mercoledì 9 settembre 2009

Crisi economica: da un tunnel all'altro

"La ripresa sarà lenta, lunga e insidiosa". Così il Centro studi di Confindustria riassume la situazione economica del Paese, anche se la vera incognita delle prossime settimane resta sempre l'occupazione che quest'anno lieviterà all’8,3% (nel 2008 era al 6,7%), schizzando poi al 9,5% l’anno prossimo, valore massimo dal 2000.

Il numero di persone occupate calerà quindi di 700.000 unità tra il quarto trimestre 2008 e il quarto trimestre del 2010 al netto degli effetti statistici derivanti dalle regolarizzazioni degli immigrati. Nel dettaglio, 570.000 posti persi nel corso del 2009 e altri 120.00 nel 2010.

Emma Marecegaglia però mette già le mani avanti "Siamo fuori dal tunnel della recessione, il peggio è alle spalle, però la crescita sarà lenta e difficoltosa" e annuncia "mesi un po' complicati da gestire dal punto di vista dell'occupazione. Serviranno grandi ristrutturazioni e riconversioni: non siamo davanti a una catastrofe, ma dobbiamo gestire mesi difficili. Così il Paese ce la può fare".
Se lo dice lei...

Il ministro Sacconi dal suo canto promette "Metteremo a disposizione in questa seconda metà dell'anno altri 500 milioni di euro per gli ammortizzatori sociali".
Le ore di Cassa integrazione sono già vicine ai massimi degli anni '80. Nei primi otto mesi del 2009 le ore di cig autorizzate sono state pari a 573 milioni (dati destagionalizzati), che corrispondono a 490.000 unità di lavoro a tempo pieno.

Se le richieste rimanessero per il resto dell'anno al livello medio registrato da gennaio ad agosto, le ore autorizzate di cig in rapporto alla forza lavoro raggiungerebbero nel 2009 l'1,95%, contro l'1,40% del 1993 e il 2,11% del 1984. Se invece restassero sui valori di agosto, nella media dell'anno risulterebbero pari al 2,33% della forza lavoro.

Ma presto non si troveranno più fondi per finanziare gli ammortizzatori sociali e allora sì che gli italiani si renderanno pienamente conto delle conseguenze della crisi in corso, nonostante tutti i bla bla bla confindustrial-governativi sull'uscita dal tunnel e sull'ottimismo come ricetta per superare la crisi.

Si uscirà quindi da un tunnel per entrarne in un altro ben più lungo e buio...


Cosa c'entrano l'oro cinese, Berlusconi e l'est europeo?
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 9 Settembre 2009

Non è nemmeno servito attendere la fine dell’anno come paventato pochi giorni fa dagli analisti: ieri l’oro ha infranto la barriera psicologica dei 1000 dollari l’oncia, il punto più alto dal marzo dello scorso anno e un chiaro segnale che l’instabilità finanziaria e la debolezza del dollaro stanno facendo correre gli investitori verso il bene rifugio per antonomasia. A New York, ieri, si parlava del traguardo dei 1300 dollari entro quattro mesi. Insomma, la corsa all’oro. Che, sui mercati, significa guai e volatilità. Ma anche altro, almeno in questo caso.

La Cina, infatti, si sta riprendendo il suo oro: teme un periodo di grande inflazione e instabilità per le valute e quindi, attraverso Hong Kong, sta ritirando tutte le sue riserve d’oro da Londra (dove erano depositate) per rimpatriarle. Pare addirittura che la municipalità autonoma cinese abbia costruito un caveau di massima sicurezza sotto l’aeroporto, dove accumulerà i suoi lingotti. Quindi non solo motivi tecnici, debolezza del dollaro e timore che la crisi sia lungi dal finire: quella cinese è una mossa strategica e Londra, con la sua Bullion Market Association – il luogo fisico dove i lingotti erano conservati, ne è la prima ma non l’ultima vittima.

