sabato 27 marzo 2010

Elezioni in Iraq: ha vinto Allawi...forse

Ieri, dopo 20 giorni di attesa, la Commissione elettorale irachena ha annunciato che Iraqiya - la lista guidata dall'ex premier iracheno Iyyad Allawi - ha vinto le elezioni.

La lista di Allawi avrebbe ottenuto 91 seggi contro gli 89 di quella del premier uscente Nuri al-Maliki.
All'Alleanza nazionale sciita vanno invece 70 seggi, mentre l'Alleanza del Kurdistan ne ha ottenuti 43.

I risultati devono essere però ancora convalidati dalla Corte Suprema e al-Maliki non li ha riconosciuti, affermando di considerarli "non definitivi e solo preliminari" e paventando una nuova ondata di violenze se non verranno riconteggiati i voti, a suo dire afflitti da brogli.

Proprio nei giorni scorsi l'ambasciatore Usa a Baghdad l'aveva convocato per chiedergli garanzie rispetto all'accettazione dei risultati delle urne. Inutilmente, a quanto sembra, visto che al-Maliki presenterà ricorso alla Corte Suprema.

Ma per l'inviato speciale dell'Onu in Iraq, Ad Melkert, il voto è regolare. Così come l'ambasciata americana a Baghdad e il comandante della truppe Usa, il generale Ray Odierno, hanno fatto sapere che "non ci sono evidenze di frodi diffuse e gravi".

Non sarà comunque facile nè veloce la formazione del nuovo governo iracheno. E infatti ieri un doppio attentato compiuto a Khalis, vicino Baquba a nord di Baghdad, ha già provocato almeno 42 morti e circa 70 feriti.

E se ne preannunciano altri...


Allawi vince le elezioni
da www.osservatorioiraq.it - 26 Marzo 2010

Una vittoria di strettissima misura - per due soli seggi. Iyad Allawi, l'ex Primo Ministro iracheno, con la sua alleanza nazionalista, Iraqiya, ha battuto il premier in carica, Nuri al Maliki: 91 seggi contro 89, su un totale di 325.

Questi i risultati ufficiali del voto per il rinnovo del Parlamento che si era tenuto il 7 marzo: annunciati poco fa dalla Commissione elettorale, la IHEC, che non ha raccolto l'invito del ministro degli Interni, Jawad al Bulani, che aveva chiesto di rinviarne la comunicazione per timore di esplosioni di violenza nel Paese.

Entrambe le coalizioni, quella di Allawi e quella del premier, l'Alleanza per lo Stato di diritto, avevano denunciato brogli e irregolarità nelle settimane successive al voto, mentre venivano via via diffusi i risultati preliminari, avvertendo che non avrebbero accettato un esito che li avesse penalizzati.

E adesso è Allawi a uscire vincitore, anche se il numero di seggi ottenuti da Iraqiya è ben lontano dalla maggioranza assoluta (163 seggi) necessaria per formare un governo.

Al terzo posto, la Iraqi National Alliance, la coalizione che raggruppava il grosso delle forze sciite: e che seggi ne ha avuti 70. Segue la Kurdistan Alliance, con la maggioranza dei partiti kurdi, fra cui i due principali, con 43 seggi.

Per quanto riguarda le singole province (310 dei 325 seggi venivano assegnati a livello provinciale, mentre 7 erano seggi nazionali di compensazione), la coalizione di Allawi ha vinto in quattro delle cinque in cui era in testa: Anbar (11 seggi su un totale di 14), Salahuddin (8 seggi su 12), Diyala (8 seggi su 13), Ninive (20 seggi su 31). A Kirkuk, pur essendo leggermente in vantaggio quanto a numero di voti, Iraqiya porta a casa lo stesso numero di seggi – sei – della Kurdistan Alliance, la formazione che raggruppa la maggioranza dei partiti kurdi.

