Il caso Tripod II e altri giochi di guerra dell'11/9
di Pino Cabras - Megachip - 10 Settembre 2009
Erano numerose le esercitazioni degli apparati militari e della sicurezza statunitensi a ridosso dell’11 settembre 2009, svolte in cielo e in terra, nelle basi militari e in città, nelle sedi degli apparati spionistici e della sicurezza, dentro i grattacieli e fuori.
Tra queste c’era anche l’approntamento di ‘Tripod II’, una simulazione d’attacco terroristico organizzata in vista del 12 settembre sulla costa occidentale di Manhattan.
Questa simulazione ha comportato prima di quella data l’installazione in un molo dello Hudson River, il Pier 92, di un vasto centro di controllo e di comando configurato esattamente come l’Office of Emergency Management (OEM), quello distrutto nell’edificio 7 del World Trade Center.
L’OEM era stato istituito nel 1996 dal sindaco di New York, Rudolph Giuliani, per gestire la risposta della città agli eventi catastrofici, compresi eventuali attentati terroristici su vasta scala.
Nei cinque anni che precedettero l’11/9, l’OEM svolse regolarmente delle esercitazioni che comprendevano tutte le agenzie: dalla protezione civile, la FEMA, agli apparati di sicurezza. Per ciascuna esercitazione gli allestimenti e le simulazioni in sé duravano nel complesso svariate settimane. Venivano mobilitati mezzi impressionanti, per scenari molto realistici. Rudy Giuliani presenziava a molti di questi “drill” che addestravano la città a scenografie da film catastrofico. È lo stesso Giuliani a descrivere il realismo di questi giganteschi giochi di ruolo: «Di solito scattavamo delle foto di queste esercitazioni, e risultavano talmente realistiche che la gente che le vedeva era portata a chiedere quando l’evento mostrato in foto si fosse mai verificato» (dal libro Leadership, pag. 355)
Tra gli scenari da incubo: attentati con il gas sarin a Manhattan, attacchi a base di antrace, camion bomba.
L’11 maggio 2001, esattamente quattro mesi prima dei veri mega-attentati di New York, ci fu la simulazione di un attacco alla città con la peste bubbonica. La simulazione fu talmente realistica che uno dei partecipanti dichiarò che «dopo cinque minuti immersi in quella esercitazione, tutti si erano dimenticati che fosse un’esercitazione».
Adrenalina vera, nella frenesia emotiva di chi si trova in mezzo.
In questi esercizi non si lesinano le risorse. Le agenzie, a partire dalla FEMA, sono a lungo sul campo, prima e dopo il nucleo dell’esercitazione. Tutto è come se fosse vero, in mezzo all’opera di centinaia di persone, in divisa e no, appartenenti a diversi apparati. I soggetti coinvolti, a partire da Giuliani, ci spiegano che il confine fra finzione e realtà diventa indistinguibile, in termini di mezzi mobilitati e di percezione.
Lo scenario di aerei usati di proposito come missili non era ufficialmente contemplato nelle simulazioni dell’OEM. Ma al di là del fatto che si ipotizzavano incidenti “non intenzionali”, si svolgevano ugualmente esercizi che concepivano interventi di soccorso per le conseguenze d’impatto di aerei di linea su grattacieli.
Un’esercitazione, stavolta a tavolino, si svolse appena una settimana prima dell’11/9, con piani per la continuità delle attività svolte nel distretto finanziario al World Trade Center.
Quando si manifestò in tutta la sua orrenda grandiosità lo scenario terroristico dell’11/9, fu facile per Rudolph Giuliani affidarsi agli allestimenti dell’altra esercitazione che era stata nel frattempo preparata con il nome di Tripod II, quella con base al Pier 92 e citata in apertura. Il molo si trova a sole 4 miglia nord-nordovest dal World Trade Center, e in quella occasione era stato già predisposto come un particolare centro di smistamento nel quale le vittime simulate sarebbero state sottoposte alle prime cure.
Lo ha ricordato lo stesso Giuliani alla Commissione d’inchiesta sull’11/9: «la ragione per cui fu scelto il Pier 92 era perché per il giorno successivo, il 12 settembre, al Pier 92 doveva svolgersi un’esercitazione. Si trovavano laggiù centinaia di persone, della FEMA, del governo federale, dello stato, dello State Emergency Management Office, e tutte si stavano approntando a un’esercitazione su un attacco biochimico. Perciò quello stava per essere il luogo in cui si avviavano a svolgere l’esercitazione. Le attrezzature erano già lì, per cui riuscimmo a stabilirvi un centro di comando in soli tre giorni che risultava essere due volte e mezzo più grande del centro di comando che avevamo perso all’edificio 7 del World Trade Center. E fu da lì che il resto del lavoro di ricerca e soccorso venne completato».
In altre occasioni abbiamo parlato della testimonianza di Kurt Sonnenfeld, l’uomo della FEMA che confermava, anche lui, che la sua agenzia era già lì in forze da prima degli attentati. Apriti cielo. I mitografi con l’elmetto hanno cercato di bollare con il solito stigma di “cospirazionista” l’idea dell’arrivo anticipato della FEMA. Si sono arrampicati sulle date, visto che il “drill” vero e proprio doveva cominciare il 12 settembre e non prima. Centinaia di uomini già in campo da giorni: per i mitografi evidentemente non contano nulla. Quindi ritengono che una mega esercitazione come Tripod II potesse materializzarsi all'improvviso, senza pianificazione, sfornita di logistica, senza agenti di ogni tipo disseminati da giorni a svolgere i loro compiti. Un’ipotesi ridicola, sepolta da prove, dichiarazioni e testimonianze. L’esercitazione durante l’11/9 era una macchina avviata, altroché.
Ovviamente la mobilitazione specifica della FEMA sul disastro ha avuto i suoi ordini di servizio successivi.
Il caso Tripod diventa tanto più significativo quanto più si nota che non era certo un caso isolato.
La concomitanza di tante esercitazioni con i veri attentati, l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti come il 7 luglio 2005 in Regno Unito, non può essere lasciata perdere nel campo delle semplici coincidenze. Andrebbe per lo meno approfondita, cosa che le inchieste ufficiali hanno rinunciato a fare.