Qualcosa di grosso bolle in pentola e dagli Usa non tarderanno ad arrivare le contromosse. Anche perché la politica cinese di accumulazione è, per così dire, “en plein air”, alla luce del sole. Lo ha confermato “l’ambasciatore di Cina nel mondo”, Cheng Siwei, all’ultimo workshop Ambrosetti a Villa d’Este: «L’oro è un’alternativa per noi e lo stiamo comprando, certo dobbiamo essere cauti perché quando compriamo noi il prezzo sale e non vogliamo destabilizzare i mercati». Se Sun Tzu arrivava da quelle parti un motivo ci sarà: la Cina, fino a ieri, ha accumulato riserve d’oro per oltre 1000 tonnellate, un raddoppio netto.

Ma sempre da Cernobbio Cheng Siwei ha mandato un messaggio inequivocabile a Bernanke e alla politica della Fed di stampare moneta per acquistare bond: «Se questa prosegue porterà ad un’alta inflazione e nell’arco di un paio d’anni il dollaro crollerà. Per questo, essendo la maggior parte delle nostre riserve estere indicizzate in bond Usa, abbiamo deciso di diversificare incrementando le nostre riserve in euro, yen e altre divise». E in oro, mossa strategica che potrebbe sottendere altro. E mentre in attesa del G20 si lanciano sacrosanti anatemi contro le banche che hanno smesso di fare il loro mestiere e populistici proclami anti-bonus, la Conferenza per il commercio e lo sviluppo delle Nazioni Unite presentava un poderoso report che conteneva una delle proposte più radicali dai tempi di Bretton Woods: occorre una nuova moneta globale, basata sulle riserve e su un paniere di valute, per indicizzare scambi e commerci, l’era del dollaro monopolista non solo è finita ma è stata responsabile della crisi che ancora stiamo vivendo. Non è un caso che il biglietto verde sconti una debolezza enorme e che di questo stia beneficiando ad esempio la sterlina, cresciuta notevolmente ieri anche grazie ai buoni dati britannici sul comparto manifatturiero.

Ma dal Regno Unito, avamposto del modello Wall Street in Europa, non giungono solo buone notizie: se dalla City si è alzato più di un mugugno per la posizione presa da Gordon Brown rispetto all’agenda anti-bonus dei leader europei, sempre più analisti stanno mettendo in guardia Lloyds Tsb dai rischi che corre non utilizzando lo schema di protezione governativa per i suoi assets tossici, la maggior parte dei quali inglobati come una poison pill con l’acquisizione di Hbos. Lo schema statale di salvaguardia, talmente oneroso da far gridare la Bank of England al rischio di default sul debito, garantirebbe infatti all’istituto di scaricare oltre 200 miliardi di assets e poter lavorare serenamente alla ricostruzione della banca e del suo ruolo.

Ma il presidente, Eric Daniels, non ne vuole sapere: se infatti porre la firma sul documento tutelerebbe il suo istituto dai rischi molto seri – che pagherebbero anche i contribuenti visto che Lloyds Tsb è nazionalizzata per oltre il 30 per cento - dall’altro vedrebbe il management costretto ad accettare le condizioni – giustamente draconiane – imposte dal governo a chi beneficia di soldi pubblici per sanare i propri errori. Daniels sta scherzando con il fuoco e anche Barclays, multata ieri dalla Fsa per inadeguate comunicazioni su decine di milioni di transazioni, potrebbe dover proseguire la svendita dei propri assets più fruttuosi per evitare di dover chiedere aiuto allo Stato: atteggiamenti folli ma che le dimensioni raggiunte da quelle banche negli anni, purtroppo, giustificano.

