All'inizio di febbraio infatti l'Argentina aveva ufficialmente protestato con la Gran Bretagna per l'inizio delle operazioni di trivellazione, previste per Aprile.
Le isole, come si sa, sono sotto sovranità britannica, ma il governo argentino ha ordinato che le navi britanniche dirette alle Falkland, attraverso le acque territoriali di Buenos Aires, siano sottoposte a nuovi e stringenti controlli.
Infatti la presidente Cristina Fernandez ha firmato un decreto che impone a tutte le navi che viaggiano tra l'Argentina e le isole di chiedere l'autorizzazione preventiva, inclusi coloro che vogliono attraversare le acque territoriali in rotta verso le Falkland.
Ma il governo inglese ha rifiutato di ascoltare le proteste argentine in merito all'inizio dei lavori di esplorazione petrolifera, con il portavoce del ministero degli esteri inglese che ha dichiarato: "Non abbiamo nessun dubbio circa la nostra sovranità sulle isole Falkland e di tutta l'area marittima che le circonda. Il governo delle isola ha diritto a studiare e sviluppare un'industria degli idrocarburi all'interno dei limiti marittimi".
Ma l'amministrazione di Buenos Aires ha già convocato l'ambasciatore britannico Shan Morgan per esprimere "un'energica protesta" per le perforazioni previste.
"La pretesa della Gran Bretagna di autorizzare la realizzazione di opere di esplorazione e dello sfruttamento degli idrocarburi presenti nell'area della piattaforma continentale argentina è una violazione della nostra sovranità", dicono da Buenos Aires.
Quindi non ci sono solo pecore nelle Falkland/Malvinas....
Londra e Buenos Aires ai ferri corti
di Alessandro Grandi - Peacereporter - 8 Marzo 2010
Gli idrocarburi presenti sotto le acque delle Isole Malvinas al centro della disputa fra Londra e Buenos Aires
Per ventinove anni nessuno si è preso la briga di parlare delle Isole Malvinas. Probabilmente in pochi ricordano che queste bellissime isole, lontane dalla frenesia del mondo, sono state al centro di una guerra combattuta nel 1982 da Argentina e Gran Bretagna. Un conflitto durato poche settimane e che ha visto la netta vittoria militare di Londra e l'inizio della decadenza della dittatura dei generali in Argentina.
Poi, una volta sistemata militarmente la questione sulla scena delle isole è calato il sipario. Almeno a livello internazionale la stampa ha sempre evitato di parlare dell'arcipelago dove vivono in pace e armonia poche persone e molte pecore.
Oggi, però, il mondo guarda nuovamente verso sud, profondo sud, verso quell'angolo remoto del pianeta davvero poco ospitale. E il motivo è semplice: pare che sotto le acque dell'oceano Atlantico che bagnano le Malvinas/Falkland riposi in santa pace da millenni una quantità impressionate di petrolio, l'oro nero per cui oggi i grandi della Terra competono e combattono.
E proprio per questo motivo che Buenos Aires attraverso l'intraprendente presidente Cristina Kirchner vorrebbe rimettere il piede argentino sul suolo isolano. Ovvio: non si può nel 2010 con un governo democraticamente eletto avere lo stesso atteggiamento del 1982 quando la giunta miliare di Galtieri comandava con il pugno di ferro e la violenza un'intera nazione e usò il pretesto della guerra ai britannici per distogliere l'attenzione sulle malefatte interne. Oggi le strade sono per forza di cose diverse.
Ma la sostanza non cambia: l'Argentina tenta di riottenere le Malvinas. Quanto meno si aspetterebbe che Londra adempisse agli accordi stilati e alle risoluzioni Onu in vigore ormai da decenni. Ecco, forse la frase simbolo del periodo della guerra "Las Malvinas son Argentina" tanto amata dalla dittatura, oggi è un po' fuori luogo, ma di certo il significato di base resta quello.
La partita è appena iniziata. La posta in gioco, migliaia di barili di greggio, è alta e ha fatto in modo che in tanti si proponessero come arbitri. Ma è stata la presidente argentina Kirchner a chiedere al segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, di fare da mediatore con Londra per discutere il futuro delle Isole. "L'univa via per risolvere la questione è quella del dialogo" ha già detto più di una volta la Clinton. Ma sono tanti anche i Paesi che sostengono Buenos Aires: nell'ultimo vertice del Grupo del Rio, tutti i presidenti presenti hanno sostenuto la linea della Kirchner.
