mercoledì 30 settembre 2009

Afghanistan: la guerra di squadra

Lo si sapeva già da tempo, ma ieri il presidente USA Barack Obama al termine dell'incontro con il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha voluto precisarlo ufficialmente "La guerra in Afghanistan non è una battaglia americana ma è una missione più vasta della Nato. E' e rimarrà un'impresa di squadra".
Con Rasmussen che ovviamente rassicurava Obama sul fatto che la NATO resterà nel Paese "fino a quando il lavoro non sarà finito".

Ma il "lavoro" si sta facendo sempre più duro per la "squadra"....anche oggi a Khost, nel sud ovest dell'Afghanistan, un'automobile imbottita di esplosivo è esplosa al passaggio di una pattuglia di soldati della NATO e si parla di diverse vittime fra i soldati.
Infatti secondo quanto raccontato dal capo della polizia del distretto di Khost, Wali Shah, uno dei "mezzi Nato sarebbe in fiamme" e nonostante "non ci siano informazioni precise" è certo che "ci siano vittime fra i soldati".

Per la NATO avere la meglio sui guerriglieri afghani sarà veramente un'impresa...


Money is the answer
da bamboccioni alla riscossa - 29 Settembre 2009

“Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?”. Se lo chiedeva - all’indomani dell’ultima strage di soldati italiani - anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro (che pure, quando stava al governo, aveva votato per continuare la “missione di pace”, senza fiatare).

Un interrogativo che in questi giorni, in queste settimane, si devono essere posto molti italiani. Anche perchè a otto anni dallo scoppio del conflitto - conflitto che per alcuni è guerra al terrorismo; per altri una pura e semplice invasione - i più manco si ricordano cosa ci siamo andati a fare a Kabul. Sempre che lo abbiano mai saputo.

Bene. Le risposte a questa benedetta domanda - “Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?” - sono state tante. Politici, giornalisti e opinionisti di arte varia ci si sono dedicati per giorni tra prime pagine di giornali e prime serate tivù. Dicendo tutto e il contrario di tutto. Ma oggi Curzio Maltese - giornalista e firma di punta di “Repubblica” - è riuscito a dire qualcosa di più e di diverso.

Spiegando che... pace e democrazia e terrorismo c’entravano e c’entrano fino a un certo punto. E che molto, invece, c’entrano le armi. Armi che le aziende tricolori vendono copiosamente. Tanto ai nostri soldati. Quanto - e per quanto faccia male, è bene farlo sapere in giro - a ribelli, insorgenti o resistenti (comunque, insomma, li si voglia chiamare).

Maltese parte da un numero che pochi conoscono. E scrive:

Una settimana prima della strage di Kabul, lo studio ricerche del congresso Usa aveva stilato il rapporto annuale sul commercio d’armi, con una buona notizia per l’industria militare italiana, tornata la seconda esportatrice del mondo. Primi, naturalmente, gli Stati Uniti, con 37,8 miliardi di dollari; staccata l’Italia con 3,7 miliardi, ma pur sempre davanti alla Russia e al resto del mondo.

Ecco, allora, osserva il giornalista di “Repubblica” che:

Le missioni militari nel mondo spesso si rivelano un doppio affare. Aumentano le commesse militari nei Paesi occidentali, ma soprattutto fanno espandere la domanda nei Paesi mediorientali, africani e in genere del Terzo mondo, dove si dirige il settanta per cento del mercato.

Qualche esempio. Maltese ne cita due. Con tanto di nomi, o meglio è il caso di dire di cognomi. Primo:

Prendete il simbolo stesso dell’arma italiana, la pistola Beretta. In Iraq la usano tanto i soldati americani e italiani, quanto i terroristi di Al Qaeda. Quattro anni fa l’esercito americano ne trovò scatoloni interi in un arsenale di terroristi. (…) In teoria non si potrebbero vendere armi non solo ai terroristi, com’è ovvio, ma anche a molti Paesi belligeranti e non, sparsi per il mondo. Ma i sistemi per aggirare l’embargo sono moltissimi, noti eppure non controllati, come la vendita a pezzi da assemblare (…)

E secondo (esempio):

Le nostre mine antiuomo (…) sono state trovate in una ventina di nazioni. A cominciare dall’Afghanistan, la nazione più minata della Terra. I Talibani usano materiali di mine russe e italiane per comporre gli esplosivi degli attentati kamikaze.

Attentati come quello che ha ucciso i nostri soldati? Sì, esatto. Ma di tutto questo - all’indomani della strage di Kabul - quasi non si è parlato. E non lo si è fatto, secondo il giornalista di “Repubblica”, per una ragione molto semplice: “(…) quando si parla di ritiro delle truppe in Iraq e Afghanistan, si parla di perdite di miliardi di commesse militari per l’industria bellica.

Lo sa Berlusconi, amico personale di Guido Beretta. Lo sa Barack Obama, molto prudente sulla questione. Gli ultimi presidenti, candidati alla presidenza e primi ministri che hanno annunciato ritiri dal fronte e tagli alle spese militari, sono morti giovani“.

Tutto vero? Tutto faso? Difficile dire. Quel che è certo è che il “j’accuse” di Maltese è finito non in qualche angolino in fondo al giornale. Ma direttamente in uno spazio grosso come una cartolina dell’inserto di oggi (”il Venerdì” di Repubblica). E chissà: se fossero esiste - chessò - delle pagine locali distribuite solo su Marte, magari queste poche righe sulle ragioni di Guerra&Pagine sarebbero state confinate lì. In compenso - domenica scorsa - sempre Repubblica, ma in prima pagina, ospitava un fondo firmato dal suo fondatore, Eugenio Scalfari.

