giovedì 17 giugno 2010

Carl Marx: ritorno al futuro

Non si è visto finora alcun rimedio concreto ed efficace per uscire dalla crisi sistemica del modello neoliberista che sta attanagliando in particolare Usa ed Europa.

Ma solo inutili e costosi salvataggi/palliativi, all'insegna di una vergognosa socializzazione delle perdite, che non vanno assolutamente alla radice del problema e servono solo a ritardare il più possibile la vera mazzata che è all'orizzonte.

E' quindi arrivato il momento, prima che sia troppo tardi, di riscoprire e rivalutare gli scritti di un'economista così tanto bistrattato e odiato da coloro che manovrano le leve del potere politico-economico mondiale e che ci stanno conducendo per mano verso il baratro.


Sorpresa: è tornato Carl Marx
di Loretta Napoleoni - www.unita.it - 16 Giugno 2010

Riparte la lotta operaia lungo la catena di montaggio che ormai unisce l'est all'ovest. I metalmeccanici cinesi strappano alla Foxconn e all'Honda concessioni importanti verso la creazione di uno statuto dei lavoratori che i nostri operai invece stanno per perdere.

Le stesse forze che applaudono alla vittoria cinese in occidente, incitano gli italiani a rinunciare ai privilegi conquistati in decenni di lotte.

Ecco l'ultimo atto canaglia dell'economia globalizzata, e per conciliare questi atteggiamenti incompatibili non si esita a suggerire di cambiare la Costituzione. Peccato che questa contraddizione sia irrisolvibile con i tagli alla Costituzione o ai costi di produzione.

Non si illudano politici e alcuni industriali: la crisi è sistemica, e se non viene risolta da entrambi i fattori dell'equazione produttiva: capitale e lavoro, tra dieci anni il nostro capitalismo potrebbe non esistere più. I destini degli industriali e degli operai occidentali sono tornati a incrociarsi.

Per vent'anni la formula della globalizzazione è stata: taglio dei tassi d'interesse e delocalizzazione, un'equazione che ha evitato al capitalismo, quello vero, non il suo avatar finanziario, di confrontarsi con il suo nemico numero uno: la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Marx ne parla a lungo, ma anche Smith e Ricardo accennano a questo virus che si rafforza con il dilagare della produzione meccanizzata. Meno lavoro umano si utilizza nella produzione, meno grasso sarà il profitto; l'uomo e la sua intelligenza hanno un valore aggiunto superiore alla macchina.

Gli asiatici lo sanno bene, noi ce ne siamo dimenticati. La Honda e la Foxconn si piegano ai voleri degli operai cinesi invece che rimpiazzarli con nuove tecnologie o delocalizzare la produzione in Vietnam perché il valore aggiunto della manodopera cinese è ancora imbattibile. Per produrre autovetture ed ipod di prima qualità ci vuole, per dirla alla Adam Smith, la mano "magica" dell'operaio specializzato.

La disputa tra capitale e lavoro alla Fiat è solo l'anteprima di ciò che ci aspetta nei prossimi anni se non ci decidiamo a risolvere il problema della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con i tassi d'interesse ormai a zero l'unico modo per contrastarla è tagliare il costo del lavoro, già ridotto all'osso. Delocalizzare in Cina o in Asia non è più così conveniente, ce lo confermano gli scioperi a Shenzhen, si rischia di ritrovarsi con le stesse dispute dall'altra parte del mondo.

È vero, ci sono sempre i Paesi dell'ex est europeo: Polonia, Serbia, Slovacchia dove un operaio guadagna ancora 350 euro al mese e dove la vita è quasi tanto cara quanto a casa nostra. Questa la minaccia della dirigenza Fiat: chiudiamo Pomigliano e ce ne andiamo tutti in Polonia, la Panda invece che nel mediterraneo la facciamo a due passi dal Baltico.

Il discorso non fa una piega, peccato che non si sia preso minimamente in considerazione il mercato di sbocco. Ecco l'altro grande ostacolo del capitalismo: il mercato di sbocco, un volano industriale che bisogna conquistarsi con crescente difficoltà. Quello cinese si chiama mercato interno: un miliardo e 300 milioni di operai.

Anche in Italia un tempo si chiamava nello stesso modo. Negli anni del miracolo economico la Fiat produceva utilitarie che poi vendeva a quella classe media ed operaia che l'aiutava a produrle.

