martedì 9 marzo 2010

Governo e Pdl: lo sprezzo del ridicolo

Ritorniamo ancora sul famigerato decreto salvaliste, fuoriuscito dal cilindro del governo senza però tenere in conto l'eventuale sentenza del Tar, che ieri infatti ha sonoramente respinto il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio.

Dimostrando quindi l'inutilità del decreto e il pressapochismo peracottaro del governo, dimentico che esistono materie di esclusiva competenza delle Regioni.

Ma la Lega Nord e il suo federalismo sbandierato da 20 anni dov'erano finiti mentre quei geni della Presidenza del Consiglio scrivevano il testo del decreto? Agli (ex?) elettori leghisti l'ardua sentenza...

Ok basta così, nessun ulteriore commento sull'ennesima squallida e ridicola vicenda di cui si è reso protagonista il governo con l'insieme della classe politica italiota, a partire dal Pdl.


"E' il massacro delle istituzioni, ora proteggiamo il Quirinale"
di Massimo Giannini - La Repubblica - 9 Marzo 2010

Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos'altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore?

Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: "La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...". Ancora una volta, l'ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo.

Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l'ultimo, "aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico". Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all'ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale.

E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: "È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...", dice.

Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile.

Questo preoccupa Ciampi: "Il risultato, in teoria, sarebbe l'invalidazione dell'intero risultato elettorale. Il rischio c'è, purtroppo. C'è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...".

Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l'avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente "interpretativo", ma in realtà effettivamente "innovativo" della legislazione elettorale.

Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo?

Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: "Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell'irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...".

Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo "scempio".

Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: "Queste sono cose dette un po' a sproposito". Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull'inquilino del Colle dall'Idv: "Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell'interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".

Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: "Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l'opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l'aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano".

I risultati sono sotto gli occhi di tutti: "Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all'integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l'Italia".

Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano?
"Vede - osserva Ciampi - proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell'amore per la civiltà, di quell'attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l'esatto opposto".

Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l'essenza del berlusconismo - secondo l'ex capo dello Stato - "è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese".

Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l'antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli "ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini", e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, "non mollare", poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre "resistere, resistere, resistere".

Oggi l'ex presidente torna su queste "urgenze morali", per ribadire che servono ancora tanti "atti di coraggio", se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. "I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni".

Tra il 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della "palese incostituzionalità" che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull'ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni "no" pesantissimi.

Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di "pedagogia repubblicana", necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. "Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l'Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E' molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d'animo, e soprattutto non deve smettere di lottare".

Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: "Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...", dice. Ma chissà: magari con vent'anni di meno ci sarebbe andato anche lui.


Pasticcio
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 9 Marzo 2010

La sensazione sconfortante è che il decreto sulle liste elettorali alla fine rischi di non servire a nulla. Finora non ha salvato quella del Pdl in provincia di Roma; e le altre due, di Roberto Formigoni in Lombardia e di Renata Polverini nel Lazio, sono state riammesse comunque dalla magistratura dopo i ricorsi. Insomma, la forzatura voluta dal centrodestra si è scontrata con il primato della legge regionale.

La decisione presa ieri dal Tribunale amministrativo del Lazio complica la strategia di palazzo Chigi. Non è da escludersi per oggi un colpo di scena all’Ufficio elettorale di Roma, in attesa del Consiglio di Stato.

Ma rimane la somma di pasticci giuridici e politici che la maggioranza è riuscita ad accumulare nella sua fretta di rimediare agli errori. L'obiettivo di far votare tutti era e rimane giusto. Il modo in cui Silvio Berlusconi e la sua coalizione hanno cercato di perseguirlo si è rivelato subito così segnato dall'affanno da diventare scomposto.

Il provvedimento è stato chiesto e ottenuto dal Quirinale dopo un duro braccio di ferro, scartando soluzioni condivise arrivate anche su queste colonne. Il risultato accresce confusione e tensioni; e rispedisce intatta la questione ai mittenti.

Le conseguenze più gravi, però, probabilmente sono altre. Intanto, il centrodestra non è riuscito ancora a garantire che ognuno possa esercitare il proprio diritto di voto: sebbene si tratti in primo luogo di sostenitori del Pdl.