Quanti sanno che la mattina dell’11 settembre un’agenzia d’intelligence degli Stati Uniti, il National Reconnaissance Office (NRO), aveva programmato un’esercitazione in corso della quale un aereo disperso si schiantava su uno dei suoi edifici? Quest’agenzia d’intelligence, che gestisce lo spionaggio dallo spazio, dipende dal Dipartimento della Difesa e il suo personale proviene per metà dalla CIA e per metà dalla Difesa. In corrispondenza degli eventi, reali, fu deciso di interrompere l’esercitazione e mandare a casa i tremila addetti dell’agenzia. Poiché i locali dell'NRO vennero evacuati, l’effetto più evidente fu quello di oscurare lo spionaggio ufficiale quando più ce n’era bisogno, nel momento in cui avrebbe potuto – e dovuto - controllare gli eventi dallo spazio. Chi è dunque rimasto davanti agli schermi più importanti dell’agenzia a vedere le cose con i potenti occhi dei satelliti?
E quanti sanno che una parte significativa delle figure professionali che sarebbero state più qualificate nel rispondere agli attentati si trovava in addestramento all’altro capo del Paese? È il caso del gruppo misto FBI/CIA d’intervento antiterroristico, distolto dallo scenario di quel giorno, essendo a migliaia di chilometri di distanza, impegnato in un’esercitazione di addestramento a Monterey (California). «USA Today» raccontava l’11 settembre che «alla fine della giornata, con la chiusura degli aeroporti in tutto il paese, il gruppo d’intervento non ha mai trovato il modo di tornare a Washington». Con il risultato che al momento degli attentati la principale agenzia federale responsabile di prevenire tali crimini era decapitata. L’addestramento del gruppo non era solo sulla carta, perché aveva concentrato sulla costa californiana anche tutti gli elicotteri e i velivoli leggeri in dotazione.
Molti elementi portano a ritenere che i mandanti degli attentati fossero ben consapevoli di tutti questi movimenti e che, almeno una porzione di essi, fossero parte integrante di strutture coperte dagli apparati statali.
Il vantaggio di una tale strategia appare del tutto comprensibile e plausibile, volendo iniziare su basi diverse dal passato una vera inchiesta.
In primo luogo dobbiamo ritenere che militari, funzionari governativi o membri dei servizi d’intelligence che avessero in mente azioni eversive non potrebbero organizzare degli attentati senza farsi scoprire. Da qui la prima funzione di un’esercitazione: essa offre agli organizzatori la copertura idonea a mettere in moto l’operazione, permette loro di utilizzare i funzionari e le strutture governative per realizzarla e fornisce una risposta soddisfacente ad ogni domanda che dovesse sorgere su stranezze e movimenti insoliti. Perché possa funzionare, è chiaramente necessario che lo scenario dell’esercitazione sia a ridosso dell’attentato progettato.
In secondo luogo, se prevista nella data dell’attentato, l’esercitazione permette di schierare legittimamente degli uomini sul terreno, uomini che indossano l’uniforme dei servizi di sicurezza o di soccorso. Piazzare fra questi coloro che sistemano delle bombe o coordinano dei movimenti è relativamente facile, senza che sorgano sospetti.
In terzo luogo, lo svolgimento delle esercitazioni in simultanea con i veri attentati permette di scompigliare la buona esecuzione delle risposte da parte dei servizi di sicurezza o di soccorso leali per via della confusione fra la realtà e la finzione. Le contraddizioni e le scoperte di singoli spezzoni dei fatti non intaccano l’insieme. Anzi, aiutano a truccare e rendere incomprensibile il mosaico. L’11 settembre – a un certo punto della mattinata – decine di aerei furono segnalati come dirottati, e si rincorrevano voci di ulteriori attentati. Dove dunque bisognava inviare le pattuglie, quali edifici occorreva proteggere per primi? Si può immaginare il caos che tutto ciò ha potuto sollevare nelle sale comando.
Le operazioni di questa natura sono modulari, mirano a diversi obiettivi compresenti e intercambiabili, altrettante strade a disposizione verso il medesimo effetto, e sono percorse in simultanea, finché la regia, ovunque si trovi, non sceglie una trama tra le diverse trame preordinate che intanto avanzavano alla pari.
Le persone incaricate di eseguire soltanto certi segmenti dell’operazione, obbediscono – spesso in perfetta buona fede - a ordini di personalità a loro sovraordinate che a loro volta conoscono solo un dettaglio, ma non l’intera pianificazione, né i suoi obiettivi.
Sto descrivendo meccanismi normalmente usati nelle azioni dei servizi segreti, che si esasperano nei casi in cui operano le “leve lunghe” e le operazioni coperte, fino a ingigantirsi in occasione di grandi operazioni terroristiche usate come base politica per drammatiche svolte costituzionali e per le guerre.
L’esperienza italiana dei delitti di grande impatto pubblico – Mattei, Moro, vari casi della strategia della tensione, Borsellino – ci dice che dietro di essi c’erano le decisioni di gruppi ristretti di individui. Dietro ognuno di quei casi c’erano potentati che agivano in nome di precisi calcoli politici ed economici. In certe azioni è preparata simultaneamente la copertura ed il depistaggio, mentre personaggi interni alla mafia o ai gruppi terroristici sono segmenti dell’azione molto utili, parecchio esposti. Svariati episodi definiti mafiosi o terroristici hanno ben altra matrice. È un tipo di ipotesi investigativa normalmente usata, spesso con buoni risultati.
Si può applicare anche alle vicende dell’11/9.
Rispetto alla complessità di un simile scenario viene invocato il cosiddetto “rasoio di Occam”. Occam era un filosofo medievale, e nel suo latino diceva: «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem». Ossia «gli elementi non sono da moltiplicare più del necessario». In termini da XXI secolo possiamo tradurre così: «a parità di fattori, la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta».
Bene, scordatevi Occam quando si parla di terrorismo. Nel caso dell’11/9 gli elementi si sono moltiplicati eccome, oltre ogni necessità contemplabile dall’uomo della strada o dalla redazione tipo di un giornale.
