martedì 22 settembre 2009

La corsa all'oro della Cina a 60 anni dalla Rivoluzione di Mao

Tra pochi giorni la Cina festeggerà in pompa magna il 60esimo anniversario della Rivoluzione comunista capeggiata da Mao Zedong.

60 anni in cui il Paese ha attraversato diversi momenti cruciali, passando da una estrema povertà diffusa capillarmente a un incredibile sviluppo economico turbocapitalista, diventando di fatto una potenza economica con cui tutti dovranno fare i conti nel XI secolo.
Anzi, li stanno già facendo.

Infatti proprio ieri la Cina ha reso noto che sta valutando l'ipotesi di comprare oro dal Fondo Monetario Internazionale - oltre 400 tonnellate, un ottavo del totale delle riserve del FMI, a circa 13 miliardi di dollari -, il quale deve assolutamente fare cassa per continuare a iniettare soldi artificiali come palliativo anticrisi.

Ma ovviamente la Cina ha già messo in chiaro che lo comprerà solo "se il prezzo sarà conveniente e il valore di realizzo alto", ha reso noto alla Tv Cnbc un'anonima fonte governativa cinese. Un prezzo che quindi dovrà essere ben al di sotto di quello di mercato, anche per non destabilizzarlo.

La Cina è già il più grosso produttore e compratore di oro al mondo e ha già accumulato riserve per 1054 tonnellate. Solo nel 2003 ne aveva 400 tonnellate.
E se questo ulteriore acquisto verrà portato a termine, è facile prevedere un prossimo crollo del valore del dollaro, che comunque sta già scendendo pesantemente in questi giorni.

Con buona pace degli USA...


La Cina capitalista rilancia Mao
di Yan’ An e Giampaolo Visetti - La Repubblica - 22 Settembre 2009

Viaggio nella Cina che festeggia i 60 anni della Rivoluzione. E che tenta l´impossibile: guardare al futuro santificando il Grande Timoniere

A sessant´anni dalla sua vittoria, il comunismo della Cina aveva due alternative. Uccidere Mao, consegnandolo alla storia. Oppure fingere che sia ancora vivo, proiettandolo nel futuro.

Ha scelto una terza via, impossibile ma audace: sacralizzare, dopo le sue spoglie, anche la sua esistenza, per trasformare il passato di un uomo nel destino di un popolo. Fino ad oggi Pechino si era legata ad un doppio simbolo: il mausoleo di Mao su piazza Tiananmen e le grotte dei rivoluzionari a Yan´an, la città dove è terminata la Lunga Marcia e i comunisti hanno vinto la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-Shek. Luoghi ormai invecchiati, che i cinesi da tempo frequentano con l´entusiasmo di una visita dal dentista.

Il potere, che il primo ottobre celebrerà la propria transecolare immutabilità con un'esibizione di forza che non ha precedenti, ha sentito che serviva altro. Nel Grande Anniversario, pensato per sancire il primato dell´inarginabile superpotenza globale, ha creato molto più di un monumento a se stesso: una Mecca rossa piuttosto, o un Vaticano socialista, il tempio generatore della nazione.

Il nuovo «Museo della rivoluzione», appena inaugurato a Yan´an, un´ora di volo dalla capitale, nello Shanxi, non è meta per turisti. Qui si viene in pellegrinaggio. Organizzati, spinti, magari obbligati: ma pellegrini. La scenografia è colossale. Sullo sfondo di una piazza immensa, lastricata di pietra candida, domina una montagna di marmi. Nessuno sa precisare quanto sia costata: 6, 15, 20 milioni di dollari. Ognuno, in città, formula con orgoglio la somma più esagerata che riesce a immaginare. All´interno si apre una sorta di universo parallelo, l´impressionante ricostruzione del mito fondativo della patria.