Interessante, proprio riguardo a questo nodo fondamentale della crisi, le parole di ieri del premier, Silvio Berlusconi, riguardo la necessità di non gettare la croce addosso alle banche per la crisi e di fermare la speculazione internazionale. «Bisogna sconfiggere la speculazione internazionale. Oggi con un 5% si compra a sei mesi, un anno - ha accusato il presidente del Consiglio - facciamo pagare il 50-60% e vedrete che la speculazione si ferma di botto. Per me questo fatto della speculazione è molto più importante dei bonus dei manager, fa parte dell'etica». Una dichiarazione in netto contrasto con la posizione, seria finalmente e rigida come servirebbe, di Giulio Tremonti nei confronti degli istituti di credito tramutatisi in banche d’affari prima e gestori di denaro pubblico a scopo privato adesso.

Il perché di questa crociata di Berlusconi in difesa delle banche ha un ovvio retroterra politico ed è quindi giustificabile, ma non bisogna pensare che gettando un po’ di fumo negli occhi ai cittadini – se anche si alzano i margini non si può pensare di bloccare la speculazione dei fondi sovrani oppure quella che viaggia ormai per la quasi totalità over-the-counter, ovvero su circuiti elettronici non regolamentanti – si possa magicamente risolvere i problemi del paese e cancellare le responsabilità delle banche che, oltre che collocare allegramente porcheria come obbligazioni Lehman Brothers ancora il 12 settembre dello scorso anno, vedi il circuito “Patti chiari”, hanno sfruttato l’ancora di salvezza dello Stato per sistemare il core tier 1 e non per garantire alle imprese di vivere e quindi al paese di lavorare.

Se non si interviene su questo la crisi sarà stata, oltre che dannosa, anche tremendamente e colpevolmente inutile. Tutto questo, poi, senza scordare la mina antiuomo nascosta nelle terreno dell’Est europeo, potenziale minaccia per la stabilità dell’intera area euro visto che la crisi sta spostandosi dall’area baltica a quella continentale. È di ieri infatti la notizia del record storico in negativo per l'economia ceca, che si riduce del 5,5 per cento nel secondo trimestre del 2009, rispetto allo stesso periodo di un anno fa, a causa del calo della domanda estera: nel primo trimestre, il Pil si era contratto del 4,8 per cento.

Insomma, attenzione alle prossime mosse. Ieri i giornali inglesi puntavano il dito sul rischio paese per il Giappone, seconda economia mondiale, viste le ricette da terza elementare che il nuovo governo progressista si prepara a porre in essere e soprattutto sul già citato rischio rappresentato da una potenziale instabilità della Germania dopo le elezione politiche di fine mese: metà dell’Est è esposto con Germania e Austria – oltre che Svezia – in maniera imponente, una crisi interna della “locomotiva” potrebbe innescare il domino.


Derivati, Comuni in rosso. Debiti per 27,2 miliardi
di Sergio Rizzo - Il Corriere della Sera - 9 Settembre 2009

Le amministrazioni e gli effetti della finanza "creativa"

C’è stato perfino chi ha compra­to dalla banca un derivato facendosi consi­gliare dal funzionario della stessa banca. Lo ha fatto cinque anni fa, per esempio, il picco­lo comune di Valledoria, 3.713 anime in pro­vincia di Sassari. Esponendosi, manco a dir­lo, al rischio di rompersi l’osso del collo, con una perdita potenziale di 269 euro per ogni cittadino. Ma non è stato certamente l’unico a prendere una toppa simile grazie ai deriva­ti.

Ne sa qualcosa Marta Vincenzi, sindaco del più grande e attrezzato Comune di Geno­va, che ora minaccia di chiedere i danni a chi le ha fatto trovare nel bilancio comunale una bomba innescata che potrebbe provocare un buco monstre da 24 milioni di euro. A dimo­strazione del fatto che nonostante il calo dei tassi, le contromisure che gli ultimi due go­verni hanno messo in campo, e gli allarmi lanciati anche dalla Banca d’Italia di Mario Draghi, la febbre dei derivati è dilagata da Sud a Nord come la nuova influenza. Mieten­do vittime senza distinzione alcuna.