L'inchiesta. Tutto quello che non avrebbero voluto farci sapere sull'11/9
di Carlo Bonini - Il Venerdì di Repubblica - 28 Agosto 2009
I rapporti tra Kissinger e i sauditi. Quelli tra il direttore della Commissione d’inchiesta sull’attentato e i fedelissimi di Bush jr. Nell'anniversario della strage, un cronista del «New York Times» svela chi ha lavorato per insabbiare la verità.
Nella disastrosa eredità consegnata all’America e al mondo intero da due mandati presidenziali repubblicani, c’è una ferita più profonda di altre che ha a che fare con la Verità e la Menzogna. Con le premesse dell’11 settembre e le sue conseguenze. E come sempre accade nelle grandi democrazie, il tempo, da solo, non è mai una buona medicina. Perché l’oblio non è una risposta.
Per questo, a otto anni di distanza da quel giorno che ha cambiato per sempre il corso della Storia, la domanda su quella mattina di orrore e di sangue non è più «come è potuto accadere», ma un’altra. A ben vedere cruciale. Chi è il padre della verità sull’11 settembre? Chi, dunque, davvero ne ha indirizzato il percorso e gli approdi?
Come è noto, la verità ufficiale sull’11 settembre ha la firma di una Commissione d’inchiesta (9/11 Commission) bipartisan del Parlamento americano (cinque repubblicani e altrettanti democratici), che, nell’estate del 2004, rassegnò le proprie conclusioni e raccomandazioni al termine di un lavoro i cui atti, disponibili in rete e raccolti per altro in un volume, sono diventati nel tempo un testo di diffusione mondiale.
A quelle conclusioni – che di fatto non riuscirono a individuare responsabilità politiche cruciali né nell’amministrazione repubblicana di allora né in quella democratica che l’aveva preceduta, ma al contrario, illuminarono solo una lunga catena di falle nel sofisticato, ma burocratico, apparato della sicurezza e dell’intelligence – a tutt’oggi non crede un 53 per cento degli americani, convinto come è che «il governo abbia nascosto tutto o in parte la verità».
Nelle ragioni di questa sfiducia si ripropone evidentemente l’attualità della domanda - chi è il padre della verità sull’li settembre? - e il presupposto di un eccellente lavoro di inchiesta giornalistica che porta la firma di un autorevole cronista del «New York Times», Philip Shenon. Una storia di 583 pagine magnificamente documentata, trasparente quanto ricca nelle fonti, che a quella domanda offre delle prime risposte e che ora, a un anno dalla pubblicazione negli Stati Uniti, arriva nella sua traduzione e titolo italiani: Omissis, tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre (Piemme edizioni).
Scrive Shenon: «Ho cominciato a lavorare al libro nel gennaio del 2003, quando il «New York Times» mi affidò l’incarico di occuparmi della Commissione sull’11 settembre.
Non ero sicuro di volere quel lavoro. È strano ripensarci adesso, ma all’epoca non era chiaro se la Commissione avrebbe suscitato l’interesse dell’opinione pubblica. (...) Oggi sono grato a chi mi fece cambiare idea e mi convinse ad accettare». Nello stupore «postumo» di Shenon non c’è soltanto l’onesta ammissione di quel clima di anestesia e manipolazione collettiva che, per anni, ha imprigionato opinione pubblica e media americani, convinti delle «verità» dell’11 settembre prima ancora che fossero indagate, come delle «ragioni» truccate della guerra in Iraq.
C’è la stessa sorpresa che percorre e annoda tutti i passaggi di questa controinchiesta sul lavoro della Commissione 11 settembre e che, a dispetto della sua intricata e affollata trama, dei suoi protagonisti, dei suoi luoghi claustrofobici (la scena si svolge per intero nella Washington dei palazzi del potere, chiusa tra Pennsylvania Avenue e K Street, tra la Casa Bianca, Capitol Hill e gli uffici che la Commissione aveva individuato come suo quartier generale), si lascia leggere anche da chi non ha alcuna familiarità con i corridoi e il retrobottega della politica americana.
Nello scomporre e passare al microscopio i passaggi cruciali del lavoro della Commissione 11 settembre, l’inchiesta di Shenon, in un plot rigidamente cronologico (maggio 2002-luglio 2004), si svela infatti per quello che è: una cronaca del potere. Innanzitutto vera e non avventurosa, perché documentata. Ma anche simbolica. Per la sua capacità di raccontare come, all’indomani dell’11 settembre, il problema (per altro non solo americano, per chi ha voglia di ricordare quale sia stato il cover-up del governo italiano sul coinvolgimento dell’intelligence del nostro Paese nella vicenda dell’uranio nigeriano: il cosiddetto affare Niger-gate) non fu la ricerca della verità.
Ma la ricerca di una verità «compatibile». Che, al contrario di qualunque verità, non facesse male a nessuno. Che collimasse con l’interesse domestico di un’amministrazione che si preparava a chiedere un secondo mandato agli elettori. Che non superasse la soglia di tolleranza al dolore delle burocrazie della sicurezza interna (Fbi) ed esterna (Cia) e degli uomini che in quel momento le dirigevano (Robert Mueller e George Tenet). Che mantenesse intatto il segreto inconfessabile del regime saudita e dunque i suoi legami con i dirottatori dell’11 settembre. Che insomma accompagnasse, senza farle deragliare, le politiche, le strategie, le priorità di intervento contro la violenza del radicalismo islamico battezzate dalla Casa Bianca di George Bush e Dick Cheney.
Messe in fila, le «rivelazioni» del lavoro di Shenon acquistano così un senso corale e intelligibile. Per citarne solo alcune, si comprende per quale motivo, all’indomani della sua nomina a presidente della Commissione 11 settembre, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger preferì dimettersi, piuttosto che svelare all’America, e prima ancora alle aggressive Jersey girls (il gruppo delle vedove dell’attacco alle Torri Gemelle), quali clienti sauditi («i Bin Laden?», gli fu chiesto) avesse nel proprio portafoglio la sua Kissinger associates e dunque quale potenziale conflitto di interessi lo assediasse.
