Mentre già a fine febbraio la commissione israeliana per la costruzione di nuovi insediamenti aveva dato il via libera a un piano di nuove unità abitative a Gerusalemme Est, vicino al sobborgo di Pisgat Zeev e nell'area palestinese di Shuafat, per un totale di circa 1600 abitazioni.
Già più di 200.000 israeliani vivono a Gerusalemme Est e nelle zone limitrofe della Cisgiordania, occupate dopo la guerra del 1967. Ma i palestinesi vogliono Gerusalemme Est come capitale di un futuro stato nella Striscia di Gaza e nella Cisgiordania.
Secondo il diritto internazionale, tutti gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono considerati illegali.
La decisione di costruire nuovi insediamenti ha provocato l'ovvia reazione palestinese, cioè lo stop ai colloqui indiretti con gli israeliani. Lo stesso segretario generale della Lega Araba, Amr Mussa, ha dichiarato che "Se Israele non si fermerà immediatamente i negoziati saranno inutili".
Ma a Israele dei colloqui con i palestinesi non è mai importato alcunchè...
Israele, diplomazia da circo Barnum
di Luca Galassi - Peacereporter - 10 Marzo 2010
Tel Aviv da' il benvenuto a Biden: 1.600 insediamenti a Gerusalemme Est, ovvero il modo migliore di vanificare i colloqui di pace
Dopo aver trascorso gran parte della giornata a celebrare 'l'indistruttibile' legame tra Usa e Israele, il vicepresidente statunitense, Joseph Biden, si e' visto piombare addosso l'inatteso macigno: la decisione del ministro degli Interni dello Stato ebraico di costruire 1.600 nuove unità abitative a Gerusalemme Est.
Il circo Barnum. Obbediente al protocollo, alla forma, e alla cerimonia della diplomazia, Biden, dopo essersi detto 'ignaro e stupito' della decisione, ha incassato l'umiliazione di tale tempestivo annuncio senza pero' poter fare a meno di condannarla formalmente: "E' esattamente il passo che mina la fiducia di cui abbiamo bisogno oggi", ha detto il vicepresidente Usa.
Una doccia gelata per Biden, che aveva incassato, come preludio alla sua visita, un analoga decisione da parte del ministro della Difesa Ehud Barak: la costruzione di 112 insediamenti a Beitar Illit, in Cisgiordania, ufficializzata due giorni fa. Decisione presa per 'ragioni infrastrutturali e di sicurezza'.
Il Primo ministro israeliano Benyamin Netaniahu sembra essere stato colto ieri dal medesimo stupore di Biden, perche' le sue dichiarazioni sono state le seguenti: "La decisione e' stata appena notificata anche a me". La sequela di ipocrisie e acrobazie da circo Barnum e' grottescamente proseguita oggi, quando il ministro degli Interni, Eli Yishai, si e' addirittura scusato per "aver provocato un terremoto nazionale e internazionale".
Anche lui, Yishai, ha detto di essere stato all'oscuro dei tempi di presentazione del progetto, perche' la materia, regolata dallla Commissione distrettuale per la pianificazione urbanistica, andava avanti da tre anni, ed era semplicemente 'materia tecnica di routine, una semplice autorizzazione'. Lo stesso Yishai ha detto alla radio israeliana che la commissione non avrebbe potuto prevedere che l'approvazione avrebbe generato una tale tempesta politica.
C'e' da domandarsi se il copione di questa girandola di assurde esternazioni sia stato scritto da qualche commediografo, o se gli israeliani credono davvero che i palestinesi, l'opinione pubblica internazionale, o anche solo chi ha uno sguardo minimamente partecipe agli sviluppi della questione mediorientale, possa bersi d'un sorso queste palesi cialtronate.
Ovvero: come ritenere verosimile che l'annuncio sia stato puramente coincidentale con l'arrivo di Biden?