Tutti, però, sono d'accordo su una cosa: è importante sedersi intorno a un tavolo e discutere e non arrivare allo scontro. Anche se dal Regno Unito non sembrano essere così disponibili e fanno sapere che "non esiste una questione di sovranità sulle Falkland, né sul loro diritto all'autodeterminazione. Tanto meno è in dubbio il fatto che le isole saranno pienamente difese".
Non solo. Il sottosegretario agli Esteri britannico Chrys Bryant ha fatto sapere che Londra "non pensa sia indispensabile un negoziato o una discussione perchè non c'è niente da discutere in termini di sovranità sulle Falkland".
di Gennaro Carotenuto - www.giannimina-latinoamerica.it - 26 Febbraio 2010
La Gran Bretagna provoca l’America latina: prospezioni petrolifere armate al largo delle isole contese.
Nel mare tra le isole Malvinas (Falkland secondo la dizione coloniale) e l’Argentina vi sono almeno 3 miliardi di barili di petrolio che Londra vuole a tutti i costi per sé in violazione alle risoluzioni 2065 e 3149 dell’ONU e agli stessi accordi con l’Argentina del 1989 che la Gran Bretagna firmò senza mai pensare di rispettare.
Se Buenos Aires esige il rispetto degli accordi e della propria sovranità e tutta l’America latina solidarizza con Cristina Fernández, l’ONU resta muta e la marina inglese provoca cercando l’incidente.
Il quadro della situazione delle Malvinas dal punto di vista del diritto internazionale è definito. Fin dal 1965 la Gran Bretagna viola la risoluzione dell’ONU 2065 che la obbliga a negoziare le condizioni di decolonizzazione delle isole rivendicate dall’Argentina e la risoluzione 3149 che obbliga i due paesi ad astenersi da azioni unilaterali.
Dall’89 inoltre Londra viola i favorevolissimi accordi firmati con Carlos Menem in maniera propedeutica al ristabilimento di relazioni diplomatiche dopo la guerra dell’82.
Gli inglesi si impegnarono a consultarsi con Buenos Aires e a sfruttare congiuntamente le risorse delle isole occupate dall’impero britannico nel 1833. Le diplomazie argentina e latinoamericana hanno sempre considerato l’arcipelago del Sud Atlantico come parte fondamentale del territorio argentino e latinoamericano stesso.
Dopo la guerra, nel 1985, le Malvinas, strategicamente importantissime, divennero una portaerei puntata contro il Cono Sud dell’America latina. Ma fin dal 1975 si sa che tra le Malvinas e l’Argentina continentale, in quella che è a tutti gli effetti piattaforma continentale argentina, esistono riserve ingentissime di idrocarburi.
Negli ultimi due anni, con più avanzati metodi di prospezione l’ora dello sfruttamento del petrolio argentino sta arrivando e i britannici, in barba agli stessi patti da loro sottoscritti, non sono disposti a condividerlo.
Martedì scorso Cristina Fernández, nel disprezzo sciovinista della stampa europea sempre pronta a dar ragione agli inglesi, ha così deciso che eventuali prospezioni nella piattaforma continentale latinoamericana tra la costa e le isole avrebbero dovuto chiedere autorizzazione a Buenos Aires.
Per tutta risposta Londra ha fatto filtrare (per poi smentire) che le prospezioni proseguiranno con l’appoggio di almeno altre due navi da guerra che si aggiungono alle quattro che Londra tiene di stanza a Puerto Argentino (Port Stanley secondo la dizione coloniale), capoluogo delle isole Malvinas.
Secondo il Ministro degli Esteri argentino Jorge Taiana, “da parte di Buenos Aires non vi è nessuna intenzione di arrivare allo scontro ma sì di far rispettare gli stessi accordi anglo-argentini e le risoluzioni delle Nazioni Unite” ma è evidente che le navi da guerra britanniche rappresentano la volontà di Londra di creare un incidente.
A Cancún, nel vertice latinoamericano, Cristina Fernández ha ottenuto il totale appoggio da parte di 25 presidenti di tutta l’America latina, con il Brasile e il Venezuela in testa.