Il capitalismo, ricordiamolo, prende il nome dal capitale, ma altro non è che il prodotto del rapporto tra questo e il lavoro: l'uno senza l'altro non possono esistere. Se togliamo la fabbrica agli operai italiani e paghiamo 350 euro a quelli slovacchi, la moderna utilitaria chi la comprerà? È una domanda che tutti gli industriali dovrebbero porsi. E prima di guardare oltralpe, facciamo due conti con la concorrenza.

La Fiat non è la Toyota che da vent'anni produce macchine ibride, non è neppure la cinese Grenley che si è comprata la Volvo. Non ha né il prodotto, né i muscoli per competere a livello internazionale con i vecchi e nuovi giganti dell'auto.

E, ahimé, questo discorso vale un po' per tutta la nostra industria che negli ultimi anni ha perso lustro e fatica a sostenere la concorrenza agguerrita degli asiatici.

La grande sfida della seconda fase della globalizzazione si chiama mercato nazionale, come difendere capitale e lavoro in un'economia mondiale tendenzialmente canaglia?

L'Italia non è la Germania, terzo esportatore al mondo, ma è un Paese dove c'è ancora voglia di lavorare, dove la classe media e quella operaia sono più povere che vent'anni fa, dove un insegnante di liceo guadagna 1200 euro al mese.

C'è spazio quindi per la crescita economica, ma per averla bisogna che la torta venga divisa più equamente, le briciole non bastano più. Se non lo facciamo, nessuno mangerà più: l'ha predetto due secoli fa Carlo Marx.


Cina: "...perchè gli occidentali comprano dei jeans così grossi?..."
di Romolo Gobbi - www.romologobbi.com - 15/06/2010

Il dialogo ingenuo avvenuto alcuni mesi fa tra due operaie cinesi di una fabbrica di jeans rivela la loro disinformazione sulle condizioni di vita dell'occidente, altrimenti saprebbero che, almeno da dopo la Seconda Guerra Mondiale, la statura media dei cittadini italiani ed europei è aumentata.

Per quanto riguarda la loro stazza, e questo vale anche per i cittadini americani, il problema della dilagante obesità preoccupa medici e governi per le implicazioni sulla salute dei cittadini grandi e piccoli.

L'obesità è la manifestazione di disturbi psicologici e metabolici, ma è comunque il frutto di una enorme disponibilità di cibo e bevande di cui può disporre un cittadino occidentale.

In Cina, invece, le operaie che "dormivano in dodici per camera in letti a castello vicino al gabinetto e le stanze erano sporche e puzzolenti", non avevano un gran che da mangiare: "un pasto prevedeva una porzione di riso, una di carne o verdure e una zuppa, e la zuppa era tutta acqua".

Il salario degli operai cinesi si aggirava mediamente al di sotto dei 60 euro al mese e la "giornata alla catena di montaggio durava dalle otto del mattino a mezzanotte. Tredici ore di lavoro più due pause per mangiare, tutti i giorni, per settimane di fila".

Queste condizioni di vita e di lavoro hanno consentito alle aziende occidentali di installare fabbriche in Cina e trarne enormi profitti, rivendendo i prodotti in occidente: "dal 1995 al 2003, l'esportazione cinese passa da 121 a 365 miliardi di dollari; oltre il 65% di questo aumento proviene dalle sussidiarie cinesi di imprese straniere".

Per produrre questa montagna di prodotti sono state occupate migliaia di maestranze che vennero fatte affluire dalle campagne: "Nel 2008 si parla addirittura di 200 miliardi di braccia. Siamo di fronte alla più grande migrazione nella storia dell'umanità".

Questa grande epopea sta finendo: "Già da un paio di anni si hanno notizie che nella provincia meridionale del Guangdong si fa difficoltà a trovare nuovi operai...un bracciante non si trasferisce più per poche centinaia di yuan al mese, ormai ne servono alcune migliaia".

Negli ultimi giorni di maggio di quest'anno è trapelata la notizia di un primo sciopero nella provincia di Guangdong in uno stabilimento che produce componenti per auto della Honda: "1900 addetti hanno incrociato le braccia, rivendicando un aumento dello stipendio, ormai insufficiente, dicono, per far fronte al costo crescente, anche in Cina, della vita".

I dipendenti della Honda di Guangdong, che attualmente percepiscono circa mille yuan - pari a circa 100 euro - al mese: "hanno bloccato la produzione in almeno due occasioni nelle ultime due settimane, chiederebbero di arrivare almeno a quota 2000 - 2500 yuan".