Il primo ottobre Pechino celebra i 60 anni della Repubblica popolare: a Yan´an, nell´antico quartier generale di Mao, un nuovo museo ripercorre le gesta dei padri della Patria. E lancia un ammonimento alla moderna potenza economica: crescere va bene, ma non bisogna allontanarsi troppo dalle radici
Si preparano 10 giorni di feste e balli: per esaltare il passato e far paura agli altri paesi
Al centro di tutto c´è il Grande condottiero: nulla invece sui problemi ancora aperti

Le antiche grotte scavate nella terra arancione da cui sgorga il fiume Giallo, il quartier generale dei rivoluzionari tra il 1937 e il 1947, le dimore di Mao Ze Dong, Zhou Enlai e Deng Xiaoping, non sono più che il prologo esausto di una stravolta liturgia. È nel trapiantato cuore del socialismo di mercato, che la Cina espone invece la propria reliquia: la prova fisica dell´origine di una identità, la ragione del dilagato neonazionalismo.
Un giorno a Yan´an, sessant´anni dopo il primo discorso da vincitore del Grande Timoniere, in equilibrio tra le gesta dei maoisti e la loro disneyana trasfigurazione, aiuta a percepire il segreto di questo misterioso Paese.

Dall´alba, migliaia di persone assediano il Museo che riassume la gloria del loro dramma. C´è chi ha impiegato giorni, per arrivare qui dal suo villaggio, chi una settimana di corriera tra risaie e ciminiere. Vecchi e ammalati, o coppie in abiti da sposi, dopo durature attese, si lasciano spingere lungo corridoi infiniti, traboccanti di documenti, fotografie, divise e armi. Solo le immagini di Mao sono a colori. All´ingresso una scritta spiega che «questa è la terra sacra della rivoluzione, la culla della Cina moderna». Di conseguenza, all´interno, la folla si muove in religioso silenzio, bambini compresi.
Pan Fuquan, paralizzato alle gambe, viene portato in braccio dai nipoti di Shenzhen, attraverso sale che ricostruiscono epiche battaglie, città bombardate e riconquistate, campagne collettivizzate.

Ogni volta che arriva davanti ad un reperto di Mao, basta una lettera con la sua calligrafia, divenuta carattere, il vecchio pretende di essere deposto a terra e prega. Anche la moltitudine accanto a lui manifesta la commozione di chi spera in una grazia. Si fa fotografare davanti alle statue degli eroici leader della resistenza, o presso cumuli di zucche e pannocchie finte, emblema della riforma agraria. Lo sfondo più ambito è il cavallo imbalsamato di Mao, bianco e tozzo, però «forte e veloce», come avverte un cartello. Due ragazze, di fianco alla mummia lucida dell´animale, piangono, mentre soldatesse-guide in divisa grigia declamano nei megafoni la mitologia rivoluzionaria.

I pellegrini di questo santuario estremo del solo totalitarismo del Novecento rimasto al potere, conoscono ogni cosa a memoria. Nelle grotte polverose osservano seri l´essenzialità monastica di brande e sdraio da spiaggia, non sempre di un tavolo, il solo arredo dei fondatori della patria. Apprendono la lezione sulla sobrietà originaria del partito, e silenziosamente riflettono sull´esibita opulenza dei funzionari di oggi. Nelle sale scintillanti ammirano estatici il grandioso Luna Park della rivoluzione e della cacciata dei giapponesi, i plastici a grandezza naturale che trasformano ogni dubbio in una certezza contemporanea.

In tre piani, dove si possono trascorrere giornate ad allontanare ombre e a viaggiare di vittoria in successo, di coraggio in sacrifico, non c´è una sedia, o una panca. La massa, negli ultimi saloni riservati alla «costruzione del potere», si trascina esausta, come per espiare qualche inconfessata incertezza, però fiera di contribuire a rimettere in scena la sua «memorabile impresa». Perché non è il contenuto, la sostanza del Grande Museo del Sessantesimo, bensì lo strabiliante contenitore costruito in soli due anni affinché la Cina possa «recuperare e rinnovare lo spirito di Yan´an».

È chiaro che quello «spirito», con le sue indispensabili falsificazioni, è estinto. All´uscita quattro immagini documentano la mutazione perfino corporea, quasi razziale, tra il gonfiore trasandato di Mao Zedong e Deng Xiaoping, e l´asciuttezza ricercata di Jiang Zemin e Hu Hintao: un altro mondo, altri indumenti, oltre che un altro tempo. Del resto anche la città del trionfo comunista, appena oltre il percorso chiuso della memoria costruita in laboratorio, è l´opposto della sua replica. Il petrolio sgorga oggi abbondante sotto i campi di battaglia e sommerge i rifugi rossi con un mare di renmimbi. Grattacieli, cantieri, centri commerciali, traffico di suv e Audi, vecchi quartieri sventrati, negozi e hotel di lusso, demoliscono in un passo l´ostinata deificazione della sorgente che alimenta l´immutabilità apparente del potere. Nel pomeriggio un corteo di berline nere, a sirene spiegate, si blocca davanti alla squallida grotta di Zhu De.

