinta di un tempo, quando imperversava la guerra civile.

La diffidenza non sconfina mai nell´aggressività. Le canne dei mitra restano a una distanza rispettosa. E quasi mai puntate su di te. Non è come nel passato, quando sentivi la minaccia sulla pelle. Ti scopri in una specie di limbo: in bilico tra il disinvolto arbitrio della dittatura e l´impacciato rispetto della democrazia incompiuta.

Questo è l´Iraq che ritrovi sette anni dopo l´invasione americana e alla vigilia di elezioni legislative che domani disegneranno il paese post-americano. La vecchia dittatura appartiene alla storia, ma l´uscita dalla sanguinosa epoca di transizione appare incerta.

Insomma la promessa democrazia stenta a delinearsi con precisione. Non la vedi tanto chiara. Eppure molto è cambiato, anche rispetto al mio ultimo viaggio che risale all´estate scorsa. L´Iraq non è più quello di allora. Resta però nebbioso quello imminente, non tanto per la naturale incertezza del voto, quanto per l´uso che ne sarà fatto.

Vado nel quartiere di Adhamiya nell´ora in cui si conclude la preghiera del venerdì nella grande moschea sunnita di Abu Hanife. Alcuni anni fa, quando i sunniti alimentavano l´insurrezione armata, era come avvicinarsi a una caldaia bollente.

Un giorno avevo un appuntamento con uno dei notabili, ma mi consigliò di andarmene al più presto perché non poteva garantire la mia sicurezza. Adesso, incrociando i fedeli all´uscita dal santuario, scopro sorrisi, urto spalle non irrigidite da ostilità o diffidenza, trovo gente disposta a scambiare qualche parola.

Chiedo a un quarantenne attempato, col tradizionale copricapo sunnita, se sia contento che gli americani non siano più per le strade di Bagdad, e che sia prevista la loro partenza dal Paese entro la fine del 2011 (dall´agosto prossimo rimaranno in cinquantamila, per lo più nella veste di consiglieri). Mi guarda stupito: «Gli americani?». È come se li avesse dimenticati. Non è così. È evidente.

Ma non finge del tutto. I sunniti hanno abbandonato da tempo l´insurrezione armata. Gli americani li hanno recuperati e gli sciiti, detentori del potere in quanto maggioranza, pur esercitando con arroganza le loro prerogative, sono riusciti a coinvolgere molti di loro perlomeno a livello politico. Non per questo i sunniti sono stati domati, appaiono soltanto rassegnati a rispettare le regole del gioco.

Ne è la prova il riassorbimento delle milizie, che operavano in difesa della loro comunità e aggredivano gli sciiti. Esse si sono dissolte o sono entrate in letargo. I sunniti hanno smesso di rimpiangere l´epoca di Saddam, quando comandavano nel Paese per un non scritto diritto secolare.

Quel che devono digerire è il potere degli sciiti, con i quali devono collaborare, pur conservando a livello popolare il loro rancore. È l´indispensabile premessa per arrivare a qualcosa che assomigli il più possibile alla democrazia. Il mio laconico interlocutore esprime con il suo candido stupore questa posizione. Il passato non è dimenticato, è messo da parte. E gli americani sono per lui diventati fantasmi.

Sadr City è l´altra, prepotente, impetuosa, imprevedibile faccia di Bagdad: quella popolare sciita, che nell´aprile del 2003, quando gli americani entrarono nella capitale liberata dal regime di Saddam, si riversò nei quartieri dei ministeri, delle banche, dei musei, degli ospedali, saccheggiando tutto quel che era possibile, come un´ondata di cavallette, sotto gli sguardi indifferenti del super esercito occidentale.

Anche a Sadr City è finita la preghiera del venerdì, ma l´uscita dalle moschee avviene in modo trionfalistico. Sfila l´Alleanza irachena unita di Ammar Hakim, un tempo uomo di Moqtada al Sadr, l´irrequieto religioso animatore di una milizia sciita antiamericana.

Ci sono donne col chador nero come la pece e giovani che sventolano bandiere nazionali e cantano inni patriottici. I partiti religiosi estremisti fanno chiasso ma hanno perduto, sembra, l´appoggio popolare, che ormai va alle grandi formazioni moderate.

Il quasi ottantenne grand´ayatollah Ali al-Sistani, la più prestigiosa autorità spirituale sciita, si è ben guardato (al contrario di quel che fece nel 2005, in occasione delle prime legislative) dal sostenere un partito religioso. Egli non è d´accordo con i confratelli di Teheran, i quali rompendo la tradizione sciita hanno assunto con la rivoluzione khomeinista il potere diretto. Né vuole che dei politici si richiamino a lui e strumentalizzino la sua influenza.

È grazie a Sistani se la guerra civile tra sciiti e sunniti si è mantenuta su un piano etnico, evitando di diventare un aperto scontro religioso, nonostante le numerose fiammate di questa natura. Cinque anni fa al-Sistani appoggiò la coalizione sciita, che poteva frantumarsi impedendo l´affermazione della maggioranza sciita da secoli sottoposta ai sunniti.

Adesso che questa affermazione è un fatto più che compiuto, il grand´ayatollah e i suoi confratelli della «marjaiya» (l´elite religiosa sciita) invitano gli iracheni a votare, ma ci tengono a mantenere la loro neutralità. Non tutta la massa dei fedeli ubbidisce ai saggi insegnamenti di Sistani. Un gruppo di fanatici (l´Assaib Ahl al-Haq), guidato da ex seguaci di Moqtada al Sadr, ha annunciato che bombarderà con dei missili la Zona Verde, il quartiere "bunkerizzato", dove si trovano ministeri e ambasciate.

L´Iraq è proprio cambiato. Nel ristorante non siamo più di quattro clienti. Eppure è festa. Chiedo al proprietario del Grill Restaurant se gli affari vadano tanto male. Lui mi propone una birra. Alcol? Un tempo era raro.

In quanto agli affari, spiega che la gente è prudente. Ha paura. Degli attentati? No, a quelli ci abbiamo fatto l´abitudine e adesso sono pochi. Pochi? Ci sono stati 33 morti mercoledì a Baquba, con un triplo attentato suicida, ieri una ventina tra Bagdad e Mossul, e si parla soltanto dei più gravi.