Negli stessi giorni un'altra notizia sconvolgeva il mondo del lavoro cinese: "i suicidi a ripetizione alla Foxconn, la più grande azienda elettronica del mondo, 800 mila dipendenti, dei quali 300 mila nella sola area di Shenzhen dove vengono assemblati i prodotti di punta di Apple, Hewlett-Packard e Nokia. Anche in questo caso sono stati denunciati ritmi di lavoro molto alti per poter arrivare ad un livello salariale appena decente".

In entrambi i casi le aziende hanno dovuto cedere alle richieste operaie: "Honda e Foxconn hanno finito per calare le braghe, concedendo aumenti salariali fuori da ogni logica contrattuale... con queste premesse, è ragionevole aspettarsi presto altre rivendicazioni selvagge in altre fabbriche della zona".

In effetti, nei giorni successivi, altri scioperi selvaggi si sono verificati negli stabilimenti della Guanggi Honda Automobili e di un'altra società controllata, la Honda Lock: "e l'epidemia di proteste ha contagiato anche la Brother, azienda nipponica di attrezzature elettroniche".

Tutti questi scioperi sono avvenuti senza alcun coordinamento da parte del sindacato, anche se in questi giorni "il Quotidiano del Popolo, organo del partito, raccomandava attenzione alle condizioni di lavoro".

Dunque, gli scioperi di questi giorni non sono "proteste anti-governative, ma sono un movimento approvato dal governo".

Non scioperi selvaggi partoriti dall'autonomia operaia e neanche il frutto di una coscienza di classe globale; infatti condizioni di lavoro anche peggiori esistono in Vietnam e Laos, dove sono state spostate lavorazioni prima effettuate in Cina: "Nella seconda metà degli anni Duemila la Cina diventa il centro di assemblaggio della catena di montaggio mondiale, i pezzi sono prodotti a costi più bassi nei Paesi limitrofi e messi insieme nelle fabbriche cinesi".

Certamente questi processi non sfuggono all'attenzione del partito comunista, che, proprio come tale, conosce la teoria marxiana della migrazione del capitale la dove la forza lavoro costa di meno.

Nessuna preoccupazione devono destare queste manifestazioni di disagio sociale, perchè possono essere manovrate dal partito per imprimere una nuova dinamica alla società cinese, anche in vista "della delicata transizione ai vertici del Partito comunista, previsto nel 2012".



Quale ritorno a Marx per riflettere sui nostri tempi?
di Laurent Etre - www.humanite.fr - 17 Aprile 2010
Traduzione dal francese di Giuseppe Fumarco per il Centro Studi Sereno Regis

Faccia a faccia con: Edgar Morin, sociologo, filosofo, direttore di ricerca emerito al CNRS e dottore ‘honoris causa’ di numerose università nel mondo; André Tosel, filosofo, specialista nel pensiero di Marx e del marxismo, professore all’Università di Nizza.

Con la crisi, il riferimento a Marx cessa di essere un tabù. Le opere sull’autore del Capitale si moltiplicano, così come i ‘dossier’ speciali nei giornali e nelle riviste. Senza mettere sullo stesso piano le numerose pubblicazioni consacrate a Marx in questi ultimi mesi, non si può nemmeno non interrogarsi su questo ritorno di interesse così repentino.

Quando riviste quali “Le Nouvel Observateur” o “Le Point”, ciascuno con la propria sensibilità, si occupano di Marx, ciò fornisce l’indicazione che si apre qualche crepa in un paesaggio mediatico ancora dominato dall’ideologia del capitalismo come orizzonte insuperabile della storia.

Si può ben dire che ciò a cui noi assistiamo non è soltanto la fine della guerra fredda o di una fase particolare del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo umano” scriveva nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino, il capofila di questa concezione, l’americano Francis Fukuyama.

Vent’anni dopo, nell’ottobre 2008, alcuni newyorchesi manifestano davanti alla Borsa di Wall Street brandendo dei manifesti con su scritto: “Marx aveva ragione!”. Il suo ritorno sarebbe la conseguenza meccanica della caduta degli idoli neoliberali?

Rimanere a questo livello della riflessione sarebbe non voler vedere che si attribuisce a Marx un’altra concezione della fine della storia, “la società libera e senza classi”, da opporre a quella – riconosciuta fallimentare – di Fukuyama. Questo postulato della fine della storia è stato largamente strumentalizzato per legittimare il potere dei regimi autoritari all’epoca del “socialismo reale”.

