giovedì 3 settembre 2009

Il Circo italiota

Ecco un altro spaccato sulla quotidianità del governo italiota, pari ormai al livello di un piccolo circo di periferia, tra ministri che predicano bene e razzolano malissimo e un cosiddetto premier che porta in Tribunale le 10 domande di Repubblica e denuncia il quotidiano l'Unità per "lesa dignità" perchè in uno degli articoli pubblicati sullo "scandalo-escort" viene anche citata una battuta di Luciana Littizzetto sui suoi presunti problemi di erezione.

Roba da matti, ma tant'è in Italia...


Il pio Tremonti ammonisce gli economisti
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 2 Settembre 2009

Lo chiamavano “Il Moralizzatore”. Sarebbe sicuramente un buon titolo per qualche biografia non autorizzata del nostro Ministro dell’economia, Giulio Tremonti, noto ai più per la sua celebre coerenza. Al Meeting di Rimini il buon Giulio si è esibito nuovamente in uno dei suoi show più collaudati: il professore di diritto tributario che, con la sua matita rossa, sferza - non a torto - gli economisti di mezzo mondo chiedendo un anno o due di silenzio. Ci va giù duro il ministro, che oramai sembra intenzionato a crearsi un format preciso, un’immagine da poter mettere sul piatto quando arriveranno i conti della crisi.

Conti che qualcuno dovrà pur pagare. Cita Mandrake, Harry Potter, e una lunga fila di esempi “fino al mago Otelma” per dire che “le riunioni degli economisti sono proprio così e quello che colpisce di più è che nessuno di questi ha mai chiesto scusa, nessuno ha mai detto di aver sbagliato. Sbagliano sempre gli altri”. Tutto giustissimo, peccato solo che quando si decide di vestire i panni del Savonarola si deve dimostrare - appunto - una certa coerenza. Diversamente si scade nel ridicolo, con il rischio che siano banalizzate tutte le questioni morali o tecniche - di per sé sacrosante ed auspicabili - sollevate durante i ripetuti comizi.

Per ironia della sorte, un attimo dopo aver paragonato l’intera categoria degli economisti ad una conventicola di maghi ciarlatani, il camaleontico alfiere di Papi rivela lui stesso la propria natura di chiromante. Nel suo intervento, infatti, il ministro ricorda di aver sempre pensato che “ci sarebbe stata una crisi causata dalla globalizzazione, ma era impossibile prevedere quando e come. Fa effetto - aggiunge caustico il ministro - che il coro continui”. La situazione appare paradossale perché, se da una parte le argomentazioni del ministro sono più che condivisibili, dall’altra è lo stesso speaker a mancare completamente di quella comune ed acclarata autorevolezza che sarebbe necessaria per risultare credibile al momento della denuncia.

Tremonti fa bene a discostarsi dalla categoria degli economisti. Lui rappresenta probabilmente l’alter ego dell’economista. E' infatti diventato celebre nell’unico settore della ricerca in cui l’Italia primeggia nel mondo: ricercare modi sempre più sofisticati per eludere, se non direttamente evadere, il fisco. "Io non sono un economista - afferma il ministro - e questa volta è una cosa che mi aiuta. Ma ho sempre pensato che a fine Novecento il mondo stava entrando in una curva diversa, colpa della globalizzazione che ha effetti positivi e negativi ". Una globalizzazione ora nemica, ma prima sostenuta.

Pochi, infatti, sembrano ricordare oggi il Tremonti delle cartolarizzazioni, della finanza creativa, della depenalizzazione del falso in bilancio. Il peso morale della colpa che il Ministro vorrebbe accollare ai soli teorici dell’economia dovrebbe, a ragion del vero, essere infatti equamente diviso con i giornalisti economici. Quelli, per intenderci, che per deontologia professionale avrebbero dovuto informare quel popolo, ancora ridicolmente considerato sovrano dalle carte costituzionali, su quanto stava accadendo e su quelle che sarebbero state le inevitabili conseguenze. In altre parole quelli che dovevano parlare e che invece sono rimasti in silenzio.