Il proprietario non si scompone. Sì, sì, ma sono diminuiti. E chi li compie adesso che i sunniti sono quasi rientrati nei ranghi? La risposta è pronta: quelli di Al Qaeda, tutti stranieri. Abu Omar Baghdadi, il loro capo, dato puntualmente, per sbaglio, morto ammazzato, è uno straniero? Il proprietario del Grill Restaurant allarga le braccia. Non lo sa. Ma sa quello di cui la gente ha paura. Ha paura di domani. Del voto di domani, della democrazia? Sarà difficile che dopo si mettano d´accordo, se non vince uno forte sarà un disastro.

Sulla carta, per molti, i favoriti sono Nuri Kamal al-Maliki, il primo ministro in carica, Iyad Allawi, anche lui un ex primo ministro, e Hakim, lo sciita integrale. Al-Maliki ha portato il Paese alle elezioni. Ha fatto un lavoro serio, ma non si pensa che avrà una maggioranza per farcela da solo con la sua Alleanza per lo Stato di diritto, in cui, lui, uno sciita, ha coinvolto non pochi sunniti. Un´altra bella impresa.

Iyad Allawi, che fu primo ministro dopo l´invasione americana, è un medico con un coraggio privato e pubblico eccezionale. Ruppe col partito Baath di Saddam Hussein perché gli fu imposto, si racconta, di abbandonare l´amica ebrea. Poi è diventato uno dei principali oppositori del regime. Il suo partito, il Movimento nazionale iracheno, è laico. Lui è sciita ma molti dei suoi sono sunniti.

Un´alleanza al-Maliki - Allawi sarebbe sulla carta un´ottima soluzione. Tra i loro avversari ci sono troppi personaggi di pessima reputazione ma di grande abilità.

C´è ad esempio quell´Ahmed Chalabi che fornì agli americani i falsi testimoni delle famose e inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Si disse poi che Chalabi era al servizio dell´Iran e che per questo fece scatenare la guerra. Teheran voleva eliminare Saddam Hussein, con il quale aveva fatto una guerra costata un milione di morti.

E gli americani esaudirono inconsapevoli la volontà degli ayatollah iraniani. Gli iraniani sono tra i fantasmi che angosciano l´Iraq elettorale. Non sono pochi a pensare che essi occuperanno il vuoto lasciato dagli americani. Hanno infatti tanti amici sciiti.


Elezioni in Iraq: intrighi e retroscena
di Alessandro Iacobellis - www.ariannaeditrice.it - 4 Marzo 2010

Il 7 marzo l’Iraq torna alle urne per eleggere il nuovo parlamento nazionale, cinque anni dopo le consultazioni che ne decretarono l’attuale assetto politico.
Molto è cambiato dal 2005, e gli equilibri che usciranno dalle urne di domenica sono tutt’altro che scontati.

Allora si votò per due volte: a gennaio, per eleggere un’assemblea costituente, e a dicembre, quando fu stabilita la composizione definitiva del parlamento dell’Iraq “liberato”, come vulgata democratica vuole.

Per prima cosa è mutata la situazione sul campo. Le passate consultazioni si tennero nel periodo di maggiore intensità dei combattimenti fra la resistenza sunnita e le truppe statunitensi.

All’epoca, diversamente da oggi, la guerriglia aveva il controllo fisico di intere porzioni del territorio irakeno, sottratte all’autorità dell’allora primo ministro Allawi. Le principali città del nord (Mosul e Tall Afar), del centro (Tikrit, Samarra), dell’ovest (Ramadi, Falluja, Qaim) e dell’est (Baquba) erano aree virtualmente “off-limits”, così come la stessa Baghdad, all’infuori della blindata Zona Verde.

A ciò si aggiungeva un’attività maggiormente ridotta, ma comunque presente, di resistenza anche nelle zone a maggioranza sciita del centro e del sud, a Bassora, Kut, e nelle città sante di Najaf e Karbala, principalmente ad opera dei nuclei dell’Esercito del Mahdi di Moqtada Al Sadr.

La violenza delle offensive statunitensi nei confronti della popolazione civile, i massacri indiscriminati compiuti dall’occupante (da poco si era concluso il sanguinoso attacco a Falluja) fecero sì che nel gennaio 2005 gli arabi sunniti boicottassero le urne. Già nelle elezioni di dicembre, il Partito Islamico Irakeno (principale forza politica dei sunniti, guidato da Iyad Al Samarrai) pose fine al boicottaggio, aderendo alla coalizione del Fronte dell’Accordo Irakeno.

Il risultato delle consultazioni fu ripartito, come ampiamente previsto, su rigide basi etniche e religiose, naturale per un Paese che dal 2003 è stato scientificamente balcanizzato, mettendo una comunità contro l’altra secondo l’antico ma sempre efficace “divide et impera”, e che ha vissuto momenti di vera e propria guerra civile.

La maggioranza dei seggi, con più del 40%, andò al blocco sciita dell’Alleanza Nazionale Irakena, fondata dai maggiori partiti confessionali quali lo Sciri, il Movimento Sadrista e il Partito Dawa (da cui fu espresso l’attuale premier Nouri Al Maliki).

Al nord, superando antiche e feroci rivalità, anche i curdi si presentarono con una lista unificata, con l’Unione Patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani e il Partito Democratico del Kurdistan di Barzani. I curdi irakeni, già semi-autonomi dalla prima Guerra del Golfo del ’91, sono da sempre i favoriti di Washington, che li ripaga politicamente (favorendo l’elezione di Talabani a presidente dell’Iraq), e permette che le zone montuose del nord fungano da retrovia per azioni armate in Turchia e in Iran (con conseguenti e giustificate reazioni di Ankara e Teheran). Altro aspetto da non sottovalutare è la massiccia presenza (sotto copertura, ma non negata) israeliana nella regione.

Questo l’Iraq uscito dalle urne del dicembre 2005. Nei cinque anni successivi, la strategia di “irakizzazione” del conflitto ha fatto rivedere agli Usa molti dei capisaldi su cui avevano basato i primi anni dell’occupazione.

Rendendosi conto di avere dato peso eccessivo agli sciiti per contrastare la resistenza sunnita e per sostenere la de-baathizzazione, Bush e il generale Petraeus hanno “comprato” (nel vero senso del termine) i sunniti per portarli nell’ambito democratico.

