Pomigliano: il peso del NO
di Fabrizio Casari -Altrenotizie - 23 Giugno 2010
Il novantacinque per cento dei dipendenti (4642) ha votato, ma nessuno aveva detto di non andare a votare. Il 52 per cento ha detto Sì, ma il 38 per cento (1673) ha detto No. E se scendiamo agli operai delle linee, il No arriva a lambire il 50%.
Questo nonostante il voto si sia svolto in un clima interno di controllo e di manipolazione che nemmeno le elezioni di una repubblica bananera avrebbero consentito.
Ma i numeri parlano, e dicono che sia nel caso generale (38%), sia a maggior ragione nel comparto di linea (50%) sono emersi voti che vanno decisamente oltre la rappresentanza Fiom; il che vuol dire che il No all’accordo, è andato ben oltre il peso certificato del sindacato metalmeccanici della Cgil. Dunque, nessun plebiscito, tutt’altro.
Il referendum Fiat, che avrebbe dovuto consegnare al Lingotto un pronunciamento bulgaro sull’accordo separato firmato da sindacati gialli e neri, ma rifiutato dalla Fiom, ha avuto un esito molto diverso da quello che ci si attendeva a Corso Marconi.
La Fiom era sola contro tutti e tutto. Governo, Confindustria, partiti (anche del centrosinistra), sindacati, giornali e opinionisti arruolati alla bisogna, avevano cantato in ogni lingua e con ogni tono il favore all’accordo. Con un solo distinguo: quello tra coloro che ne indicavano l’inevitabilità e quelli che, invece, oltre a definirlo inevitabile ne giudicavano positivamente i contenuti.
Hanno preso entrambi un sonoro ceffone. Il referendum è stato interpretato come si doveva, cioè come un ricatto, una falsa alternativa, una vera dichiarazione di guerra. Se la Fiat, come aveva dichiarato, per dare seguito al piano pretendeva un pronunciamento totale in senso affermativo dei suoi operai, non l’ha ottenuto.
Pomigliano non accetta di divenire la fabbrica-caserma del nuovo taylorismo, il laboratorio ultimo del comando d’impresa. La soppressione dei diritti costituzionali e la deroga continua al CCLN non gode del consenso di tutti.
L’obiettivo era duplice: azzerare la rappresentanza della Fiom e proporre un modello industriale che riportasse la relazione tra azienda e lavoratori ai primi del ‘900. Ristabilire il comando d’impresa come l’Alfa e l’Omega delle relazioni industriali.
Quali dei due obiettivi fosse la principale e quale la subordinata è difficile da stabilire; inoltrarsi nella disamina rischierebbe di riproporre l’annosa questione dell’uovo e della gallina. La loro interdipendenza è invece evidente. Così come risulta evidente che quello della Fiat è un piano industriale fatto di contenuti che in nessun altro paese d’Europa sarebbero accettabili.
Ci si domanda, sempre più spesso e con molte ragioni, come mai la Fiat sceglie di riportare la produzione della Panda a Pomigliano, quando potrebbe mantenerla in Polonia. Meglio sorridere quando sentiamo insinuare una sorta di filantropia del Lingotto.
La risposta è semplice: oltre a questioni non certo secondarie, che vanno dai finanziamenti locali ed europei al peso specifico dell’azienda nel sistema-paese di uno dei membri del G-8, si deve considerare che un prodotto come le auto Fiat, per riuscire comunque a conservare o ad accrescere la sua quota di mercato, ha bisogno di una qualità del prodotto che in Polonia, come in altri paesi dell’Est Europa, non avrebbe. Qualificazione professionale, impianti, tecnologia e costi vedono comunque più conveniente la scelta italiana.
La parola passa ora a Marchionne, che ora dovrà, passata la frustrazione, dire parole chiare ed inequivocabili circa il mantenimento dell’investimento dei 700 milioni di euro previsti dal piano, se si può chiamare piano un tentativo di strangolamento.
La Fiom si è dichiarata disponibile alla ripresa della trattativa e lo stesso governo, per bocca di Sacconi, definisce una “vittoria” l’esito del referendum e afferma che "bisogna attuare accordi e verificare anche con coloro che non hanno firmato l'adesione a quel modello e io sono sicuro che nessuna organizzazione voglia sabotare il modulo di lavoro che l'unico può attrarre gli investimenti sulla Panda".
