giovedì 10 settembre 2009

Obama tra speranze e illusioni

Ieri il presidente USA Barack Obama, in un discorso a sessione congiunte della Camera dei Rappresentanti e del Senato, ha lanciato un accorato appello ai congressisti perché approvino subito la riforma che trasformerà in maniera sostanziale il sistema sanitario statunitense e il mercato delle assicurazioni.

"Siamo l'unica democrazia al mondo che non garantisce la copertura medica universale ai suoi cittadini" ha detto giustamente Obama.

Per Obama poi la riforma della sanità pubblica "costa meno di quanto abbiamo speso per le guerre in Iraq e in Afghanistan", quantificando i costi della riforma in "circa 900 miliardi di dollari in 10 anni" e ricordando anche che gli sgravi fiscali offerti ai più ricchi da George W. Bush e approvati dal Congresso sono costati molto di più.

Obama ha inoltre chiesto ai Congressisti di non perdere ulteriore tempo per la sua approvazione "Non perderò tempo, con coloro che sono giunti alla conclusione che è meglio cancellare questo piano che tentare di migliorarlo. Non manterrò le braccia incrociate mentre gli interessi particolari usano le stesse tecniche trite per mantenere le cose esattamente come stanno. Se confonderanno il contenuto del piano, gli chiederemo le prove. Non sono il primo presidente che prende a cuore questa causa, ma sono determinato a essere l'ultimo".

Non sarà comunque facile per Obama convincere anche alcuni membri del suo stesso partito ad approvare in tempi rapidi la riforma del sistema sanitario.

Ma se ci riuscirà, e la riforma verrà compresa bene dalla maggioranza dei cittadini USA - in tandem con l'auspicata creazione di posti di lavoro nel settore delle energie rinnovabili -, la strada per la sua rielezione sarà spianata, nonostante la disastrosa situazione sul fronte afghano.


Ultimatum di Obama al Congresso. "Sanità per tutti gli americani"
di Federico Rampini - La Repubblica - 10 Settembre 2009

"Non sono il primo presidente a provarci - dice - ma voglio essere l'ultimo". Barack Obama lancia il suo ultimatum al Congresso: la "sua" riforma sanitaria va fatta, e va chiusa entro quest'anno. Il presidente ritrova i toni ispirati della campagna elettorale, denuncia lo scandalo di un sistema di assistenza medica che "esclude perfino molti appartenenti al ceto medio". Fustiga il suo Paese con rara violenza: "L'America è l'unica democrazia avanzata, è l'unica nazione ricca, che si trova in condizioni così penose. Dove le assicurazioni ti possono revocare ogni assistenza col pretesto di una malattia pre-esistente; o perché hai perso il lavoro". Racconta storie tragiche, come quella di una donna abbandonata dall'assicurazione nel bel mezzo della chemioterapia per il tumore al seno.

"Dobbiamo offrire un'assistenza sanitaria alla portata dei 46 milioni di americani che non ce l'hanno. Nessuno dovrebbe finire in bancarotta solo perché si è ammalato. Siamo a un punto di rottura, il tempo dei giochi politici è finito". Obama annuncia la sua controffensiva sulla riforma sanitaria, un test decisivo. Lo fa in un attesissimo discorso davanti alle Camere riunite e alla nazione, in diretta alle otto di sera locali su tutti i network tv. E' la sfida su cui si gioca la sua presidenza.

Dopo un'estate in affanno, messo in difficoltà dagli attacchi dell'opposizione e con indici di popolarità in declino (il 52% dei cittadini lo boccia sulla sanità), il presidente scende in campo e si gioca la sua autorevolezza. Capisce di aver sbagliato a lasciare la briglia sciolta al Congresso. "Non perderò più il mio tempo", minaccia: è un ultimatum contro chi vuole solo sabotare la riforma. Annuncia per la prima volta dei principi non negoziabili, i contenuti che devono essere nella nuova legge, senza i quali opporrà il veto.

