Due giorni fa l'Ocse nell'Employment Outlook 2009 ha previsto che "se in alcuni Paesi come Irlanda, Giappone, Spagna e Stati Uniti, già nel 2009 si è registrato un forte aumento di disoccupati a causa della crisi economica, in altri Paesi, inclusi Francia, Germania e Italia la gran parte della crescita della disoccupazione deve ancora arrivare".
E sempre secondo i dati Ocse è la Spagna - a giugno aveva un tasso di disoccupazione del 18,1% - il Paese che finora ha pagato il tributo più grande alla crisi in termini di lavoro.
In Francia a giugno il tasso era al 9,4%, mentre in Germania era al 7,7%. Nella tabella Ocse i dati italiani sono invece disponibili solo fino al primo trimestre 2009 quando la disoccupazione era al 7,4%.
Finora la crisi ha già provocato nell'area Ocse quasi 15 milioni di disoccupati e per l'Ocse "le condizioni del mercato del lavoro sembrano destinate a peggiorare ancora" con il rischio che la perdita di posti arrivi a oltre 25 milioni a fine 2010, portando il totale dei disoccupati al record di 57 milioni.
Per l'Italia la stima a fine 2010 è di 1,124 milioni disoccupati in più rispetto al 2007, di cui oltre 850mila in più rispetto al primo trimestre 2009, con un tasso di disoccupazione al 10,5%.
Mentre nell'UE, nel primo trimestre 2009, il numero di disoccupati al di sotto dei 24 anni ha già raggiunto i cinque milioni.
Allegria...diceva Mike Bongiorno. Ottimismo...continua a dire l'Utilizzatore.
Ventenni senza lavoro e senza studi. I rischi di una generazione "stritolata"
di Maurizio Ferrera - Il Corriere della Sera - 17 Settembre 2009
Qualche mese fa la Confederazione europea delle associazioni giovanili ha lanciato l’allarme: il credit crunch rischia di trasformarsi in uno youth crunch , ossia in una vera e propria morsa «stritola-giovani». Gli ultimi dati Eurostat e Ocse sulle forze di lavoro segnalano che lo scenario si sta purtroppo avverando. Nel primo trimestre 2009 il numero di disoccupati Ue al di sotto dei 24 anni ha raggiunto i cinque milioni. In termini percentuali, la disoccupazione giovanile è non solo più del doppio rispetto a quella totale (18,3% di contro all’8,3%), ma sta crescendo molto più velocemente. Come sottolinea il rapporto Ocse sull’occupazione 2009 la crisi sta ricreando quel solco generazionale nell’accesso al lavoro che le economie europee avevano cominciato faticosamente a colmare a partire dal 2005.
L’Italia si trova in condizioni particolarmente gravi. La disoccupazione fra gli under 24 ha superato il 25% negli ultimi mesi: 5 punti in più dell’anno scorso, mezzo milione di ragazze e ragazzi. Nella classifica europea siamo superati solo da Spagna e Lettonia. Conosciamo la principale causa del fenomeno: i giovani accedono al mercato del lavoro essenzialmente tramite contratti «a-tipici» e questi sono stati i primi ad essere falcidiati dalla crisi. Come ben spiega una recente ricerca di Berton, Richiardi e Sacchi ( Flex-insecurity, Il Mulino) nel nostro paese la flessibilità ha generato una «precarietà» di lavoro e di vita che si concentra fra le categorie socialmente e anagraficamente più deboli. Anche negli altri Paesi molti giovani all’inizio devono arrangiarsi con dei «lavoretti».
Ma si tratta di una fase relativamente breve, tutelata da trasferimenti pubblici in caso di disoccupazione e spesso accompagnata da percorsi di consolidamento formativo e addestramento professionale. Nel nostro Paese la transizione scuola-lavoro è molto più difficile e accidentata. Se non riescono a saltare il fossato che li separa dai segmenti buoni e «garantiti» del mercato occupazionale, i giovani italiani restano a lungo intrappolati nel limbo dell’insicurezza, con intervalli senza lavoro e senza reddito che ora tendono a diventare più lunghi e frequenti. Quando il contratto non viene rinnovato, l’unico ammortizzatore affidabile resta la famiglia.
Oltre alla disoccupazione in senso stretto, la crisi rischia però di aggravare una sindrome ancora più preoccupante del nostro mondo giovanile: l’inattività «improduttiva». In Italia è molto alto il numero di under 24 (compresi numerosi teenager) che non fanno nulla: non studiano, non hanno un lavoro e non lo cercano attivamente (e dunque non sono, tecnicamente, disoccupati), non partecipano ad alcun programma formativo.
È vero che i giovani cosiddetti «Neet» ( not in education, employment or training ) sono in crescita in tutta Europa. Ma secondo le stime della Commissione europea l’Italia è il paese con la percentuale più alta: circa il 22% nel gruppo di età 20-24, un livello superato solo da Romania e Bulgaria. Da noi chi entra nella condizione di Neet tende inoltre a restarvi più a lungo (anche anni): per scoraggiamento, assenza di alternative, semplice inerzia. Quali prospettive si aprono ad un paese che non offre opportunità, stimoli e incentivi ai propri giovani?
Come siamo arrivati al punto che un italiano su cinque fra i 20 e i 24 anni si è ridotto a «non far nulla», a non essere coinvolto e impegnato in quelle attività da cui dipende il percorso della vita adulta? E, soprattutto, come uscire da questa situazione? Fra i tanti dibattiti d’autunno, sarebbe auspicabile fare un po’ di spazio anche a queste domande. Si sostiene spesso che le caratteristiche del nostro sistema bancario e finanziario ci abbiano protetto dagli effetti più devastanti del credit crunch. Senza azioni concrete e ambiziose a favore dei giovani, siamo però destinati a registrare lo youth crunch più intenso d’Europa. Un primato disastroso: vorrebbe dire che abbiamo davvero «stritolato» una generazione di italiani e, con essa, le nostre prospettive di benessere e sviluppo per i prossimi decenni.
Wall Street
di Michele Paris - Altrenotizie - 18 Settembre 2009
In occasione del primo anniversario del tracollo della banca di investimenti Lehman Brothers, che diede l’avvio ufficiale della crisi economica tuttora in atto, il presidente Obama ha tenuto un discorso di fronte ai rappresentanti di Wall Street che è sembrato assumere a tratti i toni della supplica. Un appello quasi disperato ad un pubblico molto influente per consentire l’approvazione di una serie di regolamentazioni del settore finanziario, peraltro di portata del tutto trascurabile.
Lo spettacolo di un presidente costretto a invocare gli stessi principali responsabili del tracollo dell’economia planetaria per sbloccare un provvedimento fermo in Senato dal mese di giugno è apparso tutt’altro che edificante. Così come i rimproveri e gli ammonimenti rivolti alla platea ben poco hanno potuto per contrastare la profonda influenza esercitata dall’élite finanziaria sulla Casa Bianca e sull’intero sistema politico americano.
L’avvertimento di Obama, che non saranno tollerati “ulteriori eccessi e comportamenti irresponsabili di quanti erano motivati esclusivamente dal loro appetito per bonus gonfiati”, deve essere suonato ironico ad una comunità di speculatori che ha ripreso le stesse identiche modalità d’azione che hanno condotto al caos finanziario ormai dodici mesi fa.
L’uomo che Wall Street ha generosamente contribuito a far eleggere lo scorso mese di novembre, come il suo predecessore, ha promosso d’altra parte il colossale intervento governativo per salvare quelle istituzioni finanziarie finite sull’orlo del collasso, proteggendo la ricchezza dei loro manager e scaricando i debiti da loro accumulati sulle spalle dei contribuenti.
Per quanti discorsi siano stati sprecati sulla necessità di porre dei freni alle pratiche speculative di questi giganti finanziari, pressoché nulla è stato fatto finora da parte del governo o del Congresso. Anzi, le banche salvate dal denaro pubblico (“bailed out”) hanno fatto segnare nuovamente, almeno a partire dal mese di marzo, profitti da capogiro e i compensi riservati ai loro dirigenti hanno raggiunto cifre astronomiche. In un certo senso, addirittura, l’intervento governativo nell’ambito della finanza a stelle e strisce ha in qualche modo ingigantito il problema.
La sparizione di Lehman Brothers, ma anche di Merrill Lynch (assorbita da Bank of America), Bear Stearns (da JP Morgan), Wachovia (da Wells Fargo), Washington Mutual e altre ancora, ha consegnato infatti un maggiore controllo del mercato alle grandi banche rimaste in piedi grazie a miliardi di dollari del Tesoro e ad amicizie influenti alla Casa Bianca. La teoria del “too big to fail”, troppo grande per essere lasciata fallire, consente loro oltretutto di operare in tutta tranquillità e con la certezza del paracadute pubblico in caso di difficoltà future.
A mettere in guardia circa la situazione che si sta venendo a creare e per i possibili rischi a breve scadenza è stato, tra gli altri, anche il premio Nobel Joseph Stiglitz, stimato economista keynesiano ed ex consigliere del presidente Clinton. “Negli Stati Uniti e in molti altri paesi, le banche troppo grandi per essere lasciate fallire sono diventate addirittura più grandi dopo la crisi. I rischi perciò sono maggiori rispetto alla vigilia della crisi economica nel 2007”.
In molti hanno poi fatto notare quanto poco sia cambiato nell’industria finanziaria malgrado gli effetti negativi causati dalla crisi siano stati i più duri dagli anni Trenta. La massa enorme di debito delle banche in affanno e della quale si è fatto carico il governo americano, inoltre, minaccia di esporre ad un rischio di tracollo lo stesso sistema creditizio del paese, in caso di una nuova bolla speculativa nei prossimi anni.
La misura dei possibili effetti del richiamo di Obama, sempre nel suo discorso alla Federal Hall di New York, è facilmente riscontrabile in almeno un paio di resoconti pubblicati dai media americani begli ultimi giorni. Un analista londinese di JP Morgan Chase, nel corso di un’intervista al New York Times, ha dichiarato di “non conoscere una sola persona a Wall Street che si rechi al lavoro ogni mattina con in mente qualcosa di diverso dal modo in cui aumentare il proprio bonus personale a fine anno”.
La testata on-line Politico.com ha invece dedicato un pezzo al nuovo CEO del gigante delle assicurazioni AIG, che ha ricevuto oltre 180 miliardi di dollari dal governo americano. Robert Benmosche, la cui gratifica per il 2009 toccherà i 9 milioni di dollari, avrebbe infatti acquistato una villa principesca sulla costa della Croazia, con “dodici bagni, tappeti italiani e arazzi francesi del 18esimo secolo”.