Titolo eloquente: “Come e perché restare a Kabul”. E giudizi tranchant sui politici italiani più propensi al ritiro: “Bossi vuole che i soldati italiani tornino a casa. Anche Di Pietro ha inalberato lo slogan del ritiro. L’anima populista dell’opposizione. Senza capire che questi slogan puramente velleitari non fanno che aumentare i rischi per i nostri militari: se la presenza italiana in Afghanistan diventasse incerta, gli assalti dei terroristi si concentrerebbero contro il nostro contingente per affrettarne la partenza”.

Forse: che parlare di ritiro è pericoloso, lo sanno bene anche a “Repubblica”.

P.S. L’articolo di Curzio Maltese - “Non esportiamo democrazia. Ma armi sì”, Venerdì di Repubblica, 25 settembre 2009 - non è ancora disponibile on line. Dovrebbe esserlo - come tutti gli articoli di “Repubblica” - a qualche giorno dalla pubblicazione. E allora, lo metteremo on line.


Strage. Massacro. Inferno. Reagire.

di Angelo Miotto - Peacereporter - 18 Settembre 2009

Quali sono le parole che vengono iniettate negli occhi della platea di lettori, del pubblico.

Strage. Massacro. Inferno. Reagire. Chi si ferma in edicola a comperare un quotidiano e scorre veloce i titoli a caratteri cubitali dei nostri quotidiani può provare a chiudere gli occhi: nel buio vedrà quelle parole ritornare.

Alla vigilia della manifestazione che non c'è più, domani, per la libertà di stampa spostata al 3 ottobre per i militari morti a Kabul, viene da riflettere su come vengono scelte le parole da chi la stampa la costruisce quotidianamente. Osservazioni critiche – ognuno sceglie di scrivere e pubblicare come meglio ritiene, ci mancherebbe – che però hanno a che vedere con quali sono le parole che vengono iniettate negli occhi della platea di lettori, del pubblico.

Scala mobile, metropolitana gialla di milano. Sono tutti in fila pazienti per arrivare alla banchina sotterranea. Hanno tutti in mano una free-press popolare. Il titolo: STRAGE INFINITA, tutto maiuscolo. La parola inferno torna, ha un immaginario perfetto per evocare lo scoppio, le fiamme, il dolore. Ma c'è qualche cosa che non funziona e non solo il giorno dopo l'attentato di Kabul.

Ricordo i funerali delle vittime di Nassirya, il vialone romano che portava alla basilica, tutto addobbato con bandierine italiane, la predica politica di Camillo Ruini, il vessilo italico stampato in fretta e furia per addobbare tutti i balconi che si affacciavano sul percorso. “Eroi”, la parola che tornava sempre più spesso e che torna ancora oggi.

Il comunicato del sindacato dei giornalisti che ha pompato per settimane una manifestazione e che si ritrae per cordoglio. Scelta discutibile, ma il testo del comunicato ha un valore in sé, per le parole scelte. “Con profondo rispetto verso i caduti, nell’espressione di un’autentica, permanente volontà di pace quale condizione indispensabile di una informazione libera e plurale capace di rappresentare degnamente i valori della convivenza civile, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, ha deciso, di rinviare ad altra data la manifestazione per la libertà di stampa programmata a Roma per sabato prossimo. In un momento tragico come questo ci stringiamo attoniti accanto ai nostri morti in Afghanistan. Sono morti dell’Italia che paga oggi un pesante tributo nella frontiera della sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo. Il nostro rispettoso pensiero va subito ai soldati caduti, alle loro famiglie,alle Forze Armate che, in un Paese martoriato, rappresentano la nostra comunità in ossequio a risoluzioni dell’Onu, in una complicata ricerca di una via di uscita dell’Afghanistan dal terrore verso la democrazia”.

C'è qualche cosa che non torna: ci sono due modi soli di scrivere un messaggio come questo. Quello in cui si dice: spostiamo per lutto. Punto e basta, retorico e d'occasione se si vuole. Oppure si devono calibrare le parole, perché in quel messaggio non c'è solo l'aspetto umano, ma ci si spinge sul fattore politico.

E allora non si capisce come razionalmente si possa mettere insieme una missione di “pace” con la permanente volontà di pace, non si capisce perché parlare della frontiera di sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo, come avrebbe potuto ben scrivere il ghost writer dell'ex presidente Bush, più che un sindacato di categoria.

I giornali, i titoli, il cubitale che inevitabilmente oggi ritorna. Le parole, il significato delle parole, hanno solo due modi di impiego: quello rispettoso del pensiero che esprimono, come se fossero un ideogramma che si scolpisce nelle caselle che abbiamo imparato a decodificare fin dall'infanzia. Oppure la perdita di significato per cattivo utilizzo, per logoramento, per mistificazione, per sciattoneria, o per spettacolarismo. E, viste le immagini che hanno accompagnato la notizia dell'attentato con cadaveri, feriti, distruzione, non si capisce perché voler far volare l'iperbole letteraria.

C'è un altro motivo, cinico, che porta all'orgasmo di mezzi, parole, strutture verbali ed enfasi spinta. Il caso mediatico, già grave, molto grave, già doloroso per chi lo ha vissuto, già significativo anche a livello politico e sociale, diventa una leva che cerca di spingere l'emozione, lo stupore, la compassione.

La notizia si droga, è dopata e così regge e deve reggere almeno – oggi lo sappiamo- fino a lunedì e ai funerali di Stato. Certo, ci sono gli editoriali, le analisi e i commenti. Ma quelle parole tornano negli occhi: strage, massacro, inferno, reagire. Mentre scorrono sulla rete attentati, bombardamenti e morti di fame, che di caratteri cubitali non vedranno nemmeno l'ombra.


Spettacolarizzare l'innocenza

di Paolo Pergolizzi* - Peacereporter - 21 Settembre 2009

I media mettono i bambini in primo piano ai funerali dei parà uccisi

Figli che piangono sulle bare dei padri uccisi in combattimento, con il basco rosso da parà in testa mentre sussurrano, "papà è lì", di fronte al feretro che arriva all'aeroporto di Ciampino e, addirittura, che fanno il saluto militare alle esequie dei loro padri.