E per quale motivo finirono sepolti negli atti della Commissione dettagli capaci di raccontare qualcosa di più e di molto diverso sui dirottatori dell’11 settembre, di smontare la loro rappresentazione di martiri ammaestrati con la lettera del Corano in qualche sperduta caverna afgana (non solo il sostegno che ricevettero da sauditi residenti in California durante il periodo del loro addestramento, ma, ad esempio, anche le loro visite nei sexy-shop e la loro frequentazione di escort).
Di più: si intuiscono le ragioni del terrore che aggredì Sandy Berger, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Bili Clinton, all’indomani dell’attacco alle Torri e al Pentagono, convincendolo a trafugare dagli Archivi nazionali di Washington documenti coperti da segreto di Stato che gli avrebbero consentito di preparare una difesa politica credibile dell’amministrazione democratica di cui aveva fatto parte e del suo impegno nella lotta ad Osama Bin Laden e alla sua Al Qaeda.
Naturalmente, Shenon dà un nome a chi fece in modo che l’indagine della Commissione 11 settembre, a dispetto dei suoi poteri di inchiesta, della straordinaria qualità dei suoi investigatori e del suo ufficio di presidenza bipartisan (il repubblicano Tom Kean e il democratico Lee Hamilton) finisse con il cercare soltanto una «verità compatibile». Ed è un nome, Philip Zelikow, che nel nostro Paese non dice nulla a nessuno.
Professore dell’università della Virginia, Zelikow, da direttore esecutivo della Commissione, sarà cruciale nella scelta dei testimoni da cercare e interrogare. Negli atti da acquisire o da cestinare.
Fino a diventare il vero padrone della Commissione, capace di governarne di fatto ogni mossa di indagine. I suoi rapporti con Karl Rove (l’uomo che inventò Bush) e con Condoleezza Rice, le sue costanti telefonate alla Casa Bianca, saranno a lungo il suo «segreto». Con il suo Omissis, Shenon lo fa cadere.
La storia di Kurt Sonnefeld, l'uomo che a Ground Zero ha filmato quel che non si deve sapere
di Pino Cabras - Megachip - 1 Settembre 2009
New York, 11 settembre 2001, la protezione civile interviene subito. Le Torri non sono state colpite ancora, ma loro, le squadre di soccorso sono lì già da ieri, 10 settembre, per una delle tante strane esercitazioni che punteggiano lo scenario della giornata destinata a cambiare il mondo. Alle squadre viene aggregato Kurt Sonnenfeld, un cameraman molto specializzato.
Una storia pazzesca, la sua, che parte dai miasmi di Ground Zero, passa per un dramma terribile in Colorado e approda in un esilio a Buenos Aires. Una storia che in Italia è quasi ignota. Lui l’ha raccontata in un libro pubblicato in Argentina, El Perseguido, ossia “il perseguitato”.
Dopo i mega-attentati dell’11 settembre 2001, in mezzo alle macerie, è tempo di soccorso, ma è anche tempo di documentazione a caldo. La FEMA, la protezione civile USA, decide che un documentarista plurilaureato e fotografo lavori nel luogo in cui sino a poco prima svettavano le Torri Gemelle. È Sonnenfeld.
Non è certo un novellino. La FEMA lo aveva chiamato a documentare altre situazioni critiche e di catastrofi, in segretezza. Aveva anche operato in luoghi dove si immagazzinavano, sviluppavano o trasportavano armi nucleari, biologiche e chimiche. Le competenze della FEMA sono vaste, molto più penetranti della protezione civile di altri paesi occidentali. La FEMA è nel cuore di una formidabile e opaca costituzione materiale in cui la sicurezza militare è al centro di procedure misteriose e complesse.
Sonnenfeld racconta che «quando è avvenuto il terribile attentato dell’11 settembre, il governo USA chiuse tutta l’area nei pressi del World Trade Center, tutta la parte sud di Manhattan, e fu vietato l’ingresso di qualsiasi tipo di apparecchio di ripresa visiva. Solo a due persone al mondo fu concesso di accedere per documentare quanto era accaduto. Io fui una di queste persone, con accesso totale e assoluto» al WTC.
«Io dovevo documentare con la mia videocamera quotidianamente per ore e ore, e poi in base ai rigidi parametri che mi erano stati impartiti, mettere a disposizione delle catene informative mondiali quindici o venti minuti di immagini», ricorda il professionista, che aggiunge: «dovevo consegnare tutte queste ore di filmati per le indagini che si supponeva stessero procedendo.»
Sonnenfeld assolve al suo dovere a Ground Zero per cinque settimane. Ma a causa di una tragica catena di eventi che si succedono, non consegna mai le registrazioni.
In una recente intervista alla Rete Voltaire, Sonnenfeld fa notare le anomalie che percepisce sin da subito:
«Ripensandoci, c’erano molte cose a Ground Zero che non quadravano. Era strano, a mio avviso, che mi fosse stato comunicato di andare a New York ancora prima che il secondo aereo colpisse la Torre Sud, quando i media parlavano ancora di un “piccolo aereo” entrato in collisione con la Torre Nord; una catastrofe, fino a quel punto, di dimensioni troppo ridotte per poter interessare la FEMA.
Invece la FEMA fu mobilitata in pochi minuti, mentre ci vollero dieci giorni per inviarla a New Orleans dopo l’uragano Kathrina, nonostante l’abbondante preavviso! Era strano che ogni videocamera fosse severamente proibita entro il perimetro di sicurezza di Ground Zero, che l’intera zona fosse dichiarata “scena del delitto”, ma poi tutte le “prove” all’interno della scena del delitto venissero rimosse e distrutte con grande rapidità. Infine trovai molto strano che la FEMA e altre agenzie federali si fossero già posizionate nel loro centro operativo al Molo 91 il 10 settembre 2001, il giorno prima degli attacchi!»
Mentre iniziano a presentarsi questi dubbi, Sonnenfeld lavora a ritmo sostenuto. Altri dubbi più pesanti verranno più avanti, come vedremo. Intanto immortala ore e ore di scene dal disastro.