Con un vicepresidente statunitense in casa, e un inviato speciale (George Mitchell) in arrivo per gestire tecnicamente i colloqui di prossimita' (cosi' e' stata definita la sessione negoziale coi palestinesi, ripresa dopo un anno di stallo), tali dichiarazioni rappresentano una interpretazione particolarmente maldestra del concetto di ospitalita'.
Con un popolo che storicamente vede in Gerusalemme Est la capitale del proprio futuro Stato, estendere un'insediamento proprio in quell'area, nel quartiere di Ramat Shlomo, comunita' ultraortodossa di 20mila persone, aggiungendovi 1.600 abitazioni per un totale approssimativo di almeno 7mila persone in piu', tali dichiarazioni rappresentano un'insulto, e una catastrofe per i vicini villaggi palestinesi.
Con l'esplicita richiesta di Obama di congelare ogni nuova estensione urbanistica in un'area annessa militarmente dopo la guerra del 1967, ma non riconosciuta dal diritto internazionale come parte integrante dello Stato israeliano, tali dichiarazioni rappresentano, ogni volta, una conferma dell'illegalita' e dell'impunita' israeliana di fronte non solo agli Stati Uniti, ma al mondo intero.
Con un processo di pace i cui fili ormai sempre piu' esili rischiano di spezzarsi nuovamente, un processo che ha come cardine fondamentale, oltre alla questione della sorte dei profughi palestinesi e degli insediamenti in Cisgiordania, soprattutto lo status della stessa Gerusalemme Est, tali dichiarazioni rappresentano una chiara dimostrazione dell'indifferenza, se non dell'assoluta negligenza di Tel Aviv nell'impegno a favore della pace.
Dietro l'apparente comicita' delle scuse di Yishai si nasconde pero' qualcosa di ben piu' oscuro e pericoloso per i tanto decantati, e probabilmente infruttuosi, colloqui di pace. Il vice-presidente della Knesset, Danni Danon, riferiva ieri al Washington Post che "nel salutare il vice-presidente Joseph Biden, amico e sostenitore di lunga data, consideriamo tuttavia un insulto che non sia venuto il presidente Obama in persona".
Secondo Bradley Burston, commentatore di Haaretz, il comportamento irrispettoso e indegno tenuto dal governo israeliano, o perlomeno da alcuni dei suoi membri, ha una sua contropartita politica, da incassare negli ambienti della destra intransigente.
"Fa perno - scrive Burston - su un filone emotivo che si situa su un segmento relativamente piccolo ma potente dell'elettorato israeliano, che ritiene che insultare l'alleato piu' indispensabile per Israele corrisponda al riaffermare l'indipendenza dello Stato ebraico".
Un'interpretazione che getta luce sulla reale presenza - e influenza - della lobby dei coloni non solo in certi strati della burocrazia ma, prima di tutto, nelle scelte di politica interna e internazionale dello Stato di Israele.
Joe Biden ribadisce la solidità dell'alleanza tra Washington e Israele e, soprattutto, proclama che impedire all'Iran di dotarsi di armi nucleari «rappresenta una priorità per gli Stati Uniti» perché «non c'è distanza alcuna fra Stati Uniti e Israele quando si parla della sicurezza di Israele».
Le frasi pronunciate ieri a Gerusalemme dal vicepresidente degli Stati Uniti, in visita nella regione, lasciano sempre aperta la porta a un attacco militare contro le centrali atomiche iraniane, mentre l'Amministrazione Obama continua a lavorare per estendere e rafforzare le sanzioni internazionali nei confronti di Tehran.
E il sostegno che il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha dato all'embargo - «il regime iraniano sarà costretto a scegliere fra la prosecuzione del proprio programma nucleare e la propria sopravvivenza», ha previsto - è solo di facciata.
L'opzione privilegiata di Israele era e resta un raid aereo contro l'Iran anche se ciò non servirà - lo dicono gli esperti - a fermare a lungo il programma nucleare di Tehran e scatenerà una gravissima crisi regionale (e non solo) dalle conseguenze incalcolabili.