Assistiamo in questi giorni, in occasione del ritorno in patria delle salme e dei funerali di Stato per i soldati morti a Kabul, alla spettacolarizzazione del dolore dei bambini che sbarca, con un flusso ininterrotto di immagini, su televisioni, giornali e quotidiani on-line. Non so se è la prima volta che accade ma, a memoria, non ricordo un utilizzo così massiccio dei volti dell'infanzia, in occasioni istituzionali, per evocare il dramma della guerra e della perdita dei loro genitori.

La spettacolarizzazione del dolore dei bambini era avvenuta a Gaza, dove avevamo visto i corpi straziati e uccisi dei bimbi palestinesi e il loro terrore. Ma lì era un'altra cosa. I piccini, in quel caso, erano vittime. Qui sono testimoni di uno strazio e di una perdita, non so quanto consapevole alla loro età. Gli articoli toccanti e lacrimevoli si sprecano, nella descrizione di quanto siano teneri questi bambini che accarezzano il feretro del loro genitore o corrono sulla pista di Ciampino.

E' cronaca, d'accordo. Sono occasioni pubbliche, istituzionali, cerimonie di Stato. Tuttavia, un sospetto emerge. Non è che i mass media stanno spettacolarizzando il dolore di queste piccole creature? Quante copie fa vendere l'immagine del povero Simone, con i suoi occhioni verdi spalancati e stupefatti, con il basco amaranto del papà in testa? E' un'immagine contro o a favore della guerra che, di fatto, i nostri soldati stanno oramai combattendo in Afghanistan? Io non lo so. Ognuno utilizzerà quelle immagini a modo suo.

Tuttavia, anche se fosse solo cronaca, qualche problema, noi giornalisti, ce lo dovremmo porre. Se non altro per rispetto al codice deontologico e alla Carta di Treviso, sottoscritta dalla nostra categoria, quando dice che «la tutela della personalità del minore si estende anche a fatti che non siano specificamente reati in modo che sia tutelata la specificità del minore come persona in divenire, prevalendo su tutto il suo interesse ad un regolare processo di maturazione che potrebbe essere profondamente disturbato o deviato da spettacolarizzazioni del suo caso di vita. Particolare attenzione andrà posta per evitare possibili strumentalizzazioni da parte degli adulti portati a rappresentare e a far prevalere esclusivamente il proprio interesse».

E' giusto che questi piccini entrino a contatto con il mistero della morte e partecipino ai funerali dei loro padri. E' meno giusto, forse, che tutto questo venga spettacolarizzato dai mass media.

*Giornalista di 'Libertà' di Piacenza


Afghanistan: com’è e come ce lo racconta La Russa

di Giancarlo Chetoni - http://byebyeunclesam.files.wordpress.com - 25 Settembre 2009

L’Afghanistan ha un’estensione di 647.500 kmq, quasi due volte l’Italia, confina con Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Pakistan. La frontiera in comune solo con quest’ultimo Paese è di 2.640 km. Un’enormità.

Il Kosovo ha un’area di 10.887 km. Per la sua “stabilizzazione” in una condizione geopolitica – ormai pressoché definitiva – di narcostato dalla seconda metà del 1999, ottenuta con 78 giorni di bombardamenti aerei, segnata da residue tensioni etniche tra albanesi e serbi, USA-NATO-ONU-EULEX hanno impiegato sul terreno fino ad oggi un numero fluttuante di scarponi che non è mai sceso sotto i 12.000 e ha raggiunto un picco di 14.500.

L’Abruzzo occupa un’area di 10.794 km. Stiamo usando gli stessi riferimenti che il generale Fabio Mini adopera nelle sue conferenze in giro per l’Italia dopo essere stato tagliato fuori non solo da Rai e Mediaset ma anche da La Repubblica che in qualche rara occasione gli ha consentito nel corso del 2008 di farci capire come stavano le cose al Comando Operativo Interforze di Centocelle ed in Afghanistan.

Ecco cosa dice l’ex comandante KFOR-NATO messo brutalmente da parte dal Popolo della Libertà di Martino per aver voluto eseguire solo “ordini scritti” e pensionato dall’Ulivo di Parisi: “Non siamo mai riusciti a sigillare completamente i confini tra Albania e Kosovo, non vedo come possano riuscirci gli americani lungo i confini Af-Pak, specie nei 650 km delle zone tribali sotto la sovranità formale di Islamabad”.
Un confine poroso, porosissimo.

In territorio pakistano ex ufficiali e sottoufficiali dell’ISI addestrano, quale che sia il governo al potere nel loro Paese, almeno 3.500-4.000 pashtun all’anno, sufficienti a coprire le perdite in combattimento in Afghanistan attingendo reclute da un serbatoio potenzialmente stimato di 250.000 uomini delle regioni centrali autonome di età compresa tra i 16 ed i 45 anni.

I dati “geografici” citati fanno immediatamente capire perché il controllo militare dell’Afghanistan sarebbe un obbiettivo strategico totalmente fuori portata per la coalizione Enduring Freedom-ISAF anche in condizioni di una ritrovata normalizzazione del quadro politico-organizzativo-economico del Paese.

Per il generale Mini, la guerriglia mujaheddin ha messo in campo nel 2008 7.000-7.500 combattenti e stima che siano aumentati a 10.000 nel corso dei primi otto mesi del 2009.
Un dato che non convince, a naso, per difetto.

Per altro non esiste, ad oggi, a distanza di quasi otto anni dall’intervento USA in Aghanistan, un solo documento ufficiale del Pentagono che quantifichi una stima sia degli “insorti” pashtun che delle milizie mujaheddin né si conosce un solo articolo pubblicato sulla materia da giornali americani od europei.