Un evento terribile irrompe nella sua vita, qualche mese dopo. Lo racconta lo stesso Sonnenfeld: «Poco dopo aver compiuto il servizio al Ground Zero del WTC, dove quasi tremila vite erano state stroncate, la mia stessa moglie prese la triste e tragica decisione di suicidarsi, la mattina del 1° gennaio 2002».
«Lo avevo attribuito dapprima al suo quadro depressivo. Purtroppo proveniva da una famiglia segnata dai suicidi. Le autorità procedettero all’inchiesta formale pertinente che stabilì la mia innocenza. Tutte le prove, compreso un biglietto suicida scritto di suo pugno, incontrovertibili prove forensi nonché le dichiarazioni sotto giuramento di poliziotti e testimoni nella corte, provarono il suicidio», spiega il documentarista, che nell’intervista alla Rete Voltaire ha anche ricordato che la donna «teneva un diario in cui registrava i suoi propositi suicidi».
Il biglietto suicida di Nancy Sonnenfeld ha qualcosa di criptico, per la verità. «Cosa c’è di più bello dell’amore e della morte?» con la parola "amore" depennata. «Kurt, per favore cerca aiuto!».
I guai per Kurt Sonnenfeld continuano ancora. Sino al limite delle torture. Durante la detenzione «fui picchiato brutalmente. Alla stazione di polizia due ufficiali mi strangolarono, impedendomi di respirare, nello stesso momento in cui un altro ufficiale mi dava vari calci all’inguine, e poi mi ficcarono una sostanza chimica corrosiva su per le narici».
Il racconto di Sonnenfeld descrive come poi cade a terra, in tempo per ricevere ancora altri calci prima di essere abbandonato al suolo, quasi senza respiro, le mani legate dietro la schiena e perciò impossibilitato a togliersi la sostanza irritante che gli cola sul viso.
Le prove che lo scagionano non bastano, la detenzione su input governativo dura sei mesi. «Durante questo tempo, le autorità mi confiscarono irregolarmente la casa e cambiarono le serrature».
A quanto riferisce Sonnenfeld, a causa delle «prove schiaccianti che dimostravano che quello di mia moglie era un suicidio, l’accusa vide che non c’erano elementi a mio carico e chiese il mio proscioglimento. Il giudice concordò in pieno sulla mia innocenza e venni rilasciato».
Una volta liberato, dopo aver perso tutto, snervato da tanti e tali abusi, Sonnenfeld fa causa alla polizia e alle autorità della città per arresto arbitrario, coercizione illegale e torture, detenzione arbitraria, diffamazione, uso eccessivo della forza, violazione dei diritti umani e civili. Sonnenfeld parla pubblicamente contro le autorità e le critica sui media.
Alle sue denunce seguono ulteriori procedimenti: «Notai allora delle auto ferme di fronte a casa mia a osservarmi; certe volte, quando rientravo, l’allarme era disattivato; la polizia mi poneva in stato di fermo senza motivo. Dovetti starmene a casa di alcuni amici in un’altra città. Ma il loro domicilio fu violato, benché nulla venisse loro rubato».
La pressione e l’apparenza di un accanimento personale contro di lui crescono. Sonnenfeld abbandona lo stato del Colorado, dov’era nato e cresciuto, senza che questo fermi la persecuzione. «Fu a quel punto che alcuni degli amici che avevano parenti qui, in Argentina, mi proposero di venire e di farmi dare la chiave di uno dei loro appartamenti a San Bernardo (sulla costa atlantica della provincia di Buenos Aires)», ricorda Sonnenfeld.
Arrivato con l’intento di stare lì solo poche settimane, il tempo di far decantare le spaventose pressioni e tensioni, Sonnenfeld si trattiene invece più a lungo, fino a conoscere Paula, la donna che poi sposa nel 2003. Una nuova vita, che ricomincia in Argentina e che, negli intenti degli sposi, deve continuare negli Stati Uniti. Serve il visto per Paula. L’ambasciata USA oppone ostacoli burocratici. Il tempo d’attesa è usato per chiedere un visto permanente per lei, una donna combattiva che se ne intende di pratiche di emigrazione. È infatti un avvocato, consulente legale di un’associazione che si occupa di donne immigrate e rifugiate in Argentina la AMUMRA,.
Kurt fa in tempo a fare i primi passi da produttore indipendente. Tra giugno e luglio 2004, dopo aver consegnato un videoclip con immagini uniche a un produttore, viene fermato da alcuni agenti dell’Interpol. Su di lui pende una richiesta di estradizione dagli USA.
Per Sonnenfeld «negli Stati Uniti si tenne un’udienza segreta e si decise di chiedere la mia estradizione, dicendo che dopo oltre due anni, avevano improvvisamente incontrato nuove prove».
Quali?
«Due detenuti condannati, che in cambio di una riduzione nelle pene inflittegli, dicono che io avevo loro confessato che mia moglie non si era suicidata. Ignorando a quel punto la mia assoluzione e tutte le prove del suicidio», spiega Sonnenfeld, «reinventarono il caso e architettarono queste presunte nuove prove».
L’ordine di arresto inviato alle autorità argentine è molto insistente, in più punti, nel chiedere che siano sequestrati, confiscati e spediti negli USA tutti gli oggetti e documenti del documentarista.
«Nel processo originario, la mia casa rimase per sei mesi in mano alle autorità degli Stati Uniti. Allora, cosa continuano a cercare sei anni dopo?», si indigna.
«L’estradizione è un pretesto falso. Designato a ricondurmi sul suolo nordamericano e pormi entro la loro orbita di controllo. Ovviamente mi stanno perseguendo per via del timore che certi funzionari del governo nordamericano hanno nei confronti delle informazioni in mio possesso, e di ciò che son stato testimone», dichiara l’uomo dei documentari segreti.
In sostanza, quel che sostiene Sonnenfeld è che la sua versione dei fatti «si contrappone alla versione ufficiale di quanto accaduto l’11/9» poiché «metto in discussione le ragioni che giustificano la cosiddetta ‘Guerra al terrorismo’».