I due filosofi, Edgar Morin e André Tosel, che noi abbiamo invitato qui per uno scambio sull’attualità del pensiero marxiano, sono accomunati, ciascuno a modo suo, nel rifiuto del determinismo storico. Marx stesso, nel suo “18 Brumaio di Luigi-Napoleone Bonaparte” spiegava che “Gli uomini fanno la loro storia….. ma nelle condizioni direttamente ereditate dal passato”.

Si tratta allora di chiarire i fondamenti di queste condizioni…

Edgar Morin insiste sul ruolo dell’immaginario e della facoltà simbolica dell’uomo; André Tosel, senza negare i limiti della tradizione marxista su questi temi, rivisita la prospettiva propriamente comunista di una liberazione etica e politica dalla potenza dei produttori (i capitalisti, NdT). Due punti di vista chiarificatori sui nostri tempi, sulle sue sfide e sulle sue potenzialità.

INTERVISTA

Come spiegate il relativo ritorno di interesse dei media più importanti su Marx e l’attualità editoriale intorno a questo pensatore?

EDGAR MORIN. Prima di parlare di rinnovato interesse, bisogna riandare al collasso del marxismo verso il 1977. Questo collasso coincide con la fine di una esperienza rivoluzionaria. Tale esperienza, esauritasi in Unione Sovietica, viene meno con l’affare Lin Piao e la “banda dei quattro” in Cina. Il Vietnam, fino ad allora percepito come popolo liberatore, invade la Cambogia nel 1979, paese nel quale Pol Pot ha imposto un regime demenziale sempre nel nome del comunismo.

Questi non sono fatti che discreditano di per sé il marxismo. E’ piuttosto un sistema di speranze e di fedi che viene disintegrato. L’esperienza dei regimi totalitari, impensabili per Marx e imposti nel nome di Marx, accrescono il collasso. In quegli stessi momenti storici, il capitalismo sembra più o meno controllato dal welfare state e dalle leggi di ispirazione sociale.

Si sostiene che, contrariamente a quanto aveva scritto Marx, il ‘Capitale’ non domina tutta l’evoluzione della società. L’idea di rivoluzione svanisce. Il disincanto permette di percepire le carenze importanti nel pensiero di Marx sullo Stato e sulla gestione del potere. Poi, a partire dagli anni ’90, l’implosione dell’Unione Sovietica e la mondializzazione del capitalismo anche in Cina e Vietnam aggravano la crisi del marxismo.

Ma, allo stesso tempo, si innesca la rinascita di una problematica marxiana. Si prende coscienza poco alla volta che il neoliberismo, sotto la cui egida ha luogo la mondializzazione, provoca allo stesso tempo lo scatenamento del capitalismo e una crescita delle diseguaglianze e della miseria: il capitalismo ridiventa nemico dell’umanità.

Gli effetti della mondializzazione hanno degradato il “welfare state” protettore… La concorrenza mondiale spinge le imprese a delocalizzare senza che i sindacati, già indeboliti, possano reagire. Da un lato il capitalismo è trionfante, il che sembra smentire Marx; dall’altro, i vizi e i mali che esso porta con sé confermano le tesi di Marx.

In ogni caso, con gli anni ’90 e 2000 si sviluppa una presa di coscienza che il neoliberalismo è esso stesso un mito ideologico sociale. Il problema oggi è che se la capacità di denuncia è diventata più forte, la capacità di delineare una nuova politica non c’è ancora.

In ogni caso, se oggi si ritorna a Marx, è allo stesso tempo come critico del capitalismo e come critico del consumismo (Marx diceva che la produzione non crea soltanto un prodotto per il consumatore, ma anche un consumatore per il prodotto), e come critico della mondializzazione.

ANDRÉ TOSEL. Direi che il sistema sovietico si è esaurito da se stesso. E’ stato accerchiato, obbligato a inseguire la corsa agli armamenti. Ma ciò non ci può far dimenticare che non è stato capace di sviluppare un’autocritica in grado di rilanciare un processo democratico rivoluzionario che liberasse la forza dei produttori, delle masse popolari, nel senso auspicato da Marx stesso.

L’esaurimento risale, dal mio punto di vista, agli anni ‘60/’70, quando si consuma la rottura tra Cina e URSS. Quella che si chiude è un’esperienza storica che ha liberato speranze immense ma che, alla fine, rivela i suoi limiti così come la sua violenza.

Il punto più doloroso in questa storia è che il partito, che era stato efficace come organizzazione contro lo Stato nel 1917, si è esso stesso costituito in Stato autoritario inedito. In altri termini, l’organizzazione che aveva fatto la forza del leninismo si è rivelata esserne anche il punto debole.