In più, questa vicenda a metà strada fra disprezzo delle regole e farsa ha l'effetto di dilatare l'immagine di una nomenklatura a dir poco pasticciona: incapace di dare soluzioni accettabili anche a problemi che dovrebbero essere i «fondamentali » delle sue competenze.

Ormai non si tratta più soltanto delle liste respinte per irregolarità e ritardi. C'è anche il decreto legge fortemente voluto da Berlusconi e controfirmato dopo molte resistenze e limature dal presidente della Repubblica.

Quando esponenti del governo rivelano con un candore sconcertante che non si aspettavano la decisione presa dal Tar, aggiungono perplessità a perplessità sulla strategia adottata dalla maggioranza. E questo mentre cominciano a circolare voci su un possibile rinvio delle elezioni regionali nel Lazio: indizi di una situazione che si cerca di riportare sotto controllo.

Ma a dover preoccupare non è tanto l'eccesso di potere sfoggiato dal governo: il «golpe» inesistente evocato da un'opposizione rapida solo a imboccare la scorciatoia della «piazza» rivela in realtà un'imprevista fragilità del centrodestra. A colpire, semmai, è il vuoto che accomuna gli schieramenti; e la difficoltà a ritrovare un baricentro che rassicuri l'opinione pubblica.

Il disorientamento nasce dalla sproporzione fra il problema tutto sommato minore delle liste e l'enormità del caos che ne è scaturito. Nessun nemico della Seconda Repubblica sarebbe riuscito ad inventare un piano per delegittimarla più perfetto di questa manifestazione involontaria di dilettantismo.


Nel partito malumore per la "norma autogol"
di Francesco Verderami - Il Corriere della Sera - 9 Marzo 2010

Magari in extremis il Pdl riuscirà a presentare la lista nel Lazio, magari non ci sarà bisogno di ricorrere al rinvio delle elezioni, ma è proprio il ricorso all’appiglio leguleio che sta arrecando gravi danni d’immagine al centrodestra. E che l'immagine del Pdl sia compromessa lo si intuisce dal modo in cui Fini ieri ha accolto la sentenza del Tar: «Che figura».

La battuta del presidente della Camera non è solo dettata dalla preoccupazione di veder compromessa in queste condizioni la corsa della Polverini nel Lazio, ma perché sa che la politica segna il proprio fallimento quando degrada ad una disputa tra azzeccagarbugli.

Al pari dell'inquilino di Montecitorio anche Berlusconi ne è consapevole, lui che appena qualche giorno fa aveva avvisato lo stato maggiore del Pdl di un calo nei sondaggi, siccome nell'immaginario collettivo era passata l'idea che «non siamo nemmeno in grado di presentare delle liste».

Con il decreto confidava di aver chiuso il conto, invece la sentenza del Tar non solo ha riaperto il caso ma soprattutto è stata valutata come una bocciatura dell'esecutivo, che si sarebbe fatto una sorta di «autogol». Così prende corpo un rischio ulteriore e se possibile ancor più devastante, e cioè che l'opinione pubblica si convinca dell'incapacità del governo di varare un decreto che produca effetti.

Poco importa se davvero in mattinata i cofondatori del Pdl fossero ottimisti, e se ieri sera lo scoramento misto a una forte arrabbiatura avessero preso il sopravvento. Al telefono Gianni Letta ha chiesto ai suoi interlocutori di pazientare.

Bisognerà intanto capire se il provvedimento — voluto dal premier e controfirmato dal capo dello Stato — sarà in grado di reggere a fronte di un ricorso del Pd contro un'eventuale decisione della corte d'Appello di accogliere la nuova presentazione della lista del Pdl.

Ma su questo nessuno fa più affidamento: la bocciatura sembra assicurata. Le speranze — a quanto si dice ben riposte — sono invece affidate al Consiglio di Stato: se annullasse la sentenza del Tar, la Bonino e il Pd non potrebbero presentare ulteriore appello. E il Pdl potrebbe vincere la sfida nel Lazio.

Chissà se davvero stanno così le cose, in pochi sono riusciti a seguire Letta nel dedalo del ragionamento, perché nessuno si è mai trovato dinanzi a un simile caos giuridico. Figurarsi gli elettori. Il Cavaliere lo sa. Nei suoi amatissimi sondaggi ha visto crescere in una settimana il senso di disorientamento che i dirigenti locali del Pdl — così come quelli della Lega — hanno verificato sul territorio.