L'Iran ha sempre smentito di volersi dotare di ordigni atomici, come sostengono Israele e Usa, e assicurato di voler produrre unicamente elettricità per fronteggiare il suo fabbisogno crescente di energia e il calo della produzione petrolifera previsto nei prossimi anni.
Tehran ieri ha espresso l'auspicio che la Cina, terminale privilegiato delle sue esportazioni petrolifere, non approvi le pesanti sanzioni alle quali stanno lavorando gli Stati Uniti.
Non deve ingannare l'accoglienza speciale ricevuta da Biden, il più alto rappresentante dell'Amministrazione Usa a visitare lo Stato ebraico da quando Barack Obama è diventato presidente. In casa israeliana è palpabile l'insoddisfazione per l'atteggiamento mantenuto sino ad oggi da Washington nei confronti della questione iraniana giudicato «troppo morbido». Tel Aviv non crede all'efficacia delle sanzioni.
A dimostrarlo ieri, di fatto, è stata anche la richiesta del capo di stato Shimon Peres di accompagnare le sanzioni economiche a «sanzioni di carattere morale». «Una persona come (il presidente iraniano Mahmud) Ahmadinejad - ha detto Peres - che invoca la distruzione di Israele non può essere un membro con pieni diritti dell'Onu».
Al sodo è andato il ministro della difesa, Ehud Barak, che ha prima esaltato «l'impegno diligente degli Usa a rafforzare la nostra superiorità militare» e poi ha avvertito che Israele affronterà le sfide future «tendendo una mano alla pace ma lasciando l'altra ben ferma con il dito sul grilletto».
Secondo l'analista Gerald Steinberg, del Centro Besa di studi strategici, «gli Usa lasciano la porta aperta all'opzione militare (contro l'Iran) e potrebbero far ricorso alla forza, ma la visita di Biden in Israele è volta proprio ad escluderla, almeno per il momento. Israele però ribadisce che non esiterà a lanciare un attacco militare se lo riterrà necessario, con o senza l'approvazione di Washington».
Nella conferenza stampa con Netanyahu, Biden ha anche espresso compiacimento per la ripresa di negoziati indiretti tra israeliani e palestinesi. Gli Stati Uniti sosterranno sempre, ha affermato il vicepresidente, quanti sono pronti «ad assumere rischi per raggiungere la pace». Nessuno o quasi però crede alle possibilità della navetta diplomatica che effettueranno gli Usa tra Netanyahu e il presidente palestinese Abu Mazen.
Lo scetticismo prevale e, peraltro, le trattative cominceranno da zero perché Washington, cedendo di nuovo alle pressioni israeliane, hanno comunicato attraverso l'inviato George Mitchell che i risultati raggiunti all'incontro di Annapolis (2007) non avranno valore nei negoziati attuali. Netanyahu si rifiuta di riprendere i colloqui dal punto in cui li aveva lasciati il suo predecessore Ehud Olmert.
Biden oggi andrà al quartier generale dell'Anp a Ramallah per dare un segno dell'«impegno» americano ma Netanyahu e Abu Mazen sanno che la trattativa è virtuale e si impegneranno soltanto a fare in modo che la responsabilità del fallimento ricada sull'altro. Intanto è incessante la colonizzazione israeliana. Il ministero dell'interno ha approvato la costruzione di altri 1.600 alloggi a Gerusalemme est, la zona palestinese della città sotto occupazione israeliana dal 1967.