Il primo rassicura i moderati: "Non un centesimo di deficit pubblico in più". Questa riforma da 900 miliardi di dollari "deve autofinanziarsi", attraverso risparmi, tasse sulle assicurazioni private e i contribuenti ricchi. Ma ricorda che il costo di questa riforma è molto inferiore a quello delle guerre in Iraq e in Afghanistan, o agli sgravi fiscali per i ricchi varati da George Bush.

Il secondo principio: "Migliorare l'assistenza per chi l'ha già; offrirla a quelli che finora non possono permettersela". E' un dosaggio di giustizia sociale per affrontare una delle piaghe più gravi dell'America e di stabilità. Guai a spaventare gli americani che lavorano nelle grandi aziende, hanno polizze assicurative soddisfacenti, e perciò temono "la mutua di Stato". Su questo punto controverso - il varo di un'assicurazione pubblica - Obama resta prudente e non pone pregiudiziali. Non è vera riforma, dice, senza "un'autentica possibilità di scegliere, una concorrenza che offra agli americani diverse opzioni". Oggi la sanità lasciata alle forze di mercato non funziona, ricorda il presidente. Le compagnie assicurative si riservano di negare le polizze ai soggetti a rischio, e perfino di cancellarle per chi viene colpito da malattie gravi. Questo "sarà vietato per legge".

Il costo delle polizze oggi è alle stelle, è proibitivo per piccole aziende, autonomi, disoccupati. La folle "inflazione medica" costringe gli Usa a spendere il 16% del Pil per la sanità, molto più degli altri Paesi sviluppati e con risultati inferiori. Offrire un'assicurazione pubblica in concorrenza con le private, secondo Obama "aiuterebbe a migliorare la qualità delle cure e a ridurre i costi".

Il presidente fa un gesto gradito alla sinistra del suo partito, che vuole l'opzione pubblica come garanzia di equità. Sul fronte opposto c'è la furiosa resistenza dei repubblicani e delle lobby del capitalismo sanitario. Obama non si spinge fino alle estreme conseguenze. Non minaccia il veto presidenziale se la riforma non conterrà l'opzione pubblica. Può accettare una fase transitoria in cui si sperimenta la creazione di cooperative per far concorrenza alle assicurazioni private.

Preannuncia una "Borsa delle polizze" in cui cittadini e datori di lavoro possano selezionare le offerte più competitive. "Sono aperto a idee nuove, non ho rigidità ideologiche", insiste il presidente. Condanna la campagna di calunnie organizzata dalla destra repubblicana durante l'estate, con l'appoggio della lobby assicurativa: la riforma sanitaria è stata accusata perfino di imporre l'eutanasìa obbligatoria, negando le cure agli anziani per ridurre le spese. Smentisce anche l'accusa di voler estendere gratis l'assistenza agli immigrati clandestini. "La Casa Bianca ha cercato di mantenere un tono civile. Gli avversari hanno usato tattiche del terrore. Spero che il partito repubblicano riscopra la voce della ragione.
Troveranno un partner disponibile". Riserva strali acuminati alle compagnie assicurative, che "guardano solo ai profitti da esibire a Wall Street, e strapagano i loro top manager".

"Sull'80% delle misure c'è ormai un accordo", dice, ma nonostante l'ottimismo Obama non ha fatto breccia nell'opposizione. Il partito repubblicano è convinto che sulla sanità potrà affondare questo presidente, come fece con Bill Clinton nel 1993. Questa legge è uno snodo decisivo: se Obama non la porta a casa entro l'anno, tutta l'agenda delle riforme è a rischio. Ma se sui repubblicani non ci sono più illusioni, le aperture al dialogo di Obama in realtà hanno altri obiettivi. Vuole ricompattare il suo partito democratico, divaricato tra l'ala progressista che vuole una riforma audace, e i moderati che temono un'ulteriore esplosione di spesa pubblica. Soprattutto Obama si rivolge alla nazione, per spazzare via miti e leggende sul "socialismo sanitario" che hanno seminato l'ansia. Quattro dei cinque disegni di legge in esame al Congresso soddisfano i suoi "principi essenziali": assicurazione obbligatoria per tutti, sussidi pubblici per chi non può permettersela, controlli sulle tariffe assicurative, e divieto di escludere i pazienti.