Il ritiro militare statunitense è già in corso, le unità combattenti sono state già tutte spostate in Afghanistan, da agosto di quest’anno rimarranno nel Paese cinquantamila soldati yankee il cui ritiro completo è previsto per il 2011.

Il ragionamento cinico di Washington è il seguente: visto che adesso il nemico è l’Iran, non si può rischiare di lasciare un Iraq nell’orbita politica di Teheran, dopo anni di ingenti perdite umane ed economiche.

Per questo il nemico in Iraq è diventato la sola, fantomatica Al Qaida, e tutti gli altri sono improvvisamente divenuti “patrioti che sbagliavano”, da reinserire nella vita civile, tramite istituzioni ad hoc come i Consigli del Risveglio (in pratica, tutti gli ex guerriglieri).

Importante è stato in questo senso anche il caos politico creatosi all’interno del partito Baath, che all’indomani dell’invasione del 2003 era entrato in clandestinità e aveva sempre mantenuto un ruolo di alto profilo nella guida politica della resistenza anti-americana. Il momento di rottura avviene precisamente all’inizio del 2007, ossia dopo l’impiccagione di Saddam Hussein, che fino ad allora era ancora leader legittimo del partito (nonché presidente dell’Iraq), seppur prigioniero.

Morto Saddam, si è aperta una spietata lotta per la sua successione fra Izzat Ibrahim Al Duri, già uomo di punta del regime e comandante militare della guerriglia, e Mohammed Al Muwali, astro nascente del partito post-invasione, con ottimi rapporti con la Siria (a differenza della vecchia guardia del Baath irakeno).

Un feroce scontro interno che ha avuto pesanti ripercussioni sulle attività militari della guerriglia, accompagnato da oscure mosse di disinformazione mediatica (come le cicliche voci sulla morte o la cattura di Al Duri).

Il risultato è che gli scontri in Iraq sono drasticamente diminuiti, sebbene il Paese non sia certamente pacificato e si registrino occasionalmente dei picchi di violenza (prevedibilmente anche in questa fase pre-elettorale).

Gli statunitensi hanno saputo approfittare di questo sbandamento recuperando gran parte di quella nomenklatura dell’esercito irakeno rimasta disoccupata in seguito al processo di de-baathizzazione. De-baathizzazione che in ambito politico prosegue su un doppio binario: ancora in corso a livello locale, soprattutto nelle province a maggioranza sciita, il governo centrale (su suggerimento Usa) lo ha decisamente frenato.

Ciò ha portato ad una frattura interna al blocco sciita, fra l’ala tecnocratica nella figura del premier Maliki e i suoi alleati confessionali, critici nei confronti dell’apertura ai baathisti. Ragion per cui alle elezioni di domenica il Dawa si presenterà da solo, sperando di pescare voti anche fra i sunniti (cosa impensabile rispetto a pochi anni fa).

Lo sganciamento politico degli sciiti di Baghdad dall’Iran ha coinciso con un drastico peggioramento nei rapporti fra i due Paesi. Punzecchiature diplomatiche frequenti, e casi come l’occupazione di un campo petrolifero in una zona contesa di confine lo scorso dicembre.

Del resto, anche i partiti in linea teorica filo-iraniani come lo Sciri di Al Hakim (acronimo per Supremo Consiglio per la Rivoluzione Islamica in Iraq, nato ad inizio anni ’80 con l’intento dichiarato di importare il modello iraniano) hanno come referenti politici in Iran più gli esponenti dell’ala tecnocratica come Rafsanjani, che quella militare-nazionalista rappresentata da Ahmadinejad attualmente al potere nella Repubblica Islamica.

Le relazioni diplomatiche dell’Iraq “libero” sono difficili anche con un altro vicino: la Siria baathista. Dopo ogni grave attentato che sconvolge Baghdad e mette a nudo la fragilità del governo, regolarmente partono le accuse a Damasco di essere lo sponsor del terrorismo nel Paese, con tanto di confessioni (sulla cui spontaneità e verosimiglianza è lecito più di un dubbio…) dei presunti attentatori che in diretta televisiva raccontano di addestramenti e finanziamenti siriani (non si capisce a quale scopo, visto che il presidente Assad si è sempre espresso per la stabilità irakena).

Non dimentichiamo poi che dal territorio irakeno partì, nell’ottobre 2008, un blitz delle forze speciali statunitensi in Siria che costò la morte a diversi civili (obiettivo dichiarato, manco a dirlo, il solito fantomatico leader di Al Qaida); un atto gravissimo di sfida alla sovranità nazionale siriana che restò, come al solito, impunito.

Resta, in questo magmatico scenario, Al Sadr. Nazionalista sincero, che gode di indiscusso sostegno popolare ma politicamente emarginato, il cui movimento ha subito durissime persecuzioni anche a livello militare (come l’offensiva governativa nella primavera del 2008 a Bassora), tanto da rischiare l’annientamento totale.

In conclusione, il quadro strategico è chiaro: gli Usa vogliono andarsene dall’ex-Mesopotamia sapendo di avere compiuto la loro missione, impiantarvi un governo amico guidato da una classe dirigente sensibile ai richiami della Casa Bianca. Un cuneo filo-occidentale che si trova guarda caso fra le due sole Nazioni autenticamente libere del Vicino Oriente: Siria e Iran.



L'Iraq è davvero una democrazia?
di Trudy Rubin - Philadelphia Inquirer - 4 Marzo 2010
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorioiraq.it

Ecco un aggiornamento della rubrica che avevo scritto agli inizi del mese scorso sul mio autista/fixer/amico iracheno scomparso, Salam, che lo scorso anno è sparito all’interno del sistema carcerario di Baghdad.

Il "reato" che ce l’aveva fatto finire era la sua lotta contro il settarismo confessionale: aveva fatto una soffiata ai soldati Usa e a quelli iracheni su una famiglia di miliziani sciiti estremisti dell’Esercito del Mahdi che stavano uccidendo i sunniti nel suo quartiere. (Salam è sciita ma odiava vedere assassinati iracheni innocenti di qualsiasi appartenenza). La famiglia aveva agganci nell’esercito e nei servizi di sicurezza iracheni, e l’aveva fatto arrestare non appena le truppe Usa avevano lasciato la sua zona.