Ma al Lingotto sembra invece prevalere la delusione per il risultato della consultazione. In un comunicato diffuso poche ore dopo il voto, sembra che l’azienda di Torino voglia continuare la guerra con la Fiom: "La Fiat ha preso atto dell’impossibilità di trovare condivisione da parte di chi sta ostacolando, con argomentazioni dal nostro punto di vista pretestuose, il piano per il rilancio di Pomigliano".
Vuol forse dire il Lingotto che passerà direttamente al licenziamento o alla cassa integrazione degli iscritti alla Fiom? Sarebbe un modo per riprendere il cammino tracciato da Valletta; niente di nuovo, in fondo. La Fiat ha inaugurato i licenziamenti politici mirati quando Marchionne era ancora sui banchi dell’università.
Allo stesso tempo, le politiche aggressive della Fiat hanno sempre prodotto un conflitto di classe tra i più alti d’Europa. Lo stabilimento di Pomigliano è intitolato a Giovan Battista Vico, lo storico napoletano dei “corsi e ricorsi”. Sarà un segno del destino?
La favola fiscale
di Massimo Giannini - La Repubblica - 23 Giugno 2010
Nel 2001 fu il leggendario "meno tasse per tutti". In questo 2010 siamo passati al celebre "non metteremo le mani nelle tasche degli italiani". La favola fiscale di Silvio Berlusconi vive di slogan di sicuro effetto mediatico, ma di oscuro impatto politico.
Fu così nella seconda legislatura: a dispetto degli annunci, le tasse non calarono affatto. Rischia di essere così anche in questa terza legislatura: non solo aumenta la pressione fiscale, ma presto i comuni potranno reintrodurre anche l'Ici sulla casa.
Al di là delle precisazioni e delle smentite di rito, l'annuncio del ministro dell'Economia non si presta ad equivoci. Giulio Tremonti dichiara che nella bozza del decreto base sul federalismo sarà previsto "il ritorno ai Comuni del potere fiscale, nel loro comparto naturale di competenza: immobiliare e territoriale". La formula sembra un po' criptica, ma non lo è affatto. Dietro alla cortina fumogena delle parole, il ministro sta lanciando due messaggi precisi.
Il primo è un messaggio esplicito agli amministratori locali, soprattutto quelli della Lega, che protestano contro la stangata prevista dalla manovra. Tremonti dà ai sindaci mano libera per coprire i buchi di bilancio causati dal taglio dei trasferimenti con la solita "toppa" delle imposte. Detto altrimenti: quello che il governo centrale vi toglie con una mano, voi ve lo potete riprendere con l'altra.
Il secondo è un messaggio implicito agli italiani, già provati da una crisi recessiva durissima. Tremonti spiega ai contribuenti che, dopo il varo del decreto attuativo del federalismo, i comuni potranno reintrodurre l'imposta comunale sugli immobili.
Non la chiameranno più Ici. Inventeranno l'acronimo più originale. Ma la sostanza per i cittadini non cambia: le tasse che non vi saranno prelevate dalla mano del governo centrale ve le sfileranno dal portafoglio le mani dei comuni.
Così, oltre al danno, siamo alla solita beffa. Nel 2006 Prodi eliminò l'Ici sulla prima casa per i redditi più bassi, fino a 50 mila euro. Nel 2008 Berlusconi vinse le elezioni promettendo la completa eliminazione dell'Ici anche per i redditi più alti, superiori ai 50 mila euro. Ora, per rispettare la falsa promessa di "non mettere le mani nelle tasche degli italiani", il governo ci ripensa.
Ma, come sempre, lascia che a fare il "lavoro sporco" siano i sindaci, con la scusa dell'attuazione del federalismo (di cui si occuperà l'apposito Brancher). Del resto: perché assumersi una responsabilità, quando si può più utilmente assumere un ministro?
Aldo Brancher, il primo ministro reo confesso di aver pagato mazzette a un altro ministro
di Davide Milosa - www.ilfattoquotidiano.it - 21 Giugno 2010
Il neoministro del Pdl nel 1993, da dirigente Fininvest, confessa ai pm di aver pagato 300 milioni all'allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo
Aldo Brancher è il primo ministro della storia repubblicana ad aver ammesso di aver pagato mazzette a un altro ministro. Ecco chi è il nuovo titolare del dicastero per l’Attuazione del Federalismo, nominato da Silvio Berlusconi il 18 giugno. Il dato emerge da alcuni verbali che ilfattoquotidiano.it pubblica in esclusiva.