Spianata delle Moschee, un problema anche giordano
di Marta Bellingreri - Peacereporter - 9 Marzo 2010
Le varie forme della protesta dello Stato mediorientale, dove i regnanti hashemiti discendono direttamente dal profeta Maometto
A due settimane dall'annuncio da parte del governo israeliano che riguarda l'inclusione delle moschee di Bilal a Betlemme e la moschea di Abramo a Hebron nel "patrimonio storico ebraico", immediatamente seguito dalla voce del ministro dell'Informazione giordano, Nabil Sharif, critico, a nome del suo governo, nei confronti di "simili provvedimenti unilaterali" che la Giordania rifiuta in toto, continuano gli scontri tra polizia e esercito israeliano e i fedeli musulmani nella spianata della moschea al-Aqsa a Gerusalemme parallelamente a piu' giornate di disordini ad Hebron.
Nel frattempo pero' la voce diretta dell'Autorita' giordana, la monarchia hashemita discendente della famiglia del Profeta Maometto, protettrice in quanto tale dei luoghi santi musulmani quale e' la moschea di al-Aqsa, si e'via via affievolita.
Nonostante abbia ribadito il sette marzo, nell'incontro con il segretario generale della Nato Rasmussen l'importanza della soluzione di due stati nel processo di pace che vive una fase critica facilmente suscettibile di sviluppi ulteriormente violenti, nessuna sua dichiarazione ufficiale ha seguito i recentissimi scontri di venerdi' scorso, in cui 60 persone tra palestinesi e forze israeliane sono rimaste ferite.
Non manca invece ora come ai tempi dell'annuncio israeliano la reazione da parte dell'Islamic Action Front, il partito politico dei Fratelli Musulmani giordani, che proprio venerdi' si trovava riunito per manifestare contro la decisione israeliana di appropriarsi dei siti musulmani santi chiamati dagli ebrei la tomba di Rachele, la moschea a Betlemme, e la tomba dei Patriarchi, la moschea di Hebron.
Gli islamisti giordani durante questa manifestazione di protesta si sono lanciati in un appello ai palestinesi per una terza Intifada per difendere i luoghi santi , cosi'come nella richiesta a questo governo di interrompere le relazioni diplomatiche con Israele.
Ad annuncio israeliano appena declamato, il Ministro dell'Informazione Sharif aveva condannato le politiche israeliane mirate a modificare i simboli storici e religiosi in Palestina come una "violazione del diritto internazionale", sottolineando poi come tali misure giungono nella fase critica delle trattative, in cui da piu'parti ci si adopera per riprendere i negoziati.
Le minacce alla pacificazione della regione con la soluzione in due stati auspicata dal governo giordano non fanno che rafforzarsi con le provocazioni dell'esercito israeliano, quella di domenica scorsa 28 febbraio, che ha preso d'assalto la Moschea di al-Aqsa permettendo l'ingresso nella spianata santa di Sionisti estremisti che si sono ritrovati in diretto confronto con i fedeli musulmani.
In quanto referente del governo giordano, Sharif era intervenuto contro tali nuove provocazioni e le sue dichiarazioni sono state accompagnate, come il Ministero degli Affari Esteri Judeh ha riferito, da una azione diplomatica sotto le direttive di Sua Maesta' re Abdullah II, volta a rimuovere rapidamente la polizia israeliana dall'area della moschea.
Il Ministro Judeh ha aggiunto che le direttive di sua maesta' hanno incitato le forze diplomatiche ad agire a tutti i livelli possibili per testimoniare la protesta ed il rifiuto nei confronti delle ultime azioni israeliane. In effetti a tali ordini la diplomazia giordana si e' mossa tramite l'ambasciata giordana di Tel Aviv, raggiungendo lo scopo da queste Autorita' auspicato: l'uscita della polizia dal complesso monumentale santo e la riapertura delle porte per i fedeli.
La mano dall'alto della stanza reale per una soluzione diplomatica di un tale momento critico e' stata accompagnata dalle sue dichiarazioni nel corso della stessa giornata di domenica 28 febbraio nell'incontro col presidente dell'Autorita' Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, a cui ha ribadito il suo sostegno per la causa dei diritti del popolo palestinese in particolare per la definizione di uno stato palestinese indipendente nel proprio territorio nazionale.