Ai cauti rimproveri rivolti ai geni della finanza di Wall Street, Obama ha alternato però anche un’appassionata rassicurazione riguardo alla sua fiducia nel mercato. “Ho sempre creduto fortemente nel potere del libero mercato”, ha affermato il presidente. “La creazione dei posti di lavoro non deve essere affidata al governo, bensì al mondo degli affari e a quegli imprenditori disposti ad assumersi i rischi per mettere in pratica una buona idea”. Tutto l’opposto insomma dell’operato di una classe parassitaria che ha reso necessario l’intervento pubblico per evitare una catastrofe ancora maggiore di quella dell’ultimo anno.
Obama ha inoltre descritto il suo piano di riforma del sistema finanziario come il “più ambizioso progetto dai tempi della Grande Depressione”. Un’affermazione lontana anni luce dalla realtà dei fatti, dal momento che la legge approvata dalla Camera dei Rappresentanti e in attesa del voto del Senato contiene ben poco delle riforme strutturali messe in atto da Franklin D. Roosevelt negli anni Trenta.
Nessuna traccia vi è infatti della legislazione sul sistema bancario, smantellata a poco a poco negli ultimi tre decenni di rivoluzione liberista. Nulla che ricordi, ad esempio, le disposizioni del Glass-Steagall Act del 1933, l’atto legislativo soppresso nel 1993 - con il Gramm-Leach-Bliley Act - e che proibiva, tra l’altro, ad un unico soggetto di agire contemporaneamente da banca commerciale, banca di investimento e compagnia di assicurazioni.
Uno dei punti centrali e più controversi della riforma riguarda la creazione di una nuova agenzia che dovrebbe garantire maggiore protezione gli investitori (Consumer Financial Protection Agency). Il nuovo ente, ben lungi dal disporre degli strumenti necessari per ottenere lo scopo previsto, si limiterebbe piuttosto a un controllo teorico del credito al consumo e avrebbe, in definitiva, lo stesso potere attualmente suddiviso tra svariate agenzie di regolamentazione. Come se non bastasse, anche in questa versione molto annacquata, l’agenzia in questione è fortemente ostacolata dalle banche d’investimento e dai loro lobbisti.
Lo stesso dicasi inoltre per la regolamentazione, a dir poco indulgente, del mercato dei derivati, per la proposta di assegnare alla Federal Reserve la facoltà di controllo dei mercati finanziari e per le nuove norme sul salvataggio delle istituzioni in difficoltà, estesa anche a soggetti diversi dalle banche. Il tutto, rigorosamente, senza alcun reale limite o restrizione alle rischiose attività finora intraprese dai maghi della finanza e che hanno determinato una crisi economica devastante.
Come sta accadendo per la riforma della sanità e per molti altri provvedimenti usciti dal Congresso, in definitiva, il prodotto della legislazione per stabilire nuove regole al sistema finanziario americano sarà inevitabilmente modellato dall’attività delle lobby dei giganti di Wall Street. A conferma di ciò, basti citare i numeri raccolti dagli organismi non governativi che monitorano gli esborsi delle grandi aziende a beneficio dei politici di Washington e le loro attività.
Oltre ad aver fornito un supporto economico fondamentale per l’elezione di molti politici di entrambi gli schieramenti, l’industria finanziaria, assieme alle compagnie di assicurazioni e al settore immobiliare, ha già speso oltre 50 milioni di dollari in contributi elettorali nel solo anno in corso e si avvale dei servizi di una schiera di ben 2.300 lobbisti per curare i propri interessi al Congresso. In questa prospettiva, le ambizioni di riforma di Obama risultano irrimediabilmente compromesse ancor prima dell’approvazione di un testo definitivo.
Il feticismo del prodotto interno
di Joseph E. Stiglitz - La Repubblica - 12 Settembre 2009
Gli sforzi miranti a riportare in vita l' economia mondiale e al contempo rispondere adeguatamente alla crisi globale del clima hanno fatto sorgere una domanda spinosa: le statistiche ci stanno dando «segnali» corretti e affidabili in relazione a quello che stiamo facendo? Nel nostro mondo concentrato sulla performance, gli interrogativi relativi all' affidabilità delle misurazioni hanno assunto un' importanza sempre maggiore: ciò che misuriamo influisce su ciò che facciamo.
Se disponiamo di rilevamenti inadeguati, ciò che ci sforziamo in tutti i modi di conseguire (per esempio aumentare il Pil) può in realtà contribuire a peggiorare gli standard di vita. Potremmo anche trovarci di fronte a scelte falsate, vedendo compromessi tra produttività e protezione ambientale che di fatto non esistono. Al contrario, migliori misurazioni delle performance economiche potrebbero mettere in luce che le iniziative prese per migliorare l' ambiente risultano vantaggiose anche per l' economia.
Diciotto mesi fa il presidente francese Nicolas Sarkozy ha istituito la Commissione Internazionale sulla Misura della performance economica e del progresso sociale, essendo insoddisfatto - al pari di molti altri - dell' attuale stato delle informazioni statistiche riguardanti l' economia e la società. Il 14 settembre tale Commissione renderà noto il suo tanto atteso rapporto.
La domanda più importante alla quale occorre dare una risposta è se il Pil costituisca o meno un valido indicatore degli standard di vita. In molti casi le statistiche sul Pil paiono suggerire che l' economia sia in condizioni nettamente migliori di quelle percepite dalla maggioranza dei cittadini. Oltretutto, incentrare l' attenzione sul Pil scatena conflitti: ai leader politici si dice di amplificarne l' importanza, ma la cittadinanza esige che analoga attenzione sia garantita anche per migliorare la sicurezza, ridurre l' inquinamento acustico, dell' aria e dell' acqua, e così via - tutti aspetti che potrebbero contribuire ad abbassare la crescita del Pil.
Da tempo, naturalmente, è risaputo che il Pil potrebbe essere un indice di misura inadeguato del benessere e perfino delle attività di mercato, ma i cambiamenti sociali ed economici potrebbero aver accentuato i problemi, proprio quando i progressi nell' ambito dell' economia e delle tecniche statistiche hanno fornito l' occasione di migliorare le nostre rilevazioni. Per esempio, mentre si suppone che il Pil misuri il valore della produttività delle merci e dei servizi, in un settore cruciale - il governo - di norma non abbiamo modo di farlo, così spesso ne misuriamo l' output semplicemente in base agli input. Se il governo spende di più - anche se in modo inefficiente - l' output aumenta.
Negli ultimi 60 anni, la percentuale dell' output di governo nel Pil è cresciuta dal 21.4 al 38.6 per cento negli Stati Uniti, dal 27.6 al 52.7 per cento in Francia, dal 34.2 al 47.6 per cento nel Regno Unito e dal 30.4 al 44.0 per cento in Germania. Pertanto quello che era un problema relativamente secondarioè diventato adesso un problema di primaria importanza. Nello stesso modo, ai miglioramenti in fatto di qualità- per esempio automobili migliori invece di un numero maggiore di automobili - si deve buona parte dell' aumento odierno del Pil. Ma valutare i miglioramenti in fatto di qualità è difficile.
L' assistenza sanitaria esemplifica molto bene questo problema: essa è fornita pubblicamente e molte delle migliorie sono avvenute rispetto alla qualità. Il medesimo problema che sorge facendo comparazioni nel tempo vale per le comparazioni fatte tra Paesi diversi. Gli Stati Uniti spendono più di qualsiasi altro Paese per l' assistenza sanitaria (sia pro-capite sia in percentuale rispetto agli utili), ma con risultati decisamente inferiori. Parte della differenza tra il Pil pro-capite negli Stati Uniti e nei Paesi europei potrebbe quindi essere dovuta alle modalità di misurazione adottate.
Altro rilevante cambiamento occorso nella maggior parte delle società è l' aggravio delle disparità: ciò significa che vi sono diseguaglianze in crescita tra i guadagni medi (intermedi) e il guadagno medio (ossia quello della persona «media», i cui redditi si collocanoa metà nella scala di distribuzione dei guadagni). Se un gruppetto di banchieri si arricchisce, il guadagno medio può salire, anche se la maggior parte dei guadagni individuali scende. Pertanto le statistiche del Pil pro-capite possono non riflettere correttamente ciò che la maggior parte dei cittadini sperimenta.
Per valutare beni e servizi noi usiamo il prezzo di mercato, ma adesso perfino coloro che hanno sempre riposto la massima fiducia nei mercati mettono in discussione l' affidabilità dei prezzi di mercato, dichiarandosi contrari a valutazioni mark-to-market. I profitti delle banche di prima della crisi - un terzo di tutti gli utili delle corporation - paiono essere state un miraggio.
Comprendere ciò consente di gettare nuova luce non soltanto sulle nostre misurazioni della performance, ma anche sulle deduzioni che ne traiamo. Prima della crisi, quando la crescita degli Stati Uniti (secondo le misurazioni standard del Pil) pareva molto più consistente di quella dell' Europa, molti europei sostenevano che l' Europa dovesse adottare il capitalismo di stampo statunitense.
Naturalmente, chiunque si fosse presa la briga, avrebbe potuto constatare facilmente il crescente indebitamento delle famiglie americane, e questo dato avrebbe contribuito moltissimo a rettificare la falsa impressione di successo trasmessa dalle statistiche sul Pil. I recenti progressi metodologici ci hanno consentito di valutare meglio che cosa contribuisce al benessere della cittadinanza e di raccogliere le informazioni necessarie a fare tali valutazioni a scadenze regolari.
Questi studi, per esempio, verificano e quantificano ciò che dovrebbe essere del tutto ovvio: la perdita di un posto di lavoro ha un impatto enormemente maggiore di quello che si potrebbe quantificare calcolando la sola perdita di un reddito. In tal senso, questi studi dimostrano altresì l' importanza dell' essere collegati a livello sociale. Un buon indice di misurazione per comprendere come stiamo procedendo deve prendere in considerazione anche la sostenibilità.
Proprio come un' azienda ha bisogno di calcolare il deprezzamento del proprio capitale, così anche i conti della nostra nazione devono riflettere l' esaurimento delle risorse naturali e il degrado del nostro ambiente. Le tabelle statistiche sono concepite per sintetizzare ciò che accade nella nostra complessa società con numeri di facile interpretazione. Dovrebbe essere stato ovvio che era impossibile ridurre ogni cosaa un unico numero, il Pil. Il rapporto della Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress porterà - così auspichiamo - a una migliore comprensione degli usi e degli abusi di tale indicatore statistico.
Il rapporto inoltre fornirà alcune linee guida per creare una più ampia gamma di indicatori che possano rappresentare più accuratamente il benessere e la sostenibilità, dando impulso per migliorare la capacità del Pil e delle statistiche correlate di valutare la performance dell' economia e della società.