Siamo riusciti a darci su questo clamoroso buco di informazione la seguente spiegazione: il sostegno a Paesi “amici” o l’aggressione mascherata da operazioni di polizia internazionale, di peacekeeping/enforcing – funzioni che spesso si sovrappongono – finanziate dalla cosiddetta Comunità Internazionale con la flagrante complicità delle Segreterie Generali dell’ONU nei punti caldi dell’Africa e dell’Asia, stanno logorando, come effetto non previsto, a livello economico, militare e politico USA ed Europa.

Forze numericamente esigue, profondamente motivate, radicate sul territorio, che si vettovagliano e combattono a costi estremamente contenuti costituiscono oggi un modello vincente sia sul campo che in quello dell’economia di guerra del XXI° secolo.

In Afghanistan uno scarpone “tricolore” assorbe – al netto dell’incremento di spesa di 52 milioni di euro all’anno per la gestione dei soli quattro Tornado IDS – risorse per 450 euro (530 dollari) al giorno e cresce con l’aumento numerico e qualitativo dei mezzi terrestri ed aerei adibiti a protezione, sorveglianza, contrasto ed attacco.

L’”insorto” afghano si nutre, si rifornisce di proiettili in calibro 7.62×33 per il suo vecchio AK47, di cariche di lancio RPG e combatte, e bene, con non più 4-5 dollari nell’arco delle 24 ore, anche se il generale Castellano ci racconta qualche barzelletta che verrebbe voglia di perdonargli per l’ingenuità con cui sciorina paghe per i “ribelli” di 300-600 dollari al mese e compensi di 1.500 dollari per chi si fa saltare in aria.

Aiuta il pashtun il diverso livello di civiltà che lo distingue dall’aggressore, la fede nel suo Dio, la frugalità, l’esperienza maturata in combattimento e l’orografia.
L’80 % dell’Afghanistan è montagna dai 700 ai 3.000 metri d’altitudine.
Nel Paese delle Montagne il rapporto di costi di guerra tra Oriente ed Occidente è di 1:100.

L’insostenibilità di un’occupazione di lungo periodo, al di là dei risultati che si potranno ottenere sul campo, di USA ed Europa non può non essere immediatamente percepibile.
Insomma, dopo una costosissima usura materiale e psicologica ed una colossale perdita di credibilità politica l’Occidente dovrà, volente o nolente, togliere le tende, rinunciare all’occupazione militare dell’ Afghanistan.

Per capovolgere a suo vantaggio il conflitto al militante afghano basterebbe disporre di qualche centinaio di Sam 18 (spalleggiabili) e di un migliaio di lanciatori Kornet E od equivalenti, cinesi, pakistani, iraniani, non ha importanza.

Basterebbe il contenuto di 10-12 contenitori da 40″ distribuiti a dorso di mulo per far correre a rotta di collo all’imbarco aereo od alla fuga in colonna ISAF ed Enduring Freedom, personale militare e civile di West RC e PRT 11. Ambasciatore Sequi in rappresentanza di Italia-UE compreso.
Tra i mujaheddin ci sono capacità d’uso, magari un po’ ingiallite, e mani che hanno già impugnato i Fim 92 Stinger per abbattere 300 velivoli ad ala fissa o rotante dell’Armata Rossa.

Se in Kosovo per mantenere “ordine e sicurezza” serve mantenere pronto al combattimento 1 militare/kmq, in Afghanistan – con la presenza di sette ceppi linguistici ed otto diverse etnie, un passato ed un presente segnato da sanguinosi episodi di guerra civile, pesanti scontri tribali, rivolte armate ed una statualità inesistente – va da sé che anche 500.000 militari USA-NATO sarebbero del tutto insufficienti a garantire la “pacificazione”.

Nonostante gli sforzi degli “istruttori” dell’Arma dei Carabinieri, in Italia ed in Afghanistan, il livello di preparazione tecnica e di disposizione al combattimento dell’elitè di esercito e polizia afghana a tutt’oggi rimane fortemente inadatto per affrontare la “guerriglia” in campo aperto.

Secondo la rivista Navires & Histoire n° 56, dall’1 ottobre 2001 al 6 luglio 2009 Enduring Freedom ha avuto 983 caduti (di cui 33 suicidi) e 8.831 tra amputati e feriti, ISAF-NATO rispettivamente 632 e 5.814. Nello stesso periodo di tempo, sono morti per cause dirette ed indirette causate dalla “missione di pace” 84.473 tra “civili”, “ribelli”, militari e militarizzati afghani.

Intanto Napolitano, il capo del Consiglio Supremo di Difesa, e La Russa, Ministro della Difesa della Repubblica delle Banane – in odor di combutta con Fini contro Berlusconi a quanto si sussurra – alleggeriscono di brutto il portafoglio degli italiani perbene recitando un mantra di manfrine.


Afghanistan, ''rischio fallimento''

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 22 settembre 2009

Lo afferma il comandante supremo delle truppe alleate nel paese, chiedendo più soldati

L'Occidente rischia di perdere la guerra in Afghanistan. A scriverlo, nel lungo rapporto indirizzato al Pentagono, è il generale statunitense Stanley McChrystal, comandante delle truppe alleate in Afghanistan.
Ecco alcuni interessanti estratti del testo, pubblicato ieri dal Washington Post.

Un anno per rovesciare le sorti del conflitto. La situazione in Afghanistan è seria; né il successo né il fallimento possono essere dati per scontati. Anche se grandi sforzi e sacrifici hanno prodotto dei progressi, molti indicatori suggeriscono che la situazione generale si sta deteriorando. Stiamo fronteggiano non solo una dura e crescente resistenza; c'è anche una crisi di fiducia tra gli afgani - sia verso il loro governo che verso la comunità internazionale - che mina la nostra credibilità e rafforza gli insorti. Se nei prossimi 12 mesi non riusciamo a prendere l'iniziativa e a fermare lo slancio degli insorti rischiamo di trovarci in una situazione per la quale non sarà più possibile sconfiggere l'insurrezione.