Rispetto alla questione si era poi pronunciato anche col senatore degli Stati Uniti John Kerry in visita regionale al quale Sua Maesta' aveva sottolineato l'importanza del ruolo degli Stati Uniti nella ripresa dei negoziati, che in effetti l'otto marzo si e' manifestata tramite l'inviato americano in Medio Oriente Mitchell, nel dialogo con entrambi le parti per una ripresa indiretta dei negoziati che dovrebbero poter condurre a una ufficiale trattativa tra Ramallah e Tel Aviv.
Notizia alla quale i movimenti politici e di resistenza palestinese apportano il loro rifiuto, ritenendolo ancora una volta un passo a discapito della causa palestinese, con Israele che indugia nei propri comportamenti criminali protetto a livello internazionale dalla sicurezza e dal calore che la parola negoziati provoca.
Mentre dunque continua ad essere forte la preoccupazione dell'Onu per i passi incauti ma sempre decisi dello Stato Ebraico, che di certo non tutela l'appartenenza anche cristiana ai monumenti sul suolo palestinese, come lo sono la moschea di Abramo e la Tomba di Rachele, Sua Maesta' di Giordania di incontro diplomatico in altro , non dimentica di tutelare la causa palestinese che, in assenza di una soluzione contemplante due stati, uno palestinese, uno ebraico, lo vedrebbe implicato nella temuta "opzione giordana" che cosi' includerebbe i quattro milioni di palestinesi della West Bank nel suo regno, dove gia' i palestinesi formano il 60 percento della popolazione.
Ma evidentemente gli incontri diplomatici con le sue promettenti dichiarazioni non bastano e non saziano una ormai diffusa sete di giustizia e rispetto ancorata nel fedele musulmano, se, dopo le condanne della Lega Araba, sono i movimenti di islamisti a agitarsi , provocando quell'unica reazione estremista, qui in Giordania manifestatasi con i Fratelli Musulmani pacificamente, che in Occidente conosciamo.
Per ora si tratta di mera provocazione, ma l’atteggiamento siriano e la risoluta presa di posizione dello Stato ebraico ci riportano alla primavera del 1967, a pochi mesi dall’attacco preventivo con il quale Israele diede il via alla Guerra dei sei giorni.
Allora le dinamiche che portarono al conflitto furono certamente diverse da quelle attuali, come diversi erano gli equilibri internazionali e gli attori pronti a giocarsi il controllo del vicino Medio Oriente, ma l’impegno a voler trasformare una crisi politica in un nuovo conflitto sembra ancora la stessa.
Lo dimostrano i fatti delle ultime settimane, l’attrazione dimostrata da Damasco verso la strategia iraniana e l’appello lanciato a Teheran per una difesa comune; il rinnovato sostegno a Hezbollah e il vertice di Damasco, organizzato a pochi giorni dall’appello con il quale il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, esortava la Siria a “prendere le distanze” dalla Repubblica Islamica.
La tensione tra Damasco e Gerusalemme è ogni giorno più evidente e, al di là delle dichiarazioni, la possibilità di un conflitto non è più solo un’ipotesi. Sul delicato tema della sicurezza regionale, l’approccio diplomatico tentato dagli Stati Uniti a metà febbraio con la Siria non sembra aver ottenuto risultati tangibili.
La cena organizzata a Damasco la sera del Natale musulmano, alla quale hanno partecipato il presidente Bashar Assad, il suo omologo iraniano, Mahmoud Ahmadinejad e il segretario generale del movimento Hezbollah, Hassan Nasrallah, è la prova di come il paese arabo non abbia alcuna intenzione di interrompere un rapporto che con Teheran dura ormai da trent’anni e che, in funzione anti-israeliana, fa dell’organizzazione sciita libanese il suo partner privilegiato.
Secondo quanto pubblicato dal quotidiano Haaretz, la Siria starebbe addestrando i combattenti dell’organizzazione paramilitare sciita sull’uso dei sistemi missilistici a corto raggio S-75 Dvinà (SA-2 Guideline) e Romb (SA-8 Gecko).