Il presidente tira fuori, nel finale a sorpresa, una lettera che Ted Kennedy gli scrisse prima di morire. E' il momento più alto del suo discorso. "Siamo di fronte a una sfida morale, che riguarda i principi fondamentali di giustizia sociale. E' in gioco il carattere stesso della nostra nazione. Non possiamo accettare rinvii, non possiamo fallire questo appuntamento con la storia".


Obama perde pezzi pregiati
di Michele Paris - Altrenotizie - 8 Settembre 2009

Una nuova tegola è caduta lo scorso fine settimana su un’amministrazione Obama già alle prese con una complicata battaglia per l’approvazione della riforma sanitaria e con il crollo di consensi per la guerra in Afghanistan. In seguito ad una valanga di critiche ed attacchi gratuiti provenienti dai repubblicani e dai commentatori politici di destra, il consigliere speciale del presidente per la creazione di posti di lavoro nell’ambito delle energie rinnovabili - il 40enne di colore Van Jones - è stato costretto ad abbandonare il proprio incarico. Le sue dimissioni sono state immediatamente accettate dalla Casa Bianca, che non ha esitato a liquidare un personaggio scomodo con un passato da attivista per i diritti umani ed uno dei pochissimi politici in una posizione di spicco a non provenire dalle file delle grandi corporation americane.

L’allora neo-presidente Obama lo scorso mese di marzo aveva scelto Van Jones - attivista, avvocato e scrittore del Tennessee con una laurea in Legge a Yale - per entrare a far parte del gruppo di consiglieri per la qualità dell’ambiente dopo la profonda impressione che aveva esercitato, tra gli altri, su due pesi massimi del Partito Democratico come Al Gore e Nancy Pelosi. Come Obama a Chicago, anche Van Jones poteva vantare un passato da carismatico “community organizer” a San Francisco, dove si era guadagnato una fama negli ambienti dell’attivismo per la lotta contro il cambiamento climatico. La sua presenza a Washington avrebbe dovuto così contribuire a delineare una visione compiuta di una nuova economia “verde” a beneficio del Congresso a maggioranza democratica.

In California però, l’ormai ex consigliere di Obama ha commesso l’errore che ha consegnato in questi giorni nelle mani dei falchi conservatori il pretesto per condurre una violenta campagna di discredito nei suoi confronti e che è sfociata inevitabilmente in dimissioni tutt’altro che rimpiante dalla Casa Bianca. Nel 2004, infatti, Van Jones firmò una petizione dell’organizzazione 911Truth.org che accusava i vertici dell’amministrazione Bush di aver deliberatamente permesso gli attacchi dell’11 settembre allo scopo di giustificare una guerra in Medio Oriente.

A fornire ulteriore materiale per le critiche della destra è stata poi anche un’espressione non esattamente cordiale utilizzata da Jones nel riferirsi ai repubblicani poco prima della sua nomina, così come deve aver disturbato non pochi il suo appoggio pubblico dato al condannato a morte di colore Mumia Abu-Jamal, ex membro delle Pantere Nere ed accusato di aver assassinato nel 1981 un poliziotto di Philadelphia in un processo molto controverso. La macchia più grande di Jones per la destra radicale rimane tuttavia il suo attivismo politico e i suoi legami con i movimenti radicali di protesta, per non parlare del colore della pelle, dal momento che le critiche hanno iniziato a piovergli addosso ben prima che la sua firma sulla petizione del 2004 venisse alla luce.