Debenedetti: troppa liquidità, prepariamoci ad un'altra bolla
da www.ilsussidiario.net - 18 Settembre 2009
Il default del secolo? «Stiamo pagando lo scotto non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come la crisi è stata gestita». È severo con Barack Obama, Franco Debenedetti: come può il presidente sostenere in modo credibile che non ci saranno più salvataggi da parte dello stato, quando l’amministrazione ha fatto scelte contraddittorie, salvando e non salvando gli istituti a rischio? Non solo: facendo come ha fatto il governo ha dato una grossa mano alla crisi, legittimando prassi di moral hazard. Il buon proposito di evitare nuovi rischi sistemici c’è, ma non basta: tutto sta nel capire come fare e le proposte, per ora, sul piatto non ci sono.
A un anno dal default di Lehman Brothers, ha detto Obama nel suo discorso alla Federal Hall, «non torneremo ai giorni delle azioni sconsiderate e degli eccessi incontrollati alla base della crisi». Ci vogliono le riforme, ha detto, per impedire a una crisi come questa di ripetersi.
Credo che Obama abbia ragione. Non per i motivi che ha detto, però. Il discorso riduce tutto ai rapporti tra Wall Street e Washington. Servirebbe invece adottare una logica più sistemica, e riconoscere che stiamo pagando lo scotto non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come la crisi è stata gestita.
Che cosa intende dire?
C’erano due soluzioni “pulite”. Una era quella del fallimento: gli azionisti perdono i loro soldi, il management viene cacciato, i bilanci vengono puliti. Questa è la soluzione di mercato. L’altra soluzione era quella di governo, che consiste nella nazionalizzazione delle banche: anche lì gli azionisti perdono, il management viene sostituito, si decide se e in che misura rimborsare gli obbligazionisti, e poi, rapidamente, il governo rivende le banche ripulite al mercato. È la soluzione svedese.
Il governo Usa però non ha seguito né l’una né l’altra stada…
Infatti. Mi rendo perfettamente conto che sono soluzioni limite, in qualche misura astratte. Le procedure fallimentari, anche negli Stati Uniti, hanno tempi incompatibili con la necessità di fermare la frana in tempi di giorni se non di ore; e i governi non hanno le risorse umane e le competenze per gestire banche, e quindi devono per forza ricorrere ai medesimi manager. Inoltre la nazionalizzazione presenta il pericolo che ci sia qualcuno che ci pigli gusto, che le banche non vengano più restituite al sistema privato e che quindi si finisca in un sistema di banche pubbliche. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Si é inondato il mercato di liquidità: l’incendio è stato spento, le banche ricominciano a guadagnare, ma la qualità degli attivi dei loro bilanci è in buona parte quella di prima.
Abbiamo visto pesi e misure differenti: Lehman è stata lasciata fallire, mentre il colosso delle assicurazioni Aig, per esempio, è stato salvato.
Obama, quando dice che nessuno dovrà più illudersi che ci siano salvataggi da parte dello stato, come può pretendere di essere creduto? Con l’eccezione di Lehman, l’amministrazione Usa non ha fatto mancare a nessuno il sostegno diretto o indiretto, esplicito o implicito. Ha legittimato l’azzardo morale: e adesso dice che non lo farà più? Eliminare il problema alla radice, impedendo sul nascere che si formino situazioni che presentano rischi sistemici é un buon proposito, ma chi vigilerà e lancerà l’allarme? Avrà la visione per individuarli, e i poteri per smontarli?
Il presidente ha garantito una svolta. «Il lavoro di recupero prosegue - ha detto - le tempeste dei due anni passati stanno iniziando a calmarsi».
Sarebbe masochista non riconoscerlo. Ma sarebbe compiacente non essere avvertiti dei pericoli che hanno prodotto proprio le misure di contrasto della crisi, cioè la massa di danaro con cui si è inondato il mercato. Quanto alle misure per “non tornare alle misure sconsiderate”, per citare la fase di Obama, le proposte che si fanno sono anche giuste, ma o non sono molto efficaci, o sono difficili da applicare. Ad esempio: chi devono essere i nuovi supervisori? Una sola o più autorità?
Joseph Stiglitz ha detto che Wall Street è ancor più fragile, perché le banche sono più grosse di un anno fa e le regole ancora non ci sono. È così?
Ha ragione anche lui: se ci sono banche “too big to fail” nessuno crederà che lo stato non interverrà a salvarle. E poi, quando é che una banca diventa troppo grossa? Lehman non era tra le più grosse, e Aig non era neppure una banca. Cosa vuol dire che non ci deve essere un rischio sistemico? Giustissimo, ma in base a che cosa si valuta se c’è un rischio sistemico oppure no? Ci vuole una strategia per gestire le emergenze, dice il governo. Benissimo. Quale? Anche perché le emergenze hanno la pessima abitudine di non presentarsi due volte nello stesso modo.
Esiste un provvedimento per ridurre i rischi sul quale c’è un consenso unanime: quello di aumentare i requisiti patrimoniali delle banche.
Ottimo, ma intanto diamo alle banche dei messaggi contraddittori: da un lato diciamo loro di aumentare gli impieghi, di prestare più soldi, dall’altro di ridurre la leva. Diciamo che devono rafforzarsi e le rimproveriamo se ricominciano a guadagnare. Il Fmi ha calcolato che per arrivare ai rapporti di patrimonializzazione di metà anni ’90 ci vorrebbero a livello mondiale 1700 miliardi di dollari. Alla fine l’unica cosa sulla quale ci si trova facilmente d’accordo è di mettere un tetto agli stipendi dei banchieri.
Lasciamo tutto così com’è, compresi i superbonus?
Alcuni bonus erano e sono scandalosi, l’indignazione è giustificata. Riportarli alla decenza è legittimo, anche se non lo sono tutti i mezzi proposti. L’importante è non pensare che siano stati i bonus la causa della crisi, e che quindi ridurli serva a evitare crisi future. Un discorso analogo vale per gli impieghi: vogliamo che Passera guadagni di meno o che vengano dati prestiti alle aziende che lo meritano e che possono restituirli?
A un anno dal crack secondo lei prevalgono i fattori di sofferenza - i fallimenti che continuano per le banche regionali più piccole, o i titoli tossici ancora in possesso della Fed per esempio - o i segnali positivi?
Sicuramente ci sono segnali positivi. Ma i problemi non sono stati risolti. E il pericolo che con l’inondazione di capitale immesso nel sistema si crei un’altra bolla è reale.
Come hanno fatto gli economisti a sbagliare così?
di Paul Krugman - New York Times - 2 Settembre 2009
Traduzione a cura di Jjules per www.comedonschisciotte.org
I. SCAMBIARE LA BELLEZZA PER LA VERITA’
E’ difficile ora crederlo, ma non molto tempo fa gli economisti si congratulavano tra loro per il successo ottenuto dal loro settore. Quei successi – almeno così credevano – erano sia teorici che pratici e hanno portato ad un’epoca dorata per il mestiere. Sull’aspetto teorico, essi pensavano di aver risolto le proprie dispute interne e perciò, in un saggio del 2008 dal titolo “The State of Macro” (vale a dire la macroeconomia, lo studio delle grandi tematiche come le recessioni), Olivier Blanchard del M.I.T, ora responsabile economico presso il Fondo Monetario Internazionale, affermava che “la condizione della macroeconomia è buona”. Le battaglie di ieri, scriveva, sono finite, e vi è stata “un’ampia convergenza di visioni”. Nel mondo reale, gli economisti hanno creduto di avere le cose sotto controllo: “il problema centrale della depressione-prevenzione è stato risolto” dichiarava Robert Lucas dell’Università di Chicago nel suo discorso di insediamento nel 2003 come presidente dell’American Economic Association. L’anno scorso, tutto si è spezzato.
Pochi economisti hanno visto arrivare la crisi attuale, ma questo insuccesso nelle previsioni è stato il problema minore del settore. Ben più importante è stata la cecità del mestiere di fronte alla possibilità stessa di disastri catastrofici in un’economia di mercato. Nel corso degli anni d’oro, gli economisti finanziari giunsero a credere che i mercati fossero intrinsecamente stabili – che le azioni e gli altri beni avessero sempre il prezzo giusto. Non c’era nulla nel modello prevalente che indicasse l’eventualità del genere di crollo che è avvenuto lo scorso anno. Nel frattempo, i macroeconomisti si sono divisi sulle proprie opinioni. Ma la divisione principale è stata tra coloro che insistevano sul fatto che le economie di libero mercato non sarebbero mai andate fuori rotta e coloro che credevano che le economie potessero smarrirsi ogni tanto ma che ogni grossa deviazione dal cammino della prosperità potesse e sarebbe stata corretta dall’onnipotente Fed. Nessuna delle due fazioni era preparata a far fronte ad un’economia che è deragliata dai binari nonostanti tutti i migliori sforzi della Fed.
Negli strascichi della crisi, le linee difettose del mestiere di economista hanno sbadigliato più rumorosamente che mai. Lucas afferma che i piani di incentivi dell’amministrazione Obama rappresentano un’“economia da due soldi” e il suo collega di Chicago John Cochrane dice che sono basati su “favolette” screditate. In risposta, Brad DeLong dell’Università della California a Berkeley parla di “tracollo intellettuale” della Scuola di Chicago e io stesso ho scritto che i commenti degli economisti di Chicago sono il prodotto di “un periodo buio” della macroeconomia nel quale il sapere ottenuto così duramente è stata dimenticato.
Che cos’è successo al mestiere di economista? E qual è il suo futuro?
Per come la vedo io, la professione economica è andata fuori rotta perché gli economisti, intesi come gruppo, hanno scambiato la bellezza, rivestita di matematica di grande effetto, per la verità. Fino alla Grande Depressione, la maggior parte degli economisti era aggrappata ad una visione del capitalismo come un sistema perfetto o quasi. Quella visione non era sostenibile di fronte ad una disoccupazione di massa, ma i ricordi della Depressione si sono sbiaditi e gli economisti si sono innamorati di nuovo della vecchia e idealizzata visione di un’economia nella quale gli individui razionali interagiscono in mercati perfetti, questa volta addobbati di stravaganti equazioni. La rinnovata storia d’amore con i mercati idealizzati era sicuramente in parte una risposta ai venti politici che stavano mutando e in parte una risposta agli incentivi finanziari. Ma mentre gli anni sabbatici alla Hoover Institution e le opportunità di lavoro a Wall Street non sono affatto da disprezzare, la causa principale del fallimento del mestiere è stato il desiderio di un approccio onnicomprensivo ed intellettualmente elegante che ha dato, inoltre, agli economisti una possibilità di sfoggiare le loro abilità matematiche.
Purtroppo, questa visione romantica e ripulita dell’economia ha portato la maggior parte degli economisti ad ignorare tutte le cose che possono andare male. Hanno chiuso un occhio sui limiti della razionalità umana che conduce spesso a cicli di espansioni e recessioni; sui problemi delle istituzioni che perdono il controllo; sulle imperfezioni dei mercati – soprattutto i mercati finanziari – che possono portare il sistema operativo dell’economia a subire dei crolli improvvisi e imprevedibili; e sui pericoli creati quando i regolatori non credono nella regolamentazione.