01 - Baghdad
02 - Salahuddin
03 - Diyala
04 - Wasit
05 - Maysan
06 - Bassora
07 - Dhi Qar
08 - Muthanna
09 - Qadissiya
10 - Babel
11 - Karbala
12 - Najaf
13 - Anbar
14 - Ninive
15 - Dohuk
16 - Irbil
17 - Ta'amim (Kirkuk)
18 - Sulaimaniya


Giallo = Kurdistan Alliance
Verde = Iraqiya (Allawi)
Rosso = Alleanza Stato di diritto (Maliki)
Magenta = Iraqi National Alliance

L'Alleanza per lo Stato di diritto del premier Maliki vince a Baghdad (26 seggi su un totale di 68), e poi Bassora (14 seggi su 24), Najaf (7 seggi su 12), Karbala (6 seggi su 10), Babel (8 seggi su 16), Wasit (5 seggi su 11), e Muthanna (4 seggi su 7).

Agli sciiti dell'Iraqi National Alliance vanno le tre province di Maysan (6 seggi su 10), Qadissiya (5 seggi su 11), e Dhi Qar (9 seggi su 18).

Alla Kurdistan Alliance le tre province della regione autonoma del Kurdistan: Irbil (10 seggi su 14), Dohuk (9 seggi su 10), e Sulaimaniya (8 seggi su 17).

Sia la coalizione di Allawi che quella di Maliki che quella sciita hanno inoltre avuto 2 seggi nazionali di compensazione ciascuno. La Kurdistan Alliance uno solo.

Adesso si apre la partita per il governo: una strada che si annuncia tutta in salita.

Prima però c'è un ultimo adempimento: la certificazione dei risultati elettorali da parte della Corte Suprema Federale.



Le mille vite del dottor Allawi che attende i risultati iracheni
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore.com - 26 Marzo 2010

Se alla fine sarà lui a guidare il nuovo governo di Baghdad, partita peraltro ancora aperta, l'Iraq che prenderà forma sarà davvero nuovo. Vale a dire un Paese in cui le divisioni etniche e confessionali saranno finalmente, se non superate, meno incisive. Perché Iyad Allawi, 65 anni, il leader della coalizione Iraqiya, è un uomo vecchio e allo stesso tempo nuovo.

Vecchio perché è un volto conosciuto, a lui fu affidata la poltrona di Primo Ministro nel governo ad interim del 2004. Nuovo perché, pur essendo sciita, la piattaforma intorno a quale ha creato la sua alleanza è la più laica e secolare di tutte. Forse proprio per questo l'ex medico è riuscito a racchiudere nella sua coalizione gruppi sunniti, sciiti, insieme a leader cristiani.

Probabilmente per questo gli iracheni, stanchi delle divisioni confessionali che hanno destabilizzato il Paese ostacolando lo sviluppo economico e la ricostruzione, lo hanno votato in massa.

Allawi è in testa, seppure di poche migliaia di voti sul rivale Nuri al–Maliki. Anche se dovesse essere confermata la sua vittoria, avrebbe in ogni caso bisogno di uno o più alleati per creare un governo. E comunque potrebbe ritrovarsi da vincitore all'opposizione, se i rivali sapranno superare le loro divisioni e formare una coalizione di maggioranza.

Nessuno mette però in dubbio che sia un uomo coraggioso. Il suo curriculum ne è pieno. Fece fatica ad emergere nell'agone politico iracheno. La sua famiglia, di cui numerosi membri ricoprirono alti incarichi nella monarchia rovesciata nel 1958, non era ben vista. Allawi comunque scelse, e riuscì a militare nelle file del partito Ba'ath dal 1969 al 1971.

Sapeva che Saddam, Hussein, astro nascente della politica irachena e vice presidente dal 1968, era un uomo violento e volubile. Allawi non si curò di scontrarsi apertamente con il futuro dittatore. Minacciato, fu costretto a scegliere la via dell'esilio, prima in Libano e poi in Gran Bretagna. Alla politica, però, non rinunciò mai.