Finora Isaf e governo afgano hanno fallito. Concentrati nella protezione delle nostre stesse truppe, abbiamo operato in maniera tale da distanziarci dalla popolazione e con tattiche che causano vittime civili e inutili danni collaterali. Gli insorti non possono sconfiggerci militarmente; ma noi possiamo sconfiggere noi stessi. (...) La debolezza delle istituzioni statali, la malefatte, la corruzione e gli abusi di potere da parte delle autorità e gli errori della stessa Isaf hanno dato poche ragioni agli afgani per sostenere il loro governo. Questo, assieme alla mancanza di opportunità economiche ed educative, ha creato un terreno fertile per l'insurrezione. A peggiorare la situazione c'è la naturale avversione degli afgani agli interventi stranieri e la tradizionale indipendenza delle etnie afgane, in particolare dei Pashtun, dal governo centrale.

Concentrarsi sulla popolazione. Questo è un momento importante, decisivo di questa guerra. Gli afgani sono frustrati dopo otto anni senza prove dei progressi che erano stati loro anticipati. La pazienza sta per finire, sia in Afghanistan che nei nostri paesi. (...)Il nostro obiettivo deve diventare la popolazione afgana. Essa può essere una fonte di informazioni e un argine all'insurrezione, ma può anche fornire un tacito o concreto sostegno agli insorti. (...) Per sconfiggere l'insurrezione non basta sottrarle combattenti e comandanti: bisogna sottrarle il sostegno e il controllo della popolazione. Per farlo Isaf deve aiutare il governo afgano a guadagnarsi la fiducia della popolazione.

I talebani hanno un ampio vantaggio. Gli insorti combattono da anni una 'guerra silenziosa' per controllare la popolazione. Questo sforzo ha reso possibile l'instaurazione di 'governi ombra' in una significativa porzione del paese: nominano governatori ombra, amministrano la giustizia, raccolgono tasse e arruolano combattenti, dicendosi protettori della popolazione nei confronti del governo corrotto, delle forze straniere, della criminalità e dei potenti locali, e difensori dell'identità afgana e musulmana dalle minacce straniere. Insomma, gli insorti forniscono alla popolazione le principali funzioni di governo e anche una narrativa nazionale e religiosa.

Per vincere ci vogliono anche più truppe. La nostra campagna in Afghanistan è storicamente stata caratterizzata da una scarsità di risorse e così è ancora oggi. La missione Isaf ha bisogno di più risorse e più truppe, di un incremento delle capacità e dell'efficacia delle sue forze. Senza questo incremento si rischia una guerra più lunga, con maggiori perdite e, in ultimo, una critica perdita di sostegno politico. (...) Lo scopo della missione Isaf è sconfiggere l'insurrezione, far sì che essa non costituisca più una minaccia al governo afgano. Questo non arriverà né in tempi brevi né in maniera facile. E' realistico aspettarsi un aumento delle perdite tra gli afgani e la coalizione.


Una guerra rischiosa e costosa

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Settembre 2009

La guerra in Afghanistan, quella iniziata il 7 ottobre 2001, ha provocato la morte di 21 soldati italiani, 1.400 soldati alleati, 6 mila soldati e poliziotti afgani, circa 25 mila guerriglieri talebani e quasi 11 mila civili afgani (di cui oltre 3 mila vittima degli attacchi talebani e almeno 7 mila uccisi dalle truppe alleate - più di 3 mila civili morirono nei soli bombardamenti aerei del 2001-2002). In totale, quindi, almeno 43 mila vite umane sono state stroncate in otto anni di guerra.

La spedizione militare in Afghanistan è costata finora ai contribuenti italiani oltre due miliardi e mezzo di euro. All'inizio la missione aveva un costo annuo medio di circa 300 milioni di euro, ma oggi - con il progressivo invio di più uomini e mezzi - supera ampiamente il mezzo miliardo (il che significa quasi un milione e mezzo di euro al giorno).
Per la tanto propagandata ricostruzione dell'Afghanistan, l'Italia ha speso finora circa 40 milioni di euro.

Distruggere o ricostruire? Queste cifre, che su scala maggiore sono le stesse per gli Stati Uniti e gli altri alleati, sono il frutto della strategia adottata dalla Nato in Afghanistan, soprattutto negli ultimi anni. Nel dicembre 2007 il capo del Pentagono, Robert Gates, dichiarò che in Afghanistan “la Nato deve spostare la sua attenzione dall’obiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre una classica controinsurrezione”.

E così è stato. Si è deciso che prima bisognava vincere la guerra e sconfiggere i talebani, e solo poi ricostruire il paese. “Come nella seconda guerra mondiale – spiegava recentemente nel dibattito di Firenze l’analista militare Gianandrea Gaiani – prima si sconfissero i nazisti, poi si ricostruì l’Europa con il piano Marshall”.

“Io non condivido questa sequenza, prima la sicurezza e poi ricostruzione”, gli aveva ribattuto il generale Fabio Mini, ex comandante delle truppe Nato in Kosovo. “Oggi la sicurezza in Afghanistan non è assicurata da nessuno, tanto meno dalle forze militari straniere. Controllare il territorio significa avere il consenso della gente. Noi non potremo mai avere sicurezza fino a quando non sarà garantita la sopravvivenza agli afgani. C’è bisogno di ricostruire l’Afghanistan, anzi, di lasciarlo costruire a chi ha le forze: ai civili. Lasciamo perdere i militari”.

I rischi per i soldati. Fino a tre anni fa le truppe italiane schierate in Afghanistan erano concentrate a Kabul, dove la situazione era ancora molto tranquilla, e non svolgevano azioni di combattimento - se si escludono le forze speciali della Task Force 45 impegnate nell'operazione segreta ‘Sarissa'.