La lotta di Salam è il prisma attraverso il quale si dovrebbe guardare alle prospettive dell’Iraq dopo le elezioni parlamentari di questo fine settimana. La scorsa settimana è riuscito a telefonarmi dalla prigione in cui si trova, e la sua era una triste storia.

A gennaio, dopo aver passato un anno dietro le sbarre, un magistrato lo aveva giudicato innocente delle accuse inventate. Ma non appena aveva messo piede fuori dal carcere, due veicoli militari iracheni gli si erano avvicinati, ed era stato afferrato e portato in un’altra prigione. Nei suoi confronti erano state presentate altre accuse false da parte della stessa famiglia di appartenenti all’Esercito del Mahdi.

Salam pensa che un secondo magistrato lo scagionerà. Tuttavia, se le forze confessionali sono in grado di manipolare così facilmente il sistema di sicurezza, non c’è alcuna garanzia che venga liberato.

Gli analisti stanno discutendo con veemenza se le elezioni di domenica dimostreranno che la democrazia sta mettendo radici in Iraq. Non c’è dubbio che la sicurezza sia migliorata, e che l’Iraq sia arretrato dall’abisso della guerra civile generalizzata. E in Medio Oriente, un cambiamento di potere tramite la scheda invece che il proiettile dovrebbe essere applaudito.

Ma questo da solo non produce una democrazia funzionante. L’Iraq di oggi politicamente è uno spoil system nel quale i partiti confessionali lottano per la ricchezza petrolifera ma non ne danno i benefici al popolo. I ministri vengono scelti in base all’etnia e alla confessione religiosa invece che alla competenza, e la corruzione è dilagante. I deputati, dopo un periodo minimo trascorso in Parlamento, hanno la garanzia di pensioni remunerative vitalizie.

Senza dubbio, queste sono le difficoltà iniziali di un Paese che sta emergendo da decenni di dittatura, guerra, e sanzioni. Tuttavia il nuovo sistema iracheno – distorto da contractor internazionali corrotti, abusato da politici avidi – non è riuscito a creare un governo che funzioni.

"Dove sono le istituzioni della democrazia, i controlli e contrappesi, i tribunali?", chiede Ali Allawi, che è stato ministro delle Finanze e della Difesa agli inizi del periodo del dopo-Saddam, ed è uno dei più acuti analisti politici iracheni. "Qui la politica è più libera che in altre parti del Medio Oriente, e c’è libertà di espressione. Ma quanto a istituzioni funzionanti che sono necessarie a una moderna vita civile, non credo che si possa dire che è meglio".

Anche le speranze iniziali che le coalizioni politiche che si sfidano in queste elezioni superino le divisioni confessionali si stanno affievolendo. Un anno fa, il Primo Ministro sciita, Nuri al-Maliki, sembrava pronto ad allargare la sua coalizione per includervi leader tribali sunniti influenti. Ma il contributo sunnita si è ridotto.

Invece, Maliki ha acconsentito mentre a molti candidati sunniti veniva vietato di presentarsi alle elezioni in base all’accusa secondo cui sarebbero stati membri del partito Ba’ath di Saddam Hussein (al quale doveva appartenere chiunque volesse far carriera). Gli sciiti sono in effetti preoccupati (eccessivamente) di una rinascita del Ba’ath, ma questa spinta verso la de-Ba’athificazione è più manipolazione politica che vera paura.

Ci sono segnali che la nuova campagna di de-Ba’athificazione possa allargarsi a cacciare centinaia di ufficiali di carriera dell’esercito iracheno che sono sunniti per sostituirli con ex membri delle milizie sciite. L’esercito – una istituzione che sarebbe potuta servire ad armonizzare il Paese – potrebbe degenerare, e diventare uno strumento utilizzato per punire coloro che non sono d’accordo con uno Stato apertamente confessionale.

Se l’Iraq non riuscirà a superare le sue divisioni confessionali, probabilmente potrà tirare avanti alla bell’e meglio, ma non ci sarà stabilità. Se queste divisioni non verranno colmate, potrebbero volerci mesi perché il Parlamento riesca a formare un governo dopo il voto.

E se i politici iracheni continueranno a concentrarsi su una divisione confessionale del bottino, invece che sulla governance, "la democrazia parlamentare verrà screditata", dice Allawi – aggiungendo: "Ci sarà nostalgia per una figura che incarni l’autorità", e l’Iraq potrebbe tornare ad essere un tipico modello mediorientale di governo autoritario.

Ecco perché ritengo la sorte di Salam simbolica della direzione che prenderà il suo Paese. E’ stato incarcerato perché le milizie sciite hanno tuttora potere e legami con le forze di sicurezza, mentre i leader politici sono conniventi e i magistrati onesti restano impotenti.

Dunque aspettiamo ad esultare per la democrazia irachena, e vediamo se Salam sarà liberato. Il giorno in cui tornerà a casa sano e salvo crederò che c’è speranza per la democrazia in Iraq.


Elezioni in Iraq: il punto di vista iraniano
di *Sadegh Zibakalam - Bitterlemons-international.org - 25 Febbraio 2010
Traduzione a cura di Medarabnews

La priorità iraniana in Iraq e in Medio Oriente è sostenere l’antiamericanismo, non lo sciismo – scrive l’accademico iraniano Sadegh Zibakalam

E’ opinione comune tra molti esperti e osservatori dell’Iran che i leader islamici iraniani desiderino assistere a una grandiosa vittoria degli sciiti dell’Iraq alle imminenti elezioni generali del prossimo fine settimana.

Certamente è chiaro che Tehran desidera vedere in Iraq un governo dominato dagli sciiti. Ma questa è solo una parte della verità. C’è una lunga serie di altre considerazioni iraniane che riguardano la struttura del potere in Iraq.

In primo luogo vi è il “fattore americano”. Non sarebbe un’esagerazione sostenere che per molti iraniani radicali esso sia più importante del fattore sciita. Se consideriamo due gruppi diversi, uno liberale e filo-occidentale – o, anche peggio, filo-americano – ma sciita, e il secondo non sciita, ma anti-occidentale – e, ancor meglio, anti-americano – ci sono pochi dubbi su quale dei due sarebbe preferito o persino sostenuto attivamente dagli iraniani. In altre parole, essere sciiti, per quanto sia importante per i leader radicali iraniani, non è il fattore determinante; Tehran vuole anche sapere da che parte stia un determinato gruppo rispetto agli Stati Uniti.