Kurt Sonnenfeld passa sette mesi nel carcere di Devoto. Altro che permessi per andare in USA, ora si tratta di evitare il ritorno. La moglie incinta, in mezzo a tanto stress, perde il bimbo. L’estradizione viene negata. È marzo 2005. Il giudice federale argentino Daniel Rafecas nota le irregolarità e «le ombre in questo caso» e la totale mancanza di garanzie sul fatto che – nel caso venisse estradato in USA – non gli si sia inflitta la pena di morte.
«Sin dal momento della mia liberazione, i pedinamenti, le persone che scattavano foto, le minacce e le telefonate son state un costante fattore di disturbo. Siamo pedinati regolarmente come se fossimo sul suolo nordamericano», lamenta esasperato Sonnenfeld.
Il governo statunitense ricorre in appello contro la prima decisione del giudice Rafecas e la Corte Suprema di Giustizia argentina non concede l’estradizione. Per una seconda volta, il magistrato ratifica la sua decisione e nega ancora l’estradizione.
«La decisione del Dottor Rafecas segnò la QUARTA volta che una Corte analizzava il caso orchestrato contro di me e decideva in mio favore, con l’intento di metter fine a questa prolungata ingiustizia. Ma un’altra volta ancora il governo degli Stati Uniti ha fatto appello alla decisione e il mio caso oggi si trova di nuovo presso la Corte Suprema di Giustizia argentina», spiega Sonnenfeld. Alla famiglia è stato intanto assegnato un servizio di scorta della polizia che opera 24 ore su 24.
Dentro una situazione che per chiunque sarebbe estenuante, i coniugi Sonnenfeld fanno mostra di una grande forza psicologica: «Stiamo lottando contro la superpotenza mondiale, una macchina che non si ferma certo davanti ai sentimenti e al dolore dell’uomo comune».
«Tutti sappiamo che le autorità nordamericane hanno mentito e falsificato le prove su chi possedeva armi di distruzione di massa, o sui legami tra Saddam Hussein e Bin Laden, per giustificare i suoi continui attacchi all’Iraq. Hanno cercato d’ingannarci circa l’esistenza delle carceri clandestine intorno al mondo e la tortura di chi vi era detenuto. E sebbene tutti sappiamo la verità, le atrocità continuano», afferma Sonnenfeld con toni indignati, che poi spinge ad alcune considerazioni più preoccupanti: «Ogni momento che condivido con la famiglia, ogni volta che usciamo sulla pubblica via, quando una delle mie figlie mi abbraccia, io so che potrebbe essere l’ultima volta. Ogni mattina mi sveglio e penso che potrebbe essere l’ultimo giorno insieme alla mia famiglia.»
Sono diversi i punti in cui Sonnenfeld mette in questione su punti delicatissimi le verità ufficiali sull’11 settembre. Nell’intervista alla Rete Voltaire dice: «ci si chiede di credere che tutte e quattro le “indistruttibili” scatole nere dei due jet che colpirono le Twin Towers non siano mai state ritrovate perché completamente vaporizzate, eppure io ho girato alcune riprese delle ruote di gomma del carrello di atterraggio degli aerei rimaste quasi intatte, così come i sedili, parte della fusoliera e una turbina, che non si erano per nulla vaporizzate. Detto questo, trovo piuttosto strano che tali oggetti possano essere usciti intatti da un disastro che ha trasformato gran parte delle Twin Towers in polvere sottile. E nutro seri dubbi sull’autenticità di una “turbina di jet”, di gran lunga troppo piccola per appartenere a uno dei Boeing!
Ciò che accadde all’Edificio 7 è poi incredibilmente sospetto. Ho dei video che mostrano che il cumulo di macerie era incredibilmente piccolo».
Lo stesso edificio mai menzionato nell’inchiesta della Commissione sull’11/9 interamente controllata da un fedelissimo di Bush, Philip Zelikow.
Sonnenfeld descrive la stranezza di molte immagini da lui registrate, le quali dimostrano ad esempio che un vasto ufficio blindato dei servizi segreti all’Edificio 6 appariva inspiegabilmente svuotato di documenti, come se qualcuno fosse intervenuto prima degli attacchi.
Per Sonnenfeld ora è difficile assicurare anche certe risorse materiali banali e quotidiane, nel lavoro e in famiglia, in assenza di un quadro giuridico consolidato e dei documenti giusti per la sua condizione di cittadinanza.
Alla battaglia di Kurt e Paula si sono uniti anche alcuni nomi di grande peso nella società civile argentina, a partire dal vincitore del Premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel, fino a tutta la galassia di associazioni forgiatesi nella battaglia per la verità e i diritti umani sin dai tempi dei desaparecidos, comprese le madri di Plaza de Mayo.
Accanto a questa premura per un caso giuridico particolarmente penoso per i suoi protagonisti, la vicenda di Kurt Sonnenfeld e il suo libro sollevano questioni importanti in merito alla necessità di una nuova inchiesta sulle vicende dell’11 settembre: la testimonianza interna di un occhio molto potente ed elettronico come quello di Sonnenfeld, assieme ad altri documenti, audiovisivi e non solo, attesta l’anomalia di una giornata, l’11 settembre, che a certe strutture non sembrava poi così inattesa.
Leggi anche:
- http://www.sott.net/signs/editorials/signs20060913_KurtSonnenfeldFEMA27sWhistleBlower.php
- http://blogghete.blog.dada.net/post/1207098305/FUGA+DA+NEW+YORK.
Il Libro “Il Mito dell’11 Settembre” adesso è leggibile gratis su Google Books
di Roberto Quaglia - www.roberto.info - 8 Settembre 2009
In occasione dell’ottavo anniversario dei fatti dell’11 settembre 2001, il libro di Roberto Quaglia “Il Mito dell’11 Settembre e l’Opzione Dottor Stranamore ( http://www.mito11settembre.it )” per qualche giorno sarà a disposizione gratuita di tutti gli italiani, leggibile per intero su Internet. Il libro è infatti appena stato reso disponibile su Google Books, la rivoluzionaria piattaforma di Google che nel tempo si propone di offrire online tutti i libri del mondo digitalizzati. ( http://www.mito11settembre.it )
Pubblicato nel 2006 da Ponsinmor con una prefazione di Valerio Evangelisti, e ripubblicato in seconda edizione nel 2007, il libro ricevette scarsa attenzione da parte dai media, ma ottime recensioni da parte di molti ricercatori sul tema. Nel 2009 il libro è stato tradotto in rumeno e pubblicato anche in Romania ( http://www.11septembriemitul.com )
Ad otto anni dai fatti l’argomento rimane scottante. La versione ufficiale degli eventi, riassunta nel 9/11 Commission Report, frutto della commissione d’inchiesta istituita dal governo americano, desta a dir poco pesanti dubbi in una percentuale rapidamente crescente della popolazione mondiale. Molti membri della commissione stessa hanno preso le distanze (http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2007/sep/12/911thebigcoverup ) dal loro stesso lavoro .