Gli attacchi frontali nei suoi confronti erano partiti a luglio dall’agitatore e demagogo di Fox News Glenn Beck, il quale aveva suscitato la reazione sdegnata dell’organizzazione no-profit “Color Of Change”, co-fondata dallo stesso Van Jones, dopo aver definito Obama razzista. Mentre il gruppo faceva appello alle aziende per non acquistare spazi pubblicitari nel programma televisivo di Beck, quest’ultimo iniziava la sua battaglia personale con il consigliere del presidente, intensificando i propri attacchi e definendolo, tra l’altro, “radicale anarco-comunista”. Gli assalti a Jones hanno cominciato a moltiplicarsi nei media conservatori, finché la scoperta di un blogger della petizione sull’11 settembre ha fatto aumentare le pressioni sulla Casa Bianca.

Senza ottenere un appoggio convinto da parte del presidente e del suo staff, Jones ha finito per dare l’addio all’amministrazione Obama, che ha tirato verosimilmente un sospiro di sollievo per non dovere sostenere ulteriori attacchi alla vigilia della riapertura dei lavori al Congresso per la riforma del sistema sanitario. “Il presidente ringrazia Van Jones per i servizi resi in questi primi otto mesi di mandato, per l’aiuto fornito nel coordinare la strategia per la creazione di nuovi posti di lavoro nell’ambito delle energie rinnovabili e per aver gettato le basi del nostro sviluppo economico del futuro”, sono state le parole del portavoce della Casa Bianca che non hanno nascosto la freddezza nei confronti del consigliere dimissionario.

Da parte repubblicana, alcuni parlamentari non hanno perso tempo nel criticare i metodi di valutazione messi in campo dall’amministrazione Obama per scegliere i candidati a entrare a far parte dello staff presidenziale. I consiglieri della Casa Bianca - i cosiddetti consiglieri speciali o “zar” - a differenza dei membri del gabinetto non sono d’altra parte sottoposti al voto di conferma del Senato, ragione per cui sui precedenti di Van Jones non sarebbero state effettuate ricerche sufficientemente approfondite.

Già agli albori della sua presidenza, peraltro, Obama aveva visto naufragare le candidature di altre personalità di spicco a causa di vicende precedenti alla nomina sulle quali si era chiuso un occhio o erano sfuggite alle squadre di esaminatori, tra cui quelle di Tom Daschle alla guida del Dipartimento della Salute e di Nancy Killefer all’ufficio per il budget, entrambi travolti da scandali legati a tasse non pagate.

La conseguenza più inquietante dell’intera vicenda, aggravata dall’inefficace reazione dell’amministrazione Obama, è che con la dipartita di Van Jones la Casa Bianca ha perso una delle poche personalità, per non dire l’unica, realmente progressista e proveniente dal mondo dei movimenti di protesta e dell’attivismo democratico. L’entourage di Obama risulta così sempre più affollato di ex consulenti o membri dei consigli di amministrazione di grandi banche di investimento, a cominciare dal primo consigliere economico del presidente, Larry Summers, e dal capo di gabinetto, Rahm Emanuel.

Le dimissioni di Van Jones, inoltre, difficilmente contribuiranno a placare gli animi di una destra sempre più pericolosamente combattiva e già protagonista della distorsione del dibattito sulla riforma sanitaria durante l’estate. Sul fronte opposto, la delusione dell’elettorato liberal risulta palpabile e va ad aggiungersi allo sconforto già troppe volte provato in questa fase iniziale del primo mandato di Obama per la mancanza di incisività dimostrata in diversi ambiti. Il tutto, ancora una volta, a discapito del livello di gradimento di un presidente giunto invece a Washington sull’onda di un’enorme popolarità e di una promessa di cambiamento radicale del sistema.


Professore russo: il crollo dell'America potrebbe iniziare tra due mesi
di Paul Joseph Watson - Prison Planet - 1 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

L’autore della profezia apocalittica dice che Obama non sta facendo niente per prevenire la disintegrazione

Il professore russo Igor Panarin dice che gli eventi continuano a confermare la sua predizione apocalittica, fatta per la prima volta più di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sarebbero crollati completamente come l’Unione Sovietica prima della fine del 2010 e avvisa che potrebbe iniziare a verificarsi il caos già tra due mesi.