Si tratta di un punto cruciale che spesso non è compreso da molti arabi, sia dentro che fuori l’Iraq, i quali accusano costantemente la Repubblica Islamica di tentare di instaurare un regime sciita in Iraq e, a dire il vero, di cercare di creare delle vere e proprie enclave a dominazione sciita in Medio Oriente.

Ovviamente il regime islamico preferisce vedere un governo dominato dagli sciiti in Iraq, in Siria, in Libano e, ultimamente, nello Yemen. Ma la sua priorità è l’anti-americanismo, non lo sciismo.

Questa è una delle ragioni che spiegano gli stretti legami che il regime islamico iraniano ha con il presidente del Venezuela Hugo Chavez, con il presidente boliviano Evo Morales, e con altri leader nazionali anti-americani.

Il “fattore anti-americano” significa che Tehran non sosterrà i gruppi sciiti laici e filo-americani come quello guidato da Iyad Allawi. Per converso, i leader islamici iraniani presteranno tutto il sostegno possibile a gruppi sciiti guidati da radicali come Muqtada al-Sadr.

La considerazione successiva è il “fattore rappresentato dal Grande Ayatollah al-Sistani”. I leader iraniani nutrono un enorme rispetto per l’Ayatollah Ali al-Sistani. A sua volta, Sistani ha parlato generosamente della leadership iraniana. Nonostante questi evidenti scambi di cordialità tra la guida irachena sciita a Najaf e i suoi colleghi ayatollah a Qom e Teheran, ci sono due principali differenze tra loro.

La prima riguarda gli Stati Uniti. Sistani non condivide il forte sentimento anti-americano degli ayatollah iraniani. Al contrario, ha tacitamente avallato la presenza americana sul suolo del suo Paese. Ogni volta che Sistani fa un commento o offre un’opinione critica nei confronti degli americani, i media iraniani la amplificano immediatamente.

Ma in altre occasioni, quando i suoi commenti nei confronti degli Stati Uniti sono stai molto più concilianti e tendenti al compromesso, sono stati ignorati o manipolati dagli stessi media nella Repubblica Islamica.

La seconda differenza tra gli ayatollah a Qom e a Najaf è ancor più fondamentale. Riguarda la sostanziale questione del “governo del giurisperito” (velayat-e faqih) (in base a questo principio, perfezionato dall’Ayatollah Khomeini, la leadership politica spetta, in assenza di un imam ispirato divinamente, al faqih, cioè a colui che è esperto nella giurisprudenza islamica (N.d.T.) ), il sistema di governo sul quale sono fondate le basi della Repubblica Islamica.

Fin dalla nascita del regime islamico nel 1979, i leader religiosi iraniani hanno difeso l’idea del velayat-e faqih come l’unico sistema possibile per uno Stato sciita. Chiunque non sostenga questa nozione è stato tacciato di non essere un vero sciita, un controrivoluzionario e, non di rado, un infedele. Ma, con grande sgomento degli iraniani, Sistani ha evitato di sostenere il concetto del velayat-e faqih. Ovviamente egli non ha esplicitamente rifiutato questa nozione, ma il fatto stesso che non l’abbia sostenuta ha creato una lacuna fondamentale nel grande scenario ideologico dell’Iran.

La terza considerazione iraniana riguarda la delicata questione della “de-ba’athificazione”. Il recente intervento americano volto a persuadere i leader iracheni a lasciare che ex membri del partito Ba’ath partecipassero alle elezioni legislative ha causato una forte reazione in Iran. I leader islamici iraniani hanno accusato il governo americano di tentare di riportare al potere “i suoi vecchi alleati iracheni dell’era di Saddam”. I media iraniani hanno affermato che il popolo musulmano iracheno non permetterà il ritorno al potere di questi ex alleati degli americani alle prossime elezioni.

Infine, c’è l’importante questione del petrolio. Lo scorso dicembre, il governo iracheno ha firmato diversi importanti contratti con i principali cartelli petroliferi internazionali, incluse compagnie anglo-americane. Gli iraniani hanno osservato questi eccezionali sviluppi con preoccupazione, in quanto uno dei giacimenti petroliferi in questione è situato nelle vicinanze del confine iraniano. Le autorità irachene hanno poi improvvisamente annunciato che le truppe iraniane avevano occupato un campo petrolifero nei pressi dei confini nazionali. Tehran ha negato “l’occupazione”, e ha spiegato che “le guardie di frontiera iraniane stavano cercando di demarcare le linee di confine”.

In breve, il governo islamico dell’Iran stava cercando di comunicare sia alle compagnie petrolifere occidentali che al governo iracheno che ci sono serie questioni irrisolte tra i due Paesi, e che nessuno può entrare in queste zone come se niente fosse, sia che si tratti di petrolio sia per qualunque altro obiettivo. Il governo islamico osserverà da vicino gli esiti delle elezioni di marzo in Iraq allo scopo di avviare la faticosa impresa di risolvere le dispute di confine, le quali sono state la causa principale dell’amara guerra Iran-Iraq durata 8 anni.

*Sadegh Zibakalam
è docente di scienze politiche all’Università di Tehran



Iraq al voto, lo scrittore Younis Tawfiq:"Sostegno ad Allawi per la democrazia"
di Enrico Caporale - La Stampa.it - 5 Marzo 2010

“Il ritiro delle truppe americane? Un'illusione, resteranno nelle basi”

«Il 7 marzo voterò per Allawi, è l'unico che può dare speranza al popolo iracheno». Younis Tawfik, giornalista e scrittore nato a Mosul nel 1958 e residente in Italia dall'età di vent'anni, non ha dubbi: «Il candidato filo-occidentale saprà dare stabilità al Paese. D'altronde l'ha già dimostrato durante il suo primo mandato».

In che cosa si differenzia Allawi dagli altri candidati alle elezioni?
«Dagli Stati Uniti ai Paesi arabi tutti vogliono un Iraq che non dia fastidio. Allawi è laico, gode dell'appoggio sia dei sunniti sia degli sciiti, ha grandissime capacità strategiche, ed è ben visto perfino da alcune sfere di potere iraniane. Chi è stufo di al Maliki e della componente religiosa al governo non può che votare per lui».