La preoccupazione è che di questo passo la flessione nei consensi possa essere superiore ai tre punti finora registrati. Troppo forte lo «scossone» determinato anche nell'opinione pubblica di centrodestra dal braccio di ferro sul decreto, perché l'idea di modificare le regole del gioco a gioco in corso non è stata gradita, ha dato l'idea che ci sia una categoria di «intoccabili» a cui tutto è permesso. Mentre cresce l'aspettativa sull'azione di governo.

Di qui il danno d'immagine per l'esecutivo, dunque per il Cavaliere. Ma anche Fini rischia un contraccolpo, e non solo perché il presidente della Camera è stato «collaborativo» — definizione del premier — nel trovare la soluzione del caos delle liste con il decreto, ma soprattutto perché un'eventuale esclusione del Pdl nel Lazio minerebbe la roccaforte di An, con il rischio in prospettiva di un effetto domino sul Campidoglio, guidato oggi da Alemanno.

C'è il futuro in ballo, insieme a un presente poco roseo per via di un incrudimento dei rapporti in Parlamento con i democratici, pronti all'ostruzionismo alla Camera sul decreto salvaliste, e intenzionati a dar battaglia in Senato sul legittimo impedimento caro a Berlusconi. È chiaro che il Pd vuole approfittare del momento. Ma «che figura» per il Pdl se il decreto che ha scatenato tutto non è nemmeno servito a nulla.


L’Italia salvata dagli antiberlusconi?
di Simone Migliorato - www.mirorenzaglia.com - 8 Marzo 2010

Camminando ho visto un manifesto che diceva che avrei dovuto votare Tizio. Avrei dovuto votare Tizio perché prometteva il suo impegno nell’ambiente, nella sanità, nel lavoro e nell’antifascismo. Cioè questo personaggio diceva che io lo avrei dovuto votare alle regionali perché se eletto sarebbe stato in prima linea per (e qui faccio degli esempi a me cari): fermare la costruzione di centrali nucleari nel Lazio, fermare gli sprechi nella sanità, creare lavoro nella mia regione.

E poi? Quale sarebbe il suo impegno nei confronti dell’antifascismo? E dove è, che cosa è questa cosa contro il Tizio mi dovrebbe difendere?

Mi dovrebbe difendere dalla Polverini? Da donna Assunta che è stata scongelata per le elezioni? Oppure Tizio mi dovrebbe difendere dai berluscones di AN che hanno fatto carriera seguendo gli strappi di Fini, e ora sputano contro il loro ex padrone per seguire il più rassicurante re Berlusconi?

E’ chiaro che è assurdo tutto questo. Ed è preoccupante. Non tanto per il solito discorso che l’opposizione in Italia è talmente allo sbando da poter usare solo l’antifascismo e l’antiberlusconismo come incipit elettorali, ma è ancora più preoccupante perché le opposizioni (proprio loro) parlano ormai il non-linguaggio creato, voluto e immesso nell’etere da Silvio Berlusconi. Colui dal quale loro ci vorrebbero difendere.

Franco Berardi, detto Bifo, 15 anni fa pubblicava il libro Come si cura il nazi, che è stato riedito lo scorso anno dopo la vittoria berlusconiana, con un capitolo finale dedicato proprio al presunto fascismo di re Silvio.

Dove smonta appunto questa idea che l’ascesa politica di Berlusconi sia un ritorno del fascismo, ma che appunto sia qualcosa di molto più grave, «qui sta la specificità del totalitarismo mediatico rispetto al fascismo storico: esso non si fonda sulla repressione del dissenso, non si fonda sull’obbligo del silenzio, al contrario si fonda sulla proliferazione della chiacchiera, sull’irrilevanza dell’opinione e del discorso, sulla banalizzazione e la ridicolizzazione del dissenso e in generale del pensiero. Il totalitarismo di oggi non è fondato sulla censura del dissenso ma sul rumore bianco, sul sovraccarico informativo, sulla saturazione dei circuiti dell’attenzione»(1).

Basti pensare al fresco “scandalo” delle liste del Pdl, dove i contendenti usano in continuazione le parole: democrazia, libertà, libertà di espressione, diritto al voto. Qui un personaggio va a mangiarsi un panino perché ha fame e si mette in campo la libertà. Di fare cosa?