Qualche mese fa la Corte dei conti, in un rapporto rimasto sostanzialmente ignorato, ha tracciato un quadro devastante. I Comuni che hanno contratti con le banche potenzial­mente tossici sono 737. Oltre a 40 Province e 13 Regioni. Il debito complessivo dei Comu­ni con i prodotti derivati è di 27,2 miliardi: 1.429 euro per ognuno dei 19 milioni 75.781 abitanti compresi in quei territori. A precisa richiesta, il 52,5% di quegli enti locali, vale a dire 387 su 737, ha risposto che a luglio dello scorso anno ipotizzava di subire perdite.

Po­ca roba, per i 7 milioni 81.940 abitanti dei Co­muni che rischiano: 69 milioni in tutto. Un euro ciascuno. Ma siccome è una previsione degli stessi Comuni, è chiaro che si tratta di una cifra ampiamente sottostimata. Due mesi fa il presidente della Corte dei conti, Tullio Lazzaro, ha spiegato che con l’in­troduzione dei derivati nella finanza locale si è registrato su una massa di debito di 5 mi­liardi un maggiore costo di 126 milioni.

Alla fine di luglio, inoltre, si è conclusa l’inchiesta della magistratura sui derivati stipulati dal Comune di Milano con quattro banche (Deut­sche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa): l’ipotesi è che il Comune ora guidato da Letizia Morat­ti ci abbia rimesso 100 milioni. Un’ottantina di milioni sarebbe costata invece alla Regio­ne Lombardia di Roberto Formigoni, secon­do un altro filone di quella inchiesta, un’ope­razione in derivati conclusa con Ubs War­burg e Merrill Lynch.

Ben 62 Comuni veneti avrebbero già lasciato sul campo dieci milio­ni. Soltanto nell’ultimo anno la Guardia di fi­nanza ha aperto 24 indagini su 9,1 miliardi di euro di derivati sottoscritti dagli enti locali piccoli e grandi, amministrati tanto dal cen­trodestra quanto dal centrosinistra. Giulio Tremonti non si è mai mostrato pes­simista. «Mi risulta che in questo momento molti Comuni ci stiano guadagnando», ha di­chiarato qualche mese fa. Ma non potrebbe essere diversamente. Il ministro dell’Econo­mia conosce bene i termini della questione. È stato lui a bloccare per legge, con la manovra 2009, la possibilità per gli enti locali di ricor­rere alla finanza derivata.

Una possibilità già introdotta sette anni prima con una Finanzia­ria firmata dallo stesso Tremonti. Allora si vo­levano spronare i Comuni a risparmiare sui debiti tutelandosi dai rischi, con precisi limi­ti: i derivati consentiti erano solo quelli più semplici. Purtroppo, però, le cose sono anda­te in modo differente. Molti Comuni hanno usato i derivati per imbellettare i conti con gli incassi dei cosiddetti upfront (le somme che le banche versano immediatamente al momento della stipula del contratto) e scari­care sulle future gestioni le perdite, grazie al­l’allungamento delle scadenze dei debiti così rinegoziati. Spesso per ignoranza molti sinda­ci si sono fatti convincere dalle stesse banche a stipulare sofisticatissimi contratti, rivelatisi poi esplosivi per le casse municipali. Il gioco dei tassi, poi, si è rivelato un’altale­na davvero micidiale.

Nel giro di un anno e mezzo, fra il 2000 e il 2002 la Regione Liguria ha trasformato un mutuo a tasso variabile in tasso fisso (con derivato Merrill Lynch) e poi di nuovo in tasso variabile (con derivato No­mura), con una esposizione al rischio che la Corte dei conti ha definito in una relazione di due settimane fa «significativa». Con un’ope­razione di «interest rate swap con vendita di opzione digitale» per 38 milioni stipulata il 28 febbraio del 2007, servita a sostituire un tasso fisso con un tasso variabile, il Comune di Marsala ha rischiato di perdere 2,3 milio­ni. Ma rischi di questa entità sono frequentis­simi, soprattutto al Sud. Sempre la Corte dei conti ha rivelato in una recente relazione che nei conti del Comune di Ariano Irpino potreb­be ballare un milioncino di euro a causa di un contratto con derivato rinegoziato nel 2004 con la Bnl. Incompetenza, innanzitutto.