Io credo che siamo oggi a una svolta storica. Torniamo a Marx perché ci offre degli spunti critici ancora pertinenti in relazione ai problemi dei nostri tempi, ma che, sicuramente, sono insufficienti. Sul problema della nazione, dello Stato, dell’ideologia, della funzione simbolica nei rapporti sociali, la tradizione marxista non è stata esaustiva.

A ciò si aggiungono i problemi della frammentazione etnica e quelli delle violenze inaudite che si sviluppano all’interno delle società. Bisogna egualmente elaborare una risposta alla sfida che rappresentano le mutazioni antropologiche tendenti a trasformare le masse popolari in masse di consumatori, disaggregate, esposte a tutte le derive possibili. Marx non poteva prevedere tutto, anticipare tutto!

Oggi l’urgenza è quella di elaborazioni sul mondo della mondializzazione. E credo che questo mondo è veramente strutturato da un capitalismo reso ai suoi “spiriti animali”. E’ in questa accezione che mi sembra utile ritornare al Marx della critica dell’economia politica, quello che pensava a un’altra umanità possibile, quello che non imputava né alla scienza né alla tecnologia le aporie inscritte nella sottomissione delle attività umane al capitale.

E che dire del marxismo? Si può riconoscere a certi marxisti un apporto creativo alla teoria di Marx?

ANDRÉ TOSEL. Occorre dire, a onore del marxismo, che ci sono stati dissidenti nel suo seno, degli eretici che non hanno mai avuto il potere. C’è stato Trotski, ma anche Gramsci, il pensatore dell’egemonia politica. C’è stato Henri Lefebvre, marxista umanista e “critico della vita quotidiana”, per riprendere il titolo della sua opera maggiore.

C’è stato Luckacs, pensatore della reificazione, fenomeno per il quale le relazioni sociali tra persone prendono la forma di relazioni tra cose. Bisogna riconoscere anche ad Althusser il merito d’aver posto delle buone questioni, sebbene si può discutere sulla sua idea di una cesura epistemologica che separa un giovane Marx umanista e filosofo da un Marx della maturità che sarebbe stato scientifico “puro e duro”.

EDGAR MORIN. Un’opera di un grande pensatore complesso come Marx si degrada inevitabilmente presso gli epigoni. Ciascuno coglie un obiettivo dell’opera e tende a ridurre la totalità complessa al solo obiettivo da lui colto. È ciò che è successo al marxismo in generale.

Certi hanno isolato di Marx la sua dottrina economica; altri si sono concentrati piuttosto sulla predizione di una società senza classi attraverso la rivoluzione, ecc… Quando, al contrario, si cerca di mantenere la complessità della teoria, non è un tutto compatto che ne viene fuori, ma un movimento di pensiero che fa fronte e tiene insieme le contraddizioni. Un modo di uscire dal marxismo dogmatico è quello di tenere aperta la dialettica, ossia mantenere viva la tensione tra reale e razionale, in luogo di pretendere di approdare a una sintesi totale e definitiva di questi due poli.

Su tale base hanno avuto luogo processi di rigenerazione della teoria marxiana. Così, Lucien Goldmann ha evidenziato che la fine del capitalismo e l’avvento di una società senza classi doveva essere interpretata come possibilità e non come necessità.

Joseph Gabel, da un altro punto di vista, ha preso spunto dalla teoria di Minkowski sulla schizofrenia per esplicitare il concetto marxiano di reificazione. Per quel che mi riguarda, ciò che io chiamo “pensiero complesso” è meta-marxiano. Per me Marx è una stella in una ricca costellazione di pensieri con Eraclito, Pascal, Rousseau, Hegel…

Ma per progredire verso dei progressi di civilizzazione, non si ha ancora bisogno dell’utopia di una umanità riconciliata con se stessa, della visione di una società libera e senza classi?

EDGAR MORIN. Vorrei dire anzitutto che, per me, c’è una carenza antropologica nel pensiero di Marx. Egli ha ben focalizzato l’homo faber, produttore dei propri utensili e di se stesso. Ma non ha intravisto l’homo sapiens-demens, l’uomo delirante, l’uomo poeta, produttore di miti. Egli non ha colto che la follia umana è costitutiva quanto la ragione. È studiando le società cosiddette arcaiche, il loro rapporto con la morte, che io ho potuto capire il carattere cruciale dell’immaginario.