Ci sono stati film underground di grande successo di pubblico, come Loose Change, che hanno raccontato una versione molto differente dei fatti a quei cinquanta e più milioni di persone che lo hanno visionato su Internet ed al milione di persone che ne hanno comprato il DVD. Tali film “eretici” sono tuttavia ancora tabù per il mondo dei grandi media. E fortemente boicottati, e spesso mal distribuiti e difficili da trovare, sono anche i libri che hanno smontato la versione ufficiale, ipotizzando narrazioni alternative.
Internet e Google Books permettono tuttavia di aggirare la disattenzione dei grandi media.
Nelle oltre 500 pagine de “Il Mito dell’11 Settembre” tutti i cittadini interessati al tema hanno quindi finalmente la possibilità di accedere – in italiano! – ad una miriade di dettagli documentati e soprattutto ad una approfondita analisi che ovviamente non possono trovare spazio in un film di un paio di ore o in ancor più brevi dibattiti televisivi. E’ il primo libro sul tema reso interamente pubblico in lingua italiana.
Solitamente, solo una certa percentuale di un libro in commercio viene resa leggibile su Google Books (tipicamente il 20%). Ma a partire dalla mezzanotte dell’11 settembre 2009 e per un periodo limitato, “Il Mito dell’11 Settembre” sarà leggibile per intero da chiunque, ovunque si trovi.
E’ un piccolo contributo alla libera circolazione delle informazioni di grande interesse pubblico ed allo sviluppo della ricerca storica sui controversi fatti dell’11 settembre 2001.
Roberto Quaglia è noto anche per le sue opere di fantascienza ed un suo libro scritto a quattro mani con lo scrittore britannico Ian Watson è stato recentemente pubblicato in Inghilterra.
L’indirizzo diretto di Google Books dove si può leggere “Il Mito dell’11 Settembre” è:
http://books.google.it/books?id=dRyE6XYmuDoC
Informazioni più dettagliate e la possibilità di acquistare la versione cartacea sul libro si trovano sulla homepage del libro http://www.mito11settembre.it
Informazioni su Roberto Quaglia si trovano sulla sua homepage http://www.robertoquaglia.com
Per ordinare il libro direttamente all’editore scrivere a: pon-sin-mor@libero.it
Il Movimento per la verità sull'11/9 in Italia
da www.reopen911.info - 2 Settembre 2009
In occasione dell’ottavo anniversario degli avvenimenti, ReOpen911 svolge un giro d’orizzonte europeo del movimento per la verità sull’11 settembre, paese per paese. In questo quadro abbiamo contattato l’ex eurodeputato Giulietto Chiesa per spiegarci il caso italiano.
Chiesa, secondo lei l’11 Settembre - così come i problemi di geopolitica/politica internazionale - interessano i suoi concittadini?
L’informazione sull’11 settembre concerne un’infima minoranza di persone. La maggior parte dell’intelligencija diffusa, i ceti medi, sono completamente assorbiti da altri problemi e non ricordano nulla. La grande massa della popolazione è totalmente all’oscuro. La geopolitica internazionale concerne lo 0,1% della gente informata.
Come è organizzato il movimento italiano per la verità sull’11/9? Ha legami o contatti ou des con le altre associazioni o movimenti per la pace, la giustizia o la libertà dell’informazione?
Devo dire con grande franchezza che non esiste, in realtà, un «movimento italiano per la verità sull’11 settembre. Esiste un vasto movimento, articolato in diverse organizzazioni e associazioni, che si batte, disordinatamente, per la libertà d’informazione. Ma si sente acutamente la mancanza di una visione e di una cultura dei media. Debord è sconosciuto. Mc Luhan è lontano. «Divertirsi da morire» l’hanno letto pochissimi. Quindi la battaglia è impari. Quasi nessuno ha ancora capito l’influenza della televisione sul cambiamento radicale della politica. Nessuno o quasi ha analizzato la mutazione antropologica prodotta con l’arrivo sulla scena dell’«homo videns».
Con il film «ZERO – Inchiesta sull’11 Settembre», ha lanciato un sasso nello stagno mediatico-politico. Il film è stato visto da diverse centinaia di migliaia d’italiani, attraverso proiezioni e vendite di DVD. Lei ha partecipato a diverse trasmissioni televisive che in tali occasioni hanno battuto i record di audience. Direbbe che in Italia il dibattito sull’11/9 è aperto/possibile/in corso e che la presa di coscienza del popolo italiano sui problemi dell’11/9 abbia fatto passi avanti con questo film?
Sicuramente il film ha dato un impulso enorme alla conoscenza del problema. In Russia almeno 30 milioni di persone lo hanno visto e apprezzato. Questa è una delle ragioni della mia popolarità in Russia. Ma, anche in Europa, la massa di persone che è a conoscenza del problema manca completamente di un punto di riferimento politico che trasformi i suoi sospetti in azione politica.
Uno degli ostacoli che impedisce l’emergere di un vero dibattito sull’11/9 è il blocco psicologico legato a questo avvenimento, che soffoca un autentica discussione argomentata. È come se non fosse bene conoscere la verità, perché troppo dolorosa per le nostre democrazie, e in grado di rimettere in causa la fiducia dei popoli verso le autorità e i loro governi. Ritiene che l’Italia, con il suo recente passato e la scoperta di certi scandali di Stato, abbia superato questo blocco e sia pronta a recepire questa verità più facilmente rispetto ad altri paesi?
