Altro che dialogo in vista delle elezioni; i generali fissano regole che escludono Aung San Suu Kyi da qualsiasi ruolo politico. Imbarazzo per Washington
Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari per tutta la durata della campagna elettorale. Il suo partito costretto a espellerla dai ranghi, se intende partecipare. Migliaia di prigionieri politici a cui è stato vietato di candidarsi. Milizie etniche che continuano a respingere le offerte della giunta, preparandosi alla guerra.
Norme costituzionali che comunque garantiscono il controllo del regime, anche se il voto dovesse essere regolare. E a vigilare su tutto questo, una commissione elettorale di fedelissimi del regime, le cui decisioni non potranno essere contestate. Per chi guardava alle elezioni di quest'anno come a un possibile progresso in Birmania, le delusioni stanno arrivando una dopo l'altra.
Mentre una data per il voto non è stata ancora fissata, questa settimana la giunta ha iniziato a diffondere i dettagli delle varie leggi che regoleranno il processo elettorale. E in pochi giorni ha messo in chiaro la sua idea di elezioni "libere e regolari".
Prima ha stabilito la composizione della commissione elettorale: almeno cinque personalità "eminenti e fedeli allo Stato", che decideranno senza possibilita' di appello, con potere di delimitare le circoscrizioni e annullare il voto in quelle dove qualcosa non dovesse andare secondo i piani dei generali; per esempio, come è plausibile, se nelle regioni controllate dalle milizie etniche i numeri dovessero rivelarsi imbarazzanti.
Poi è arrivata l'ulteriore stretta contro Aung San Suu Kyi, in detenzione per 14 degli ultimi 20 anni e agli arresti domiciliari - recentemente confermati in appello - fino al prossimo novembre, per aver dato breve rifugio l'anno scorso a un eccentrico americano che nuotò fino a casa sua.
Le nuove norme vietano la candidatura ai "criminali" che stanno ancora scontando una condanna, proprio il caso di Suu Kyi. Tali persone non potranno neanche essere iscritte a un partito, pena la cancellazione di quest'ultimo dalle liste elettorali. Senza dirlo esplicitamente, il messaggio del regime alla Lega nazionale per la democrazia (Nld) è inequivocabile: se non espelle la sua leader, non potrà partecipare al voto.
Per il maggiore partito di opposizione, quello che nelle elezioni del 1990 trionfò conquistando l'80 percento dei seggi, è una condizione praticamente impossibile da accettare. Già prima l'Nld era tentato di boicottare il voto, in segno di protesta.
La sensazione di essere presi in giro dal regime - che ammicca al dialogo con concessioni minime, per poi tirare dritto - era già forte; figuriamoci ora. Membri del movimento hanno confidato in forma anonima a PeaceReporter che l'orientamento pende sempre più per il "no" a queste elezioni.
Il tempo per decidere però stringe: la giunta ha concesso 60 giorni ai partiti per iscriversi alle liste. E si sta facendo strada l'ipotesi che il voto venga organizzato subito dopo, forse già a giugno, in barba a qualsiasi buon senso nel concedere un margine sufficiente per fare campagna elettorale.
Per gli Usa è uno smacco. Da un anno strizzavano l'occhio ai generali, facendo capire di essere pronti a rimuovere le sanzioni se i generali fossero stati clementi nei confronti di Suu Kyi. Il movimento democratico birmano in esilio era più che diffidente.
Con i militari non si ragiona, ammonivano: useranno le aperture di Washington finchè fa loro comodo, per poi fare di testa propria. E nel frattempo, senza aspettare gli ipotetici investimenti americani, il regime ha già iniziato una massiccia privatizzazione delle risorse e delle infrastrutture finora controllate dallo Stato.
L'altra incognita riguarda i gruppi etnici che hanno firmato un cessate il fuoco con il regime, in particolare quelli del confine nord-orientale. La giunta vuole obbligare le milizie etniche a diventare guardie di confine sotto il controllo delle forze armate nazionali, ma in poche hanno accettato.