Il problema si acuisce dal momento che solo i giornalisti fedeli alla “Corporatocracy” hanno la visibilità e l’autorevolezza assicurata dalle grandi testate. In questo settore più che in altri l’informazione è infatti un fattore cruciale, assolutamente determinante. Stiglitz ha preso un Nobel per l’asimmetria informativa. Solo oggi, alla luce della crisi ancora in atto, è quindi possibile guardare la realtà per quella che è: negli ultimi vent’anni questi signori sono diventati un gruppo di galoppini che, lungi dall’essere incompetente, si autoglorifica mostrandosi, al tempo stesso, privo della minima capacità di poter esprimere un punto di vista critico.

Questa conclusione si può trarre dalla costatazione che l’intera categoria “ufficiale” dei reporter economici ha mostrato di accontentarsi, il più delle volte, di riportare in maniera pedissequa le dichiarazioni rilasciate dai dirigenti industriali e speculatori di Borsa, evitando sistematicamente di indagare e trarre le dovute conclusioni. Quanti si spendono per denunciare l’irragionevolezza dello status quo sono, invece, ghettizzati e trattati come matti cospiratori. Il risultato di questo paradosso si riassume con la rottura della fiducia, la stretta sui crediti, il crollo della produzione, il calo dei consumi, il drammatico peggioramento dei conti pubblici ed una disoccupazione galoppante. Un conto salato che sono in tanti a dover pagare.

In questo contesto, il Ministro non rinuncia a fare la parte della Cassandra: "Ci voleva un mago - dice - per capire in che giorno sarebbero crollati i mercati e di quanto, ma non per capire che la crisi sarebbe arrivata e che le cose non sarebbero rimaste come prima". "Io - sottolinea fiero - la crisi l'avevo prevista già dal 1995". E qui arriviamo al punto. Ad essere insopportabile in questi discorsi già sentiti è la boria con cui il fedelissimo Giulio se ne va in giro pavoneggiandosi della sua estraneità al sistema di quei “matti illuminati”, che adesso sembrano essere un motivo ricorrente nelle sue filippiche.

Lui vorrebbe apparire come uno del popolo, un po’ come il suo padrone. Ma come gli fece ricordare, molto saggiamente, anche D’Alema in occasione di una puntata di Porta a Porta, lui stesso tempo fa era un “illuminato”. Avendo in più riprese partecipato agli incontri del Bildiberg Group, in quell’occasione tacque. Il problema sta nel fatto che sono sempre troppo poche le persone che glielo rinfacciano.

Questa sua non estraneità al sistema, da lui oggi apertamente e pervicacemente osteggiato, può essere considerata, infatti, la prova che quanto dice è solo una copertura politica da utilizzare come scudo dalle feroci critiche che pioveranno quando i nodi verranno al pettine. Sta mettendo le mani avanti. E intanto mette la sua firma su quell’ennesima porcata ribattezzata come “scudo fiscale”. Uno scudo donato dallo Stato a qualunque evasore - e qui non si parla certo di spiccioli - dovesse trovarsi nell’inconsueta posizione di dover rendere conto della propria condotta illecita nei confronti dello Stato stesso. In un altro paese industrializzato sarebbe impensabile. Qui da noi è la regola e non l’eccezione; nella sostanza un’ode all’illegalità generalizzata.

Tutto questo, ovviamente, non lo rende credibile. E verrebbe da dire purtroppo, quando, nel suo intervento, il ministro dell'Economia ribadisce poi un concetto più volte espresso negli ultimi mesi: "Per uscire dalla crisi si è passati da una tasca all'altra, con una piccola differenza, che la tasca dei banchieri è dei banchieri, la tasca del governo è di tutti". "Dovrà esserci una riflessione" sulla scelta di aver aiutato le banche per uscire dalla crisi, aggiunge. Poi, parlando della spesa per la crisi che incide sul debito, sottolinea: "E' un rapporto che peggiora per salvare la spesa che si fa per salvare i signori delle banche". E cita un detto in inglese: "Salvate il popolo, non le banche".

Euforia e giubilo insomma: chi ci governa è uno buono, uno che ama il popolo. Già, ma sorge un interrogativo: quale popolo? Quello che esporta illegalmente capitali all’estero o quello che si suda il salario? Qualcuno dovrebbe chiederglielo.


Ministro Tremonti non ci ridurrà al silenzio
da La Repubblica - 3 Settembre 2009

Con questo intervento 16 economisti (Giorgio Basevi, Pierpaolo Benigno, Franco Bruni, Tito Boeri, Carlo Carraro, Carlo Favero, Francesco Giavazzi, Luigi Guiso, Tullio Jappelli, Marco Onado, Marco Pagano, Fausto Panunzi, Michele Polo, Lucrezia Reichlin, Pietro Reichlin, Luigi Spaventa) rispondono agli attacchi del ministro Tremonti.