Sfortunatamente molto deve ancora avvenire prima che questo blocco psicologico sia superato. Faccio un esempio. Nei giorni scorsi ho mostrato Zero, in una proiezione privata, a dieci persone della classe media agiata, intellettuali in senso lato, che ho conosciuto solo in quella occasione. Siamo nel 2009: ebbene nessuno di loro era a conoscenza del problema 11/9. Tutti sono stati molto colpiti, scossi perfino. Ma senza una continuità è impossibile che si produca un cambiamento.
Dopo i riflettori dei media alla fine del 2007 in occasione dell’uscita del vostro film e del vostro libro ZERO, la stampa e la TV italiana parlano ancora, nel 2009, delle teorie alternative sull’11/9?
La novità recente è stata l’apparizione negli Stati Uniti del libro di un giornalista del New Your Time, Philip Shenon (in edizione italiana, per la casa editrice Piemme, «Omissis:Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull11 settembre»), interamente dedicato a una inchiesta sulla famosa Commissione d’inchiesta sull’11 settembre del governo degli Stati Uniti. Le clamorose conclusoni di questa inchiesta sull’inchiesta hanno costretto Carlo Bonini, influente analista de La Repubblica, acerrimo sostenitore delle critiche ai “complottisti” (in particolare contro di me), a scrivere un articolo per «Il Venerdì», in cui riconosce che i risultati della Commissione americana sono stati falsificati sotto il comando di Philip Zelikow. Il giornalista in questione attaccò il film Zero, due anni fa, evidentemente senza nemmeno avere letto una riga delle risultanze di quella Commissione e adesso ammette che le cose sono state falsificate. È interessante notare che la casa editrice Piemme è la stessa che pubblicò il mio volume Zero e il DVD del film. Ricordo questo esempio solo per dire che i semi gettati danno talvolta frutti con grande ritardo. Ma li danno.
Inoltre penso che il fatto stesso che il «New York Times» faccia uscire questo tipo di notizie indica che qualche cosa si sta rompendo all’interno della leadership americana. La diga della menzogna non è senza crepe. La battaglia è in corso.
L’11/9 era 8 anni fa. Certi diranno che si tratta di una vecchia storia e che non serve rimestare il passato, che occorre andare avanti. In cosa la presa di coscienza delle menzogne sull’11/9 può far progredire la nostra democrazia?
Continuo a pensare che, senza la verità sull’11 settembre, il rischio di essere trascinati, noi occidentali, in una gigantesca guerra (nucleare) resterà altissimo. E, naturalmente, non contro al-Qa‘ida, ma contro la Cina, e la Russia.
L’Italia è molto più avanti della Francia in materia di discussione sull’11/9. Nessun film francese affronta la questione, nessun politico ne parla, nessun programma televisivo organizza dei dibattiti né trasmette film che sostengano le tesi alternative, tutte cose che si sono verificate negli ultimi anni in Italia. Nonostante questo, si direbbe che l'impatto di questo dibattito sugli italiani resti ancora debole, che ci sia una certa rassegnazione di fronte ai “grandi avvenimenti”, che i suoi connazionali passino facilmente ad altre cose, a questioni più concrete. Questa impressione è vera?
È vera. L’intelligencija italiana non è molto migliore di quella francese. La politica italiana è talmente sprofondata nel pantano di un capo del governo che passa il suo tempo con le escort, che ogni discussione seria è ormai impossibile.
Il lavoro di informazione sull’11/9 è un lavoro di fondo. Quando era un eurodeputato, ha tentato di sondare i suoi colleghi, che siedono nel Parlamento europeo o italiano. Pensa che nonostante la loro totale silenzio su questa materia, sia riuscito a sensibilizzare qualcuno di loro?
Alcuni adesso sanno. Ma il ricatto è potente. Chi si occupa di queste questioni deve dire addio alla sua carriera politica. La sinistra europea, nella sua quasi totalità ha taciuto e tace. Non hanno visione e, quindi non hanno strategia. Se si vuole stare dentro l’establishment, in queste condizioni, è obbligatorio tacere.
L'Italia fa parte della NATO e ospita sul suo territorio numerose basi militari americane. Il legame strategico con gli Stati Uniti è forte. In queste condizioni, è realistico immaginare che la classe politica italiana si impegni sul terreno dell’11/9 senza che gli Stati Uniti non lo facciano essi stessi?
La casta politica italiana è troppo vigliacca e subalterna per poter alzare la testa. La verità potrà emergere solo dagli Stati Uniti. Emergerà dagli Stati Uniti perché la crisi li sta travolgendo. E un vasto movimento di opinione internazionale sarà la levatrice di questa emersione. Il quadro è difficile, ma io penso che non bisogna arrendersi. Ne va della nostra comune sopravvivenza.
Lei ha partecipato attivamente alla formazione di «Political Leaders for 911 Truth». Dove si trova questo gruppo di politici e quali sono le vostre prossime sfide?
Ci sono in questo movimento persone di alta qualità e valore morale. Lavoro con loro con grande spirito di fraternità e con visione strategica. Domani avremo bisogno di fare riferimento su un gruppo intellettuale mondiale in grado di fornire all’opinione pubblica, appunto, un quadro strategico, una visione. Il lavoro per la verità sull’11/9 è per me parte di questo più vasto disegno di preparazione ai tempi nuovi, e difficili, che si avvicinano.
In attesa di riottenere – forse – un seggio parlamentare, quali sono i suoi piani riguardanti l’11/9 per i mesi a venire?
In questo momento il compito è moltiplicare e sostenere i gruppi e le associazioni che, in molti paesi si stanno formando. Sia locali che di categoria. L’iniziativa verso gli Attori e Artisti, quella verso il Politici, quella verso i Giornalisti, sono momenti importanti per l’estensione della rete di contatti e per la creazione di lobby d’influenza. In secondo luogo bisogna riassumere tutti i dati nuovi, emersi in questi anni, che confermano e ribadiscono le nostre analisi sull’accaduto. Ci vorrebbe il denaro per fare la seconda puntata di Zero, con tutti gli elementi nuovi che sono emersi nel frattempo.