Londra era certo un luogo più sicuro dell'Iraq, ma non abbastanza. Tanto che nel 1978 i sicari di Saddam Hussein irruppero in casa sua la notte, crivellandolo di proiettili mentre si trovava a letto. Ritornati a Baghdad, annunciarono al dittatore di averlo ucciso. Gravemente ferito, Allawi sopravvisse. Continuò la sua attività politica.

Nel marzo 1991, fondò il Movimento di intesa nazionale con ex ba'athisti. L'obiettivo era chiaro: destituire il dittatore. Cinque anni dopo, con il sostegno non solo morale, di Washington, orchestrò un complotto contro il dittatore. Fallito. diversi suoi uomini furono giustiziati.

Washington però comprese di avere a disposizione un politico preparato e fidato. Dopo la caduta di Suddam, lo nominò Primo ministro nel governo di transizione. Chi pensava si trattasse di un uomo poco risoluto dovette presto ricredersi.

In materia di sicurezza, le sue maniere forti gli meritarono l'appellativo di "piccolo Saddam". Come per la sua offensiva contro la città sunnita, e ribelle, di Falluja (giugno 2004-aprile 2005). I sunniti avrebbero di che lamentarsi, eppure anche a Falluja hanno votato in massa per lui.

La riconciliazione innanzitutto. Allawi è stato più intelligente degli altri rivali: ha capito che recuperare i membri del Ba'ath (il partito di Saddam messo fuori legge), che non si erano resi colpevoli di delitti politici, era una priorità. Molti di loro, emarginati dai governi sciiti, si erano uniti all´insurrezione armata sunnita, alcuni fiancheggiandola, altri simpatizzando.

In recenti interviste, l'ex medico ha ribadito di essere stato votato non solo dai sunniti ma anche da molti sciiti, anche in tradizionali roccaforti dei partiti religiosi, come Najaf.

Quasi volesse dire: anche nei luoghi più sacri della confessione sciita, un programma laico, nemico delle divisioni interconfessionali, può essere una ricetta accattivante. Gli iracheni, dopotutto, vogliono davvero voltare pagina.



I seguaci di Muqtada al Sadr escono più forti dalle elezioni
di Anthony Shadid* - The New York Times - 21 Marzo 2010
Traduzione a cura di Medarabnews

I seguaci di Muqtada al-Sadr, un religioso radicale che ha guidato l’insurrezione sciita contro l’occupazione americana, sono usciti dalle elezioni della settimana scorsa come l’equivalente iracheno di Lazzaro, sconfiggendo le previsioni di rito riguardanti la loro fine, e ora minacciano di modificare gli equilibri di potere nel Paese.

Il loro apparente successo alle elezioni parlamentari del 7 marzo – forse sono il secondo maggiore raggruppamento sciita, superato solo dai seguaci del Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki – sottolinea un’evidente tendenza nella politica irachena: il crollo del sostegno a molti ex-esuli che hanno collaborato con gli Stati Uniti dopo l’invasione del 2003.

Sebbene i rivali abbiano screditato la campagna elettorale dei sadristi, documenti e interviste mostrano una disciplina senza precedenti, che ha spinto il gruppo sull’orlo di quella che forse è la sua maggiore influenza politica in Iraq.

Questo risultato completa il sorprendente ciclo di un movimento populista che ha ereditato il mantello di un ayatollah assassinato (il grande Ayatollah Muhammad Sadiq al-Sadr, padre di Muqtada, fu assassinato nel 1999, probabilmente dal regime di Saddam (N.d.T.) ), e poi ha forgiato una cultura marziale nella sua lotta contro l’esercito americano nel 2004.

Dopo anni di sconfitte, frammentazioni, e dubbi sollevati persino dai suoi stessi esponenti religiosi riguardo alle sue prospettive per queste elezioni, il movimento ha aderito al processo politico, pur rimanendo sempre fermamente contrario a qualunque legame con gli Stati Uniti.