Certo, Marx aveva compreso l’importanza della religione, “l’oppio dei popoli”. Ma non quella del mito in generale. Ora per rispondere alla sua domanda, io direi che ci sono due tipi di utopie: quella della società armoniosa, totalmente riconciliata e perfetta, che, a mio avviso, conduce sempre al peggio: e l’utopia ‘buona’, che consiste nel pensare che ciò che sembra attualmente impossibile è veramente possibile.

Per esempio, quando ci si riflette, pervenire a una società senza guerre è possibile, allo stesso modo in cui i monarchi hanno soppresso le guerre tra feudatari. Trattare il problema della fame è egualmente possibile.

Una società-mondo di un nuovo tipo è possibile. Sono abituato a dire: la rinuncia al migliore dei mondi non è la rinuncia a una mondo migliore. Certo, nulla è cominciato a muoversi in quella direzione. Ma il pianeta, oggi, gronda di iniziative di base. Si creano ovunque cooperative, associazioni di disoccupati, ecc…

Ho visto in Brasile, gli sforzi impiegati per rigenerare certi quartieri che sembravano condannati alla delinquenza e alla miseria. La scommessa è quella di far riconoscere e incontrare queste diverse iniziative locali. È allora che si potranno elaborare delle nuove vie.

Io preferisco parlare di metamorfosi piuttosto che di rivoluzione. Il passaggio dalla preistoria alla storia è stata una metamorfosi. Sono stati i piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, senza Stato, senza agricoltura, senza città, che, per un fenomeno di agglomerazione e di dominio degli uni sugli altri, hanno costituito le società con lo Stato, le città, le religioni, gli eserciti, le conquiste, la filosofia, l’arte, ecc…

Penso che alla fine di una nuova via c’è la possibilità di una metamorfosi. Questa parola è importante ai miei occhi, perché c’è la radicalità del cambiamento implicata dal termine rivoluzione ma senza il “del passato facciamo tabula rasa”. Si tratta di riconciliare l’idea di ‘riforma’ con quella di ‘rivoluzione’ suggerendo che è attraverso vie riformatrici multiple e solidali che si potrà cambiare indirizzo e andare verso una metamorfosi.

ANDRÉ TOSEL. Questo dibattito non è nuovo, attraversa tutta la storia del movimento operaio, Jaurés aveva forgiato il concetto di evoluzione rivoluzionaria. Egli voleva sperimentare le cooperative sulla base delle conquiste democratiche della Francia, dell’inventività del proletariato francese, fare della repubblica una repubblica sociale. Marx ed Engels hanno sempre preso in considerazione le congiunture storiche.

Engels aveva preconizzato una via pacifica e graduale al socialismo. Nella prefazione del 1895 alla riedizione della “Lotta di classe in Francia” (1850), la repubblica democratica è una via come un’altra. La difficoltà, in un contesto di mondializzazione neoliberale, è di poter tenere insieme le due finalità: la radicalità della critica e l’analisi della situazione concreta, senza idealizzare la potenza di una contro-violenza rivoluzionaria che può rivelarsi controproduttiva, senza però nemmeno farsi delle illusioni sulla buona volontà delle classi dirigenti.

Certo, ci sono dei microcambiamenti, degli sforzi di sperimentazione che Lei invoca. Dal mio punto di vista, io credo anche che non si insisterà mai abbastanza – nel momento in cui ogni modello di trasformazione è scomparso – di sperimentare e di tradurre tali sperimentazioni le une nelle altre. Ciò detto, persiste una grossa difficoltà: come passare dalla resistenza e dalle lotte al livello locale a delle convergenze che investano il livello globale?

Si vede bene la sinistra farsa costituita dalla “governance mondiale”, manipolata dalle multinazionali, esse stesse legate agli Stati più potenti capaci di proiettarsi a livello geopolitico globale. Di fronte a ciò, noi non siamo riusciti a costituire un’azione internazionale o transnazionale. Questo si chiamava un tempo “internazionalismo”. E tutto resta ancora da fare.

EDGAR MORIN. Io faccio un parallelo tra la creatività della vita e la creatività umana. Come Spinoza, penso che è la natura di per sé che possiede la forza creatrice. La creatività umana è addormentata nelle società irrigidite, negli spiriti addomesticati, ma essa può risvegliarsi, soprattutto durante i periodi di crisi. Le crisi, come quella che noi viviamo oggi, risvegliano le capacità creatrici e, sfortunatamente, anche quelle distruttrici.