Balzano fuori alcuni giovanotti in affari, che accompagnano i loro bambini griffati «a giocare alla guerra contro gli imperialisti». Nell´ex miglior albergo della città, una vecchia vive invece in ascensore. Per dodici ore al giorno, ricompensata con gli avanzi di cucina, passa uno straccio sudicio su uno specchio ancora più unto. E´ comprensibile che anche i cinesi, pur così devoti alla loro nuova rappresentazione, dopo sessant´anni si aggirino nell´irriconoscibile Yan´an con qualche domanda negli occhi.

Sentono, come dice un alto funzionario a riposo, che «non è il partito comunista ad essere della nazione, ma la nazione ad appartenere al partito comunista». Si chiedono perché, dopo un passato che non conosce sconfitte e in un presente che non riconosce errori, milioni di compagni continuino a soffrire nell´ingiustizia e inesperti della libertà.

Questo «non detto» della storia, la museificazione definitiva del «mai ammesso», finisce per demolire l´impressionante città-specchio di Mao, destinata a rappresentare il passaggio dall´ideologia alla teologia del «socialismo alla cinese». La grande occasione perduta di dire la verità su se stessa, ora che la Cina potrebbe permetterselo dando un´altra lezione di modernità al mondo, è il cuore del fallimento dell´imminente Sessantesimo. L´ombra della cattedrale vuota di Yan´an, ridotta a umiliante luogo di preghiera del potere cinese, si proietta così fino a Pechino.

Da mesi la capitale del prodigio economico è sconvolta dai preparativi della parata militare più imponente della sua storia. Poteva riflettere: prigioniera dell´esaltazione olimpica, incerta sulla nuova leadership che preme per la successione, ha scelto di limitarsi a celebrare. Per trasformare il 1949 in un approdo, l´esibizione di forza dell´esercito tornerà fondamenta pressochè unica dell´azione politica.

In piazza Tiananmen, a titolo di prova, l´altra notte hanno sfilato centinaia di carri armati e missili nucleari. Due milioni di soldati, stivati in prefabbricati, da settimane si allenano a fare il passo dell´oca. Mezzo milione di «volontari», reclutati nelle università, trascorrono il tempo a «provare lo spettacolo». Il cielo sopra Pechino è chiuso ormai «anche a piccioni e aquiloni» per consentire a sconosciuti bombardieri, atomici e invisibili, di sfrecciare ad altezza uomo. La paura di attentati è tale che fino a metà ottobre nel Paese è vietato vendere coltelli.

La Cina dominante, per dieci giorni, canterà, ballerà, farà festa, vivrà nel terrore, ammirerà i fuochi d´artificio, andrà in vacanza, esalterà il marxismo-leninismo e l´iperliberismo, spaventerà il pianeta. Il potere ha distribuito i «50 slogan della nuova armonia», e i «43 inni delle masse e del partito». Il colossal di Stato dal titolo «La fondazione della Repubblica», recitato da star nazionali con passaporti stranieri per poter viaggiare all´estero, occupa 4100 cinema di tutto il Paese e semina dibattiti nazionalisti. In tivù sfilano i «cento eroi e cento modelli» premiati dal partito.

I giornali raccontano nel dettaglio «la perfezione delle Tre Rappresentanze» e le «misure straordinarie» contro la possibilità di «attacchi terroristici in Tibet e nello Xinjiang. E´ difficile comprendere come questa ossessionata Cina politica dello «spirito di Yan´an» e della «parata di Tiananmen», sia la stessa Cina economica del «miracolo di Shanghai» e dell´«esempio di Canton». Sessant´anni dopo, il potere continua a venerare Mao perché ideologicamente non ha prodotto altro. Dal «Museo» alla «Piazza», avverte tale fragilità, la drammatica inadeguatezza di restare prigioniero della forza e degli anniversari, l´appuntamento mancato tra il mercato e la democrazia.