Caro Direttore, sin da quando ha riassunto responsabilità di governo, nel 2008, il ministro Giulio Tremonti ha intrapreso un processo agli economisti. Accusatore e giudice al tempo stesso, ha emesso successivi verdetti di condanna, la pena consistendo nell'obbligo al silenzio per almeno due anni, in specie su questioni di politica economica. La motivazione pare essere la seguente: non avere gli economisti previsto la crisi e aver anzi accettato o addirittura esaltato le degenerazioni che la provocarono. Per un'opportuna opera di rieducazione viene suggerita la lettura dei libri del ministro.

Nessuno di noi è disposto a stare zitto. Un compito importante della nostra professione, in Italia e altrove, consiste nel sottoporre a valutazione ragionata la politica economica dell'esecutivo. Lo abbiamo fatto con i governi passati, continueremo a farlo e ci pare preoccupante che oggi in Italia sia tanto difficile avere un confronto pubblico pacato sulla politica economica in tempi di crisi: sulla Legge Finanziaria 2010, sull'efficacia dei provvedimenti che il governo ha finora adottato e sulla loro sorte.

Non abbiamo difficoltà a riconoscere che questa crisi pone una sfida alla nostra professione (di cui alcuni di noi hanno anche scritto): non certo per non averne previsto il quando e il come, quanto per non aver pienamente percepito le cause e le conseguenze di un'anomala crescita del credito e dell'esposizione al rischio e per avere trascurato i problemi di stabilità finanziaria.

Il disagio degli economisti, comunque, non può essere certo maggiore di quello di governanti, banchieri centrali e vigilanti, soprattutto di oltre Atlantico, i quali ancor meno seppero prevedere e prevenire. Semmai, quando si cerchino eccezioni alla disattenzione generale, le si trovano proprio fra gli economisti, tra cui quelli della Banca dei Regolamenti Internazionali e non pochi accademici.

Ma tanto non può certo bastare al Ministro, il quale afferma che egli sì aveva previsto tutto, e da tempo. Notiamo che l'affermazione reiterata negli anni che presto o tardi vi sarà una crisi non rappresenta una previsione, ma una scommessa a esito sicuro. Nel suo ultimo libro Tremonti discute delle miserie dell'Europa, della sua paralisi politica, dei costi della globalizzazione. La breve analisi della crisi finanziaria, già in atto da nove mesi, pur se efficace e corretta, non si distanzia da altre che in quei mesi venivano pubblicate. Nella parte propositiva si tratta di questioni generali, mai tuttavia toccando i temi della riforma del sistema finanziario.

Ma soprattutto ci chiediamo se la capacità di previsione di cui egli è fiero abbia ispirato la sua azione di governo. Una ricerca in questa direzione dà risultati deludenti. Non troviamo traccia di gravi preoccupazioni sulla stabilità finanziaria globale nei documenti ufficiali firmati dal Ministro; né rinveniamo espressioni di preoccupazione manifestate nei consessi internazionali a cui egli partecipò prima della crisi. Di più: alcuni provvedimenti assunti nell'estate del 2008 (quando, anche prima di Lehman, gli Stati Uniti e, sola in Europa, l'Italia erano già in recessione) paiono poco comprensibili in una realtà in cui l'occupazione si riduceva, aumentava la cassa integrazione e i bilanci delle banche esibivano crescenti sofferenze.

Ma questo dibattito riguarda ormai il passato, né conviene continuarlo. Di altro vorremmo discutere con lui, se, restituendoci il diritto di parola, egli accettasse di farlo: delle vicende dell'economia italiana e dei suoi mali oscuri; delle ragioni che lo inducono a ritenere che noi usciremo meglio degli altri dalla crisi, pur essendoci entrati assai prima e in condizioni peggiori.

Vorremmo conoscere la sua opinione su una stagnazione, indipendente dal ciclo politico, che ormai dura da quindici anni, rammentando che negli anni in cui il Ministro ha avuto la responsabilità della politica economica (2001-2005, quando il suo primo documento di programmazione prometteva "un nuovo miracolo economico", e 2008) la crescita italiana ha esibito un divario negativo di oltre 5 punti rispetto alla crescita europea. In definitiva, vorremmo comprendere come egli si proponga di trasformare in realtà le sue speranze sul futuro del paese.