Non è mai stato facile formare un nuovo governo nel periodo postelettorale, e l’imprevedibilità dei sadristi, così come la loro ritrovata fiducia, adesso potrebbe rendere molto più complicata questa operazione.

“Così come aumenta la nostra presenza in parlamento, altrettanto farà il nostro potere”, ha detto Asma al-Musawi, una deputata sadrista. “Presto rivestiremo il ruolo che ci è stato assegnato”.

Durante la preghiera del venerdì un fedele si è espresso in termini ancora più espliciti.

“Oggi è il nostro giorno”, ha gridato a centinaia di sostenitori riunitisi fuori della sede del movimento, in un fatiscente sobborgo che porta il suo stesso nome, Sadr City, dove i cavi elettrici sono ingarbugliati come ragnatele, e il malcontento ribolle da un calderone di povertà, rabbia, e frustrazione.

I risultati delle elezioni non sono ancora definitivi, e in base a una complicata formula per l’assegnazione dei seggi la percentuale dei voti potrebbe non riflettere necessariamente i numeri reali nel parlamento composto di 325 membri.

Ma gli avversari così come gli alleati ritengono che i sadristi potrebbero ottenere più di 40 seggi. Con tutta probabilità, ciò li renderebbe il vero partito di maggioranza all’interno dell’Alleanza Nazionale Irachena (INA), una coalizione a prevalenza sciita nonché diretta concorrente di Nuri al-Maliki.

Se le cifre saranno confermate, i sadristi potrebbero disporre di un blocco all’incirca dello stesso peso politico dei kurdi, che sono stati l’ago della bilancia nelle coalizioni di governo fin dal 2005.

Solo a Baghdad, il cui voto è decisivo per le elezioni, 6 candidati sadristi, molti dei quali perfetti sconosciuti sul piano politico, sono emersi tra i 12 più votati.

“Non possono essere esclusi”, ha detto un funzionario occidentale avvalendosi dell’anonimato, secondo il classico protocollo diplomatico.

Cercare di ignorare i sadristi si è dimostrato un leit-motiv dell’Iraq degli anni successivi all’invasione. Nei caotici mesi del 2003, i responsabili americani hanno regolarmente deriso Sadr, additandolo come un uomo venuto su dal nulla e come un fuorilegge, inconsapevoli del mandato che egli aveva assunto dal padre, l’ayatollah Muhammad Sadiq al-Sadr, il cui ritratto è ancora appeso negli uffici, nelle case, e nelle officine dei suoi seguaci. L’ayatollah fu assassinato nel 1999.

Questa inimicizia esplose in un aperto combattimento per due volte nel 2004, a Baghdad e a Najaf. Quattro anni dopo, il movimento, accusato di alcuni dei peggiori massacri a sfondo settario nella guerra civile, fu sconfitto dall’esercito iracheno, con il decisivo aiuto americano, solo per risorgere nelle elezioni provinciali dello scorso anno.

Molti politici adesso lo vedono come una componente del processo politico, sebbene sia un movimento con un acuto senso della piazza e con la propensione a modellarsi come un movimento di opposizione.

Nel corso di questi anni, Sadr, che adesso sta studiando in Iran per diventare ayatollah, ha subito una trasformazione. Nei primissimi giorni dell’occupazione, non possedeva nessuna particolare disinvoltura. Calcava il suo turbante nero sulla fronte, in un modo un po’ scomodo, e curvava la schiena in una postura tozza e tarchiata.

Questo mese, durante una conferenza stampa dall’Iran, si è espresso con toni molto più vigorosi. Ormai 36enne, sicuro di sé, con qualche striatura grigia nella barba, ha parlato volutamente in un arabo garbato quanto semplice, con una disinvolta indifferenza per le domande dei giornalisti, tipica degli arroganti.