Sulla Città Proibita, il primo ottobre, tramonta un´altra generazione politica. Non solo ha rinunciato a dire «la verità su Mao», ma si è costretta a erigere un tempio per sacralizzare la sua contemporaneità, presentandolo quale necrofilo obbiettivo del futuro. Hu Hintao e Wen Jiabao si congedano tra gli exploit della finanza e il rombo di armi ancora segrete. Il confine tra moderna potenza economica e vecchia dittatura militare rimane esile. Con il duello tra le fazioni di Xi Jinping e Li Keqiang si affaccia al comando della Cina la prima generazione di leader liberisti costretti a dirsi comunisti, nati dopo «la vittoria degli eroi della Lunga Marcia».

Sono cresciuti con la pericolosa "globalcrazia di internet": orfani, protetti ormai solo da musei e parate militari, da una liturgia che li condanna a replicare una storia riscritta "ex post" da chi li ha preceduti e oggi li abbandona. Pochi pensano che tra dieci anni, alla prossimo Anniversario, l´hollywoodiana bugia di Yan´an e l´asiatico silenzio su Tiananmen potranno ancora sostenere una Cina «protago-nista del secolo». E questo, come chiunque sente, non è un trascurabile dettaglio della nostra vita.



Stimoli per il compleanno cinese
di Carl Finamore - Counterpunch - 7 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di
Alberto Taddei

Sessanta anni fa, il 1˚ ottobre del 1949, Mao Zedong, leader della vittoriosa Armata Rossa e presidente della Repubblica Popolare Cinese, si trovava all’entrata della Città Proibita e dichiarava solennemente la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Di fronte a lui stava in celebrazione una moltitudine di 300.000 persone, radunatesi nella gigantesca piazza Tiananmen di Pechino. La grande ed iconica foto di Mao è appesa oggi esattamente alla stessa entrata a muro alto come testimonianza di quel giorno.

Il governo cinese, naturalmente, sta programmando festeggiamenti spettacolari per l’imminente Giornata Nazionale—e a buon vedere, dato che c’è molto da celebrare. Nel 1949 la Cina era un Paese sottosviluppato, fatto a pezzi dall’invasione giapponese del 1937 e da una guerra civile molto dura indotta da divergenti interessi coloniali stranieri esistenti da almeno un secolo.

Oggi la Cina è la terza più grande economia al mondo. È anche appena rimbalzata dalla caduta globale per segnare più del 7% di crescita a questo punto dell’anno. Davvero impressionante, anche se al di sotto del solito valore di espansione a doppia cifra del decennio passato.

Questa ripresa è ancor più notevole se consideriamo il calo del 20% nelle esportazioni, un tempo forza motrice della macchina economica cinese. Qual è, quindi, la spiegazione?

Diversamente dal tentativo dispersivo del Congresso statunitense di salvare le banche dalla bancarotta, che ha sperperato miliardi per compensare i banchieri e gli investitori per le loro perdite, il governo centrale cinese non-capitalista, battendo ogni record, ha stanziato nel tardo 2008 ben 586 miliardi di dollari concentrandoli con precisione chirurgica nella costruzione di infrastrutture e nello stimolo dei consumi.

Se paragonato, è lo stimolo più grande tra tutti i programmi di recupero economico. Costituisce già il 13% del PIL cinese e altri soldi sono stati promessi se saranno necessari.

Per esempio, ulteriori spese sono state giusto annunciate nel maggio 2009. Sono stati messi da parte 290 miliardi di dollari per sovvenzionare gli acquisti di vari elettrodemestici da cucina moderni e altri 733 milioni per gli acquisti di automobili più efficienti.

Il “barattare il nuovo per il vecchio”, come è stato soprannominato il piano, rappresenta una versione più ampia del programma “Cash for Clunkers” (“soldi per rottami”, programma federale di rottamazione, ndt) del preseidente Obama. Sebbene limitato alle automobili, “Cash for Clunkers” è stato annunciato come una delle poche storie di successo del piano di stimolo economico degli Stati Uniti. Fatto stà che, fra critiche di un’eccessiva spesa governativa, “Cash for Clunkers” è stato recentemente terminato, mentre la Cina sta discutendo di estendere anche al 2010 il suo più ampio programmo di scambio, “nuovo per vecchio”.