La campagna elettorale è iniziata in un clima di forte tensione a causa dell'esclusione di oltre 500 candidati ritenuti coinvolti col disciolto partito Ba’ath e col passato regime di Saddam Hussein. Decisione giusta, o piuttosto una mossa del governo per lasciare un'altra volta i sunniti lontano dall'arena politica?
«Impossibile escludere una fetta così grande dell'elettorato iracheno: durante il regime tutti erano legati al partito Ba’ath . Il premier vuole spezzare l'ala moderata del Paese, ma questa decisione sarà mortale per il suo partito».

La minoranza sunnita ha però minacciato di boicottare nuovamente le elezioni. Già nel 2005 è stata sotto-rappresentata in parlamento per aver rifiutato di accettare gli sciiti al potere. C'è il rischio che la storia si ripeta?
«Non credo, i sunniti sono stanchi di fare da spettatori. Ci sarà una resistenza, e molti di loro daranno la preferenza ai partiti moderati».

L'affluenza alle urne sarà pertanto alta.
«Certo, l'Iraq vuole stabilità e unità. Nelle città c'è un grande desiderio di cambiamento. La gente d'altronde si è lentamente ripresa la vita. Nei giorni festivi si rivedono le famiglie riunite sulle sponde del Tigri, i ristoranti riaprono, e le donne iniziano a togliere il velo».

A proposito, che ruolo gioca la componente femminile nell'Iraq della libertà e democrazia?
«Lo chieda agli Stati Uniti. Prima della caduta di Saddam le nostre donne si distinguevano in tutto il Medio Oriente: potevano studiare, guidare le automobili, e non indossavano il velo. Poi, con l'arrivo degli americani, la terra è stata violata e con essa le sue figlie. I trafficanti del sesso si sono fatti largo un po' dappertutto: gli stupri sono aumentati, e la considerazione del genere femminile è crollata. Il rientro dei leader politici esiliati in Iran ha fatto il resto: molte discriminazioni, infatti, sono state introdotte da loro».

Mi pare di intendere che non tollera molto l'influenza iraniana sul suo Paese.
«Tehran si è inserita nel tessuto iracheno in modo molto astuto. Durante la I Guerra del Golfo Saddam esiliò in Iran migliaia di persiani. Al loro rientro vennero infiltrati molti agenti che in seguito ricoprirono ruoli chiave nel nostro governo. Non dimentichiamo poi il sostegno che Tehran dà al Supremo Consiglio islamico, una sorta di Hezbollah in Iraq».

Le innumerevoli aggressioni contro i cristiani stanno creando forte preoccupazione negli ambienti Vaticani. E' in atto un piano delle forze integraliste e fondamentaliste musulmane per cacciarli dal Paese?
«Anche in questo caso direi al Papa e ai vertici della Chiesa di prendersela con gli Stati Uniti. In Iraq i cristiani hanno sempre vissuto in pace e armonia con gli altri credo religiosi. Quanto accade oggi è il frutto del caos generato da anni di guerra e distruzione. Saddam era un dittatore, ma laico: con la sua caduta si è dato libero sfogo a massacri e deportazioni delle minoranze.
Non credo comunque che esista un piano specifico contro i cristiani. L'obiettivo è colpire la componente colta e illuminata del Paese. Un anno fa per esempio è stato assassinato mio fratello, avvocato e cristiano. Poi, a distanza di un solo giorno, è stato trovato morto un suo vicino di casa anestesista, questa volta musulmano».

Le elezioni del 7 marzo si giocheranno tutte sul tema della sicurezza. Il ritiro delle truppe americane, fissato per il 1° settembre, è d'altronde vincolato all'esito del voto e alla stabilità del Paese. Baghdad è in grado di costruire un governo forte e autosufficiente?
«Innanzitutto è bene sottolineare che il ritiro dei soldati Usa è solo un'illusione o, peggio, una presa in giro. Gli Stati Uniti abbandoneranno le città, ma continueranno a mantenere basi sparse per l'Iraq. Come pensare d'altronde che Washington lasci campo libero a una possibile penetrazione iraniana?
In precedenza gli Stati Uniti impiegavano mesi per muoversi in Medio Oriente, ora, con l'appoggio di Baghdad, possiedono una sicura portaerei in grado di dare il proprio sostegno a Israele e tenere sotto controllo Tehran e Damasco.
Non parliamo poi degli interessi economici legati al petrolio. Per quanto riguarda infine la stabilità del governo, tutto dipende da chi vincerà le elezioni. Ma gli iracheni hanno ancora speranza nel futuro, ed è per questo che sceglieranno Allawi».



Un regime settario nichilista precipiterà l’Iraq nell’abisso più profondo
di *Bashir Moussa Nafie - www.alasr.ws - Marzo 2010
Traduzione a cura di Medarabnews

La politica irachena non aveva fatto in tempo ad uscire dalla crisi della legge elettorale che è stata coinvolta in una crisi più profonda e più grave, dopo che i governanti dell’Iraq hanno escogitato una vasta campagna di “de-ba’athificazione”, ovvero una campagna di esclusione di tutti coloro che sono accusati di essere loro oppositori, soprattutto tra le personalità arabe sunnite.

Al culmine di questa campagna – quando era divenuto evidente che il sistema di discriminazione creato dal parlamento iracheno avrebbe deciso di vietare la candidatura di centinaia di persone alle prossime elezioni, primi fra tutti Saleh al-Mutlaq e Dhafir al-Ani – il Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki ha tenuto un discorso affermando letteralmente che “l’Iraq non permetterà la vittoria di coloro che vogliono fare il proprio ritorno a bordo dei carri armati o attraverso legami stranieri”.

Tuttavia al-Maliki non ha detto a coloro che lo ascoltavano come è ritornato lui, e l’attuale classe di governo irachena, nel Paese; ovvero come costoro sono diventati i nuovi governanti dell’Iraq. Con questa campagna di falsificazione pura e semplice della storia dell’Iraq e del suo clima politico, è scoppiata la crisi della “de-ba’athificazione” , e gli iracheni hanno assistito a una nuova puntata del nichilismo settario nel quale il loro Paese è stato trascinato per mano dei leader del partito Da’wa, del Supremo Consiglio Islamico Iracheno (SIIC), e del Partito Islamico.