La presidente argentina in Messico ha usato parole alte che è imprudente disprezzare da parte delle grandi potenze: “Le Malvinas sono un problema di tutto il mondo e non solo latinoamericano. Vi è in gioco infatti che se chi siede nei seggi permanenti delle Nazioni Unite ha il potere di violare le stesse disposizioni dell’ONU allora perde ogni diritto a esigere alcunché da altri paesi in tema di disarmo, di attività nucleare e di rispetto dei diritti umani”.
Le parole più consone in appoggio all’Argentina le ha usate il presidente brasiliano Lula che criticando duramente le Nazioni Unite ha detto: “Perché l’ONU non si pronuncia? Sarà perché l’Inghilterra in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza può tutto e gli altri non contano niente?”
Le isole Malvinas sono da sempre un nervo scoperto delle relazioni tra Argentina e Gran Bretagna e vissero il loro momento più grave nella scellerata guerra voluta nel 1982 dalla dittatura fondomonetarista argentina al crepuscolo che si concluse in una catastrofe.
Centinaia di militari di leva argentini, mandati al macello dalla dittatura, furono sterminati dall’uso oltre i limiti della forza da parte delle truppe mandate da Margaret Thatcher mentre gli ufficiali, tutti o quasi torturatori e assassini, si arresero senza sparare un colpo nella guerra che si protrasse dal 2 aprile al 14 giugno 1982.
Fu il caso di Alfredo Astiz, il cosiddetto angelo della morte, oggi condannato all’ergastolo. Capace di torturare, stuprare, assassinare, buttar giù dai voli della morte persone inermi senza battere ciglio, di fronte agli inglesi si arrese senza sparare un colpo mandando allo sbaraglio i suoi sottoposti.
I motivi della guerra da parte della dittatura argentina erano impresentabili: cercare un trionfo nazionalista per occultare i crimini della dittatura dei 30.000 desaparecidos. Ma anche il decisionismo thatcheriano aveva motivazioni simili: zittire in nome della patria le crescenti proteste delle classi operaie non ancora domate dalla “lady di ferro”.
Dopo la guerra si seppe che come poche volte dopo Hiroshima il mondo si era avvicinato ad un nuovo olocausto nucleare. La flotta di Sua Maestà britannica raggiunse l’Atlantico Sud armata di testate nucleari e Margaret Thatcher era decisa ad usarle su una metropoli di 12 milioni di abitanti come Buenos Aires se la guerra non si fosse risolta a proprio favore.
Nelle settimane a venire imprese concessionarie del Regno Unito procederanno alla trivellazione, a fini di sfruttamento, della piattaforma territoriale che circonda l’arcipelago delle isole Malvine. Tali attività, precedute da anni di ricerca ed esplorazione, sono ora oggetto di aspre denunce da parte della Sig.ra Kirchner, presidente della Repubblica Argentina, e riaccendono una disputa che affonda le sue radici nella prima metà del XIX secolo. La memoria nazionale si sa, è in grado di superare le divisioni politiche ed ideologiche.
Per alcuni, sarebbe questa la chiave di interpretazione delle pretese di Buenos Aires che saltano fuori, con rinnovato impeto, in un momento di netta difficoltà dell’esecutivo, su cui si riversano le rivendicazioni di diversi settori della società civile argentina. Tuttavia, osservando da vicino la posizione del Regno Unito, che nega l’esistenza di qualsiasi disputa di sovranità nell’Atlantico Meridionale, ci accorgiamo che Londra non dà l’esempio migliore sul come ci si relaziona a livello internazionale.
In quasi due secoli, Argentina e Regno Unito hanno tirato in ballo, a sostegno dei propri interessi nel sud dell’Atlantico, numerosi argomenti che spaziano da riferimenti storici circa la scoperta e occupazione delle isole Malvine fino alle più articolate tesi di diritto internazionale.
Fino al 1811, anno in cui si moltiplicarono i fermenti indipendentisti che portarono alla nascita di nuovi Stati in tutta l’America latina, la monarchia spagnola esercitò una presa abbastanza salda sulle isole attraverso il succedersi di una trentina di governatori.