Ma anche su­perficialità. E in molti casi una certa dose di spericolata furbizia: per non dire altro. Le cau­se sono le più varie. Nel rapporto di qualche mese fa i magistrati contabili hanno stilato un elenco sorprendente. Banche scelte senza «alcuna procedura selettiva», consulenti indi­viduati fra gli stessi dipendenti della banca con cui veniva stipulato il contratto, clausole capestro. Addirittura, scrive la Corte dei con­ti, «in alcuni casi si è riscontrato che il rap­porto contrattuale era regolato da una giuri­sdizione diversa da quella italiana (inglese)».

Da non crederci: nel caso di controversia si deve andare da un giudice a Londra. La Regio­ne Calabria ha in essere nove contratti di deri­vati, che a metà ottobre 2008 avevano prodot­to perdite teoriche di 57 milioni 143.897 euro e 93 centesimi, tutti rigorosamente scritti in lingua inglese. Anche quelli (quattro) stipula­ti con l’italianissima (prima che venisse ac­quisita da Bnp Paribas) Bnl.



I mercati salgono e scendono: la crisi non se ne va
a cura di www.iarnoticias.com - 20 Agosto 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Liliana Benassi

Aumentano i dubbi e si temono ricadute in USA.
Nonostante alcuni deboli segnali di recupero dell’economia Usa, tra gli economisti ed analisti persistono dubbi ed interrogativi a riguardo della vera portata e durata della crisi e della disoccupazione con conseguente caduta dei consumi, per quello che concerne la prima potenza Imperiale.

Davanti ad un’ampia gamma di possibili scenari, consumatori e imprese americane mostrano sentimenti che vanno da un forte ottimismo fino ad una preoccupante cautela, segnala questo mercoledì il “The Wall Street Journal”.

La prima economia imperiale attraversa la recessione più profonda e lunga da quella della Grande Depressione e le previsioni degli specialisti sono divise tra quanti ipotizzano una "lieve ripresa" e quelli che prevedono un breve crescita seguita da una ricaduta.

I più scettici sostengono che uscire della recessione comporterà un andamento a W (rialzo temporaneo) o perfino come una successione di W che convertirà il recupero in un miraggio transitorio che tende a svanire.

"Stiamo avendo un recupero nel settore della costruzione di abitazioni e dell’auto, però al processo mancano le gambe per sostenersi” afferma in un repostage Alan Greenspan, massimo guru finanziario di Wall Street.

"I consumatori americani, il 70% del PIL, spendono più di quello che guadagnano e in questo momento difficilmente ottengono dei prestiti. C’è da ggiungere che sono già tre anni che il valore del loro patrimonio immobiliare è in caduta” sottolinea Greenspan.

Indipendentemente dalla forma che adotterà la ripresa, molti consumatori non avranno un cambiamento della loro situazione. Si sono persi tanti posti di lavoro che la disoccupazione seguirà a essere alta anche una volta che l'economia rimonterà” segnala The Wall Street Journal.

Inoltre, alcuni settori industriali recupereranno prima che altri, aggiunge. "Il settore manifatturiero e della costruzione per esempio, si sono contratti così tanto che è probabile che presto incomincino a crescere. Il decaduto settore finanziario, nonostante tutto, segue un processo di contrazione affinché le banche ristrutturino i loro bilanci, il che ritarderà il recupero", dice il finanziere newyorchese.

Lanciando un’altro segnale di pericolo, i mercati borsistici da Shanghai a New York sono caduti con forza lunedì scorso scacciando l'ottimismo delle ultime giornate, creando paure circa la sostenibilità dell'incipiente recupero dell'economia globale.

L'Indice composto di Shanghai è caduto del 5,8%, la perdita più importante da novembre. Il Nikkei della Borsa di Tokyo ha segnato il suo peggiore giorno da marzo. Il Dow Jones ha chiuso con una perdita di 186,06 punti, un 2 %, raggiungendo 9.135,34. I prezzi delle materie prime sono caduti in forma generalizzata.