E’ molto più difficile dire quale sarà il futuro della professione economica. Ma quello che è quasi certo è che gli economisti dovranno imparare a convivere con il disordine. Cioè, dovranno riconoscere l’importanza del comportamento irrazionale e spesso imprevedibile, far fronte alle imperfezioni spesso idiosincratiche dei mercati e accettare il fatto che un’elegante “teoria economica per ogni cosa” sia molto lontana. In termini pratici, questo si tradurrà in consigli operativi più cauti – e con una minor propensione a smantellare le salvaguardie economiche nella fiducia che i mercati risolvano tutti i problemi.
II. DA SMITH A KEYNES E RITORNO
La nascita dell’economia come disciplina viene di solito accreditata a Adam Smith, che pubblicò “La ricchezza delle nazioni” nel 1776. Nel corso dei successivi 160 anni si è sviluppata una grande quantità di teorie economiche, il cui messaggio centrale era: fidatevi del mercato. Sì, gli economisti ammettevano che c’erano dei casi in cui mercati potevano sbagliare, dei quali il più importante era il caso degli “effetti esterni” – costi che le persone impongono ad altri senza pagarne il prezzo, come gli ingorghi del traffico o l’inquinamento. Ma la supposizione di base dell’economia “neoclassica” (dal nome dei teorici di fine diciannovesimo secolo che la elaborarono sulle idee dei loro predecessori “classici”) era quella che dovremmo avere fiducia nel sistema del mercato.
Questa fiducia, tuttavia, è stata mandata in frantumi dalla Grande Depressione. In realtà, persino di fronte al crollo totale alcuni economisti insistevano sul fatto che qualunque cosa accadesse in un’economia di mercato doveva essere giusto: “Le depressioni semplicemente non sono il male” dichiarava Joseph Schumpeter nel 1934 – nel 1934! Esse sono, aggiungeva, “le forme di un qualcosa che deve essere fatto.” Ma molti, e alla fine la maggior parte, degli economisti passarono alle idee di John Maynard Keynes sia per una spiegazione di ciò che era avvenuto che per trovare una soluzione alle depressioni future.
Keynes però, a dispetto di tutto quello che potreste aver sentito, non voleva che il governo gestisse l’economia. Egli descrisse la sua analisi nel suo capolavoro del 1936 “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta”, come “moderatamente conservativa nelle sue implicazioni.” Egli voleva mettere ordine al capitalismo, non sostituirlo. Ma sfidò il concetto che le economie di libero mercato potessero funzionare senza un sorvegliante, esprimendo un particolare disprezzo per i mercati finanziari, che egli vedeva come dominati da speculazioni a breve termine con poca attenzione per i fondamentali. E chiedeva un intervento attivo del governo – stampando altra moneta e, se necessario, spendendo fortemente in opere pubbliche – per combattere la disoccupazione durante le crisi.
E’ importante capire che Keynes fece molto di più che uscirsene con delle audaci affermazioni. La “Teoria generale” è un’opera di profonda e intensa analisi – analisi che convinse i migliori e giovani economisti del periodo. Tuttavia, la storia dell’economia dell’ultimo mezzo secolo è, in buona parte, la storia della ritirata dal keynesianesimo e un ritorno al neoclassicismo. Il risorgimento neoclassico fu inizialmente capeggiato da Milton Friedman dell’Università di Chicago, che nel 1953 sosteneva che l’economia neoclassica funzionava così bene come descrizione del modo in cui funzionava realmente l’economia da essere “sia estremamente utile che meritevole di maggiore fiducia.” E per quanto riguarda le depressioni?
Il contrattacco di Friedman contro Keynes iniziò con la dottrina conosciuta come monetarismo. I monetaristi, di principio, non erano in disaccordo con l’idea che un’economia di mercato avesse bisogno di una stabilizzazione ben ponderata. “Siamo tutti keynesiani ora”, disse una volta Friedman, anche se in seguito sostenne che si trattava di una citazione fuori contesto. I monetaristi, tuttavia, sostenevano che una forma di intervento del governo molto limitata e circoscritta – vale a dire, incaricare le banche centrali di mantenere costante la crescita dell’offerta monetaria nazionale, dell’ammontare del denaro contante in circolazione e dei depositi bancari – è tutto quello che serve per impedire le depressioni. In modo splendido, Friedman e la sua collaboratrice, Anna Schwartz, sostenevano che se la Federal Reserve avesse fatto il proprio dovere, la Grande Depressione non sarebbe avvenuta. In seguito, Friedman fornì degli elementi contro qualunque sforzo del governo che portasse la disoccupazione sotto al suo livello “naturale” (che si crede sia intorno al 4,8 per cento negli Stati Uniti). Le politiche eccessivamente espansionistiche, egli prevedeva, condurrebbero ad una combinazione di inflazione e di elevata disoccupazione – una previsione che era nata dalla stagflazione degli anni Settanta, che fece aumentare molto la credibilità del movimento anti-keynesiano.
Alla fine, tuttavia, la controrivoluzione anti-keynesiana andò ben oltre la posizione di Friedman, che appariva relativamente moderata in confronto a quello dicevano i suoi successori. Tra gli economisti finanziari, la visione denigratoria di Keynes dei mercati finanziari come dei “casinò” fu rimpiazzata dalla teoria del “mercato efficiente”, la quale affermava che, con le informazioni a disposizione, i mercati finanziari ottenevano sempre il prezzo corretto dei beni. Nel frattempo, molti macroeconomisti rigettarono completamente lo schema di Keynes per comprendere le crisi economiche. Per la Grande Depressione, alcuni ritornarono all’idea di Schumpeter e di altri apologeti, vedendo le recessioni come una cosa positiva, come una parte delle regolazioni dell’economia verso il cambiamento. E anche coloro che non erano disposti a spingersi così in là sostenevano che qualunque tentativo di combattere una crisi economica avrebbe portato più danni che benefici.
Non tutti gli economisti erano disposti a percorrere questa strada: molti divennero dei presunti neo-keynesiani, che continuavano a credere in un ruolo attivo per il governo. Tuttavia, essi accettavano in larga parte l’idea che gli investitori e i consumatori siano razionali e che i mercati, in generale, si comportino sempre bene.
Naturalmente, ci furono delle eccezioni a queste tendenze: alcuni economisti sfidarono la supposizione del comportamento razionale, misero in dubbio la convinzione che ci si possa fidare dei mercati finanziari e sottolinearono la lunga lista di crisi finanziarie che avevano avuto devastanti conseguenze economiche. Ma stavano andando contro corrente, incapaci di progredire contro un autocompiacimento dilagante e, ripensando al passato, ridicolo.
III. FINANZA PANGLOSSIANA
Negli anni Trenta i mercati finanziari, per ovvie ragioni, non godevano di molto rispetto. Keynes li paragonava a “quei concorsi sui giornali in cui i concorrenti dovevano scegliere le sei facce più graziose tra un centinaio di fotografie e il premio in palio sarebbe andato al concorrente che più si era avvicinato alla media delle preferenze di tutti i partecipanti; cosicché ogni concorrente non deve scegliere quei visi che trova più graziosi, ma quelli che pensa che presumibilmente attrarranno la fantasia degli altri partecipanti.”
E Keynes la considerava una pessima idea quella di permettere a simili mercati, nei quali gli speculatori trascorrevano il loro tempo a rincorrersi a vicenda, a dettare importanti decisioni economiche: “Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che vi sia qualche cosa che non va bene.”
Tuttavia, intorno al 1970, lo studio dei mercati finanziari sembrò essere stato assorbito dal dottor Pangloss di Voltaire, il quale insisteva sul fatto che stiamo vivendo nel migliore dei mondi possibili. La discussione sull’irrazionalità degli investitori, delle bolle, della speculazione distruttiva era praticamente sparita dai discorsi accademici. Il settore era dominato dall’”ipotesi del mercato efficiente” divulgata da Eugene Fama dell’Università di Chicago, la quale sostiene che i mercati finanziari fissano il prezzo dei beni in modo preciso considerate tutte le informazioni disponibili pubblicamente (il prezzo dell’azione di una società, ad esempio, riflette sempre in modo accurato il valore della società considerate le informazioni disponibili sui suoi ricavi, le sue prospettive commerciali e così via). E negli anni Ottanta, gli economisti finanziari, in particolare Michael Jensen della Harvard Business School, sostenevano che poiché i mercati finanziari fissavano sempre il prezzo corretto, la cosa migliore che i capitani d’azienda potessero fare, non solo per loro ma il bene dell’economia, era massimizzare il prezzo delle loro azioni. In altre parole, gli economisti finanziari credevano che dovremmo mettere lo sviluppo del capitale della nazione nella mani di quello che Keynes aveva definito un “casinò”.
E’ difficile sostenere che questa trasformazione del mestiere sia stata guidata dagli eventi. E’ vero, i ricordi del 1929 stanno piano piano svanendo ma hanno continuato ad esserci dei mercati al rialzo, con storie diffuse di eccessi speculativi, poi seguiti da mercati al ribasso. Ad esempio, nel 1973-4, le azioni persero il 48 per cento del loro valore. E il crollo borsistico del 1987 in cui il Dow crollò di quasi il 23 per cento in un giorno senza alcun chiaro motivo, avrebbe dovuto sollevare almeno un po’ di dubbi sulla razionalità dei mercati.
Quegli avvenimenti, tuttavia, che Keynes avrebbe considerato come prova dell’inaffidabilità dei mercati, fecero poco per attutire la forza di una bellissima idea. Il modello teorico che gli economisti finanziari svilupparono supponendo che ogni investitore soppesasse in modo razionale il rischio con il premio – il cosiddetto Capital Asset Pricing Model (CAPM) – è meravigliosamente elegante. E se si accettano le sue premesse è anche estremamente utile. Il CAPM non solo vi dice come scegliere il vostro portafoglio ma, cosa addirittura più importante dal punto di vista dell’industria finanziaria, vi dice come stabilire un prezzo per i derivati finanziari, titoli su titoli. L’eleganza e l’apparente utilità della nuova teoria ha portato una sfilza di premi Nobel per i suoi creatori e molti dei suoi adepti hanno ricevuto anche riconoscimenti meno prestigiosi. Armati di questi nuovi modelli e di formidabili abilità matematiche – gli utilizzi più esoterici del CAPM richiedono computazioni al livello di uno studioso di fisica – tranquilli docenti delle business school potevano e sono diventati cervelloni di Wall Street, portando a casa stipendi di Wall Street.