Dall'estate del 2006, con spostamento del contingente stato nelle regioni più ‘calde' dell'ovest, sono iniziati i primi scontri con i guerriglieri talebani, ufficialmente solo ‘difensivi'. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, mutate nella loro composizione (non più alpini e bersaglieri ma solo parà della Folgore), cresciute di numero (quasi 3 mila) e dotate di mezzi più aggressivi (carri armati ed elicotteri da combattimenti), hanno ufficialmente iniziato le azioni ‘offensive' penetrando in zone controllate dai talebani (Farah e Badghis).

Da allora i soldati italiani sono quotidianamente impegnati in azioni di combattimento e in vere e proprie battaglie nelle quali hanno ucciso centinaia di guerriglieri.
Anche le truppe rimaste a presidiare Kabul, ormai accerchiata e infiltrata dai talebani, si sono trovate esposte a imboscate e attacchi, sia fuori che dentro la capitale.


Per cosa sono morti?

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Settembre 2009

Era partito per fare la guerra, per dare il suo aiuto alla sua terra. Gli avevano dato le mostrine e le stelle e il consiglio di vender cara la pelle. (...) Ora che è morto la patria si gloria d'un altro eroe alla memoria. Ma lei che lo amava, aspettava il ritorno d'un soldato vivo. D'un eroe morto che ne farà se accanto, nel letto, le è rimasta la gloria d'una medaglia alla memoria.
(Fabrizio De André, La ballata dell'eroe)

L'Italia piange i suoi soldati morti a Kabul in un attentato della guerriglia talebana.
Peacereporter dedica loro, e alle loro famiglie, questi versi di Fabrizio De Andrè.

Per cosa sono morti?
Per difendere la pace, la libertà, la democrazia in Afghanistan e la sicurezza internazionale come dicono i nostri politici? No.

Non per la pace, perché i nostri soldati in Afghanistan stanno facendo la guerra.
Non per la libertà, perché i nostri soldati stanno occupando quel paese.
Non per la democrazia, perché i nostri soldati proteggono un governo-fantoccio che non ha nulla di democratico.

Non per la sicurezza internazionale, perché i nostri soldati stanno combattendo contro gli afgani, non contro il terrorismo islamico internazionale: a questo, semmai, stanno fornendo un pretesto per odiare e attaccare l'Occidente e anche il nostro paese.
E allora per cosa sono morti?

La risposta l'ha data il generale Fabio Mini, ex comandante del contingente Nato in Kosovo, intervenendo la scorsa settimana a un dibattito sull'Afghanistan tenutosi a Firenze e organizzato da Peacereporter:
"Ufficialmente lo scopo fondamentale, il center of gravity, della missione non è la ricostruzione, o la pacificazione né la democrazia: è la salvaguardia della coesione della Nato in un momento di crisi della stessa. Questo è lo scopo dichiarato, scritto nei documenti ufficiali della missione Isaf.

La Nato è in Afghanistan esclusivamente per dimostrare che è coesa: lo scopo è essere insieme. Ecco perché gli Stati Uniti chiedono soldati in più: ma pensate davvero che manchino loro le forze per far da soli? Credete davvero che i nostri soldati o i lituani siano importanti? No!

L'importante è che nessuno si sottragga a un impegno Nato. Ecco perché vengono chiesti continuamente uomini agli alleati".
"Agli infami, vigliacchi aggressori che hanno colpito ancora nella maniera più subdola diciamo con convinzione che non ci fermeremo", avverte il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.

E' stravagante definire ‘vigliacchi' uomini che sacrificano la propria vita per uccidere il nemico. Forse questo giudizio andrebbe riservato ai piloti alleati che da mille piedi di altitudine sganciano bombe che fanno strage di talebani e civili, sapendo di non poter essere né visti né colpiti.

Anche chiamare ‘aggressori' i guerriglieri talebani che colpiscono le truppe d'occupazione Nato è curioso. Siamo noi che abbiamo aggredito loro invadendo il loro Paese.
"Non ci fermeremo", conclude La Russa in tono bellicoso. Altri soldati italiani dovranno quindi sacrificare le loro vite e stroncare quelle di altri afgani, combattenti e non.

Da maggio, per la cronaca, le truppe italiane hanno "neutralizzato" almeno cinquecento "nemici" nelle battaglie combattute nell'ovest dell'Afghanistan con il massiccio impiego di carri cingolati ed elicotteri da combattimento. E presto, come annunciato, anche con le bombe sganciate dai nostri Tornado.

Secondo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, bisogna "conquistare il cuore degli afgani per fare terra bruciata di ogni complicità e omertà verso i terroristi".

Ma finché l'occupazione e la guerra continueranno, con le stragi di civili, i rastrellamenti, la distruzione dei villaggi, la terra bruciata si allargherà attorno ai nostri soldati e la guerriglia afgana diventerà sempre più popolare.

La rabbia e il dolore di chi, a causa delle truppe occidentali, perde un familiare, la casa, una parte del corpo o semplicemente la libertà e la dignità, non fanno che portare acqua al mulino del "nemico". Un nemico che, infatti, più la guerra va avanti, più si rafforza e guadagna consensi.


Vittime da curare o da interrogare?

di Massimo Garatti - Peacereporter - 17 Settembre 2009

Mentre si piangono i morti italiani, un chirurgo di Emergency a Kabul racconta che fine fanno i feriti afgani

Non si capisce il perché. O forse il perché è ben chiaro, ma è troppo ripugnante per crederci.

In una città come Kabul, di quattro milioni e passa di abitanti, durante eventi violenti come quello di oggi non esiste la minima possibilità di coordinare le risorse di chi fa attività sanitaria e si occupa di feriti civili, perché buona parte dei pazienti viene trasferita con mezzi militari nell'unico ospedale militare della città: le zone colpite vengono infatti cordonate da militari afgani e di ISAF e alle ambulanze civili non è nemmeno permesso entrare.

Ai rappresentanti dello stesso Ministero della Sanità afgano è stato impedito oggi di entrare nell'Ospedale militare di Kabul e, quindi, solo il ministero della Difesa ha potuto render conto del numero delle vittime civili

Dopo il tragico attentato di oggi, oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili.

Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, lo si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio". Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito ma quanto sei utile alle indagini.

Il Centro chirurgico di Emergency a Kabul riceve quotidianamente decine di feriti che vengono da tutte le province vicine, ma quando una bomba esplode a 500 metri dall'ospedale, ai pazienti viene reso impossibile esercitare il proprio diritto ad essere curati: per motivi che chi fa attività sanitaria, come me, trova difficile comprendere.


I caduti in Afghanistan e il cuoco di Giulio Cesare
di Franco Cardini - www.francocardini.net - 24 Settembre 2009

a chiunque abbia tempo e voglia di combattere per un’altra causa persa.

Cari Amici,

se lo domandava molto tempo fa il vecchio Bertolt Brecht: Giulio Cesare ha conquistato tutta la Gallia: ma non aveva nemmeno un cuoco? Gli fece eco, anni piu radi, il nostro Lucio Dalla in Itaca: “Capitano, che hai negli occhi – il tuo splendido destino – pensi mai al marinaio – a cui mancan pane e vino? – Capitano, che hai trovato – principesse in ogni porto, - pensi mai al rematore – che sua moglie crede morte?”.

E’ una bella canzone, questa di Dalla: un po’ vecchia ormai, ma adatta a chi corre l’avventura in paesi lontani. Chissà se la conoscono, i nostri parà in Afghanistan. Fra l’altro, farebbe molto al caso loro: e al nostro.

Lo dico perché anch’io ho seguito, il 20 aprile, il rientro dei nostri ragazzi caduti. Sono un vecchio ex ufficiale d’aeronautica, i parà li conosco e li amo. Quelli, poi, avrebbero potuto per età essere miei figli. E avrei potuto essere nonno di Simone Valente, il bambino di due anni figlio del sergente maggiore Roberto: uno dei cinque tornati a casa forse proprio secondo la descrizione di un altro nostro poeta e musicista, Fabrizio de André, le salme avvolte nelle bandiere “legate strette perché sembrassero intere”.

I politici e i loro gregari gestori dei mass media, che – ne siano consapevoli o no – ce li hanno sulla coscienza, si sono sgolati chiamandoli “vittime”, “eroi”, “martiri”. No: niente di tutto ciò. Un soldato che cade durante un combattimento o un incidente di guerra è, appunto, un caduto: non è una “vittima”, perché tale appellativo spetta agli inermi, agli indifesi che avrebbero dovuto restare estranei ai fatti d’arme, laddove i soldati stanno in uniforme e in armi perché di tali fatti sono coprotagonisti.

Non è né un “martire”, né un “eroe” perché, al di là della retorica facile perché gratuita, tali termini spettano a chi in qualche modo ha compiuto qualcosa di straordinario e di esemplare. E i cinque parà, strettamente parlando, non sono caduti nemmeno nell’adempimento del loro dovere, in quanto erano in Afghanistan per una loro libera volontaria scelta.

Essi sono caduti nell’esercizio delle loro funzioni, facendo il loro lavoro: in una circostanza tragica, ma che faceva parte purtroppo della loro condizione professionale. E che ne facesse parte ciascuno di loro lo sapeva benissimo. Poiché il loro lavoro aveva ed ha una valenza pubblica, onoriamoli. Ma non infanghiamone la memoria contaminandola con la retorica. Per un soldato, la morte – lo diceva benissimo José Antonio Primo de Rivera, che lo provò con i fatti – “è un atto di servizio”.

Ecco perché è grottesco che il ministro La Russa dichiari che quei parà sono morti “per la Patria”. In Italia, se si vuol restare fedeli alla costituzione le armi s’imbracciano soltanto per difendersi; e il teorema della “difesa preventiva”, secondo il quale l’occupazione dell’Afghanistan servirebbe a tutelare le nostre città e le nostre case dalla possibilità di attacchi terroristici, prima di essere infame e ridicolo.

La guerra al terrorismo si fa con l’intelligence, con l’infiltrazione e soprattutto con l’eliminazione delle ragioni sociali e politiche suscettibili di far guadagnare simpatie ai terroristi: non con i bombardamenti aerei e con i carri armati.

L’occupazione dell’Afghanistan ha avuto tra le sue conseguenze quella di diffondere a macchia d’olio il terrorismo e la simpatia per esso. Lorsignori hanno mandato i nostri soldati a morire per far piacere alla superpotenza statunitense e nel nome di un demenziale teorema geopolitico; ed essi hanno accettato il rischio, al di là delle varianti personali, perche cio faceva parte della loro condizione professionale.

Il che non vuol affatto dire che i nostri ragazzi siano morti invano: al contrario. Quando a troppi italiani sarà caduto dagli occhi il malefico velo della propaganda che ora intralcia loro la vista, apparirà chiaro che quelle vite sacrificate sono state altrettanti passi sulla via della pace e della giustizia: la quale passa per forza attraverso il riconoscimento che l’avventura in Afghanistan e stata tanto infame quanto assurda.

E non è meno grottesco Umberto Bossi, quando ammettendo di aver votato per mandare in Afghanistan i nostri soldati, precisa che non aveva alcuna intenzione di “mandarli a morire”. Non so se Ella abbia fatto il soldato e ignoro quanto Ella sappia di storia, Signor Ministro: ma lasci che Le confidi in un orecchio un piccolo segreto. In guerra ci si muore.

D’altronde, la gaffe di Bossi è comprensibile. Ma proprio questo la rende più repellente. Le guerre in Iraq e in Afghanistan, come troppi conflitti che oggi insanguinano il mondo dalla Palestina all’Africa, vedono confrontarsi forze armate “regolari” e superarmate contro avversari in condizione militarmente inferiore, a parte le vittime civili e i caduti sotto “fuoco amico” e a causa di “danni collaterali”, che in genere si degnano appena di una distratta menzione.