Ex prete di Trichiana (Belluno), venditore di spazi pubblicitari per Famiglia cristiana, negli anni Ottanta, svestita la tonaca, Brancher passa alla corte del Cavaliere. L’amicizia con Marcello Dell’Utri e la collaborazione con Fedele Confalonieri gli apre le porte di una folgorante carriera politica.
Eppure i due interrogatori dell’estate 1993 tratteggiano una storia che ancora nessuno ha raccontato. Non i giornali, né tantomeno i tg che nel giorno della nomina si sono limitati solamente ad accennare a un suo generico “coinvolgimento” in Tangentopoli.
Nella primavera del 1993, invece, Brancher si ritrova a San Vittore, rinchiuso in cella assieme ad alcuni rapinatori. Finisce in carcere per aver pagato 300 milioni di lire all’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo. Una delle tante mazzette intascate dal notabile del Partito liberale, coinvolto in nove processi di corruzione e condannato a 7 anni e 6 mesi per le tangenti alla sanità napoletana.
Brancher, detto lo spretato, viene condannato a 2 anni e 8 mesi per finanziamento illecito ai partiti e falso in bilancio. In Cassazione, però, il primo reato cade in prescrizione, mentre il secondo viene depenalizzato dal secondo governo Berlusconi. Brancher, dunque, non è stato affatto assolto, come ha dichiarato.
Un fatto che diventa politicamente rilevante se si rileggono le dichiarazioni di Berlusconi del 17 febbraio scorso: “Non credo ci siano dubbi sul fatto che chi sbaglia e commette dei reati non possa pretendere di restare in nessun movimento politico”.
E’ il periodo in cui, tra Roma e Milano, deflagrano nuovi casi di corruzione: dalla “cricca” di Angelo Balducci alla tangente intascata per strada da Milko Pennisi, consigliere Pdl e presidente della commissione urbanistica del comune di Milano. “Noi – prosegue il premioer – abbiamo deciso che le persone che sono sottoposte a indagini o processi in via di principio non debbano venire ricomprese nelle liste elettorali”.
Giusto. Peccato che Aldo Brancher, oltre a confessare di aver pagato mazzette a un ministro, è attualmente imputato per ricettazione in uno stralcio del processo sulle scalate bancarie.
Andiamo allora a quel 3 giugno 1993. Davanti al gip di Milano Italo Ghitti, l’attuale ministro Brancher dichiara di voler rispondere alle domande. “Effettivamente – dice – ho versato la somma di 300 milioni di lire in due rate da 150 nelle mani di Giovanni Marone. La somma era destinata a De Lorenzo”. Giovanni Marone, ex segretario personale di De Lorenzo, è la gola profonda che dà fuoco alle polveri dello scandalo.
Si tratta dell’ennesimo troncone di Tangentopoli. L’indagine ruota attorno agli spot anti-Aids diventati famosi per lo slogan “Se lo conosci lo eviti”. Il governo finanzia una campagna triennale, dal 1990 e al 1993, con un budget annuo di 40 miliardi di lire. Un tesoretto che fa gola alle tv del futuro premier.
Racconta Marone: “La Fininvest mi fece pervenire per De Lorenzo la somma complessiva di 300 milioni che Brancher mi consegnò nei miei uffici romani di piazza Barberini”. Il segretario di De Lorenzo prosegue confermando “i rapporti di buona conoscenza tra i vertici Fininvest e il ministro De Lorenzo”.
Dopodiché precisa: “Aldo Brancher e Valeria Licastro (allora segretaria romana di Fedele Confalonieri e oggi moglie dell’ex deputato di Forza Italia Antonio Martusciello, ndr), entrambi funzionari Fininvest, nell’approssimarsi delle decisioni relative alla ripartizione degli spot mi ricordavano di tenere presente la Fininvest”.
Una raccomandazione per usare un occhio di riguardo per le tv di Berlusconi che “consistevano nel riservare” alla Fininvest “un maggiore effetto di pubblicità rispetto a quello che avrebbe avuto senza dette sollecitazioni”. Per Marone, poi, non ci sono dubbi sul fatto che quei 300 milioni rappresentassero “un tangibile riconoscimento a De Lorenzo per l’attenzione dimostrata”.