Per essere onesti, i teorici della finanza non accettavano l’ipotesi del mercato efficiente solamente perché era elegante, comoda e redditizia. Essi produssero anche una grande quantità di prove statistiche, che a prima vista sembravano fortemente a sostegno. Ma queste prove erano di una forma stranamente limitata. Gli economisti finanziari rararamente hanno posto la domanda apparentemente ovvia (anche se la risposta non è così semplice) se i prezzi dei beni avevano un senso considerati i fondamentali del mondo reale, come i ricavi. Invece, hanno chiesto solamente se i prezzi dei beni avevano senso considerati gli altri prezzi dei beni. Larry Summers, ora principale consigliere economico dell’amministrazione Obama, una volta prese in giro i docenti di finanza con una metafora sugli “economisti del ketchup” che “hanno dimostrato che che le bottiglie da mezzo chilo di ketchup da sempre vengono vendute esattamente al doppio delle bottiglie da un quarto” e concludono da questo che il mercato del ketchup è perfettamente efficiente.
Ma nessuna di queste prese in giro né altre critiche garbate provenienti da economisti come Robert Shiller di Yale sortirono molti effetti. I teorici della finanza continuarono a credere che i loro modelli fossero sostanzialmente corretti, così come molti altri che prendevano decisioni nel mondo reale. Tra questi non fu da meno Alan Greenspan, che all’epoca era presidente della Fed e sostenitore da lungo tempo della deregolamentazione finanziaria, la cui opposizione agli appelli per gestire i prestiti subprime o far fronte alla crescente bolla immobiliare facevano affidamento in buona parte sulla convinzione che l'economia finanzaria moderna avesse tutto sotto controllo. Ci fu un momento significativo nel 2005, durante una conferenza tenuta in onore dell'incarico di Greenspan alla Fed, nella quale un coraggioso partecipante, Raghuram Rajan (stranamente dell’Università di Chicago) presentò un documento nel quale avvisava che il sistema finanziario si stava accollando dei livelli di rischio potenzialmente pericolosi. Venne deriso da quasi tutti i presenti – tra cui, a proposito, Larry Summers, che rigettò i suoi avvertimenti definendoli “fuorviati”.
Nell’ottobre dello scorso anno, tuttavia, Greenspan stava ammettendo che era in uno stato di “scioccante incredulità” perché “l’intero edificio intellettuale” era “crollato”. Poiché questo crollo dell’edificio intellettuale era anche un crollo dei mercato del mondo reale, il risultato è stato una grave recessione – la peggiore, sotto molti aspetti, dalla Grande Depressione. Che cosa dovrebbero fare le istituzioni? Purtroppo la macroeconomia, che avrebbe dovuto fornire una chiara linea di condotta su come affrontare un’economia in crisi, stava vivendo il suo stato di subbuglio.
IV. IL PROBLEMA DELLA MACROECONOMIA
“Ci siamo trascinati un pasticcio colossale, abbiamo commesso gravi errori nel controllo di una macchina delicata, della quale non ne comprendiamo il funzionamento. Il risultato è che le nostre possibilità di ricchezza potrebbero andare sprecate per diverso tempo – forse per lungo tempo.” Così scriveva John Maynard Keynes in un saggio intitolato “The Great Slump of 1930”, nel quale egli tentava di spiegare la catastrofe che allora stava sorprendendo il mondo. E le possibilità di ricchezza del mondo andarono veramente sprecate per molto tempo. Ci sarebbe voluta la Seconda Guerra Mondiale per porre una conclusione definitiva alla Grande Depressione.
Perché la diagnosi della Grande Depressione di Keynes come un “pasticcio colossale” all’inizio era così affascinante? E perché l’economia, intorno al 1975, si è divisa in fazioni contrapposte sul valore delle idee di Keynes?
Mi piace spiegare l’essenza dell’economia keynesiana con una storia vera che è utile anche come metafora, una versione in scala ridotta dei disastri che possono colpire economie intere. Considerate il duro lavoro della cooperativa di babysitter Capitol Hill.
Questa cooperativa, i cui problemi furono narrati nel 1977 in un articolo sul “The Journal of Money, Credit and Banking”, era un’associazione di circa 150 giovani coppie che si misero d’accordo nell’aiutarsi a vicenda accudendo i bambini di un’altra coppia quando i genitori volevano trascorrere una serata fuori. Per garantire che ogni coppia avesse la sua giusta quota di babysitting, la cooperativa introdusse una forma di buono: tagliandi fatti di grossi pezzi di carta, ciascuno dei quali conferiva il diritto al portatore di una mezz’ora di tempo di accudimento. All’inizio, quando si entrava nella cooperativa i membri riceveveno 20 tagliandi che si dovevano restituire quando si abbandonava il gruppo.
Purtroppo, si scoprì che i membri della cooperativa, in media, volevano tenere di scorta più di 20 tagliandi, forse nel caso volessero uscire più volte consecutive. Come risultato, poche persone voleva spendere il loro buono e uscire, mentre in molti volevano accudire i bambini così potevano aggiungere altri tagliandi alla loro scorta. Ma dato che le opportunità di babysitting si presentavano solamente quando qualcuno voleva uscire la sera, questo significava che i lavori da babysitter erano difficile da trovare, il che rendeva i membri della cooperativa ancor più riluttanti ad uscire, rendendo ancor più scarsi i lavori da babysitter...
In breve, la cooperativa cadde in una recessione.
Bene, che ne pensate di questa storia? Non ritenetela sciocca e banale: gli economisti hanno utilizzato esempi su piccola scala per far luce sulle grandi questioni fin da quando Adam Smith vide le origini del progresso economico in una fabbrica di spilli, e hanno ragione a fare così. La domanda è se questo esempio particolare, nel quale la recessione è un problema di domanda inadeguata – non c’è abbastanza domanda di babysitter per dare lavoro a chiunque ne voglia uno – va alla sostanza di quello che accade in una recessione.
Quarant’anni fa la maggior parte degli economisti avrebbe concordato con questa interpretazione. Ma da allora la macroeconomia si è divisa in due grandi fazioni: gli economisti “d’acqua di mare” (principalmente nelle università americane sulla costa), che hanno una visione più o meno keynesiana di quelle che sono le recessioni; e gli econonomisti “d’acqua dolce” (principalmente nelle scuole dell’entroterra), che considerano assurda quella visione.
Gli economisti d’acqua dolce sono, fondamentalmente, dei puristi neoclassici. Essi credono che tutta l’analisi economica degna di nota inizi dalla premessa che le persone siano razionali e i mercati funzionino, una premessa dissacrata dalla storia della cooperativa di babysitter. Per come la vedevano, una mancanza di sufficiente domanda non è possibile, perché i prezzi si spostano sempre per far corrispondere l’offerta con la domanda. Se la gente vuole più buoni per il babysitting, il valore di quei buoni aumenterà, perché valgono diciamo 40 minuti di babysitter invece che mezz’ora – oppure, in modo equivalente, il costo di un’ora di babysitter scenderebbe da 2 tagliandi a 1,5. E questo risolverebbe il problema: il potere d’acquisto dei tagliandi in circolazione aumenterebbe, così che le persone non sentirebbero la necessità di farne scorta e non ci sarebbe alcuna recessione.
Ma le recessioni non assomigliano a quei periodi in cui non c’è abbastanza domanda per dare lavoro a chiunque voglia lavorare? Le apparenza possono ingannare, dicono i teorici d’acqua dolce. L’economia sana, nella loro visione, dice che i fallimenti complessivi della domanda non possono avvenire – e questo significa che non avvengono. L’economia keynesiana si è “dimostrata falsa”, dice Cochrane dell’Università di Chicago.
Tuttavia, le recessioni avvengono. Perché? Negli anni Settanta il macroeconomista d’acqua dolce di punta, il premio Nobel Robert Lucas, sosteneva che le recessioni erano causate da una confusione temporanea: i lavoratori e le aziende avevano problemi a distinguere tra i cambiamenti complessivi nel livello dei prezzi a causa dell’inflazione o della deflazione dai cambiamenti della loro particolare situazione di attività. E Lucas ammoniva che ogni tentativo di combattere il ciclo economico sarebbe stato controproducente: le politiche attiviste, egli sosteneva, si aggiungerebbero solamente alla confusione.
Negli anni Ottanta, questa accettazione fortemente limitata dell’idea che le recessioni siano una cosa negativa era stata addirittura rigettata da molti economisti d’acqua dolce. Invece, i nuovi leader del movimento, in special modo Edward Prescott, che era allora all’Università del Minnesota (potete capire da dove proviene l’appellativo “di acqua dolce”) sosteneva che le fluttuazioni dei prezzi e le mutazioni della domanda non avevano in realtà nulla a che fare con il ciclo economico. Piuttosto, il ciclo economico riflette le fluttuazioni nel livello del progresso tecnologico, che sono amplificate dalla risposta razionale dei lavoratori, che volontariamente lavorano di più quando l’ambiente è favorevole e di meno quando è sfavorevole. La disoccupazione è una decisione volontaria dei lavoratori per prendersi un po’ di tempo libero.
Detta in modo così audace, questa teoria sembra folle – la Grande Depressione in realtà era la Granda Vacanza? E, ad essere onesti, penso che sia davvero sciocca. La premessa di base della teoria del “vero ciclo economico” di Prescott è stata integrata in modelli matematici costruiti in modo ingegnoso e che sono stati mappati su dati reali utilizzando sofisticate tecniche statistiche, e la teoria arrivò a dominare l’insegnamento della macroeconomia in molti dipartimenti universitari. Nel 2004, rispecchiando l’influenza della teoria, Prescott condivise un Nobel con il finlandese Kydland della Carnegie Mellon Univerisity.
Nel frattempo, gli economisti d’acqua di mare titubavano. Se gli economisti d’acqua dolce erano dei puristi, gli economisti d’acqua di mare erano dei pragmatici. Mentre economisti come N. Gregory Mankiw ad Harvard, Olivier Blanchard al M.I.T. e David Romer all’Università della California a Berkeley, ammettevano che era difficile riconciliare una visione keynesiana delle recessioni dal lato della domanda con la teoria neoclassica, essi trovarono che il concetto che le recessioni siano, in effetti, guidate dalla domanda sia troppo affascinante da rigettare. Quindi furono disponibili a spostarsi dalla supposizione dei mercati perfetti o dalla razionalità perfetta, o da entrambi, aggiungendo sufficienti imperfezioni per adattare una visione delle recessioni più o meno keynesiana. E nella visione d’acqua di mare, una politica attiva per combattere le recessioni rimaneva auspicabile.