Brunetta, la rivolta dei dirigenti e l'insofferenza degli altri ministri
di Sergio Rizzo - Il Corriere della Sera - 2 Settembre 2009

«Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il c... al mondo e sono la Lo­rella Cuccarini del governo Berlusconi». Esattamente un anno fa Renato Brunetta completava questi concetti espressi in una intervista a «Gente» definendosi «il più amato dagli italiani». Volava nei sondaggi, il ministro della Pubblica amministrazio­ne, dopo aver dichiarato guerra ai fannul­loni: secondo per popolarità soltanto a Sil­vio Berlusconi. Mentre gli assenteisti ma­sticavano amaro e lo insultavano, la gente lo incitava per strada: «continui così». E qualche suo collega «rosicava».

Un anno dopo il ministro già più amato dagli italiani si appresta ad affrontare un autunno con qualche insidia in più, e non certamente a causa di sondaggi meno ge­nerosi. Che i suoi rapporti con il ministro dell'Economia Giulio Tremonti siano com­plessi non è affatto un mistero: lo sono da tempo, anche da prima che i due si ritro­vassero insieme al governo. Più recenti, e collegate alla sua azione governativa, sono invece le insofferenze che altri ministeri (certamente non il suo), e altri ministri, manifestano nei suoi confronti. Malignan­do che la strategia brunettiana abbia pro­dotto finora soprattutto annunci sensazio­nali a mezzo stampa. Culminati nella pub­blicazione del libro «Rivoluzione in cor­so », che qualche invidia pure l'ha suscita­ta.

Alle critiche lui ha sempre ribattuto con i dati che dimostrerebbero un calo a preci­pizio dell'assenteismo, ridottosi del 30% anche soltanto come effetto degli annun­ci. Il fatto è che decisioni sacrosante, come quella di non consentire la nomina a diri­gente generale per coloro che distano dal­la pensione meno di tre anni ha mandato letteralmente su tutte le furie le alte sfere della burocrazia, abituate a promuovere i fedelissimi pochi mesi prima del pensiona­mento per farli uscire dal ministero con la pensione dorata. Per modificare quella norma sarebbe intervenuta perfino la Ra­gioneria dello Stato. Né è stata del tutto di­gerita la disposizione per mandare in pen­sione chi ha raggiunto i quarant'anni di contributi.

Ma Brunetta deve fronteggiare anche la rivolta dei travet, che non accenna a pla­carsi dopo il taglio della parte variabile del­la retribuzione in caso di malattia. Tanto più che la mannaia sui dirigenti, spesso i veri responsabili della scarsa efficienza del­la pubblica amministrazione, non è anco­ra calata. Tutto questo mentre del regola­mento che dovrebbe stabilire quali alti pa­paveri pubblici devono essere sottoposti al tetto degli stipendi fissato dal governo di Romano Prodi, e che doveva essere pronto entro il 31 ottobre 2008, ancora nessuna notizia. «Ora li staneremo», ha promesso alla fi­ne di luglio, riferendosi ai dirigenti respon­sabili delle inefficienze, il ministro a Vitto­rio Zincone sul «Magazine» del Corriere.

Ricordando il prossimo varo di un organi­smo per la valutazione dei servizi. Un'idea nata in seguito alla proposta avanzata dal giuslavorista Pietro Ichino, ora senatore del Partito democratico, ma la cui attuale formulazione ha lasciato alquanto deluso anche chi, nel centrosinistra, aveva soste­nuto senza riserve la crociata del ministro. Fatto sta che quella che doveva essere nel­le intenzioni un'autorità indipendente ve­ra e propria è diventato un organismo ge­stito in condominio da Brunetta e Tremon­ti. Circostanza che avrebbe snaturato il progetto. «L'apparato sta frenando la sua riforma», commentava già alla fine dello scorso aprile lo stesso Ichino, lasciando in­tendere che Brunetta avrebbe le mani lega­te.