All’origine della campagna di “de-ba’athificazione” non vi è né la legge né la Costituzione. La Commissione per la de-ba’athificazione, anche nota come “Commissione di responsabilità e giustizia”, non è in alcun modo un’istituzione legale.

Coloro che la dirigono non sono stati nominati dal parlamento, e sono politici in attività, candidati alle prossime elezioni. Non è dunque giusto che essi diventino arbitri del destino degli altri candidati.

Le centinaia di nomi che la Commissione ha inserito nella lista di esclusione dalle candidature non sono tutti accusati di essere ba’athisti. Al-Mutlaq ed al-Ani, ad esempio, sono accusati di aver fatto propaganda per il partito Ba’ath, ma non di averne fatto parte. Una simile accusa non è considerata di competenza della Commissione.

Questa crisi, in poche parole, non ha a che fare con l’applicazione della legge, bensì con la comparsa dell’Alleanza Nazionale Irachena (coalizione sciita che comprende il SIIC, i sadristi, Fadhila, ed altri (N.d.T.) ) e del Movimento Nazionale Iracheno (coalizione eminentemente laica che comprende gruppi sunniti e sciiti, guidata da Iyad Allawi (N.d.T.) ), i cui leader sono Tareq al-Hashemi, Iyad Allawi, Saleh al-Mutlaq, Rafie al-Issawi, e Osama al-Nujaifi.

L’inaspettata costituzione di quest’ultima lista, che ha suscitato negli iracheni grandi speranze di uscire dal clima di divisione che regna nel Paese e dalla pesante atmosfera della politica settaria, è il principale elemento di cambiamento nell’Iraq dei mesi scorsi.

I leader di questa coalizione sono importanti politici iracheni appartenenti alla classe politica emersa dopo l’occupazione americana, i quali hanno compreso che elevarsi al di sopra delle loro passate divergenze e tracciare una nuova linea di azione politica è l’unico modo per salvare il Paese dal baratro.

Come gli altri esponenti della nuova classe politica irachena, essi hanno collaborato con l’occupazione, e hanno commesso gravi errori negli anni passati. Tuttavia, sono stati i più rapidi a rendersi conto della natura dell’Iraq, della sua struttura nazionale, e dei principi arabi e islamici su cui si fonda il Paese. Non vi è dubbio che la costituzione di questa coalizione ha suscitato grossi timori negli ambienti legati alle forze di ispirazione settaria ed etnica dell’Iraq, così come a Tehran.

L’Alleanza Nazionale Irachena (INA) non era ancora nata quando le trattative tra al-Maliki ed i suoi rivali del SIIC giunsero in un vicolo cieco.

Il nocciolo della controversia tra le due principali forze settarie sciite che componevano la precedente Alleanza Irachena Unita (UIA) (il SIIC e il partito Da’wa di al-Maliki (N.d.T.) ) era senza dubbio il desiderio di al-Maliki di assicurarsi un secondo mandato alla guida del governo.

Non appena fu annunciata la nascita della nuova Alleanza Nazionale Irachena (INA), apparve chiaro che né la nuova coalizione sciita né l’Alleanza per lo Stato di diritto (la nuova lista di al-Maliki, anch’essa sciita) – malgrado i ritocchi “cosmetici” che erano stati apportati ad entrambe le liste – sarebbero state in grado di tener testa al Movimento Nazionale Iracheno, né presso gli ambienti sunniti né presso quelli sciiti, e neanche fra i milioni di rifugiati iracheni.

Dopo anni di divisioni interne e di contrapposizioni settarie e regionali, gli iracheni sono tornati a rimettere insieme i pezzi della loro patria e della loro comunità nazionale, ed a cercare i modi per preservare l’unità del Paese.

E siccome tutti si rendono conto della realtà di questi sviluppi nel clima iracheno complessivo, questa nuova coalizione di ispirazione nazionale ha rappresentato un campanello d’allarme per tutti coloro che avevano costruito il loro potere sugli istinti settari e sulla sollecitazione delle paure degli iracheni gli uni nei confronti degli altri.

Al-Maliki non aveva ancora quasi pensato all’eventualità di perdere la poltrona di capo del governo a vantaggio di un’altra personalità irachena, ma tale eventualità ha dimostrato di poter diventare una realtà, nel caso in cui la nuova coalizione nazionale dovesse ottenere la maggioranza relativa nel prossimo parlamento.

Al-Maliki e l’INA sono accomunati dal timore che la comparsa del Movimento Nazionale di Allawi possa portare all’affermazione di nuovi principi nella politica irachena, ponendo fine alla loro impressionante ascesa nell’era dell’occupazione, dello smantellamento dello Stato, della divisione del popolo iracheno, e della trasformazione dell’Iraq in un palcoscenico aperto all’influenza straniera.

Malgrado i suoi tentativi di mostrarsi come una figura neutrale, al-Maliki è stato il motore principale della campagna di de-ba’athificazione, tuttavia il mandante era Tehran.

Con l’avvicinarsi della data del ritiro americano dall’Iraq, Tehran lavora per rafforzare la sua influenza nel Paese, basata su forze settarie, personalità politiche di varia estrazione, accordi economici e di sicurezza, e una penetrazione su vasta scala delle istituzioni dello Stato iracheno.

Tehran ha cercato di spingere le due forze sciite principali ad allearsi in una coalizione unitaria, tuttavia questo tentativo è fallito, almeno fino a questo momento, sia a causa della lotta di potere tra le leadership sciite irachene, sia per la prematura convinzione di al-Maliki di essere in grado di decidere le elezioni a suo vantaggio senza la coalizione sciita, ed in particolare senza il SIIC. Tuttavia la comparsa della coalizione del Movimento Nazionale Iracheno ha spinto Tehran a tentare di nuovo. Gli iraniani hanno considerato questa coalizione, ora come una manifestazione dell’influenza saudita, ora come uno schieramento filo-turco.