Ma i presunti economisti neo-keynesiani non erano immuni ai richiami degli individui razionali e dei mercati perfetti. Essi tentarono di mantenere il più limitate possibile le loro deviazioni dall’ortodossia neoclassica. Ciò significava che non c’era spazio nei modelli prevalenti per cose come bolle e crolli del sistema bancario. Il fatto che tali cose continuino ad avvenire nel mondo reale – ci fu una terribile crisi finanziaria e macroeconomica nella maggior parte dell’Asia nel 1997-8 e una crisi a livello di depressione in Argentina nel 2002 – non si era rispecchiato nel pensiero neo-keynesiano comunemente accettato.
In ogni caso, avreste potuto pensare che le visioni del mondo divergenti degli economisti d’acqua dolce e d’acqua di mare li avrebbe fatti litigare sulla politica economica. E’ piuttosto sorprendente come, tra circa il 1985 e il 2007, le dispute tra economisti d’acqua dolce e d’acqua di mare vertevano principalmente sulla teoria e non sull’azione. La ragione, credo, è che i neo-keynesiani, a differenza dei keynesiani originali, non pensavano che la politica fiscale – le modifiche nelle spesa del governo o le tasse – fosse necessaria per combattere le recessioni. Essi credevano che la politica monetaria, amministrata dai tecnocrati alla Fed, potesse fornire tutti i rimedi di cui l’economia potesse avere bisogno. Ai festeggiamenti per il novantesimo compleanno di Milton Friedman, Ben Bernanke, un ex docente più o meno neo-keynesiano a Princeton, e già all’epoca membro del consiglio di amministrazione della Fed, face questo commento sulla Grande Depressione: “Avete ragione. L’abbiamo fatto. Siamo molto dispiaciuti. Ma grazie a voi, non accadrà di nuovo.” Il chiaro messaggio è che tutto quello di cui si ha bisogno per evitare le depressioni è una Fed più intelligente.
Finché la politica macroeconomica fu lasciata nelle mani del maestro Greenspan, senza programmi di incentivi di tipo keynesiano, gli economisti d’acqua dolce trovarono ben poco da ridire (essi non credevano che la politica monetaria portasse benefici, ma non credevano neanche che portasse svantaggi).
Ci sarebbe voluta una crisi per rivelare quanto poco terreno comune ci fosse e addirittura quanto panglossiana sia diventata l’economia neo-keynesiana.
V. NESSUNO AVREBBE POTUTO PREVEDERLO
Nelle recenti e commoventi discussioni economiche, la frase più in voga è diventata “nessuno avrebbe potuto prevederlo...” E’ quello che si dice riguardo ai disastri che potevano essere previsti, che avrebbero dovuto essere previsti e che, per la verità, erano stati previsti da alcuni economisti che sono stati derisi per i loro tormenti.
Considerate, ad esempio, l’improvviso aumento e dimunizione dei prezzi dell’immobiliare. Alcuni economisti, in particolare, Robert Shiller, identificarono la bolla e avvisarono sulle conseguenza se questa fosse scoppiata. Tuttavia, le principali istituzioni non riuscirono a vedere l’ovvio. Nel 2004, Alan Greenspan ignorava i discorsi riguardo ad una bolla immobiliare: “una grave distorsione dei prezzi a livello nazionale,” dichiarava, era “altamente improbabile.” Gli aumenti dei prezzi delle abitazioni, diceva Ben Bernanke nel 2005, “in buona parte riflettono dei solidi fondamentali economici.”
Come hanno fatto a non vedere la bolla? Ad essere onesti, i tassi di interesse erano insolitamente bassi, e questo in parte spiega l’aumento dei prezzi. Potrebbe essere che Greenspan e Bernanke volessero anche festeggiare il successo della Fed per aver trascinato fuori l’economia dalla recessione del 2001; ammettere che buona parte di quel successo dipendeva dalla creazione di una mostruosa bolla avrebbe raggelato i festeggiamenti.
Ma stava avvenendo qualcos’altro: una convinzione generale che le bolle non si verifichino. Quello che colpisce, quando si rileggono le assicurazioni di Greenspan, è come queste non fossero basate sulle prove – erano basate sulla supposizione a priori che semplicemente non poteva esserci una bolla nel settore immobiliare. E i teorici della finanza erano ancor più decisi su questo punto. In un’intervista del 2007, Eugene Fama, il padre dell’ipotesi del mercato efficiente, affermava che “la parola ‘bolla’ mi fa impazzire” e continuava a spiegare perché possiamo fidarci del mercato immobiliare. “I mercati immobiliari sono meno liquidi ma la gente è molto prudente quando acquista una casa. In genere quello che vanno a fare è il loro più grande investimento e quindi si guardano in giro con molta attenzione e confrontano i prezzi. L’esame delle offerte è molto dettagliato.”
Sicuramente gli acquirenti immobiliari in genere confrontano con attenzione i prezzi – cioè, confrontano il prezzo del loro potenziale acquisto con i prezzi di altre abitazioni. Ma questo non dice nulla sul fatto se il prezzo complessivo delle case sia giustificato. E’ di nuovo un’economia ketchup: poiché una bottiglia da mezzo chilo di ketchup costa il doppio di una bottiglia da un quarto, i teorici della finanza dichiarano che il prezzo del ketchup deve essere giusto.
In breve, la convinzione nei mercati finanziari efficienti ha messo i paraocchi a molti, se non la maggior parte, economisti sull’emergenza della più grande bolla finanziaria della storia. E la teoria del mercato efficiente ha avuto inoltre un ruolo significativo nel far gonfiare all’inizio quella bolla.
Ora che la bolla non diagnosticata è scoppiata, la vera pericolosità dei beni all’apparenza sicuri è venuta alla luce e il sistema finanziario ha dimostrato la sua fragilità. I proprietari di casa americani hanno visto svanire 13.000 miliardi di dollari di ricchezza. Più di sei milioni di posti di lavoro sono andati persi e il tasso di disoccupazione sembra avviarsi verso il livello più alto dagli anni Quaranta. Dunque, quale linea di condotta ha da offrire l’economia moderna nella difficile situazione di oggi? E dovremmo fidarci?
VI. LA POLEMICA SUGLI INCENTIVI
Tra il 1985 e il 2007 si instaurò una finta pace nel settore della macroeconomia. Non c’era stata alcuna vera convergenza di vedute tra le fazioni dell’acqua di mare e dell’acqua dolce. Ma quelli erano gli anni della Grande Moderazione – un lungo periodo durante il quale l’inflazione veniva attenuata e le recessioni erano relativamente modeste. Gli economisti d’acqua di mare credevano che la Federal Reserve avesse tutto sotto controllo. Gli economisti d’acqua dolce non pensavano che tutte le azioni della Fed portassero dei benefici, ma erano disposti a lasciare le cose così come stavano.
Ma la crisi pose fine alla pace fittizia. Improvvisamente le politiche precise e tecnocratiche che entrambi gli schieramenti erano disposti ad accettare non erano più sufficienti – e la necessità di una risposta politica più ampia portò alla ribalta i vecchi conflitti, più intensi che mai.
Perché quelle politiche precise e tecnocratiche non erano sufficienti? La risposta, in una parola, è zero.
Nel corso di una normale recessione, la Fed risponde acquistando Buoni del Tesoro – debito governativo a breve termine – dalle banche. Questo fa diminuire i tassi di interesse sul debito del governo; gli investitori in cerca di maggiore tassi di rendimento si spostano su altri beni, portando anche alla diminuzione degli altri tassi di interesse, e normalmente questi tassi di interesse più bassi alla fine portano ad un rimbalzo economico. La Fed ha fatto fronte alla recessione che è iniziata nel 1990 portando i tassi di interesse a breve termine dal 9 per cento al 3 per cento. Ha fronteggiato la recessione iniziata nel 2001 portando i tassi dal 6,5 per cento all’1 per cento. E ha provato a far fronte all’attuale recessione abbassando i tassi dal 5,25 per cento a zero.
Ma zero, come si è dimostrato, non è un valore abbastanza basso per porre fine a questa recessione. E la Fed non può spingere i tassi sotto lo zero, poiché già a tassi vicini allo zero gli investitori fanno incetta di denaro contante piuttosto che darlo a prestito. Quindi, prima della fine del 2008, con i tassi di interesse sostanzialmente alla soglia che i macroeconomisti chiamano il “vincolo a zero” mentre la recessione addirittura continuava ad aggravarsi, la politica monetaria tradizionale aveva perso tutta la sua trazione.
E ora? Questa è la seconda volta che l’America deve fronteggiare il vincolo a zero, la precedente occasione fu durante la Grande Depressione. E fu esattamente l’osservazione sul fatto che esiste un vincolo inferiore ai tassi di interesse che ha portato Keynes a sostenere una maggiore spesa da parte del governo: quando la politica monetaria è inefficace e il settore privato non riesce ad essere convinto a spendere di più, il settore pubblico deve prendere il suo posto nel sostenere l’economia. Gli incentivi fiscali sono la risposta keynesiana alla situazione economica di tipo depressionario nella quale ci troviamo oggi.
Tale pensiero keynesiano è alla base delle politiche economiche dell’amministrazione Obama – e gli economisti d’acqua dolce sono furiosi. Per circa 25 anni essi hanno tollerato gli sforzi della Fed per gestire l’economia, ma una vera e propria rinascita keynesiana era qualcosa di completamente diverso. Nel 1980 Lucas, dell’Università di Chicago, scriveva che l’economia keynesiana era così assurda che “nei seminari di ricerca la gente non voleva più prendere sul serio le teorie keynesiane. L’uditorio inizava a bisbigliare e a ridacchiare.” Ammettere che, dopotutto, Keynes aveva ampiamente ragione sarebbe un passo indietro troppo umiliante.
E così Cochrane di Chicago si è indignato all’idea che la spesa del governo potrebbe attenuare l’ultima recessione, dichiarando: “Non fa parte di ciò che ognuno ha insegnato ai laureandi sin dagli anni Sessanta. Quelle [le idee keynesiane] sono favolette che si sono dimostrate false. In periodi di tensione è molto rassicurante ritornare alle fiabe che ascoltavamo da bambini, ma questo non le rende meno illusorie (è un segno di quanto profonda sia la divisione tra acqua dolce e salata il fatto che Cocharane non creda che “ognuno” insegni quelle idee che vengono, in effetti, insegnate in posti come Princeton, l’M.I.T. e Harvard).
Nel frattempo, gli economisti d’acqua di mare, che si erano consolati con la convinzione che la grande divisione nella macroeconomia si stesse riducendo, furono sconvolti nel rendersi conto che gli economisti d’acqua dolce non stavano affatto ascoltando. Gli economisti d’acqua dolce che inveivano contro gli incentivi non sembravano studenti che avevano soppesato le argomentazioni keynesiane e le avevano trovate inadeguate. Piuttosto, sembravano persone che non avevano idea di cosa trattasse l’economia keynesiana, persone che stavano risorgendo dalle fallacie pre-anni Trenta nella convinzione di dire qualcosa di nuovo e profondo.