Come risponde alle accuse l’attuale ministro? Nega, ma solo in parte. Brancher, uno dei primi uomini del gruppo Berlusconi messi sotto inchiesta dal pool di Mani Pulite, ammette il pagamento delle mazzette, ben attento però a non coinvolgere i vertici dell’azienda, che in effetti non verranno indagati.
Eccolo di nuovo davanti al gip: “Ho effettuato i due versamenti non come segno di riconoscimento per l’assegnazione alla Fininvest della quota di fondi stanziati per la campagna anti-Aids, ma perché ero in contatto con il ministro De Lorenzo per la realizzazione di due progetti denominati Il male del secolo”. Progetto legato alla Promogolden, società di cui Brancher deteneva l’85% delle quote.
Brancher sostiene insomma di aver agito in proprio, ma conferma di aver versato tangenti. Posizione che mantiene a oltranza anche quando, durante il secondo interrogatorio, davanti al pm Gherardo Colombo, confessa di non ricordare esattamente come aveva accumulato la provvista.
In nero ovviamente. “I 300 milioni – dice – sono una somma che ho preso in contanti”. Tutto denaro che “tenevo a disposizione per eventuali occorrenze”. E ancora: “Percepivo denaro contante per le mia attività di mediazione nel campo immobiliare. Tutta questa attività è stata fatta in nero e in questo momento non mi ricordo chi mi ha retribuito in nero”.
Dopo i mesi di carcere, Brancher viene chiamato il Greganti di Forza Italia. Come il compagno G. (con il quale condivide un’indagine, poi archiviata, per un giro di bustarelle legato alla costruzione dell’ipermercato Le Gru di Grugliasco, Torino) si immolerà per salvare il partito comunista, così Brancher ammette le sue responsabilità, ma salva la Fininvest. Aiutato in questo da Berlusconi e Confalonieri.
Sarà proprio il Cavaliere, infatti, a raccontare: “Quando il nostro collaboratore Brancher era a San Vittore, io e Confalonieri giravamo intorno al carcere. Volevamo metterci in comunicazione con lui”. Forse per invitarlo, telepaticamente, a resistere. E lui resistere.
A parlare, però, è anche l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo. Da lui la controprova della mazzetta: “Visto che era in corso la campagna elettorale – racconta l’ex dirigente del Pli – Brancher si disse disponibile ad anticipare somme di denaro che mi potevano servire. Ribadisco che ho utilizzato la somma di 300 milioni per la campagna elettorale”.
Dunque non tutto si cancella. Anche se la recente promozione al dicastero del Federalismo ha il sapore della nomina ad personam per poter utilizzare il legittimo impedimento previsto dal nuovo Lodo Alfano allargato all’intero Consiglio dei ministri. Dopo Tangentopoli, infatti, Brancher inciampa in uno stralcio dell’inchiesta sulle scalate bancarie orchestrate dai “furbetti del quartierino”.
Qui è imputato per ricettazione. Gianpiero Fiorani ha raccontato di avergli versato denaro in contanti per molte centinaia di migliaia di euro: “Quando ci fu la discussione sul disegno di legge sul risparmio, Brancher fu una delle persone che contattai per primo e si dimostrò disponibile a sostenere il ‘partito di Fazio’. Brancher controllava una serie di parlamentari sia di Forza Italia, sia della Lega. In cambio del sostegno che prometteva di offrire, concordammo la cifra di 300 mila euro che consegnai in tre tranche”. L’ex funzionario Fininvest non ha mai denunciato Fiorani per calunnia. Oggi è ministro.
Come volevasi dimostrare
di Marco Bracconi - http://bracconi.blogautore.repubblica.it - 24 Giugno 2010
Un uomo politico vicino al capo del governo è imputato in un delicato processo. In Italia c’è una legge che consente ai ministri di rinviare le udienze. Pochi giorni prima che l’uomo politico compaia davanti ai giudici il capo del governo inventa un ministero inutile e lo nomina a capo di quel dicastero. L’uomo politico, nemmeno una settimana dopo, utilizza quella legge.
Nel caso Brancher tutto è avvenuto alla luce del giorno. Chiaro, lampante, cristallino. Perfino trasparente. Con esattezza evidente e matematica.