Penso che noi possiamo vedere nei diversi ambiti dell’esistenza ciò che si deve cambiare. Bisogna partire da lì, e non da un progetto o da un programma. E’ tutto da cambiare. Prendiamo la medicina che ha fatto dei progressi considerevoli. Si vedono bene oggi le sue enormi carenze: sono gli organi che interessano e non l’individuo; oppure, quando è l’individuo, non si prende in considerazione l’ambiente in cui si colloca.

Agendo in tal modo gli ospedali diventano luoghi di disumanizzazione. Bisogna dunque riformare la medicina, dare un’altra cultura (una formazione, NdT) ai medici. Io direi che bisogna riformare il consumo, dato che viviamo un’epoca di intossicazione consumistica sotto l’effetto della pubblicità.

Occorre riformare l’alimentazione, l’agricoltura, fare arretrare lo sfruttamento sempre teso al “di più” e all’esportazione a vantaggio di un’agricoltura riconvertita ai veri bisogni umani e orientata al soddisfacimento dei bisogni delle popolazioni locali. L’idea di ‘via’ mi sembra essa stessa rivoluzionaria. I più grandi cambiamenti sono sempre stati all’inizio piuttosto modesti.

Ma imboccare la via di una società di emancipazione, non vuol dire impegnarsi attivamente e coscientemente a uscire dal capitalismo? Si può andare verso l’emancipazione senza partire da un progetto di società postcapitalista, a partire dal quale dedurre un certo numero di principi per orientarsi nel presente?

EDGAR MORIN. Ciò in cui credo, è che ci sono un certo numero di fenomeni di emancipazione all’interno di un mondo caratterizzato dal capitalismo. L’abolizione della schiavitù è stato un fenomeno di quel tipo, anche se le conseguenze sono state molto più limitate di quello che si era sperato. Penso che la via per superare il capitalismo sia l’economia pluralistica. In tale ambito, sono state formulate un certo numero di riflessioni.

L’economia pluralistica significa sviluppare sempre di più le cooperative, le società di mutualità, le piccole e medie aziende agricole, l’artigianato. Viviamo sotto l’impero della produzione “usa e getta”, la biro, il rasoio, il computer…Ma il ritorno a oggetti riparabili farà rinascere le corporazioni dei riparatori, dei riciclatori, ecc..

Bisogna estendere al mondo intero tutte le esperienze che contribuiscono a rendere la specie umana più intersolidale, e anche saper de-mondializzare: ritornare all’alimentazione di prossimità, all’agricoltura del coltivatore diretto e biologica, alle culture locali. Fare arretrare l’area del capitalismo passa di lì. Bisogna collegare una mondializzazione di intersolidarietà e una comunità di destino a una rilocalizzazione della partecipazione, della convivialità.

ANDRÉ TOSEL. Mi farebbe piacere condividere totalmente il suo ottimismo. “Ottimismo della volontà e pessimismo della ragione” diceva Gramsci. Ma il capitalismo di per sé è pieno di pericoli estremamente gravi. Marx parla della sottomissione reale del lavoro al capitale, vale a dire dell’espropriazione di tutti coloro che lavorano, o sono esclusi dal lavoro, da ogni forma di controllo sui loro prodotti e sulla loro esistenza.

Questo meccanismo economico e politico non è mai stato così forte e mantiene la capacità di trasformare le sue crisi in occasioni di profitto e di potere, facendo retrocedere all’infinito il limite dell’accumulazione delle ricchezze e delle diseguaglianze distributive, manipolando i consumi, distruggendo le solidarietà, moltiplicando attraverso i media il fallimento dello spirito critico.

È impossibile stare ad aspettare la grande crisi finale. Lo si è visto con la crisi finanziaria in cui, alla fine, le banche sono pervenute a “banca- rizzare” lo Stato molto più di quanto lo Stato abbia nazionalizzato le banche.

Occorre preparare il momento in cui, a partire dalle esperienze locali che lei ha evocato, diventerà possibile far saltare questa catena di sottomissione strutturale. Ma dobbiamo comprendere che non possiamo più seguire gli schemi classici. C’è urgenza, cosmologica, etica, sociale, politica a rendere impossibile il possibile troppo reale del capitale.

Marx era un uomo vissuto all’epoca dei Lumi. Voleva che il positivo prevalesse sul negativo, in cui supponeva fosse potenzialmente contenuto. Ma all’oggi possiamo veramente dire che c’è una specie di equilibrio tra elementi positivi ed elementi negativi nella mondializzazione? Io credo che è la resistenza agli elementi negativi che farà emergere il positivo.