Panarin, dottore in scienze politiche nonché docente dell’Accademia Diplomatica presso il Ministero degli Affari Esteri della Russia ha detto ieri ai giornalisti, durante la presentazione del suo nuovo libro che il presidente Obama non ha fatto niente per prevenire la crisi, che si sta rapidamente avvicinando e che potrebbe iniziare a verificarsi propriamente a novembre.

“Obama è il 'presidente della speranza', ma tra un anno la speranza non ci sarà più”, ha detto Panarin. “Praticamente è un altro Gorbachev – gli piace parlare, ma non è riuscito a fare realmente nulla. Gorbachev almeno è stato segretario dell’amministrazione di un partito comunista regionale, mentre Obama era solo un assistente sociale. La sua è una mentalità totalmente diversa. È una persona gentile che parla con altrettanta gentilezza – ma non è un leader e porterà l’America al crollo. Quando gli Americani lo capiranno – sarà come l’esplosione di una bomba”.

Dal 1998 Panarin ha preannunciato la futura disintegrazione degli Stati Uniti e il crollo del dollaro. La recente vittoria elettorale del Partito Democratico Giapponese è un altro segno che il crollo economico degli USA è imminente, secondo Panarin.

“Oggi ho ricevuto un’altra conferma che il crollo del dollaro e degli USA è inevitabile. Il Partito Democratico Giapponese ha vinto le elezioni, e vorrei ricordarvi che il suo leader [Yuko Hatoyama] ha nei suoi piani economici di snobbare il dollaro. In parole povere, ha in programma di trasferire le riserve monetarie del Giappone dal dollaro americano ad un’altra valuta. Questa mossa accelererà seriamente il crollo del cambio del dollaro già a novembre. E la disintegrazione seguirà poco dopo”, ha detto, aggiungendo che anche la Cina il prossimo anno inizierà ad abbandonare il dollaro in modo massiccio e che la Russia inizierà a vendere il petrolio e il gas in rubli.

Panarin ha dichiarato in precedenza [3] che il dollaro sarebbe stato infine sostituito con “una valuta comune, l’Amero, come nuova unità monetaria”, in riferimento all’accordo di alleanza per la sicurezza e la prosperità tra gli USA, il Canada e il Messico.

Prevede la suddivisione degli USA in sei parti diverse, pressappoco su linee simili a quelle del 1865 [4] durante la Guerra Civile, “la costa del Pacifico, con la sua crescente popolazione cinese; il sud, con gli Ispanici; il Texas, dove sono in aumento i movimenti per l’indipendenza; la costa dell’Atlantico, con la sua mentalità separata e distinta; cinque degli stati centrali più poveri con le loro grandi popolazioni di nativi americani; e gli stati settentrionali, dove l’influenza del Canada è forte”, secondo Panarin.


Nel lungo termine Panarin prevede che gli stati separatisti finiranno in ultima istanza sotto il controllo dell’Unione Europea, del Canada, della Cina, del Messico, del Giappone e della Russia, e l’America cesserà di esistere del tutto, come illustrato nella figura sopra.

Panarin attribuisce il crollo ad una “elite politica che attua una politica assurda e aggressiva mirata a creare conflitti in tutto il pianeta” e avvisa che l’aumento della vendita delle armi da fuoco negli USA è un segnale che le persone si stanno preparando al “caos” del periodo seguente al crollo finanziario totale.

“Secondo la mia opinione, le probabilità che gli USA cessino di esistere entro il giugno del 2010 sono superiori al 50%. A questo punto la missione di tutti i maggiori poteri internazionali è di prevenire il caos negli USA” ha concluso Panarin.

Guarda una clip di Russia Today qui sotto:





NOTE

[1] Prison Planet.com: http://prisonplanet.com
[2] Image: http://prisonplanet.tv/signup.html
[3] previously stated: http://www.prisonplanet.com/russian-infowar-analyst-says-us-will-break-apart.html
[4] similar to those of 1865: http://en.wikipedia.org/wiki/Image:US_Secession_map_1865.svg