Le borse europee hanno aperto le quotazioni di mercoledì con perdite, dopo che le azioni cinesi sono cadute di più del tre per cento nella parte finale della sessione.

"La volatilità stà esplodendo dappertutto" spiegava questo mercoledì un analista del Stutland Equities alla Bloomberg Televisión. "Il mercato ci ha dato la dose di volatilità che i ribassisti stavano annunciando."

Questa settimana, il dollaro americano tradizionalmente rifugio per gli investitori che fuggono dal rischio, ha guadagnato contro la maggioranza delle altre monete. E' aumentato anche il debito del Tesoro degli USA, considerato il più sicuro nonostante l'enorme incremento del deficit fiscale del paese.

Per continuare a crescere - segnala il Journal - il mercato ha bisogno di un vero segnale di recupero nell'economia, che consiste nell’aumento del consumo, investimenti delle imprese e acquisto immobiliare.

Per un insieme di esperti analisti ed economisti amercani, la chiave del "riassetto economico" passa attraverso la ripresa del consumo ed un recupero pieno dell’occupazione.

Il Wall Street Journal lancia ombre sul recupero immediato dell’occupazione, argomentando che le imprese inizieranno ad assumere personale solo quando avranno la certezza di evidenti segnali di ripresa totale dell'economia, condizioni che non sono quelle attuali.

Gli economisti del settore privato che parteciparono all'ultima indagine del The Wall Street Journal, affermano che l'economia americana incomincia a riprendersi, benché si aspettano una crescita moderata del 2 o 3 percento per il prossimo anno. La maggior parte delle imprese mantiene la cautela e si prepara per un’altro anno difficile, sottolinea il giornale.

Una analisi della Federal Reserve (FED) uscita due settimane fa segnala che il mercato lavorativo ed immobiliare in USA rimangono deboli e le condizioni creditizie continuano ad essere restrittive.

In sintesi, e d’accordo con l’analisi della Fed, benché il ritmo di discesa economica sembra "decelerare", il mercato lavorativo continua a debilitarsi, i mercati finanziari rimangono deboli e le condizioni creditizie sono inferiori a quelle abituali.

Alcuni analisti ufficiali sostengono che i mercati riflettono la paura che l'economia mondiale ha nel tagliare la sua dipendenza dagli stimoli governativi. "Una ripresa sostenuta negli USA, ed altri mercati, richiederà un bilanciamento della spesa pubblica al privato", ha detto a “Reuters” Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale.

Nella sua ultima relazione di giovedì scorso, la Banca Centrale Europea, avvisa che sebbene si vedano "deboli segnali" di un principio di risalita dalla recessione, le condizioni generali dell'economia continuano ad essere precarie, mentre le proiezioni indicano un aggravamento delle condizioni del mercato lavorativo con cifre per la disoccupazione in crescita durante tutto il 2010.

Il dato - che coincide con la valutazioni della Federal Reserve degli USA - conferma la stima di una "debole crescita" dell'economia mondiale dentro una cornice di crisi sociale in salita, come conseguenza “dell’appiattimento" del costo imprenditoriale e delle sue conseguenze più immediate: licenziamenti e riduzioni salariali.

Alcune delle maggiori catene al dettaglio degli USA hanno informato che i consumatori americani seguitano a spendere poco, il che mette in dubbio la sostenibilità della ripresa ed evidenzia il ruolo fondamentale della domanda esterna per il recupero dell'economia mondiale.

Le statistiche delle imprese al dettaglio nordamericane servono come promemoria dell'importanza che ha il consumo, che rappresenta il 70% dell'economia americana.

Le perdite riportate martedì si sommano alla caduta del 1,2% nelle vendite in USA annunciate la scorsa settimana da Wal-Mart. Il Dipartimento del Commercio ha annunciato che le vendite al dettaglio sono scese in luglio, dopo due mesi di ripresa.