In Italia, e questo è il grande senso della missione berlusconiana c’è un preciso intento di dispersione del significato delle parole, delle idee, di ciò che accade realmente. In Italia al giorno d’oggi o è tutto comunismo che attenta alla libertà (queste sono le parole di Berlusconi dal 1994) oppure c’è un ritorno al fascismo che attenta sempre alla libertà (e questa è la tesi delle opposizioni).

Ma intanto gli spazi di libertà diminuiscono, e viviamo in un paese dove ci sono dei lager (i C.I.E.) e dove una classe dirigente è totalmente gioiosa e impunita. E qui parliamo di qualcosa che supera Tangentopoli, che è più grave di quello che noi vediamo. E allora perché l’unica reazione è quella scritta, antifascismo, sopra un manifesto?

«Ma che cos’è la legge? Effetto di linguaggio che si dissolve quando cambia il senso comune. E nell’arco di tre decenni il senso comune è cambiato perché la macchina mediatica berlusconiana per trent’anni vi ha inoculato sostanze linguistiche perfettamente dosate per produrre il rumore bianco…il comportamento di Silvio Berlusconi è incomprensibile per i conservatori di destra e di sinistra che ragionano della politica secondo i modelli ereditati dalla tradizione.

Costoro considerano indispensabile il rispetto del linguaggio ufficiale, e non sanno immaginare altro contesto dell’azione politica che non sia il rispetto della legalità.

Ma la forza del medio-popolusimo berlusconiano consiste proprio nella violazione sistematica dei tabù legati all’ufficialità politica e alla legalità..quello che appare insopportabile e provocatorio ai custodi della severità è soprattutto la ridicolizzazione della retorica politica e dei suoi risultati paludati, che Berlusconi opera in maniera sorniona e sistematica…la maggioranza degli elettori italiani sono cresciuti culturalmente come spettatori televisivi nell’era in cui la televisione si è fatta veicolo prioritario dell’informalità, dell’allusione volgare e scollacciata, del linguaggio ambiguo e aggressivo, perciò si sintonizza spontaneamente con il linguaggio che parla Berlusconi, con le parole, con i gesti, ma anche con il disprezzo delle regole in nome di un’energia spontanea che le regole non possono più imbrigliare".(2)

Silvio Berlusconi ha cambiato completamente il senso delle parole che “tenevano” la politica a livello tradizionale. Infatti utilizzando e travisando il significato di queste parole è riuscito a costruire la sua invincibilità politica, poiché è lui il custode della libertà e della democrazia in Italia.

E’ lui a difendere questo paese dall’attacco di qualcosa di oscuro che rischia di compromettere l’ordine. Ed è assurdo che le opposizioni questo cambiamento del linguaggio non l’abbiano compreso, e continuano a sbattere continuamente contro questo muro di gomma continuando ad abbaiare di legalità e di onestà in un paese di persone cresciute nel mondo pubblicitario creato da Berlusconi.

Nel momento in cui sto scrivendo metà del popolo italiano sta guardando la televisione, e l’altra metà molto probabilmente sta sognando o discutendo su quello che quella televisione trasmette. Continuare ad abbaiare sul giustizialismo, continuare a chiedere sbigottiti perché nessuno si indigni più è inutile. Perché è la percezione che è totalmente cambiata.

E lo stesso appunto vale per l’antifascismo, come vale per Tangentopoli, come vale per la mafia e l’illegalità in generale. Silvio Berlusconi che indossa a L’Aquila il simbolo della brigata partigiana, che “finalmente” partecipa al 25 aprile (su richiesta dell’opposizione) con il suo faccione sorridente dopo il terremoto, è la dimostrazione che anche su questo Berlusconi è intoccabile. E’ entrato nelle case come un partigiano. Possiamo dargli torto?