E non erano soltanto le idee di Keynes che sembrava fossero fossero andate dimenticate. Come ha sottolineato Brad DeLong dell’Univeristà di California a Berkeley nelle sue lamentazioni sul “tracollo intellettuale” della scuola di Chicago, la posizione attuale della scuola è quella di un totale rifiuto delle idee di Milton Friedman. Friedman credeva che dovesse essere utilizzata la politica della Fed per stabilizzare l’economia piuttosto che i cambiamenti di spesa del governo ma non affermò mai che un aumento nella spesa del governo non può, in nessun caso, aumentare la disoccupazione. In effetti, rileggendo il compendio del 1970 delle sue idee, “Uno schema teorico per l’analisi monetaria” colpisce quanto questo sembri keynesiano.
E Friedman sicuramente non aveva mai accettato l’idea che la disoccupazione di massa rappresentasse una riduzione volontaria dell’impegno lavorativo o l’idea che le recessioni siano in realtà un bene per l’economia. Tuttavia, la generazione attuale di economisti d’acqua dolce sta sostenendo entrambe le tesi. Casey Mulligan di Chicago indica che la disoccupazione è così alta perché molti lavoratori scelgono di non cercare un lavoro: “I dipendenti si trovano di fronte a degli incentivi finanziari che li incoraggiano a non lavorare... l’aumento della disoccupazione è spiegato più dalle riduzioni nell’offerta di manodopera (la disponibilità della gente a lavorare) e meno dalla richiesta di manodopera (il numero di persone che i datori di lavoro hanno bisogno di assumere)”. Mulligan, in particolare, ha indicato che i lavoratori decidono di rimanere disoccupati perché questo aumenta le loro possibilità di ricevere un aiuto per il loro mutuo immobiliare. E Cochrane sostiene che l’alto tasso di disoccupazione in realtà è una cosa positiva: “Dovremmo avere una recessione. La gente che trascorre la propria vita a piantar chiodi nel Nevada ha bisogno di qualcos’altro da fare.”
Personalmente, penso che tutto questo sia assurdo. Perché dovrebbe esserci una disoccupazione di massa in tutto il paese per far spostare i falegnami dal Nevada? Qualcuno riesce a sostenere in modo serio che abbiamo perso 6,7 milioni di posti di lavoro perché sempre meno americani vogliono lavorare? Ma era inevitabile che gli economisti d’acqua dolce si trovassero loro stessi intrappolati in questo cul-de-sac: se partite dal presupposto che la gente sia perfettamente razionale e i mercati siano perfettamente efficienti, dovete concludere che la disoccupazione è volontaria e le recessioni sono auspicabili.
Tuttavia, se la crisi ha spinto gli economisti d’acqua dolce all’assurdo, ha anche portato numerosi economisti d’acqua di mare a fare un esame di coscienza. Il loro schema, a differenza della scuola di Chicago, consente la possibilità della disoccupazione involontaria e la considera una cosa negativa. Ma i modelli neo-keynesiani che sono arrivati a dominare l’insegnamento e la ricerca sostengono che la gente sia perfettamente razionale e i mercati finanziari siano perfettamente efficienti. Per far entrare nei loro modelli qualcosa che assomigli alla crisi attuale, i neo-keynesiani sono costretti ad introdure un qualche fattore di correzione che per ragioni non ben specificate deprime temporaneamente la spesa privata (per certi miei lavori ho fatto esattamento questo). E se l’analisi su dove ci troviamo oggi si affida a questo fattore di correzione, quanta fiducia possiamo avere nelle previsioni dei modelli sul nostro futuro?
La situazione della macroeconomia, in due parole, non è buona. Dunque, qual è il futuro della professione?
VII. DIFETTI E FRIZIONI
L’economia, come settore, si è cacciata nei guai perché gli economisti sono stati sedotti dalla visione di un sistema di mercato perfetto, senza frizioni. Se il mestiere deve redimersi, dovrà riconciliarsi ad una visione meno allettante – che un’economia di mercato ha tanti pregi ma è anche piena di difetti e di frizioni La buona notizia è che non dobbiamo ripartire da zero. Anche durante il culmine dell’economia del mercato perfetto, si è lavorato molto sui modi in cui la vera economia ha deviato dall’ideale teorico. Quello che probabilmente accadrà ora – e per la verità sta già avvenendo – è che l’economia dei difetti-e-delle-frizioni si sposterà dalla periferia dell’analisi economica al suo centro.
Esiste già un esempio piuttosto ben sviluppato del genere di economia che ho in mente: la scuola di pensiero conosciuta come finanza comportamentale. Chi pratica questo approccio mette in evidenza due cose. Primo, molti investitori del mondo reale assomigliano poco ai freddi calcolatori della teoria del mercato efficiente: sono tutti soggetti al comportamento del gregge, ai periodi di esuberanza irrazionale e al panico ingiustificato. Secondo, anche coloro che cercano di basare le proprie decisioni sul freddo calcolo spesso si rendono conto che non ci riescono, che i problemi della fiducia, della credibilità e delle garanzie limitate li obbligano ad andare con il gregge.
Sul primo punto: anche durante il culmine dell’ipotesi del mercato efficiente, sembrava ovvio che molti investitori del mondo reale non fossero così razionali come presupponevano i modelli prevalenti. Larry Summers una volta iniziò un articolo sulla finanza affermando: “CI SONO DEGLI IDIOTI. Guardatevi attorno.” Ma di che genere di idioti (il termine preferito nella letteratura accademica in realtà è “trader rumorosi”) stiamo parlando? La finanza comportamentale, facendo ricorso al movimento più ampio conosciuto come economia comportamentale, cerca di rispondere alla domanda mettendo in relazione l’apparente irrazionalità degli investitori alle inclinazioni note nell’intelletto umano, come la tendenza a prestare più attenzione alle piccole perdite rispetto ai piccoli guadagni o la tendenza a trarre conclusioni troppo alla svelta da campioni esigui (ad esempio, dato che i prezzi delle abitazioni sono aumentati nel corso degli ultimi anni, presupporre che continueranno ad aumentare).
Fino alla crisi, i sostenitori del mercato efficiente come Eugene Fama rigettavano le prove prodotte a favore della finanza comportamentale come una collezione di “elementi curiosi” di nessuna reale importanza. Questa è ora una posizione molto più difficile da sostenere visto che lo scoppio di una grande bolla – una bolla correttamente diagnosticata da economisti comportamentali come Robert Shiller di Yale, che l’ha messa in relazione agli ultimi episodi di “esuberanza irrazionale” – ha messo in ginocchio l’economia mondiale.
Sul secondo punto: supponete che esistano, in realtà, gli idioti. Che importanza avrebbe? Non molta, sosteneva Milton Friedman in un importante articolo del 1953: gli investitori scaltri faranno quattrini comprando quando gli idioti venderanno e vendendo quando compreranno e stabilizzeranno i mercati in questo processo. Ma le seconde fila della finanza comportamentale dicono che Friedman si sbagliava, che i mercati finanziari a volte sono molto instabili, e in questo momento quell’idea sembra difficile da rigettare.
Probabilmente l’articolo più importante su questo filone è stata una pubblicazione del 1997 di Andrei Shleifer di Harvard e Robert Vishny di Chicago, una formalizzazione della vecchia linea che “il mercato può rimanere irrazionale più a lungo di quanto voi possiate rimanere solvibili.” Come essi sottolineavano, gli arbitraggisti – le persone che si pensa acquistino ad un prezzo basso e vendano ad un prezzo alto – hanno bisogno del capitale per fare il loro lavoro. E una drastica caduta del prezzo dei beni, anche se non ha alcun senso in termini di fondamentali, tende ad esaurire quel capitale. Come risultato, il denaro investito da mani esperte viene fatto uscire dal mercato, e i prezzi possono entrare in una spirale al ribasso.
La diffusione dell’attuale crisi finanziaria sembrava quasi una dimostrazione pratica dei pericoli dell’instabilità finanziaria. E le idee generali che stanno alla base dei modelli di instabilità finanziaria si sono dimostrate molto attinenti alla politica economica: un’attenzione all’esaurimento del capitale degli istituti finanziari ha aiutato a condurre delle azioni politiche dopo la caduta di Lehman, e sembra (incrociate le dita) che queste azioni abbiano evitato con successo un crollo finanziario ancora più grave.
Nel frattempo, che dire della macroeconomia? Gli ultimi avvenimenti hanno confutato in modo piuttosto netto l’idea che le recessioni siano una risposta ottimale alle fluttuazioni al livello del progresso tecnologico; una visione più o meno keynesiana è l’unica alternativa. Tuttavia, i normali modelli neo-keynesiani non hanno lasciato spazio per una crisi come quella che stiamo avendo, perché quei modelli in genere accettavano la visione del settore finanziario del mercato efficiente.
Ci sono state alcune eccezioni. Una linea di lavoro, iniziata nientemeno che da Ben Bernanke con Mark Gertler della New York University, evidenziava il modo in cui la mancanza di una garanzia sufficiente potesse ostacolare la possibilità delle imprese di raccogliere finanziamenti e di perseguire opportunità di investimenti. Una linea di lavoro correlata, costituita prevalentemente dal mio collega a Princeton Nobuhiro Kiyotaki e John Moore della London School of Economics, sosteneva che i prezzi di beni come il mercato immobiliare possono soffrire di cadute che si autoalimentano e che, a rotazione, deprimono l’intera economia. Ma finora l’impatto della finanza malfunzionante non è stato al centro nemmeno dell’economia keynesiana. Chiaramente, questo deve cambiare.
VIII. RIABBRACCIARE KEYNES
Dunque, ecco quello che penso che debbano fare gli economisti. Innanzitutto, devono affrontare la scomoda realtà che i mercati finanziari sono ben lontani dalla perfezione e che sono soggetti ad illusioni eccezionali e alla follia delle masse. In secondo luogo, devono ammettere – e questo sarà molto duro per la gente che ridacchiava e sparlava di Keynes – che l’economia keynesiana rimane la migliore struttura che abbiamo per comprendere il senso delle recessioni e delle depressioni. In terzo luogo, dovranno fare del loro meglio per integrare le realtà della finanza nella macroeconomia.
Molti economisti troveranno questi cambiamenti piuttosto sconvolgenti. Semmai, passerà molto tempo prima che i nuovi e più realistici approcci alla finanza e alla macroeconomia offrano lo stesso tipo di chiarezza, completezza e vera e propria bellezza che caratterizzano il pieno approccio neoclassico. Per alcuni economisti quella costituirà una ragione per aggrapparsi al neoclassicismo, nonostante il suo totale fallimento nel comprendere il senso della più grande crisi economica delle ultime tre generazioni. Tuttavia, questo sembra essere un buon momento per ricordare le parole di H.L. Mencken: “C’è una soluzione facile per ogni problema umano: elegante, plausibile e sbagliata.”