Un training che evidenzia l’intenzione di Hezbollah di difendere le batterie di lancio dei razzi da 107 mm e 122 mm dagli attacchi dell’aviazione israeliana e che spiega perché Damasco, tra le armi che continuerebbe a contrabbandare verso il Libano, avrebbe incluso un numero non precisato di sistemi missilistici di difesa antiaerea trasportabili a spalla (MANPAD).
La notizia diventa di particolare interesse se poi si pensa che questa volta il materiale consegnato ad Hezbollah è di ultima generazione: in un articolo pubblicato dal Washington Institute's Web site si parla infatti di missili IGLA-S, armamenti a corto raggio di fabbricazione russa etichettati dalla NATO con il codice SA-24 Grinch.
Prodotto nella città di Kolomna dall’industria bellica KB Mashynostroyeniya (KBM), l’SA-24 è già stato adottato dall’esercito russo in sostituzione dei modelli SA-16 Gimlet ed SA-18 Grouse, sviluppati negli anni Ottanta dalla stessa KBM.
Tra i migliori sistemi MANPAD oggi prodotti, l’IGLA-S appartiene all’ultima generazione dei sistemi missilistici antiaerei trasportabili a spalla e per le sue caratteristiche tecniche rappresenta un vero pericolo per le forze aeree israeliane (IAF).
Capace di operare anche in ore notturne e di colpire obiettivi di qualsiasi dimensione, è una minaccia per velivoli UAV, come lo Sky Warrior e l’MQ-9 Predator B/Reaper Hellfire, per elicotteri da combattimenti, quali l'AH-64D Apache Longbow e l’UH-60 Black Hawk, e per aerei ad ala fissa come il Lockheed AC-130H Spectre, l’AC-13U Spooky gunships e il Northrop Grumman A-10 Thunderbolt II “Warthog”, utilizzati nelle missioni si supporto ravvicinato alle operazioni di terra (CAS).
Gli IGLA-S consegnati ai miliziani di Hezbollah sono solo parte dei sistemi di difesa aerea che negli ultimi mesi, nonostante l’embargo e le varie Risoluzioni Onu, stanno rovinando il sonno del vertici militari israeliani.
Non è infatti ancora chiaro se la Almaz Scientific Industrial Corporation (ASIC) abbia sospeso la fornitura dei sofisticati sistemi di difesa aerea a medio raggio S-300, che per l’Iran e la Siria già si parla dell’S-400 Triumf, nome in codice NATO SA-21 Growler.
Ma per lo Stato ebraico il primo nemico rimane ancora Hezbollah: il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, è certo che, in barba alla Risoluzione Onu 1701, il movimento sciita può ormai contare su un arsenale di 45.000 razzi, il triplo di quelli che aveva a disposizione alla vigilia del conflitto scoppiato nel 2006.
Mentre la Siria provoca Israele sul piano militare e prepara Hezbollah a difendere le sue roccaforti, Teheran spiazza la comunità internazionale con una mossa a sorpresa: recentemente il governo iraniano avrebbe deciso di portare in superficie gran parte delle scorte di uranio a basso arricchimento (LEU) prodotto negli impianti di Natanz.
La notizia, contenuta in un recente rapporto stilato dagli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) e pubblicata la settimana scorsa dal New York Times, parla di circa 1.950 chilogrammi di combustibile nucleare con una concentrazione di U235 tra il 3% ed il 5%, prelevati dai bunker sotterranei della centrale di Fordo, vicino alla città di Qom, e portati in siti dove potranno essere trattati per l’arricchimento al 20%.
Una decisione che mette il “prezioso” materiale alla mercé di sabotaggi e devastanti attacchi aerei e che anche agli occhi dei più sprovveduti appare come un’evidente provocazione nei riguardi di Israele: quello che in gergo viene chiamato “bull's-eye on stockpile”.