Il movimento sadrista è celebre per le affermazioni criptiche sulle proprie intenzioni, eppure in passato ha fatto parte di alcuni governi pur rifiutando il processo politico. Questa volta, nel modo più chiaro possibile, Sadr ha insistito affinché i suoi seguaci andassero a votare.

“Questo sarà il passaggio necessario per la liberazione dell’Iraq, per scacciare l’occupante, e per un’altra cosa importante, servire il popolo iracheno”, ha detto.

Il successo dei sadristi ha aggiunto confusione ad uno scenario già sufficientemente preoccupante, intorbidato dalle illazioni su quale coalizione formerà il prossimo governo. Maliki potrebbe essere il grande sconfitto. Sebbene una volta lo abbiano sostenuto, i sadristi adesso dichiarano un disprezzo viscerale per Maliki, a cui danno la colpa per la campagna militare del 2008 contro di loro.

Sami al-Askari, un deputato alleato di Maliki, li ha definiti “preoccupanti”.

“Ignorarli è un problema”, ha detto. “Coinvolgerli nel governo è un altro problema. Sono imprevedibili, e nessuno può intuire la loro prossima mossa”. Essi sembrano sicuri, per giunta, di eclissare i vecchi leader sciiti che sono rientrati dall’esilio nel 2003, e coi quali i sadristi sono nominalmente alleati.

Nel gennaio 2009, il Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq (SIIC), un partito guidato da un’altra storica famiglia di religiosi, ottenne un numero di voti superiore ai sadristi.
Questa volta, si ritiene che il SIIC abbia avuto una performance così scarsa che potrebbe essere obbligato a uscire dall’INA e ad unirsi a Maliki per mantenere il suo peso politico.

Come minimo, i sadristi hanno messo in chiaro che ritengono che la leadership della coalizione debba spettare a loro.

“I risultati richiederanno che alcuni partiti riconsiderino il peso politico che meritano”, ha detto Asad al-Nasseri, un leader sadrista, ai fedeli presenti alla preghiera del venerdì nella loro roccaforte di Kufa.

Fin dal 2003, i sadristi hanno rifiutato qualsiasi contatto con i militari e con i diplomatici americani.

Giorni fa, un funzionario americano si è lamentato dicendo: “Sarebbe di aiuto se essi cambiassero la loro politica”.

Ma ciò che è un danno per l’America potrebbe non essere necessariamente un vantaggio per l’Iran. Con una chiara dimostrazione del potere che l’Iran esercita da queste parti, Tehran ha persuaso i sadristi ad unirsi alla coalizione del SIIC per le elezioni, anche se i due movimenti si erano combattuti nelle strade solo pochi anni prima.

I due gruppi tuttora esprimono pubblicamente il loro antagonismo. Ma molti politici pensano che i sadristi, a lungo considerati più nazionalisti di altri partiti religiosi sciiti, si dimostreranno meno arrendevoli nei confronti dell’Iran.

Sadr “non è l’interlocutore più affabile con cui l’Iran possa avere a che fare”, ha affermato il suddetto diplomatico americano.

Forse la cosa più sorprendente è l’abilità che il movimento ha dimostrato nel mobilitare i suoi sostenitori, gli sciiti, i cui sobborghi più poveri vanno ancora avanti senz’acqua per giorni. Alla preghiera del venerdì, e tramite volantini, gli organizzatori hanno ammonito i seguaci a non votare a favore dei candidati laici. Essi hanno insistito affinché i seguaci non disperdessero il loro voto tra diverse liste di candidati.

“Non dimenticate di votare per un solo candidato!”, si leggeva in un volantino.

Per un candidato, Hakim al-Zamili, un ex viceministro della Salute accusato da molti di avere guidato squadroni della morte durante la guerra civile, i votanti sono stati organizzati in 22 località. Per il momento, egli è il sesto candidato più votato a Baghdad, e sembra certo di ottenere un seggio.

“Congratulazioni!”, hanno gridato i fedeli mentre lo salutavano alla preghiera del venerdì a Sadr City. “Buona fortuna!”, gridavano altri, sporgendosi per baciare Zamili sulla guancia.

Egli ha contraccambiato ognuno di loro con un sorriso, un bacio, o una stretta di mano.

“Noi siamo il popolo”, ha detto. “Il resto dei partiti si basa su leader individuali. Noi siamo la forza del numero, e siamo emersi grazie alle elezioni”.


* Anthony Shadid è un giornalista americano di origini libanesi. E’ corrispondente da Baghdad per il New York Times. Nel 2004 ha vinto il Premio Pulitzer per il giornalismo internazionale, per i suoi reportage sulla guerra irachena.


Baghdad, il settimo anno dell'avventura americana
di Adrien Jaulmes - Le Figaro - 20 Marzo 2010

Sette anni fa, il 20 marzo 2003, l’esercito di Bush marciava su Baghdad. Ritorno in una delle più famose capitali arabe, segnata dalla guerra civile e dalla sanguinosa lezione della democrazia

Muri anti-esplosione e manifesti elettorali. Sette anni dopo l’invasione americana la fisionomia di Baghdad è profondamente cambiata. Sotto il cielo ambrato delle tempeste di sabbia, l’immenso agglomerato, che si estende lungo i meandri fangosi del fiume Tigri, porta i segni di questa duplice esperienza della democrazia sotto l’occupazione e di una brutale guerra confessionale.

In alcuni casi, i muri di calcestruzzo sono stati ridipinti con scene storiche, bassorilievi babilonesi, o leoni alati assiri. Ma questi allineamenti di enormi lastre di cemento, simili a grandi tasti di un pianoforte che impediscono di vedere l’orizzonte, stanno ancora in piedi come simbolo delle malefatte degli stregoni apprendisti americani in Mesopotamia.

Eppure la guerra confessionale che ha dilaniato la città è stata arginata. Dall’anno scorso gli americani sono ritornati nelle loro basi e, a parte alcuni elicotteri che di volta in volta passano in cielo, al momento restano quasi invisibili.

La Zona Verde è sempre quell’area vietata al centro di Baghdad, un vasto complesso di palazzi fortificati nella loro cinta di cemento sugli argini del fiume, ma è stata consegnata alle nuove autorità irachene.

I diplomatici americani hanno traslocato nella loro nuova ambasciata-bunker. Le legioni dell’impero si apprestano a fare le valigie, verso delle montagne afghane dove, al momento, si muore più che tra il Tigri e l’Eufrate.

Per quanto sia stata fermata, la guerra non è assolutamente finita. A ogni incrocio, lungo ogni arteria principale, all’ingresso di ogni ponte, i soldati e i poliziotti iracheni, riattrezzati con equipaggiamenti americani, passano al setaccio i veicoli con le mitragliette puntate. E le automobili imbottite di esplosivo continuano a esplodere di quando in quando tra l’indifferenza generale.

La notte, i blackout continuano a far annegare alcuni quartieri di Baghdad nell’oscurità. Ieri altre cinque persone sono state uccise in alcuni attentati, e nessuno si appresta a celebrare l’anniversario di un’ invasione che ha proiettato il Paese in un caos da cui ne esce a malapena.

Un avvenimento incredibile

Ma almeno si respira un po’ meglio dopo gli anni del terrore – 2006 e 2007 –, quando gli squadroni della morte sciiti e gli assassini di al-Qaeda si erano scatenati nella battaglia di Baghdad.

I negozi e i ristoranti hanno riaperto. Lungo il fiume Tigri le famiglie vanno di nuovo a mangiare il mazgouf, una grossa carpa grigliata un po’ disgustosa, alla luce dei lampioni alimentati dai generatori.

Su Arasat Street, nel quartiere chic di Karrada, i negozi traboccano di elettrodomestici e vestiti di marca. Si vedono auto di lusso, Porsche Cayenne e Lexus, in mezzo alle carrette dei duri anni dell’embargo internazionale che avevano rovinato l’Iraq senza riuscire a spodestare Saddam.

Poche persone rimpiangono veramente questo dittatore brutale, le cui catastrofiche avventure militari avevano trascinato il Paese in una guerra interminabile con l’Iran, prima di affondare nella miseria dell’embargo dopo una sonora sconfitta in Kuwait.

Quindi, la sua caduta ha scatenato altri flagelli, gettando le comunità confessionali ed etniche dell’Iraq le une contro le altre, e dando il potere agli sciiti per la prima volta nella storia del mondo arabo contemporaneo. “Quello del 2003 è stato un avvenimento incredibile”, dice Ali Abu Fatima mentre conta dei grossi mazzi di banconote nel suo negozio di cambio. “ È stato come la rivoluzione francese: tutta la società è stata trasformata. Ci sono stati molti morti e distruzioni, ma non tutto è stato vano.
L’economia riparte, la sicurezza è migliorata: ora possiamo pensare al futuro”.

Tuttavia non sono tutti così ottimisti. “ Abbiamo paura. Quest’anno il governo ha vietato di festeggiare il Natale in chiesa”, dice Awataf Ismael Abdullah, cristiana di Karrada. “ Mio cugino si è trasferito a Irbil, in Kurdistan e molti dei miei amici sono emigrati all’estero. La situazione è difficile”.

Malgrado i discorsi nazionalisti dei candidati, le fratture tra le comunità restano profonde. Sunniti, sciiti, laici, e cristiani hanno votato per Iyad Allawi, uomo di polso e dai discorsi che uniscono. Gli altri sciiti si sono orientati sul Primo Ministro Nuri al-Maliki, capo dell’apparato di sicurezza e garante della loro nuova influenza, o sui loro religiosi, raggruppati in una coalizione rivale.

Una città rimodellata nel sangue

Ma l’esperienza democratica irachena, cominciata con un’invasione straniera, e che bene o male si insegue in un Paese occupato e dilaniato dalla guerra civile, è una realtà. I manifesti elettorali sono l’altra eredità dell’inverosimile avventura americana in Iraq.

Dopo esser serviti a dividere la città in quartieri secondo la nuova mappa confessionale che ha rimodellato nel sangue la capitale, i muri anti-esplosioni sono diventati dei comodi tabelloni.

Le centinaia di volti dei candidati – mullah sciiti con turbanti bianchi o sunniti urbani e baffuti in abiti eleganti, donne avvolte nei loro abaya neri o con il capo scoperto - hanno coperto i muri di Baghdad durante l’ultima campagna legislativa.

Sulla piazza Firdus, là dove l’8 aprile 2003 un carro armato americano aveva divelto la statua di Saddam Hussein, i poster formano un labirinto inestricabile, complicato quasi quanto le trattative che iniziano per la formazione di un nuovo governo.

La statua di Saddam è stata sostituita da un bizzarro monumento di gesso verdastro che dovrebbe simboleggiare il nuovo Iraq ma che si sta già sgretolando. Gli alti profili degli hotel Palestine e Ishtar, dietro ai loro check-point e muri di cemento, sono in uno stato di decadenza avanzata.

Uno ha chiuso, e il Palestine ha appena perso una parte dei vetri a causa dell’esplosione dell’ennesima automobile imbottita di esplosivo, i cui resti vengono raccolti con rassegnazione. Solo le stanze della facciata nord sono utilizzabili, dice la receptionist dietro il suo bancone deserto. “ Si paga in anticipo”, precisa, “ in contanti”.