Quando si parla del problema del tutto umano delle recessioni e delle depressioni, gli economisti hanno bisogno di abbandonare la soluzione elegante, ma sbagliata, di presumere che tutti siano razionali e che il mercato funzioni in modo perfetto. La visione che emerge mentre la professione ripensa le proprie basi potrebbe non essere così chiara. Certamente non sarà elegante ma possiamo sperare che avrà il pregio di essere almeno in parte corretta.Crolla o non crolla?
di Felice Capretta - http://informazionescorretta.blogspot.com - 15 Settembre 2009
Proprio oggi, nell’anniversario della caduta degli dei, mentre ricordiamo la fine di Lehman Brothers, vogliamo proporvi qualche riflessione sul tema caldo degli ultimi tempi: crolla o non crolla?
Non lo troverete sui giornali ne' in televisione, probabilmente troppo occupata con Miss Italia.
(Ehi guarda, una capretta con la corona e lo scettro)
Bene.
Su queste colonne, soprattutto nei commenti, gli affezionati lettori si sono storicamente divisi in due gruppi:
- I “continuatori”, cioè quelli che il rischio sistemico è ormai scongiurato, il LEAP ed i suoi GEAB avevano torto, capretta ha citato e tradotto delle boiate, e Felice e gli affezionati lettori sono tutti un po’ come testimoni di geova che predicevano la fine del mondo nel 1973.
La mostruosa somministrazione di liquidità ha avuto successo e con gli anni sarà riassorbita. Le crisi vanno e vengono, questa è arrivata e forse già nel 2010 andrà via. Altre ne arriveranno.
- I “rinnovatori”: quelli che il rischio sistemico è ancora lì che pende sull’intero pianeta, con gli USA e l’economia mondiale praticamente zombificati a causa della mostruosa somministrazione di liquidità proprio in punto di morte. Restano comunque lì, a un passo dal baratro. La ripresa è stata solo effetto della speculazione sui mercati, sostanzialmente artificiale. Verrà il momento della resa dei conti con un drastico ridimensionamento o con fine del sistema economico nel suo complesso. Tra questi, i più estremisti fortificano il loro borgo e si attrezzano per l’autosufficienza :- )
I fatti fino ad oggi
Dall’anno scorso, fino a giugno di quest'anno circa, tutti gli indicatori econonici puntavano in quella direzione.
A saper percepire i segnali giusti, era da molti anni che gli indicatori puntavano in quella direzione. E a guardare nel lunghissimo periodo, alcuni hanno individuato una possibile tendenza millenaria che puntava in quella direzione.
In quella direzione, comunque, c’era un grande cartello con un grosso calendario, con una grande X rossa sopra una data: la fine dell’estate 2009.
Ora ci siamo. Quasi. Per il momento pero’ sembra che qualcosa si sia inceppato.
1. La fine dell’estate è vicina e per il momento non sembrano esserci segnali evidenti di default degli USA o altri scenari economicamente apocalittici.
2. La borsa quest’estate ha tirato parecchio, alcuni indici hanno registrato +55% da marzo ad agosto.
3. Ciononostante, la disoccupazione in Spagna rasenta il 20% e negli USA sfiora il 10%.
Amiamo parlare dei fatti, come sapete.
Dei tre fatti citati sopra, senza scomodare pil, inflazione, deflazione e altri indicatori economici che forse non sono più molto fedeli, due sembrano dimostrare una certa inversione di tendenza, o quantomento un certo rallentamento della caduta verticale.
Questo ha fatto cantare vittoria ai Continuatori e sta procurando non pochi grattacapi ai Rinnovatori.
Molti Rinnovatori, sottoscritto caprino compreso, iniziano a chiedersi se forse non si sono sbagliati, e se le misure estreme di politica economica in realtà siano servite a qualcosa.
Se non altro, forse sono servite a rimandare in là di qualche anno, o di qualche decennio, o forse per sempre, il botto finale.
(alcuni affezionati lettori Continuatori staranno sicuramente provando piacere fisico nel leggere queste righe)
Perchè non scoppierà
L’altro giorno parlavamo con un amico esperto di economia, finanza e trading. Convinto Rinnovatore, ha iniziato a chiedersi se, forse, questo sistema drogato di debito in realtà forse poteva riuscire a tenere.
Ci esponeva questo possibile scenario, che vale la pena prendere in considerazione
Gli USA ed il mondo occidentale hanno superato il grande shock di liquidità dell’anno scorso creando tonnellate di debito che hanno generato migliaia di tonnellate di valuta. Gli USA in primis dovranno prima o poi ripagare questo debito astronomico, e non è una operazione che possono fare ai prezzi correnti, come ammise Barack Obama a suo tempo.
Come uscirne?
- Fare default è molto rischioso, perchè i paesi creditori, Cina in primis, lo prenderebbero come un atto ostile, oltre a trovarsi con le tasche improvvisamente mezze vuote (si veda “la grande fuga della cina dal dollaro”). Equivale militarmente all’opzione nucleare.
- Ugualmente, iperinflazionare è estremamente rischioso per gli stessi motivi di cui sopra, solo che l’iperinflazione sarebbe un processo più lento del default e non improvviso. Equivale ad una guerra condotta con armi convenzionali.
- La persona in questione suggeriva invece un tasso di inflazione negli USA consistente, ma non iperinflattivo, diciamo un 8-10%, fino anche al 15%-18% annuo, cifre che abbiamo visto anche in Italia negli anni '80. Tutto sommato non si stava male, salvo dover spendere cifre consistenti per i beni importati dall’estero e vedersi bruciare i risparmi ed erodere il potere di acquisto. Ma niente di paragonabile ad una Grande Depressione.
I paesi creditori, Cina in primis, pagherebbero rate annuali piuttosto alte.
Quest'ultima soluzione proposta equivale alla guerriglia.
Quale merce di scambio potrebbe soddisfare almeno in parte i paesi creditori da una tale perdita? Semplice: una nuova valuta di riserva internazionale, in sostituzione del dollaro, in cui le loro valute hanno un peso consistente rispetto al dollaro.
Il FMI ha già aperto la strada con emissioni di bond in SDR, così come i paesi del BRIC hanno espresso la loro volontà di creare una nuova valuta di riserva mondiale che rispecchi il peso delle loro valute a scapito del dollaro.
Ricordiamo che il paese che emette la valuta di riserva mondiale è il paese che domina l’economia mondiale (si veda questo nostro post a partire dal titolo “Il Gioco”).
Dunque il dollaro perderebbe la sua posizione di valuta di riserva internazionale, in favore di una nuova valuta mondiale come gli SDR del FMI, espressa come paniere di valute in cui assumerebbero sempre maggior valore le valute dei paesi creditori degli USA, Cina con il suo Yuan in primis.
Nel lungo periodo, l’economia americana andrà a ridimensionarsi, in favore delle nuove economie del Bric che domineranno la scena mondiale fino alla prossima Grande Crisi, e così via.
Perchè forse non crollerà
L’analisi è un sentiero possibile. Ma non è il solo. Perchè a livello macroeconomico l’analisi è corretta, ma ci sono implicazioni geopolitiche di massima rilevanza.
Gli Stati Uniti hanno giò dimostrato di non voler perdere il loro ruolo come Dominatore del Gioco e di conseguenza non vogliono che il Dollaro perda il suo ruolo come valuta di riserva internazionale.
Inoltre non è ben chiaro, nè è certo, che quel ritmo di inflazione sia sostenibile.
A quei tassi di inflazione, e se il dollaro sarà sostituito da una valuta di riserva internazionale, il petrolio potrebbe costare molti, troppi dollari.
Washington potrebbe avere seri problemi a procurarsi il petrolio su cui ancora si fonda la sua società. Potrebbe a quel punto emettere altro debito e stampare altri dollari, ma a quel punto la strada dell’iperinflazione è segnata, il che ci riporta agli scenari peggiori.
Senza contare che una inflazione alta può essere sostenuta da tassi bassi, ma i tassi americani sono già praticamente a zero.
La Fed seguirà le orme dela banca centrale svedese nel territorio inesplorato dei tassi negativi?
Perchè, nonostante tutto, comunque crollerà
In ogni caso, per quanto le banche centrali siano riuscite a tamponare l’emergenza, le cifre messe in gioco sono talmente enormi che devono necessariamente provocare uno squilibrio.
Così, la mostruosa quantità di liquido immesso nel sistema non è facilmente controllabile nei suoi effetti sull’economia.
E’ come guidare a 200 km/h su una piccola auto turbo, su una strada strettissima ma dritta, con a destra la montagna e a sinistra lo strapiombo sul mare. Le forze in gioco sono così grandi che basta un minimo imprevisto per provocare la carambola.
O, se preferite il cielo e le stelle, è come fare un viaggio sullo Space Shuttle e tornare: le possibilità di rientrare alla base solo feriti sono minime, data l’entità delle forze in gioco.
Riteniamo personalmente che alla guida dell’auto ci sia un branco di pazzi sconsiderati, che non ha a cuore il benessere del paese e della popolazione o delle imprese, ma esclusivamente prende del decisioni sulla base degli scopi che gli vengono dettati dai gruppi di potere via via al comando.
Il tutto, possibilmente senza perdere il posto di lavoro nè trovarsi la rivoluzione sotto casa.
Personalmente non mi sentirei molto sicuro come passeggero.
A nostro avviso, le contromisure messe in atto per “salvare” l’economia hanno avuto l’unico effetto di rimandare un po’ più in là il tracollo del sistema.
Perchè...
- Prima o poi gli “stimoli” finiranno perchè non sono sostenibili.
- Non si spegne un rogo di dollari con altri dollari.
- Non si usano le stesse leve che hanno portato a un passo dall’apocalisse per fare passi indietro.
- Le grandi banche americane sono tecnicamente insolventi ma sono state per ora salvate, mentre le piccole banche e le aziende “reali” continuano a fallire.
- Tra i mille altri motivi, troppo lunghi per un post, ricordiamo soprattutto che sono molte le crisi tutte convergenti che non sono solo economiche, ma anche ambientali, sociali, culturali. E vanno tutte nella stessa direzione.
Possiamo solo formulare delle opinioni personali.
Per ora il sistema ha tenuto ed il crollo verticale, ad un anno di distanza, è stato evitato o più probabilmente rimandato. Sarà un botto improvviso o sarà una lunga discesa, con o senza frenate, non è rilevante. Probabilmente quella passata sarà davvero ricordata come l'ultima estate di prosperità, o la penultima, non cambia molto.
Perchè a nostro avviso sono i fondamentali dell’economia e della società ad averci portati a questo punto, e non possono essere cambiati con una grossa stampata di dollari.
Nei prossimi giorni vedremo cosa ci racconta il LEAP.