Nella sua edizione del 7 settembre 2009, il Businees Week ha chiesto una valutazione del piano di stimolo economico americano al guru della finanza John Gutfreund, lo stesso uomo che vent’anni fa incoronarono “Re di Wall Street”. “Gli Stati Uniti hanno ottenuto qualche successo, ma fondamentalmente,” ha osservato Gutfreund in modo franco, “sono riusciti a salvare le grandi banche. Non hanno concesso prestiti al pubblico. Il più grande prestito al settore pubblico è quello dell’auto, che adesso sta per finire”.

Apparentemente, la Cina è più seria per quanto riguarda stimolare la spesa domestica per riportare l’industria in movimento sullo sfondo di un mercato globale in grave depressione.

Per esempio, un’enorme rete ferroviaria che raggiungerà praticamente ogni città e paese è in fase di costruzione. La Cina sta spendendo nelle ferrovie assai più degli Stati Uniti grazie allo sviluppo di questo vasto, ecologico e ultramoderno sistema di trasporti nazionale che comprende linee pesanti per le merci, linee pendolari per i residenti in aree urbane, linee leggere per le brevi distanze e linee veloci per quelle lunghe.

Ciò procede mano nella mano con il monumentale sforzo della Cina di ridurre le emissioni di gas serra. Il presidente Obama, recentemente, lo ha descritto al Congresso come “il più grande tentativo nella storia di rendere la loro economia efficiente dal punto di vista energetico”.

Negli Stati Uniti, questi enormi programmi di investimenti verrebbero derisi in quanto coinvolgerebbero troppo il governo e causerebbero un eccessivo aumento del debito pubblico. Ma in Cina, vengono visti come l’organizzazione di progetti edilizi di fondamentale importanza, che producono servizi preziosi per la società nell’educazione e nella sanità, e rinvigoriscono i depressi consumi interni.

Naturalmente, tutto ciò ha il vantaggio ulteriore di dare occupazione a milioni di persone. Da questo punto di vista, l’approccio cinese è marcatamente diverso da quello statunitense e sembra avere assai più successo.

In un mondo afflitto da bassa produzione industriale, la resa industriale della Cina è cresciuta del 9,1% nel secondo trimestre rispetto ad un anno prima, secondo RTE Business (16 luglio 2009). A giugno, la resa industriale è cresciuta del 10,7%. Il che dimostra uno stato di intensa attività nelle milioni di fabbriche e officine della nazione.

Il progresso ad un prezzo

Lo sviluppo economico del Paese è stato particolarmente accelerato a partire dal luglio del 2001, quando il governo seppe che avrebbe ospitato i Giochi Olimpici del 2008. Ma il ritmo frenetico di crescita economica ha lasciato alcune evidenti lacune, sia sociali che economiche.

Per quanto riguarda l’economia, c’erano già notevoli squilibri nella strategia del governo perfino prima del recente crollo del mercato globale. Per troppo tempo, l’importanza data dalla Cina agli investimenti nell’acciaio, nei macchinari pesanti, nei tessuti, nell’abbigliamento e nei prodotti elettronici destinati all’esportazione ha superato la produzione domestica che avrebbe favoritov i consumatori nella sanità, nell’educazione, nell’edilizia residenziale, nell’ambiente e nei servizi sociali.

Questa sbilenca strategia di investimenti ha determinato due fenomeni interconnessi. Il concentrarsi su un’economia d’esportazione spiega l’enorme surplus nei commerci che nel 2008 ha raggiunto il valore storico di 2 bilioni di dollari. Allo stesso tempo, i bassi investimenti nei beni finalizzati al consumo domestico sono risultati in considerevoli risparmi tra i disagiati lavoratori cinesi.

La Cina, quindi, è un Paese pieno di miliardi di dollari non ancora spesi, e ciò spiega perché investitori tra i migliori al mondo stiano costruendo negozi nelle campagne cinesi.

Queste imprese straniere fanno enormi guadagni impiegando una manodopera istruita e a basso costo rappresentata da un sindacato dei lavoratori alquanto accondiscendente (ACFTU). Questo sindacato da 200 milioni di membri è stato, fino a poco fa, restio a sfidare gli “ospiti” investitori delle multinazionali che sono stati trattati più come partner che come avversari nelle contrattazioni collettive di lavoro.