Ma il problema è tutto qua. O forse no. Perché non sarà la fine del Berlusconi politico il problema, ma lo strascico e le cause che sono poste nelle intelligenze della nostra nazione. Bisognerebbe creare parole nuove e linguaggi nuovi per rispondere a quelli geneticamente modificati in questi era dominata da questo re. Ma questo le opposizioni sembrano non capirlo…

Note:

(1) Franco Berardi (Bifo), Come si cura il nazi. Iperliberismo e ossessioni identitarie, Ombre corte/cartografie

(2) vedi nota 1


Giorgio N. Bernanke
da phastidio.net - 8 Marzo 2010

E così, abbiamo appena appreso che il Pdl è too big to fail. Può essere, a noi da tempi non sospetti pare l’opposto. A noi pare che il Pdl si sia inesorabilmente posto su un piano inclinato, e con sé vi abbia posto l’intero paese. Il Pdl non è too big to fail, per molti aspetti è già un partito fallito.

La tragedia è che, come ogni incumbent dedito ad abuso di posizione dominante, il Pdl promette di portare a fondo con sé il paese ed il suo sistema istituzionale. Continua l’equivoco di un premier convinto che il consenso di cui gode lo legittimi a disinteressarsi delle regole.

Conta solo l’unzione popolare, poco importa che per il paese questo modo di stare al mondo equivalga sempre più ad una estrema unzione. Di incertezza del diritto, cioè di arbitrio, si muore, anche in un paese da sempre assai poco avvezzo al rispetto delle regole, quale è il nostro. Soprattutto quando si tratta di regole sostanziali e non formali, quali quelle violate in senso assoluto e inescusabile nel Lazio.

Il Pdl oggi è diventato un partito imperiale, meglio sarebbe dire un partito nordcoreano, più che semplicemente comunista: guidato da un dominus, densamente popolato di fedeli esecutori dediti al culto della personalità del Leader, che hanno da tempo spento la fiamma del dibattito interno, temendo l’emarginazione e con essa di perdere le piccole e grandi prebende che la partecipazione al sistema di potere implica.

E come in ogni partito nordcoreano che si rispetti, il legame con la realtà è stato reciso da tempo. C’è ad esempio questo continuo sciacquarsi la bocca con la “tolleranza zero” verso tutto e tutti, salvo che verso i propri errori. Perché in quel caso c’è sempre un nemico esterno, contro cui stringersi a coorte, al momento dell’esito del “giudizio divino” delle urne.

La legge è uguale per tutti, ma alcuni sono più uguali di altri: dopo il massiccio ricorso alla neolingua ed al bispensiero, il processo di orwellizzazione del Pdl e della maggioranza (visto che la Lega il suo “Caro Leader” lo ha da sempre) prosegue a tappe forzate. Dio lo vuole, il Popolo lo vuole.

L’esito pressoché scontato è che, alla prima occasione utile, la dialettica interna assume le forme più imprevedibili, incluso l’arrivare fuori tempo massimo a depositare le liste di una consultazione elettorale. Ogni ingranaggio incontra sempre il suo granello di sabbia, prima o poi.

La seconda tragedia italiana è la condizione dell’opposizione: buona a nulla, indecisa a tutto. Incapace di elaborare un progetto per il paese, talmente screditata da mantenere ancora nel campo avverso quella parte molto mobile di elettorato centrista che potrebbe fare la differenza. Un’opposizione capace solo di riflessi condizionati, anche di fronte a situazioni che tali riflessi non richiederebbero, stante la loro irrilevanza ai fini pratici.

No, il Pdl non è too big to fail, caro presidente Napolitano. Certo, lo si può puntellare come sono state puntellate le grandi ed interconnesse banche americane, violando regole di ogni tipo. Ma il conto lo pagherà comunque quel simulacro che è la democrazia italiana, è solo questione di tempo.


Una crisi di regime
di Stefano Rodotà - La Repubblica - 9 Marzo 2010

Che cosa indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l'assai controverso decreto del Governo, ha confermato l'esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione?

In primo luogo rivela l'approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità.

E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall'altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni.

Proprio su quest'ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia. Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio.

I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando "i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale".

Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l'assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta.

Se il primo rilievo sottolinea l'approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all'ultimo momento, anzi oltre l'ultimo momento fissato per la presentazione della lista.

È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco.

La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato.

Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l'azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali.

Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d'amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell'informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo.

Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese.

Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell'accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall'ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica?

Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo).

Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l'ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l'abisso nel quale stiamo precipitando,

A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com'è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime.

Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l'essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all'ordine del giorno.

Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini.

È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell'opposizione dev'essere tutta politica "costituzionale".

Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime.