Qui di seguito un aggiornamento sulla situazione irachena, in particolare sui difficili tentativi d'alleanza in corso tra i diversi partiti politici in vista delle prossime elezioni politiche di gennaio.
Ma soprattutto è in evidenza un articolo da pelle d'oca scritto da Muntazer al-Zaidi, il giornalista che ha tirato le sue scarpe in faccia a George W. Bush, mancandolo per un soffio.
Purtroppo.
Perchè ho lanciato quella scarpa
di Muntazer al-Zaidi - The Guardian - 17 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Giovanni Piccirillo
“Non sono un eroe. Ho solo agito come un iracheno che ha visto il dolore e il massacro di troppi innocenti”.
Io sono libero. Ma il mio paese è ancora un prigioniero di guerra. Si è parlato molto di cosa ho fatto e di chi sono io, se si sia trattato di un atto eroico e se io sia un eroe, come per rendere quell’atto un simbolo. Ma la mia risposta è semplice: ciò che mi ha spinto a quel gesto è l’ingiustizia che si è abbattuta sul mio popolo, nonché il modo in cui l’occupazione ha umiliato la mia patria schiacciandola sotto il suo stivale.
Durante gli ultimi anni, più di un milione di martiri sono caduti sotto i proiettili dell’occupazione, ed oggi l’Iraq conta più di 5 milioni di orfani, un milione di vedove e centinaia di migliaia di mutilati. Molti milioni sono senza tetto, sia dentro che fuori dall’Iraq.
Noi eravamo una nazione nella quale l’arabo divideva il pane con il turcomanno, il curdo, l’assiro, il sabeano e lo yazid. Gli sciiti pregavano assieme ai sunniti. I musulmani festeggiavano assieme ai cristiani la nascita di Cristo. E ciò nonostante il fatto che condividessimo la fame, essendo sotto sanzioni per più di un decennio.
La nostra pazienza e solidarietà non ci ha fatto dimenticare l’oppressione. L’invasione, tuttavia, ha diviso anche i fratelli e i vicini di casa. Ha trasformato le nostre case in camere da funerale.
Non sono un eroe. Ma ho un punto di vista. Ho una posizione precisa. Mi ha umiliato vedere il mio paese umiliato; e vedere la mia Baghdad bruciare, la mia gente morire. Migliaia di immagini tragiche rimangono nella mia testa, spingendomi sul cammino del conflitto. Lo scandalo di Abu Ghraib. Il massacro di Falluja, Najaf, Haditha, Sadr City, Bassora, Diyala, Mosul, Tal Afar, ed ogni angolo di territorio martoriato. Ho viaggiato attraverso il mio paese in fiamme e ho visto con i miei stessi occhi il dolore delle vittime, ho sentito con le mie stesse orecchie le grida degli orfani e le vedove. Una sensazione di vergogna mi ha perseguitato come una maledizione, perché ero impotente di fronte a tutto ciò.
Non appena ho terminato i miei impegni professionali nel documentare le tragedie quotidiane, mentre sgomberavo le rovine di ciò che rimaneva delle case irachene, mentre lavavo il sangue che macchiava i miei vestiti, serravo i denti e ripromettevo di vendicare le nostre vittime.
L’occasione si è presentata, ed io l’ho sfruttata.
L’ho fatto per lealtà nei confronti di ogni goccia di sangue innocente versato con l’occupazione o a causa di essa, per ogni grido delle madri in lutto, ogni lamento degli orfani, la sofferenza delle donne violate, le lacrime dei bambini.
Io dico a coloro che mi rimproverano per il mio gesto: sapete in quante case distrutte è entrata la scarpa che ho lanciato? Quante volte ha calpestato il sangue delle vittime innocenti? Forse quella stessa scarpa era la risposta più appropriata quando tutti i valori sono stati violati.
Quando ho tirato quella scarpa in faccia al criminale George Bush, volevo esprimere il mio rifiuto nei confronti delle sue menzogne, per la sua occupazione del mio paese, il mio rifiuto per il suo massacro della mia gente. Il mio rifiuto per il suo saccheggio delle ricchezze del mio paese e la distruzione delle sue infrastrutture. E l’espulsione dei suoi figli in una diaspora senza precedenti.
Se ho fatto un torto al giornalismo senza averne intenzione, a causa dell’imbarazzo che ho creato all’interno dell’establishment, mi scuso. Ciò che volevo fare era esprimere con coscienza viva i sentimenti di un cittadino che vede il suo paese profanato quotidianamente. La professionalità, invocata da alcuni sotto gli auspici dell’occupazione, non dovrebbe avere una voce più alta della voce del patriottismo. Ma se il patriottismo ha bisogno di parlare, il professionista dovrebbe allearsi con lui.
Non ho fatto questo gesto affinché il mio nome possa entrare nella storia o per guadagni materiali. Tutto ciò che volevo fare era difendere il mio paese.
Alleanze elettorali ancora in alto mare
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 21 Settembre 2009
La grande coalizione nazionale con dentro tutte le maggiori forze politiche, il fronte ampio per la salvezza dell'Iraq con cui andare alle prossime elezioni parlamentari, si farà o non si farà?
Mentre il Paese celebra l' Aid el Fitr, la festività che conclude il Ramadan, il mese sacro per i musulmani, le notizie – e le dichiarazioni – continuano a rincorrersi, ma non è affatto chiaro cosa succederà.
Due sono gli interrogativi principali: Il premier Nuri al Maliki, e il suo partito – al Da'wa, entreranno nella Iraqi National Alliance (INA), la nuova coalizione sciita (che ora si dice nazionalista), oppure ne resteranno fuori?
E Iyad Allawi, l'ex premier nonché paladino per eccellenza del cosiddetto "progetto nazionale", cosa farà? Il suo invito a creare un "fronte di salvezza nazionale" ampio, che porti fuori l'Iraq dalla difficile condizione in cui si trova attualmente troverà ascolto?
Secondo le informazioni che circolano sulla stampa araba, il filo delle trattative, ovvero quelle fra l'INA e Maliki da un lato e Allawi dall'altro - non si sarebbe mai interrotto.
Alcuni giorni fa, un esponente del movimento di Muqtada al Sadr, da Londra, dove i sadristi hanno appena aperto un nuovo ufficio di rappresentanza, aveva dato quasi per certa [in arabo] l'adesione dell'ex premier, e della sua Iraqi National List (ovvero di quello che ne resta), alla nuova coalizione sciita. Dicendo che l'annuncio ci sarebbe stato, appunto, dopo la fine dell'Aid el Fitr.
Oggi il quotidiano al Sharq al Awsat riferisce che le trattative finora non hanno prodotto risultati concreti, però continuano: Allawi avrebbe posto come condizione per entrare nell'INA quella di essere nominato Primo Ministro in caso di vittoria alle elezioni.
Da Baghdad, Radha Jawad Taqi, un esponente di punta del Consiglio Supremo islamico iracheno (ex SCIRI), la formazione maggioritaria all'interno della nuova coalizione sciita, dice che "non c'è nulla di nuovo riguardo agli incontri fra l'INA e l'Iraqi National List, mentre c'è ancora l'invito a quest'ultima a entrare nell'alleanza".
Taqi spiega che "le trattative si sono temporaneamente interrotte, perché Allawi è partito per Washington, e per la festività dell'Aid el Fitr".
Anche riguardo all'eventuale ingresso di Maliki (e di al Da'wa), le cose stanno come prima: vale a dire, nessuna novità. Le notizie che sentiamo – sottolinea - sono solo dichiarazioni ai media qua e là, "ma a livello pratico non c'è nulla di nuovo".
Hakim: porte ancora aperte per Maliki
Ieri intanto il leader del Consiglio Supremo, Ammar al Hakim, ha detto che per Maliki le porte dell'INA "sono ancora aperte". Il Consiglio Supremo, ha aggiunto Hakim, sta facendo di tutto perché nell'alleanza entrino altre forze e partiti: alcune forze, ha spiegato, con una argomentazione non proprio chiarissima, non faranno parte dell'alleanza, ma saranno alleate all'interno di un fronte nazionale ampio, e fra queste c'è il partito al Da'wa.
La nomina del premier, però – ha concluso - verrà lasciata a dopo le elezioni.
Secondo una "fonte politica irachena indipendente" citata da al Sharq al Awsat, l'Iran starebbe facendo forti pressioni perché Maliki entri nell'INA, e questo per garantire che il prossimo governo iracheno resti in mani sciite, e non vada ai laici.
Dalla coalizione di Allawi arrivano notizie contraddittorie.
Allawi vuole essere il prossimo Primo Ministro
Il portavoce della INL, Radwan al Kilidar, dice che il gruppo continua a discutere con tutte le parti, e non ci sono 'linee rosse' con nessuna parte.
"La nostra lista", spiega al giornale arabo, "continua a discutere con l'INA, con il movimento di Sadr, l' Iraqi Islamic Party, e Fadhila, per formare un'alleanza nazionale che protegga l'unità dell'Iraq, e sia lontana dal sistema delle quote confessionali".
Kilidar - al telefono con il giornale da Londra, dove si trova in visita in occasione dell'Aid el Fitr – definisce i colloqui con l'INA "estremamente seri", e smentisce che il suo gruppo sia in trattative con esponenti della coalizione di Maliki – l'"Alleanza per lo Stato di diritto".
Non esclude invece che alla fine l'INL entri nella nuova coalizione sciita, "specialmente dato che il Consiglio Supremo ha rinunciato al progetto federalista per il sud e al sistema delle quote confessionali". Ma c'è una condizione: devono garantire ad Allawi che sarà lui il prossimo Primo Ministro iracheno.
A detta di Kilidar, la coalizione sciita avrebbe espresso la sua disponibilità a cedere il posto di premier ad Allawi in caso di vittoria alle elezioni previste per gennaio: il Consiglio Supremo, che è la sua componente maggioritaria, non si opporrebbe a rinunciare alla candidatura di Adel Abdel Mahdi, suo esponente di punta, nonché attuale vice presidente iracheno - a patto che a candidare Allawi alla guida del governo sia la coalizione.
Sono dichiarazioni decisamente in contrasto con quanto affermato due giorni fa da Hussam al Azzawi, un deputato della INL, all'agenzia di stampa irachena indipendente Aswat al Iraq.
"Dodici entità [politiche] si sono fuse con l'INL, e i colloqui vanno avanti con altre dieci che presto entreranno", aveva detto il parlamentare, sottolineando che "gli orientamenti della lista e il suo programma sono in armonia con il programma dell' 'Alleanza per lo Stato di diritto', e non è escluso che essa entri a farne parte".
Insomma, chi ci capisce è bravo.
Restituire la presidenza della Repubblica agli arabi
Dentro la coalizione di Maliki sarebbe invece il "Movimento nazionale indipendente", guidato dall'ex presidente del Parlamento, Mahmud al Mashhadani: uno dei membri del suo organo direttivo, Mohammed al Samarrai'e, ha smentito con al Sharq al Awsat che la formazione sia uscita dall'alleanza.
"Le due parti continueranno a dialogare dopo l'Aid", ha detto al giornale, per rimuovere alcune difficoltà nelle trattative che non sono così gravi da essere una ragione per andarsene.
Samarrai'e inoltre ha rivelato che "Mashhadani dopo l'Aid visiterà alcuni Paesi arabi, fra cui Giordania, Egitto, Siria, e Libano".
Con una missione precisa: fare in modo che la presidenza della Repubblica irachena torni agli arabi.
Partito Ba'ath denuncia escalation di arresti nei confronti dei suoi membri
da www.osservatorioiraq.it - 21 Settembre 2009
Il governo iracheno starebbe intensificando una campagna di arresti contro i ba’athisti, ex e non solo, che avrebbe assunto carattere di vera e propria escalation, in alcune zone vicine a Baghdad.
A lanciare l’accusa sono esponenti del partito Ba’ath (fuori legge dal maggio 2003), che sottolineano come gli arresti vadano intensificandosi nel clima di “parossismo” creato dalla crisi con la Siria.
Le forze di sicurezza “da quando è iniziata la crisi politica fra Baghdad e Damasco, alla fine del mese scorso [agosto], hanno lanciato una campagna brutale contro i ba’athisti, sia quelli che sono attualmente nell’organizzazione che quelli che l’hanno lasciata, nelle zone di Mahmudiya, Yusufiya, Radwaniya, Taji, e Abu Ghraib, nei dintorni di Baghdad”, dice [in arabo] ad al Hayat Abu Wisam al Jashaami.
Questa campagna - aggiunge il leader ba’athista, al telefono con il quotidiano arabo - ha preso di mira “tutti coloro che erano membri del partito Ba’ath o attivi nella sua organizzazione prima dell’occupazione Usa dell’aprile 2003 – con enfasi nei confronti di quei membri che avevano visitato la sorella Siria nella fase precedente ed erano tornati in Iraq”.
Jashaami, che appartiene alla fazione del Ba'ath guidata dall’ex vice presidente iracheno Izzat Ibrahim al Duri, sottolinea che andare in Siria “adesso è diventato un crimine, nell’opinione del governo dell’occupazione”: decine di persone, sostiene, sono state arrestate senza aver fatto nulla di male – né commesso reati, né crimini.
L’esponente ba’athista accusa il governo di non essere in grado di proteggere il popolo iracheno, e di risolvere le gravi crisi di Mosul e Kirkuk: e così, dice, il premier Maliki è felice di esportare la sua crisi fuori dal Paese.
Chiuso Camp Bucca
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 19 Settembre 2009
L’hanno chiuso nel cuore della notte, nel caldo del deserto dell’estremo sud dell’Iraq, portando via gli ultimi 180 prigionieri rimasti. Camp Bucca, il più vasto fra le carceri sotto controllo Usa, da due giorni non esiste più: era già in programma, e così è stato.
Situato nei pressi della città di Umm Qasr, non lontano dal confine con il Kuwait, era stato creato subito dopo l’invasione guidata dagli Usa del marzo 2003: all’inizio era solo una serie di tende in pieno deserto, ma presto si era ampliato, e di molto. Le tende erano state sostituite da strutture permanenti circondate da alti muri, filo spinato, e torrette di avvistamento: una vera e propria città carceraria, divisa in diverse sezioni, con il suo impianto di purificazione dell’acqua, e persino fabbriche per fare ghiaccio e mattoni.
Una città decisamente popolata: all’apice della cosiddetta “surge” [la strategia irachena dell’allora presidente Usa George W. Bush, basata sull’aumento delle truppe NdR], messa in atto dal generale David Petraeus, Camp Bucca era arrivato a ospitare 22.000 detenuti. Fra loro, quelli ritenuti “ad alto rischio”, ossia i più pericolosi: membri di al Qaeda, e jihadisti vari, o presunti tali.
Che prima o poi il carcere sarebbe stato chiuso lo si diceva, ma a fine 2008 è arrivato l’”accordo di sicurezza” firmato fra Washington e Baghdad (il cosiddetto SOFA), che fra le varie disposizioni ha anche quella che prevede che gli americani rilascino tutti i detenuti iracheni che hanno in custodia, a meno che non ci sia un ordine di arresto da parte di un magistrato iracheno.
E così, Camp Bucca in particolare ha iniziato a svuotarsi – mentre procedevano i piani per la chiusura.
Intanto, il numero degli iracheni detenuti nelle carceri sotto il controllo degli americani scendeva: attualmente sono circa 8.300 – dai 15.500 del mese di gennaio.
Alla fine è arrivato l’annuncio ufficiale, con tanto di comunicato di quella che ancora (anche se per poco) continua a chiamarsi “Forza multinazionale”: Camp Bucca ha chiuso i battenti.
Restano aperti Camp Cropper, nei pressi dell’aeroporto internazionale di Baghdad, e Camp Taji, a nord della capitale irachena – ed è qui che sono stati trasferiti, a bordo di un C-17 della US Air Force, i detenuti considerati “ad alto rischio” che erano ancora a Camp Bucca.
Camp Taji dovrebbe chiudere agli inizi del prossimo anno, e Camp Cropper – per ultimo – in agosto.
Quanto a Camp Bucca, ora l’ex supercarcere servirà da base militare congiunta: ci staranno cioè sia soldati iracheni che americani.
Finché l’ultimo militare a stelle e strisce non lascerà l’Iraq, a fine 2011: allora diventerà una base navale irachena.