"Non solo aumenta la disoccupazione, ma molta gente affronta anche un congelamento salariale o altri tagli", ha scritto sul Journal, Lou Crandall, capo economistica del Wrightson ICAP. "Questo va a ridurre la spesa nel futuro."

Secondo gli specialisti, la fiducia del consumatore cade a misura in cui aumenta la disoccupazione. E siccome le imprese non assumono personale se non sono sicure del recupero, i consumatori non spendono in attesa che passi la crisi.

Questi due fattori sono vincolanti e interdipendenti per la ripresa del consumo e dell’occupazione.

La recessione causata dall’esplosione di bolle, come il recente collasso del settore immobiliare - a differenza degli incrementi nei tassi di interesse da parte della Federal Reserve - sembra essere seguita da recuperi senza creazione di impiego, sottolineano gli specialisti.

Secondo il Financial Times l'economia Usa potrebbe sperimentare una lieve ripresa fino alla fine di quest’anno (o agli inizi del 2010) dovuta ai programmi di stimolo fiscale, ma poi potrebbe tornare in depressione.

Ci sono dubbi su che succederà quando diminuirà lo stimolo statale, e ci sono anche serie paure che l'enorme spesa governativa (i riscatti finanziari) continui ad aumentare il deficit fiscale e faccia alzare i tassi di interesse per i consumatori e le imprese.

"L'economia rimane debole ed anche quando inizierà a recuperare, la capacità produttiva sarà pigra" ha detto Peter Kretzmer della Bank of America.

Per il Wall Street Journal, il tasso di disoccupazione dell’economia è così grande che i consumatori non vedranno aumenti di stipendio per anni e dovranno aggiustare le loro spese in conseguenza al recupero del consumo, il principale attivatore dell’economia.

Il tasso ufficiale di disoccupazione in USA è del 9.5% secondo The New York Times, però non include quelli che si sono dati per vinti e hanno smesso di cercare lavoro o quelli che si sono visti obbligati a ridurre le ore lavorative.

Kenneth Rogofff, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale ed esperto in crisi bancarie, la settimana scorsa ha detto che gli USA hanno una possibilità del 50% di cadere in una seconda recessione nei prossimi cinque anni.

L'esperto ha segnalato inoltre che gli USA presto dovranno aumentare le imposte, in mezzo a rialzi dei livelli di debito e dei tassi di interesse.

Il tasso di disoccupazione - secondo le stime ufficiali - si sta avvicinando al picco registrato nella recessione del 1981-82 e la perdita dei posti di lavoro è la peggiore dalla recessione del 1948-49.

La caduta del Prodotto Interno Lordo è la peggiore dalla crisi di 1957-58 e gli statunitensi hanno visto la loro “fortuna” personale volatilizzarsi come nella Grande Depressione.

Di conseguenza (la crisi sociale che segue la caduta del consumo e dei licenziamenti) si profila come una potenziale emergenza della crisi recessiva e lavorativa, che è esplosa progressivamente come risultato della crisi finanziaria degli USA.

I segnali sono chiari: la crisi finanziaria si è evoluta in recessione e minaccia per effetto della massiccia disoccupazione di trasformarsi in una crisi sociale di difficili proporzioni.

"Il mercato del lavoro degli Stati Uniti dimostra un atteggiamento ancora peggiore di quello dell'economia in generale, atteggiamento che causa paure dentro e fuori del governo, il cui risultato potrebbe essere quello di un recupero senza creazione di posti lavoro quando finisce la recessione", segnala The Wall Street Journal.

Così che la disoccupazione emergente dalla decelerazione economica, si è trasformata in una questione chiave per il recupero della prima potenza imperiale.

Però, nell’attuale scenario di "debole crescita" o di "ricaduta" che pronosticano gli specialisti, tutto indica che la crisi sociale andrà aggravandosi come conseguenza della mancata ripresa dei consumi e dell’aumento della disoccupazione a grande scala.