Qualche metro più lontano il Club Alwiyah sembra bloccato nel tempo. Questa istituzione era stata fondata nel 1924 dall’ avventuriera e arabizzante britannica Gertrude Bell, versione femminile di T. E. Lawrence con cappellino e stivaletti con i bottoni, consigliera dell’alto commissario inglese Sir Percy Cox, prima di diventare la consigliera di Re Faysal. L’avventura britannica dell’epoca viene vista come una ripetizione della storia recente.

Il proconsolato installato alla guida dell’Iraq, creato ex novo, insieme di arabi sunniti, sciiti, e kurdi, con importanti minoranze cristiane e turcomanne, aveva fatto fronte a un sollevamento generale. Gli inglesi avevano dovuto trovare una soluzione a questa rovinosa esperienza mettendo un sovrano hashemita alla guida del Paese e ritirando le truppe nelle loro basi.

La lapide di questa amante dell’Iraq, suicidatasi con il laudano, si trova in un piccolo cimitero cristiano a Baghdad, e il suo club esiste ancora oggi. Non ci si gioca più a croquet sorseggiando gin-tonic, ma il whisky scorre a fiumi.

Nella sala del bar, piena di fumo, i clienti fissi, con i grossi baffi e i loro abiti e cravatte sembrano usciti dagli anni Ottanta, all’epoca del regno del partito Ba’ath e della dittatura dei sigari di Saddam Hussein.

Uno spettacolo politico

Qadim al-Mukdadi è un cliente fisso del Club Alwiyah. La sua trasmissione sul canale al-Baghdadiya, uno dei numerosi nuovi media che si sono sviluppati con successo nell’Iraq del post-Saddam, è una delle più seguite. “Vedremo quello che uscirà fuori da queste elezioni. La cosa più interessante sarà vedere a cosa somiglierà il prossimo governo. Ci troviamo nel pieno dell’esperienza democratica e, come avviene in ogni esperienza, non si sa mai in anticipo come si evolveranno le cose. Andiamo avanti, senza sapere dove stiamo andando”, dice Qadim.

Nella sala piena di fumo, dietro al bancone di legno scuro, una televisione trasmette dei dibattiti politici. “ Gli americani hanno perso tutte le loro scommesse dopo l’invasione dell’Iraq, tranne una: quella si installare una democrazia. È a questa che si aggrappano, ma il problema è che hanno dato vita soprattutto uno spettacolo politico e non si sono preoccupati di ricostruire uno Stato”.

Per Qadim, “ questo Stato è ancora molto debole. Gli sciiti pensano di non aver avuto nulla in trentacinque anni, e vogliono approfittare del potere per servirsene. E poi questa non è veramente un’elezione per gli iracheni, tutti i Paesi vicini si immischiano. Al-Maliki, al-Hakim, e Muqtada al-Sadr , ciascuno con la sua fazione, sono asserviti all’Iran. Allawi ha ricevuto il sostegno dell’Arabia Saudita e dell’Egitto, ma non è una democrazia, è una potenziale dittatura”.

C’erano voluti circa cinque mesi affinché l’Assemblea irachena, eletta nel dicembre 2005, si mettesse d’accordo sulla formazione del governo, e affinché Nuri al-Maliki, personaggio relativamente conosciuto, emergesse per difetto come Primo Ministro. I risultati del nuovo scrutinio non danno la maggioranza a nessuna delle grandi coalizioni, e le trattative si annunciano difficili.

Il test della democrazia, che devono affrontare i governanti, di lasciare il potere anziché arrivarci, e la fine del mandato di Nuri al-Maliki, che ha assegnato ai suoi uomini i posti chiave dell’apparato di sicurezza, resta la grande incognita delle prossime settimane.

Iyad Allawi, che ha appena fatto il suo grande ritorno sulla scena politica, si pone oggi come rivale del Primo Ministro uscente. “Non accetteremo di formare rapidamente un governo che porterà agli stessi fallimenti degli ultimi quattro anni”, ha annunciato ieri Allawi. “ Non accetteremo più il regno di un uomo e di un partito”.