Oltre a queste distorsioni di natura economica, ci sono annesse disuguaglianze sociali derivanti dalla passata concentrazione sulla produzione finalizzata all’esportazione.

Hanno ragione i critici che sostengono che la rapida modernizzazione del Paese nasconda notevoli ingiustizie di fondo, particolarmente gravi nelle zone rurali dove risiede la metà dei 1,3 miliardi di persone della nazione. Nonostante l’attuale spesa per lo stimolo dell’economia, le campagne rimangono in fermento dal discontento.

Secondo le statistiche del Ministero del Lavoro del 2007, ci sono 100 milioni di contadini disoccuppati e altri 26 milioni di lavoratori emigranti che stanno ritornando dopo essere stati recentemente dislocati dai lavori urbani.

È una crescente preoccupazione per le autorità, specialmente se associata alla palese differenza di reddito tra i lavoratori urbani e quelli rurali. Secondo l’Accademia cinese delle scienze sociali “il rapporto medio reddito urbano: reddito rurale era all’incirca 5 [su 1] nel 2008, in contrasto con il 2000, quando il rapporto era di 2,79 [su 1]”.

Enormi investimenti interni da parte del governo sono un tentativo di risolvere queste contraddizioni, ma questi interventi potrebbero essere ormai troppo poco e troppo tardivi.

Modernizzazione nonostante gli errori

Comunque sia, comprendendo quasi il 20% della popolazione mondiale, la Cina moderna registra alcune incredibili statistiche che impressionerebbero anche l’occidentale più scettico. Per esempio, la nazione ha 670 milioni di utenti di telefoni cellulari, 298 milioni di utenti internet, 50 milioni di blogger e 184 milioni di automobilisti. [ChinaToday.com]

Negli anni, l’esempio cinese ha consistentemente dimostrato gli enormi vantaggi di una pianificazione centralizzata, sebbene, come per i suo corrotti ex-alleati sovietici, il suo progresso sia seriamente ostacolato e distrorto dal ben radicato assetto burocratico e dall’orientamento estremamente antidemocratico del gruppo dirigente.

Enormi inefficienze e sprechi conseguono dalla mancata democratizzazione dell’economia burocraticamente pianificata. Inoltre, ogni volta che il popolo non viene consultato diventa assai meno comprensivo dei sacrifici che gli vengono chiesti quando questi errori interferiscono con la sua vita.

Tuttavia, lo storico balzo della Cina dal dimenticatoio al suo status di potenza economica del 21° secolo e gli impressionanti risultati delle recenti iniziative di stimolo all’economia illustrano in modo chiaro la superiorità di base di un piano di investimenti razionali centralizzato, perfino di uno così intrinsecamente difettoso, su un piano dettato unicamente dalla corsa caotica e insensata al guadagno individuale.

Questa fondamentale differenza spiega perché, negli Stati Uniti, osserviamo ancora che solo i pochi ricchi, piuttosto che il resto della popolazione, sono in fase di recupero.


L'immenso e crescente impatto della Cina sul mercato dell'oro
di Lawrence Williams - http://mineweb.co.za - 11 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Alcenero

Sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che la forza economica della Cina possa portarla a dominare i movimenti del prezzo dell'oro nel prossimo futuro.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che la Cina oggi abbia i muscoli finanziari sufficienti a controllare efficacemente il prezzo mondiale dell'oro. Il semplice sospetto, in un articolo, che essa stia immettendo oro nelle sue riserve ufficiali per bilanciare il declino del dollaro è sufficiente, come minimo, a stabilizzare il prezzo dell'oro – e ci sono pochi dubbi che stia davvero facendo così, ma, per il momento, in un modo che non è pensato per destabilizzare il dollaro, o, d'altra parte, per non contribuire a un grosso salto nella valutazione dell'oro, non ancora almeno.

Ma ci sono anche pochi dubbi che, se volesse destabilizzare il dollaro, la Cina potrebbe annunciare grossi acquisti di oro per rimpiazzare una buona parte dei suoi trilioni di dollari. E' un'arma economica che forse è più potente di un'arma nucleare, se la Cina volesse buttare l'America, e l'occidente, economicamente in ginocchio tramite una guerra valutaria. Ma ancora una volta questa non viene vista come un'opzione – o almeno sino a quando il suo mercato nazionale non sarà abbastanza grande da assorbire tutti i prodotti che la Cina può oggi ancora vendere all'occidente.