EDGAR MORIN. Non sono affatto ottimista! Per me il probabile è piuttosto la catastrofe, e non solamente ecologica. Ciò che ho voluto dire parlando di lato positivo della mondializzazione, è che, per la prima volta, l’umanità ha una comunità di destino. Ma non nego che il capitalismo sia più che mai scatenato verso il profitto illimitato, e ciò avviene in un contesto di odi etno-religiosi, o nazional-religiosi, con degli embrioni di guerre di civilizzazione tra mondo occidentale e un Islam sul quale si riversano tutte le maledizioni.

D’altra parte, lo sviluppo scientifico produce elementi di distruzione e di asservimento sempre più potenti, in ogni caso prevalenti sui benefici che le scienze in genere producono. Allo stesso modo la tecnica ci strumentalizza più di quanto essa manipoli la materia inanimata. Là dove io sono ottimista, è che scommetto sull’improbabile, sulla possibilità che la catastrofe sia evitata. Risveglio in tal modo la speranza che era morta.

ANDRÉ TOSEL. D’accordo per sperare nella speranza, ma questa speranza è sottomessa a due condizioni: in primo luogo io non sono sicuro che occorra farsi carico dell’analisi critica della scienza e della tecnologia proposte da Heidegger e ripresa dai teorici della Scuola di Francoforte. Heidegger evita nella sua critica di confrontarsi direttamente e nominalmente con il capitalismo nel momento in cui lo vede come puro dispiegamento del nichilismo.

La lotta emancipatrice passa attraverso la loro (della scienza e della tecnologia, NdT) disincorporazione e la loro appropriazione da parte delle forze che Gramsci chiamava “masse subalterne”. E soprattutto da parte di coloro che oggi sono schiacciati, vivono nel disgusto della vita e nell’odio di quegli “altri” che non sono tuttavia i loro nemici.

Tutto ciò ci pone ancora una volta la questione dell’organizzazione politica. Non perdiamo di vista infine che dietro alla mondializzazione, ci sono le classi dirigenti e le nuove ‘caste’: esse vivono nel loro ghetto dorato, non hanno più il senso della responsabilità delle conseguenze dei loro atti.

Esse sono incapaci di pensare a lungo termine. Questa impotenza a vedere le cose nel lungo periodo contamina tutta la società. Per gli uni, si tratta di accumulare sempre di più nell’immediato distruggendo e assorbendo i concorrenti. Per gli altri si tratta di sopravvivere giorno per giorno. Il rapporto della durata contrattuale si contrae così come si atrofizza la prospettiva di un futuro praticabile.

Un futuro vivibile non può imporsi che chiedendo il “redde rationem” a queste caste che fanno del nostro mondo, superficialmente unificato, un mondo non abitabile e che ci priva della dimensione del tempo a venire, del tempo che farà domani. Penso che ci sia una sorta di atteggiamento distruttivo (nichilista, NdT) nella concezione e nella percezione del tempo. Tutto è rapportato alla rapidità dei profitti e al ritorno sugli investimenti. Se si vuole tornare a essere soggetti attivi bisognerà un giorno poter denunciare queste élite e metterle davanti al fatto che sono responsabili della distruzione del futuro.

EDGAR MORIN. Non sono in discussione solo le élite economiche; lo sono egualmente le élite politiche, che si sono deculturalizzate. In ogni caso io penso che bisogna rigenerare la politica rigenerando un pensiero della società, dell’uomo, della storia. Il problema fondamentale, è quello di rifondare il pensiero politico di sinistra, di risvegliare le coscienze e di suscitare nuovi modi di azione. Un ritorno a quello che c’è di più fecondo in Marx non può che contribuire a una rigenerazione politica.


BIBLIOGRAFIA (non esaustiva):

Edgar Morin è (tra le tantissime opere, NdT) l’autore di “Pour une politique de civilisation” (Arléa 2002), “Terra-patria” (Seuil, 1999: trad. it. Cortina, Torino 1994). La sua opera maggiore, “La Methode” è composta di 6 volumi editi da Seuil tra il 1977 ed il 2004 (trad. it. Cortina, Torino 2001-2005). Sta per uscire, con le edizioni Temps Présent, “Pour et contre Marx”.

André Tosel ha pubblicato recentemente “Le marxisme du XXe siècle” presso le Edizioni Syllepse, e “Spinoza ou l’autre (in)finitude” presso le edizioni L’Harmattan.