Subito dopo, nei primissimi atti amministrativi e lungo gli anni venti dell’Ottocento, le Provincias Unidas del Rio de la Plata, entità embrionale del futuro Stato argentino, hanno considerato le isole Malvine quale parte integrante del loro territorio, ereditato dalla Spagna in base al principio di diritto internazionale sintetizzato dalla formula latina uti possidetis iuris.
A fronte di questi gesti inequivoci di sovranità, la risposta della Gran Bretagna, che da tempo nutriva l’interesse a stabilire un avamposto strategico di fronte allo stretto di Magellano, non si fece attendere: nel 1833, con un atto di forza in tempo di pace, espelleva le autorità e popolazioni argentine per procedere poi, nel 1841, alla formale colonizzazione delle isole.
In tempi a noi più vicini e nel quadro dell’ordine mondiale scaturito dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le proteste argentine, mai cessate dai tempi dell’espropriazione, sono state promosse in seno a diversi organismi regionali ed internazionali, primo fra tutti l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
A tale proposito, la Risoluzione dell’Assemblea Generale ONU 2065 del 1965 inquadra con un certo grado di approssimazione i termini della controversia. Tale documento, risultato di una delicata opera di mediazione del Comitato Speciale sulla Decolonizzazione, e primo di una serie di atti sul caso delle Malvine, definiva formalmente l’esistenza di una disputa tra i governi dell’Argentina e del Regno Unito, concernente la sovranità sulle isole Malvine.
La risoluzione chiudeva, estendendo l’invito ai governi a negoziare senza ritardi, una soluzione pacifica della controversia che tenesse conto delle regole e obiettivi della Carta delle Nazioni Unite, della risoluzione 1514 del 1960 sulla fine del colonialismo e, infine, degli interessi della popolazione delle isole contese.
I numerosi appelli della comunità internazionale non hanno sortito effetto alcuno su Londra che ancora oggi, come in passato, afferma categoricamente l’assenza di qualsiasi dubbio circa la sovranità sulle isole “Falkland” e rifiuta qualsiasi ipotesi di negoziato.
È noto che le risoluzioni dell’Assemblea Generale ONU, salvo alcune eccezioni che non fanno al caso nostro, non hanno valore cogente, pertanto non vincolano i destinatari a compiere (oppure ad astenersi da) comportamenti precisi.
Ne deriva che, sebbene la renitenza del Regno Unito non metta in discussione l’autorità dell’istituzione internazionale, non c’è dubbio che l’autorevolezza e la credibilità dell’Assemblea e dell’ordine internazionale ne risultano indebolite a fronte del disconoscimento assoluto delle ragioni della controparte.
Nella primavera del 1982 le frizioni tra i due paesi sfociarono nell’episodio bellico, tanto breve quanto cruento, che ha lasciato una traccia indelebile nella memoria di molti, forse più di quanto abbiano fatto le contese diplomatiche che l’hanno preceduto e seguito, senza peraltro cambiare la situazione di fatto.
Nel ripensare alle cause del riaffiorare del contenzioso non si dovrebbero trascurare le implicazioni che tali dispute, e le guerre che ne derivano, possono giocare nella proiezione del prestigio degli Stati, sia nei confronti del proprio popolo sia rispetto agli altri attori della scena globale.
Molte pagine di letteratura sono accomunate dall’idea che l’avventura militare che portò l’Argentina del generale Galtieri ad invadere l’arcipelago sia da intendere come mezzo per sviare l’attenzione pubblica dalla grave situazione socio-economica che viveva in quegli anni il paese sudamericano.
Tanto era precaria la situazione del governo militare che, alla fine della guerra anglo-argentina, nel giugno del 1982, Galtieri fu costretto a dimettersi e la società argentina iniziò a muovere i primi passi verso il ripristino della democrazia.
Dall’altra parte dell’Atlantico il governo della Lady di Ferro, Margaret Thatcher, avrebbe approfittato della guerra della Malvine per ridare lustro internazionale alla Corona, dimostrandone la capacità di dare una risposta veloce e risolutiva all’aggressione subita nei domini d’oltreoceano, dopo decenni di lento declino avviatosi con la Prima Guerra Mondiale e culminato con la crisi di Suez del 1956.