Osservazione riget­tata dal ministro, che deve tuttavia fare i conti non soltanto con i sindacati «con­servatori », i burocrati colpiti nella pensione, i consulenti che si so­no visti pubblicare i compensi online, e i dipendenti inferociti. C'è anche chi gli rema contro nel suo stes­so schieramento. Un mese fa, per esem­pio, si è scoperto l’emendamento di un se­natore del suo partito che avrebbe cancel­lato la norma della trasparenza totale, quel­la secondo cui i cittadini dovrebbero poter conoscere con un semplice clic sul mouse del computer vita, morte e miracoli dei di­rigenti pubblici. Lui ci ha messo una pez­za, ma è chiaro che quella norma non avrà vita facile. Insomma, ce n'è abbastanza perché qualcuno interpreti la singolare «aspirazione» a fare il sindaco di Venezia, che il ministro ha recentemente espresso, come un auspicio.


Mandante e utilizzatore
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 3 Settembre 2009

Mai come oggi, i caratteri del "male italiano" sono il conformismo, l'obbedienza, l'inazione. Anche ora che un assassinio è stato commesso sotto i nostri occhi. Assassinio.

Con quale altra formula si può definire - in un mondo governato dalla comunicazione - la deliberata e brutale demolizione morale e professionale di Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, "reo" di prudentissimi rilievi allo stile di vita di Quello-Che-Comanda-Tutto? Un funzionario addetto al rito distruttivo - ha la "livrea" di Brighella, dirige il Giornale del Padrone - "carica il fucile". Così dice. Il proiettile è un foglietto calunnioso, anonimo, privo di alcun valore. Si legge che Boffo è un "noto omossessuale".

La diceria medial-poliziesca ripetuta tre o quattro volte assume presto la qualità di un prova storica. Non lo è. Non lo è mai stata. Brighella è un imbroglione e lo sa, ma è lì per sbrigare un lavoro sporco. Gli piace farlo. Se lo cucina, goloso. Colto con le mani nel sacco delle menzogne, parla ora d'altro: qualcuno gli crede perché sciocco o pavido. Non è Brighella a intimorire. È Quello-Che-Comanda-Tutto. È lui il mandante di quel delitto. È lui il responsabile politico. Contro Silvio Berlusconi ci sono quattro indizi. Già in numero di tre, si dice, valgono una prova.

Il primo indizio ha un carattere professionale. Qualsiasi editore che si fosse trovato tra i piedi un direttore che, con un indiscutibile falso, solleva uno scandalo che mette in imbarazzo Santa Sede, Conferenza episcopale, comunità cattoliche gli avrebbe chiesto una convincente spiegazione per l'infortunio professionale. In caso contrario, a casa. A maggior ragione se quell'editore è anche (come può accadere soltanto in Italia) un capo di governo che tiene in gran conto i rapporti con il Papa, i vescovi, l'opinione pubblica cattolica. Non è accaduto nulla di tutto questo.

Gianni Letta ha dovuto minacciare le dimissioni per convincere Berlusconi a mettere giù due righe di "dissociazione". Può dissociarsi soltanto chi è associato e tuttavia nei giorni successivi, mentre il lento assassinio di Boffo continua, non si ode una parola di disagio dell'editore-premier a dimostrazione che il vincolo dell'associazione è ben più stretto di quella rituale presa di distanza: Berlusconi vuole far sapere Oltretevere che non ammette né critici né interlocutori né regole.

Il secondo indizio è documentale. Il 21 agosto, Mario Giordano, direttore del Giornale, è costretto a lasciare la poltrona a Brighella. Ne spiega così le ragioni ai suoi lettori: "Nelle battaglie politiche non ci siamo certi tirati indietro (...) Ma quello che fanno le persone dentro le loro camere da letto (siano essi premier, direttori di giornali, editori, ingegneri, first lady, body guard o avvocati) riteniamo siano solo fatti loro. E siamo convinti che i lettori del Giornale non apprezzerebbero una battaglia politica che non riuscisse a fermare la barbarie e si trasformasse nel gioco dello sputtanamento sulle rispettive alcove".