Senza dubbio si sono sbagliati in entrambi i casi. La buona accoglienza che ha incontrato il Movimento Nazionale di Allawi è stata ampia ed è provenuta da più parti – dal Cairo, a Damasco, ad Ankara – non perché esso fosse legato ad una qualunque di queste capitali, ma perché la maggior parte dei Paesi vicini ha visto in questa coalizione una speranza di recuperare l’Iraq e di stabilizzare il Paese.

Ma in ogni caso l’Iran non può permettersi rischi. Perciò è nata l’idea di ricorrere al metodo della “de-ba’athificazione”, rivolta in particolare contro il Movimento Nazionale Iracheno e contro i candidati delle sue liste.

Quando il generale Petraeus, ex comandante delle forze Usa in Iraq, dice che la “Commissione di responsabilità e giustizia” non è che uno strumento nelle mani della leadership delle forze Quds (l’unità speciale della Guardia Rivoluzionaria iraniana (N.d.T.) ), non mette semplicemente in circolazione delle voci; quando il presidente iraniano Ahmadinejad annuncia, nel suo discorso in occasione dell’anniversario della Rivoluzione Islamica, il proprio sostegno ai provvedimenti di de-ba’athificazione (stabilendo in maniera del tutto ingiustificata che il partito Ba’ath non tornerà al governo in Iraq), tali affermazioni segnalano implicitamente che l’Iran è fermamente determinato a dirigere gli affari iracheni, a qualsiasi costo.

Uno degli attori che si sono affrettati ad aderire al fronte della de-ba’athificazione è stato il Partito Islamico, che esprime l’identità settaria sunnita all’interno del processo politico. Anch’esso (il minore fra i partiti di governo) aveva riconosciuto nella coalizione di Allawi una fonte di pericolo.

La verità è che il declino del sostegno arabo sunnita al Partito Islamico era cominciato più di due anni fa, non solo per l’incapacità del partito di rappresentare gli interessi di coloro che lo avevano votato, ma anche perché i sunniti iracheni non vedono se stessi e le loro posizioni da un punto di vista settario. Essi lo avevano votato alle precedenti elezioni (assieme al Fronte della Concordia di cui faceva parte) nel clima di scontro settario che dominava all’epoca il Paese.

Non appena è stata annunciata la nascita del nuovo Movimento Nazionale Iracheno (e addirittura prima che ciò avvenisse, in occasione delle elezioni locali), è divenuto evidente che il Partito Islamico avrebbe perso nettamente di fronte ai candidati di questa nuova lista. Ben presto tale partito vide nel progetto di de-ba’athificazione un’occasione per sbarazzarsi dei suoi rivali nazionalisti, e soprattutto delle personalità più importanti all’interno della nuova coalizione.

I deputati del Partito Islamico e l’attuale presidente del parlamento, che è considerato uno dei leader del partito, hanno giocato un ruolo importante nel facilitare il compito di al-Maliki e della “Commissione di responsabilità e giustizia”, addirittura impiegando i mezzi di informazione del partito per coprire i provvedimenti di de-ba’athificazione illegali ed ingiustificati, e di chiara ispirazione settaria.

Nei momenti di pericolo, le correnti sciite e sunnite di ispirazione settaria non possono fare a meno di lavorare insieme per salvaguardare il potere, le ricchezze, e i privilegi che il regime settario garantisce loro.

Gli americani, che attualmente giocano un ruolo ambiguo nell’equazione irachena, essendo talvolta presenti e talaltra assenti, sono tutta un’altra storia. Il ritratto dal quale traspare un interesse americano per la questione della de-ba’athificazione è in gran parte esagerato. Il centro della preoccupazione americana riguardo alle decisioni legate alla de-ba’athificazione non è né la correttezza né la legalità di tali decisioni, ma il loro impatto sulla stabilità del Paese, e di conseguenza sul calendario del ritiro delle loro truppe.

Ma gli americani, rappresentati dal vicepresidente Joe Biden, si sono resi conto che in ogni caso la volontà iraniana in Iraq ormai prevale sulla loro, e che la duplice fedeltà (agli americani ed agli iraniani (N.d.T.) ) delle forze politiche irachene alle quali essi hanno consegnato le chiavi del potere e dello Stato iracheno è ormai meno duplice.

Solitamente vengono date due letture della posizione americana rispetto agli sviluppi degli affari iracheno-iraniani, e rispetto al rapido declino dell’influenza che Washington è in grado di esercitare a Baghdad.

La prima sostiene che gli americani sono attualmente indifferenti alla reale fedeltà di questo o quel loro alleato iracheno, e ritengono che il futuro dell’Iraq sia strettamente legato alla questione iraniana, sia che essa si concluda pacificamente sia che sfoci in un confronto armato. La risoluzione della questione iraniana avrà una ricaduta diretta sulla classe politica irachena, e renderà più chiare le cose in Iraq.

La seconda lettura afferma che gli americani si contentano di stabilizzare il regime settario in Iraq, perfino in presenza di un’influenza iraniana, perché un Iraq di questo genere uscirebbe definitivamente dal contesto arabo, e anzi diventerebbe una fonte di pericolo per i suoi vicini arabi contribuendo a mantenere la frammentazione della regione.

E’ probabile che l’amministrazione Obama si renda conto che l’avventura irachena era perdente fin dall’inizio, e siccome la preoccupazione americana è di archiviare la questione irachena e dimenticarla, nessuno a Washington sa con certezza quale sia la politica migliore da adottare nei confronti dell’Iraq e dello Stato settario iracheno nei prossimi anni.

Quel che è certo è che l’Iraq non potrà stabilizzarsi fino a quando sarà amministrato da un governo come quello attuale. Le politiche di esclusione e di eradicazione, ed il tentativo di imporre un’unica versione della storia, non sono una novità. Questo tipo di governo è quello che ha fatto sì che l’Iraq vivesse sull’orlo del baratro fin dalla nascita del suo Stato moderno, all’inizio degli anni ’20.

La novità per gli iracheni, dopo il progetto di liberazione e democratizzazione, è l’aggiunta dei saccheggi e della dipendenza dall’estero alle politiche di esclusione, alle persecuzioni ed all’accaparramento del potere. Non è così che si fondano gli Stati, o che si determina la loro sopravvivenza.


*Bashir Moussa Nafie è uno storico ed editorialista palestinese. Scrive abitualmente sul quotidiano al-Quds al-Arabi.