Tale chiave di lettura potrebbe essere utile anche oggi. Per capire il revival delle Malvine è stata insinuata l’ipotesi di un uso strumentale del contenzioso da parte della Kirchner: infatti, sul fronte interno il governo è sotto assedio da parte delle sempre più potenti lobby agricole e degli scioperi anti-governativi: giocando la carta nazional-popolare delle Malvine abbasserebbe le tensioni interne, dilatando i tempi di azione.
Tornando alla querelle di queste ultime settimane, Buenos Aires sta chiedendo un allineamento alle raccomandazioni dell’ONU, e diffida Londra dall’intraprendere atti unilaterali dissonanti con una serie di intese provvisorie adottate tra i due paesi nell’ultima decade del secolo scorso.
Tali intese vanno dalle misure per la costruzione di fiducia reciproca in ambito militare alle condizioni dei trasporti aerei e marittimi, passando per la salvaguardia delle risorse ittiche e l’esplorazione e lo sfruttamento di idrocarburi. Questi punti sono di fondamentale importanza perché su di essi si era riusciti ad aggregare un minimo di consenso tra i litiganti in un quadro di dialogo bilaterale.
Mentre il Primo Ministro britannico, Gordon Brown, non intende concedere neppure il beneficio del dubbio sula sovranità delle Malvine, numerosi governi dell’America Latina non hanno esitato a prendere le difese dell’Argentina. Nell’ultimo vertice del Gruppo di Rio il Presidente messicano, Felipe Calderòn, per conto delle trentatre nazioni riunite ha denunciato le azioni britanniche.
Nello stesso consesso si è espresso, secondo una logica assai lineare e anche un po’ provocatoria, il presidente brasiliano Lula da Silva che, oltre a dichiararsi solidale con la nazione argentina, si chiedeva quali fossero le ragioni geografiche, politiche ed economiche che giustificano la presenza inglese a poche centinaia di miglia dalla Patagonia.
La risposta concreta data da Buenos Aires alla prospettiva di inizio di attività di perforazione dei fondali per l’estrazione di petrolio da parte delle imprese inglesi è stata l’imposizione dell’obbligo di autorizzazione preventiva a tutte le navi che intendono attraversare le acque territoriali e/o utilizzare i porti argentini per i collegamenti verso le Malvine.
Alcuni analisti hanno messo in evidenza la scarsa efficacia di questa forma di ritorsione, dal momento che i materiali utilizzati dalle aziende inglesi provengono dalla Scozia e non transitano per i porti argentini.
La chiusura al dialogo da parte del Regno Unito trova il suo corollario nel richiamo del principio di autodeterminazione dei popoli. Secondo il Sottosegretario agli Affari Esteri, Chris Bryant, gli abitanti delle isole vogliono far parte del Regno Unito ed il governo non deluderà le loro aspettative. Già nel 1983, all’indomani della guerra e per rafforzare i legami con il dominio, il Regno Unito aveva concesso la cittadinanza britannica agli abitanti delle isole.
Ovviamente gli Argentini hanno sempre negato la validità di ogni riferimento alle popolazioni coinvolte, in primo luogo perchè negli atti dell’ONU non si parla della volontà degli abitanti delle Malvine ma dei loro interessi e si dà inoltre ad intendere che le isole sono territorio in attesa di decolonizzazione. In secondo luogo, il principio dell’autodeterminazione dei popoli non sarebbe applicabile in quanto all’origine c’è un atto di coercizione da parte della potenza europea che, occupando arbitrariamente l’arcipelago ed espellendone le popolazioni autoctone, ha leso l’integrità territoriale Argentina.
Per il momento non s’intravedono né una escalation delle tensioni che possa portare ad un nuovo conflitto armato (entrambi i governi hanno esplicitamente escluso l’intenzione di ricorrere all’uso della forza) né dei buoni motivi per cui la Kirchner possa riuscire a cambiare questa curiosa pagina della storia internazionale.
Piuttosto, con un pizzico di crudo realismo si può immaginare che le patriottiche rivendicazioni argentine torneranno prima o poi in letargo, almeno fino a quando un nuovo governo in difficoltà tornerà a sbandierare l’orgoglio nazionale. Nel frattempo è molto probabile che gli Argentini dovranno, nell’inerzia del sistema internazionale, accontentarsi dei compensi derivanti dai diritti di passaggio per le banchine dei loro porti delle risorse estratte dalle vicine “Falkland Islands”.