Perciò la Cina è ancora estremamente dipendente dalle esportazioni, dunque la rivalutazione del renminbi [la moneta nazionale, anche detta “yuan”. N.d.t.] non viene vista come un aiuto e il declino del dollaro è preoccupante. Per questo il paese deve muoversi con cautela per mantenere un qualche tipo di equilibrio economico.

Ma, fatto notevole, la Cina sta già esercitando un predominio economico. Ha affermato che le sue organizzazioni finanziarie, principalmente di proprietà statale, avranno il diritto di dichiararsi insolventi per quel che riguarda alcuni dei commerci più dubbi di beni, e relativi derivati finanziari, in cui siano entrate. Questo fatto ha sollevato solo una muta risposta da quelle istituzioni finanziarie che potrebbero risultarne colpite, perchè è il muscolo finanziario cinese che sta iniziando a dare ordini nei circoli finanziari mondiali, non più i potenti USA. Ma ciò potrebbe portare a maggiore sofferenza nei circoli finanziari occidentali e nel già stressato sistema bancario.

Le sue imprese statali sono in una folle fase di massiccio acquisto dei beni occidentali, sia come investimento che, come nel caso del settore minerario, per assicurarsi future risorse strategiche. In uno sforzo, forse consapevole, di placare in molti paesi i sospetti sulle motivazioni cinesi, molti di questi acquisti avvengono tramite partecipazioni minori in aziende occidentali, legate a contratti di fornitura a lungo termine.

Ma torniamo all'oro. Abbiamo riferito qui che un alto funzionario cinese ha praticamente ammesso che la Cina stava comprando oro, ma in un modo che era designato per mantenere quanto meno un ragionevole grado di stabilità nei mercati e non scuotere la nave dell'oro. Se ciò è vero, e ci sono pochi motivi per pensare che non lo sia, allora significherà di fatto che un serio rischio di perdita nell'acquisto dell'oro è basso o inesistente. Ma la Cina può anche controllarne la crescita, dal momento che potrebbe non voler far precipitatare un grosso collasso del dollaro, che sarebbe il probabile esito di una grossa crescita del prezzo dell'oro.

Abbiamo anche riferito, in un articolo che si è molto diffuso su internet ed è stato ripreso da molti altri commentatori (China pushes silver and gold investment to the masses), che le organizzazioni statali cinesi, stanno facendo pubblicità, come si trattasse di sapone in polvere, presso la popolazione (che è già nella mentalità di acquisto dell'oro) all'idea di comprare oro e argento.

Come risultato, quest'anno o il prossimo, la Cina probabilmente supererà l'India come maggiore acquirente di metalli preziosi. La Cina dà anche appoggio all'industria aurifera mineraria nazionale: la Cina è attualmente il più grande produttore mondiale di oro, ed è un paese in cui la produzione continua a salire. Gli acquisti nazionali di oro in Cina sono cresciuti del 14% annuale nella prima metà di quest'anno, sino a 446.6 tonnellate, e gli analisti industriali si aspettano una crescita a due cifre anche nella seconda metà, pure con l'oro sopra i 1000$ [l'oncia n.d.t.].

Anche ciò fornisce un appoggio massiccio al mantenimento dei prezzi dell'oro almeno ai livelli attuali. Sembra che gli acquisti siano riniziati a ogni calo dell'oro, e il sospetto è che ciò fosse dovuto ai cinesi, anche se gli acquirenti sono ben nascosti ed è difficile, se non impossibile, individuare la fonte degli acquisti.

Al momento l'oro sembra mantenersi vicino al livello dei 1000$ nonostante l'enorme percezione psicologica di guadagno che compare a questi livelli. Il sospetto è che la Cina potrebbe voler vedere l'oro a 1000$, o giù di lì, come una nuova soglia, ma è improbabile che vi sia un qualche riconoscimento ufficiale di ciò, e dovremo aspettare a vedere se il presunto sostegno cinese al mercato è reale o è un altro sogno dei fanatici dell'oro.