Le più organizzate, come quelle Wa e Kachin, si stanno invece preparando all'offensiva dell'esercito; l'attacco dello scorso agosto contro le milizie Kokang, sempre nel nord-est, ha già fatto capire che la pazienza dei generali ha un limite. Secondo Irrawaddy, il sito di riferimento della diaspora, nello Shan State sono chiari i segnali di una accresciuta presenza militare.
Gli affari dell'Asia con il regime
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 4 Marzo 2010
Mentre gli Usa contemplano la fine delle sanzioni, i Paesi vicini progettano nuovi investimenti
Della Cina si sa: firma accordi economici con i generali, li protegge regolarmente appellandosi al principio di non interferenza, è responsabile del 90 percento degli investimenti stranieri nel Paese.
Ma mentre gli Usa contemplano la fine delle sanzioni, se il regime dovesse liberare Aung San Suu Kyi e gli oltre duemila prigionieri politici, mezza Asia continua a fare affari con la giunta militare birmana. E gli ultimi accordi sulla costruzione di un gasdotto sono solo l'ultimo esempio.
Pochi giorni fa, la coreana Hyundai Heavy Industries ha sottoscritto un accordo da 1,4 miliardi di dollari con la connazionale Daewoo, per lo sviluppo di un enorme giacimento di gas naturale al largo della costa birmana, al quale partecipano anche due compagnie indiane.
Tra due-tre anni, quando sarà completato il gasdotto che taglierà il Paese da sud-ovest a nord-est, 15 milioni di metri cubi di gas fluiranno ogni giorno per 25-30 anni, consentendo al regime birmano di intascare circa un miliardo di dollari all'anno.
Quel gas arriverà in Cina, e sarà lo stesso per il petrolio che verrà trasportato da un'altra opera in costruzione: un oleodotto che farà lo stesso tragitto, dallo stato birmano di Arakan alla provincia cinese dello Yunnan, consentendo a Pechino di risparmiare tutti i chilometri necessari a circumnavigare l'Asia sud-orientale nell'importare il greggio dal Medio Oriente.
Anche la Thailandia, che già ora è il principale acquirente del gas birmano, è attiva nel diversificare i suoi bisogni energetici. Il piano per una diga con annessa centrale idroelettrica, entrambe da costruire in Birmania, è in stallo; ma Bangkok ha appena ribadito di voler iniziare la costruzione di entrambe, che vorrebbe completare entro il 2016. Il Bangladesh, inoltre, ha appena dato il suo assenso alla realizzazione di un gasdotto che connetta la Birmania con l'India.
E nuove opportunità commerciali si presenteranno nei prossimi mesi: secondo Irrawaddy, il sito di informazione di riferimento della diaspora birmana, il regime ha appena avviato una massiccia campagna di privatizzazione di interi settori economici che finora controllava: la rete di distribuzione del carburante, attività portuali, fabbriche, miniere.
Il sospetto di molti analisti è che i generali intendano mettere al sicuro un cospicuo bottino, prima delle elezioni previste entro la fine di quest'anno. Nessuno si attende un voto libero, e le norme fissate dalla nuova Costituzione assicureranno la presa dei militari sul Paese anche in seguito; ma non si escludono cambi della guardia interni al regime. Con gli affari sul gas, inoltre, i generali - secondo il rapporto di una Ong - hanno già lucrato in passato, giocando con il cambio fasullo della valuta nazionale.
Ufficialmente, un dollaro vale circa 6 kyat, ma al mercato nero è prassi vedersi cambiati i biglietti verdi in corrispettivi di 1.000 kyat; una differenza che la giunta ha usato in passato per mettere minori introiti a bilancio, utilizzando il resto per gonfiare i suoi conti bancari a Singapore.
E tutto questo mentre qualsiasi opera pubblica in costruzione - come denunciato da infinite testimonianze - comporta sgomberi senza risarcimento, lavori forzati, violenze contro la popolazione. Con niente che faccia pensare a un cambio di atteggiamento per i progetti in corso.