Giordano non poteva essere più chiaro: mi è stato chiesto (e da chi, se non dall'editore-premier?) di fare del mio quotidiano una bottega di miasmi, per decenza non me la sono sentita e lascio l'incarico a chi quel lavoro sporco è disposto a farlo. Che il Giornale sia diventato un'officina di veleni lo conferma un redattore in fuga. Luca Telese, sul suo blog, racconta di dossier e schifezze già pronte al Giornale contro "giornalisti o parenti di giornalisti di Repubblica". L'indiscrezione è confermata in Parlamento da "uomini vicini al premier" (la Stampa, 29 agosto)

Il terzo indizio è, diciamo così, politico e cronachistico. Berlusconi, incapace di governare nonostante i numeri in eccesso e un'opposizione fragile, ha "rinunciato al suo profilo riformatore" (Il Foglio, 31 agosto). Non ha più alcun "fine". Difende soltanto "i mezzi", il suo potere personale. Lo vuole assoluto. Conosce un unico metodo per tenerselo ben stretto nelle mani: un giornalismo pubblicitario e servile che consenta di annullare ciò che accade nel Paese a vantaggio di una narrazione fatta di emozioni e immagini composte e ricomposte secondo convenienza; un racconto che elimina ogni criterio di verità; un caleidoscopio mediatico che produce un'ignoranza delle cose utile a credere in un'Italia meravigliosa senza alcun grave problema, in pace con se stessa, governata da un "Superman". Per questa ragione Berlusconi ingaggia l'obbediente Augusto Minzolini al telegiornale del servizio pubblico Rai. Per la stessa ragione, ma di segno opposto, liquida in un paio di mesi tre direttori di giornale. 2 dicembre 2008.

Il Corriere della sera (direttore Paolo Mieli) e la Stampa (direttore Giulio Anselmi) rilevano il conflitto d'interessi dietro la decisione di inasprire l'Iva per Sky, diretto concorrente di Mediaset. Da Tirana, Berlusconi lancia il suo "editto": "I direttori di giornali, come la Stampa e il Corriere dovrebbero cambiare mestiere". 10 febbraio. Enrico Mentana, fondatore del Tg5 e anchorman di Matrix, non riesce a ottenere uno spazio informativo da Canale5 per raccontare la morte di Eluana Englaro. Protesta. L'Egoarca lo licenzia su due piedi. In aprile l'editto di Tirana trova il suo esito. Il 6, Mieli lascia il Corriere. Il 20, tocca ad Anselmi. Mentana non è più tornato in video. Anselmi e Mieli non fanno più i giornalisti. Hanno davvero cambiato mestiere.

Il quarto indizio contro Berlusconi è concreto, diretto e recente. Quando non può licenziare o far licenziare i giornalisti che hanno rispetto di se stessi, Quello-Che-Comanda-Tutto organizza contro di loro intimidazioni: trascina in tribunale Repubblica colpevole di avergli proposto dieci domande e l'Unità per gli editoriali - quindi, per le opinioni - che pubblica. O dispone selvagge aggressioni. È il responsabile politico dell'assassino morale di Boffo preparato da Brighella. La maschera salmodiante combina campagne di denigrazione contro l'editore e il direttore di questo giornale. Poi l'editore-premier - come utilizzatore finale - si incarica di far esplodere quelle calunnie con pubbliche dichiarazioni rilanciate al tiggì della sera dall'obbediente Minzolini, che tace su tutto il resto.

Questa è la scena del delitto perfetto della realtà e del giornalismo. Sono in piena luce gli assassinii, gli assassinati, gli uccisori, il mandante. Vi si scorge anche un coro soi-disant neutrale. Vi fanno parte politici di prima e seconda fila che dicono: basta, torniamo alla realtà dei problemi del Paese. È proprio vero che "la pratica del potere ispessisce le cotenne". Queste teste gloriose, soffocate nella propria autoreferenzialità, non comprendono che è appunto questa la posta in gioco: la possibilità stessa di portare alla luce la realtà, di evitarne la distruzione, di raccontarla; di non fare incerta la distinzione tra reale e fittizio come Berlusconi pretende dai giornalisti anche a costo di annientare chi non accetta di farsi complice o disciplinato.

Il dominio di Quello-Che-Comanda-Tutto passa, oggi e prima di ogni altra cosa, da questa porta. La volontà di tanti giornalisti "normali" che chiedono soltanto di fare il proprio lavoro con onestà e dignità ne esce umiliata. La loro inazione oggi non ha più una ragion d'essere di fronte alla brutalità dei "delitti" che abbiamo sotto gli occhi. La prudenza che induce tanti, troppi a decidere che qualsiasi azione o reazione sia impossibile, non li salverà. Il conformismo non li proteggerà. Il mandante dei delitti è un proprietario che conosce soltanto dipendenti docili e fedeli. Se non lo sei, ti bracca, ti sbrana, ti digerisce.