E’ sottinteso che molti pensano che, in una guerra del genere, i “nostri” data la loro superiorita militare siano invulnerabili e che il morire tocchi solo agli altri. Così come nessuno storico si è mai piegato sui problemi e magari i dolori del cuoco di Cesare, che pure era in fondo un uomo come lui e come noi, assistiamo oggi a una terribile ingiustizia, che aggiunge all’orrore del sangue versato l’offesa del disprezzo e della noncuranza.

Dei nostri cinque parà, anche se a pochi giorni dal loro sacrificio essi stanno gia purtroppo entrando nell’oblio (sono queste le regole della societa-spettacolo), finché facevano notizia ci hanno detto tutto: ne abbiamo visti i volti, ne abbiamo letti i profili biografici, ne conosciamo i nomi e quelli delle loro mogli, delle loro fidanzate, dei loro figli. Qualcuno di loro avrebbe forse preferito un po’ piu di riserbo, di silenzio: di pudicizia. Ma in fondo è forse giusto che sia stato così: erano soldati del nostro esercito, gente nostra. I prossimi, gli affini, i familiari ci sono ovviamente e naturalmente sempre piu cari di chi ci sta piu lontano.

Ma non sarebbe né umano, né cristiano continuar a ignorare le vittime degli “altri”, a tenere nell’ombra e nel silenzio quelli “dell’altra parte” (se è un’altra parte: e non lo e, perche con loro non siamo in guerra, e comunque perche condividiamo con loro la condizione umana, la vera patria comune): come le decine di poveri afghani, fra cui donne vecchi e bambini, trucidati non troppi giorni fa da un barbaro disumano e inutile attacco aereo mentre cercavano di alleviar la loro miseria drenando un po’ di benzina da un camion sventrato. Era “complicita col terrorismo”, quel povero gesto?

Era un “atto di guerra”, d’una guerra non dichiarata, quella strage barbarica, che teneva dietro a un numero ormai spaventosamente alto di analoghe stragi tutte impunite?

Ed è umano, è degno della “nostra civiltà occidentale”, continuar a trattare come dei semplici numeri tutti i poveri morti che giornalmente affollano le cronache distratte di quelle guerre lontane – in Afghanistan come in Iraq, come in Palestina, come in Africa, come nel sud-est asiatico, come nell’America latina, anzi che sovente vengono taciuti del tutto perche “non fanno notizia”?

Ecco: umanità e giustizia vogliono che anch’essi facciano al contrario notizia; che cessino di essere aridi e anonimi numeri su un bollettino o su una statistica. Perche pesano sulla nostra coscienza. E sono un peso intollerabile soprattutto per noi che all’insensata e infame avventura afghana siamo sempre stati contrari, e nondimeno non siamo riusciti a fermarla.

Mi chiedo: esiste chi possa raccogliere queste righe e farle proprie? Ed esiste in Italia un giornale che abbia il coraggio di dedicar alle vittime afgane innocenti ogni giorno cinque brevi necrologie, tante quanti erano i nostri parà caduti?

Sarebbe necessario e doveroso specchiarsi in quei volti, imparar a fare i conti con chi è morto anche per colpa del nostro silenzio e della nostra acquiescenza; con quelli della cui uccisione siamo stati complici, e lo abbiamo fatto a cuor leggero perché erano “lontani”, perche erano “diversi”, perche non hanno nessuno che li difenda e ne rivendichi la memoria e il rispetto.

Dovremmo meditare sulle loro sembianze e sulla loro vite spezzate, noialtri che non riusciamo a opporci abbastanza efficacemente alle canaglie nostrane, ai mascalzoni che con arroganza ci vanno ripetendo che invadere un paese altrui e bombardare degli inermi da duemila metri è un normalissimo – e perfino “eroico” - atto di guerra per quanto la guerra non sia dichiarata, mentre difendere la propria terra con le armi di cui dispone un popolo che non ha né aerei, né elicotteri, né missili aria terra, né mezzi corazzati, è un atto “infame” e “vile”.

Il vostro sarebbe disposto a questo tipo di testimonianza?

Saluti.


Io, aspirante apolide, non ho sulla coscienza la morte di quei soldati
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 27 Settembre 2009

Egregio dottor Fini, lei è sempre stato filotalebano e quindi sarà contento del ‘colpaccio ’ messo a segno contro i nostri soldati. Lei non è degno di essere italiano.
Giorgio Gaggini, Firenze


La accontenterei subito se ci fosse la possibilità, come in epoche più libere, di dismettere la nazionalità. Mi farei apolide formalmente, quale di fatto sono stato in questo Paese che non mi ha dato niente, non mi ha riconosciuto niente e dove ho subito ogni sorta di soprusi.

Del resto sono a metà russo e se dovessi proprio scegliere preferirei essere mezzo russo piuttosto che mezzo italiano. Non mi pare che, dall’Unità in poi ci sia troppo di che essere orgogliosi. Siamo stati i primi e gli unici europei a usare le armi chimiche contro una popolazione di poveracci. In due guerre mondiali abbiamo cambiato due volte alleanze.

Nella seconda non dovevamo allearci con chi ci siamo alleati ma non dovevamo nemmeno, al momento del dunque, in una lotta per la vita e per la morte, pugnalare l’alleato alla schiena e, per sopramercato, celebrare l’8 settembre, la giornata della vergogna, del ‘tutti a casa’, come una sorta di festa nazionale. Italiano sarà lei.

Io non difendo i Talebani in quanto tali, in loro difendo il diritto elementare di un popolo, o di parte di esso, a resistere all’occupazione dello straniero e il pricipio, sottoscritto solennemente a Helsinki nel 1955 da quasi tutti i Paesi del mondo, all’autodeterminazione dei popoli.

Dei nostri soldati morti non io, che contro quelle guerra mi sono sempre battuto, ma altri, quelli che vediamo ogni giorno in Tv propalare menzogne, dovrebbero sentire un peso sulla coscienza.