La stessa esattezza matematica prevederebbe che il partito del capo del governo e dell’uomo politico perda per una cosa così alcuni milioni di voti.
Ma in Italia non succede e probabilmente non succederà.
Perché?
Giovanardi: numeri drogati?
di Rosa Ana De Stantis - Altrenotizie - 23 Giugno 2010
La relazione annuale presentata dal Sottosegretario Giovanardi a Palazzo Chigi, in conferenza stampa, parla chiaro. Dal 2008 al 2009, il numero dei consumatori di droghe è sceso drasticamente, del 25,7%.
Da 4 milioni del 2008 ai 2.924.500 del 2009. Una matematica che renderebbe gli onori al Dipartimento Antidroga e al neuroscenziato che lo guida, Giovanni Serpelloni, e che soprattutto giustificherebbe sempre meglio la poltrona del riciclatissimo Giovanardi.
Le cause di questo calo, il cui calcolo matematico sembra quanto meno azzardato, starebbero nella politica di prevenzione, nella diffusione dei drugtest ai lavoratori (non ai parlamentari per carità), e nella crisi economica generale. Ma è proprio questo picco verso il basso che non sembra corrispondere ai dati reali, all’esperienza e alle testimonianze delle comunità e dei Sert.
Non a caso si è levata da più parti la richiesta di conoscere il metodo d’indagine e di rilevamento statistico con i quali il rapporto è stato confezionato. Anche perché, una percentuale così significativa, o sfida le leggi elementari della statistica oppure ci dice che un’intera popolazione era tossicodipendente. Vengono in mente i sondaggi di Pilo sugli esordi del premier. Ma come fanno i calcoli nelle stanze del Sottosegretario?
Eroina, cannabis e cocaina si dividono il podio delle droghe e il governo sembra aver fatto, per l’ennesima volta, una scelta di mera propaganda, con un plus di cinismo per l’occasione. Intanto la crisi economica non ha eliminato le droghe, ma ha semplicemente spostato i consumatori abituali verso il più economico alcool.
Una peste che colpisce sempre di più i giovanissimi e le ragazze adolescenti in numero crescente. Quasi sempre ragazze con disturbi alimentari che utilizzano l’after hour per sballare senza cibo e a pochi euro.
Una cosa che sembra non occupare troppo i pensieri di Giovanardi che, da sempre, segue ossessivamente chimica e effetti neuronali degli spinelli. E’ noto. Bisognerebbe, inoltre, rammentare al Sottosegretario che non è mai la ragione dei soldi a spegnere una dipendenza.
L’esperienza del tabacco e delle sigarette e dei ripetuti aumenti di Stato lo dimostra da tempo. Potremmo pensare a qualche buono psicologo da inserire nello staff del Dipartimento.
Come non parlare poi delle comunità che, dopo i tagli del governo, sono in pratica sul lastrico. Deve essere lo stesso metodo che porta il governo a sbandierare la sicurezza mentre toglie i finanziamenti ai poliziotti. Un vizio riconoscibile e mirabilmente mistificato.
A dire la verità, un risultato concreto Giovanardi lo ha portato nel mondo della droga. Ha abbassato la dose personale, alterando il discrimine tra consumo personale e spaccio e ha reso punibile penalmente quel ragazzo che portasse in tasca 5 grammi di hashish al pari di uno spacciatore vero.
Inoltre, portando la soglia della cocaina a 1,6 grammi (una quantità ben più alta di quella che si spaccia abitualmente), una droga che a Giovanardi fa meno paura delle “canne”, finisce per trattare lo spacciatore che si mette in tasca pochi euro di spinelli con quello che guadagna 500/600 euro dalla coca. Un’equazione stupida, quanto pericolosa, che riempie le carceri di niente.
Forse perché nel mondo di Giovanardi il cocainomane, vestito da ricco, che fa affari dal lunedi al venerdi, che frequenta locali e circoli di lusso e che ipocritamente nasconde il vizietto, è socialmente più accettabile del ragazzo che frequenta i centri sociali e che non nasconde di farsi uno spinello ogni tanto.
E’ questo il messaggio che avrebbe dovuto dare in conferenza stampa. L’unico che arriva chiaro dalla comunicazione del sottosegretario.
Anche se i numeri fossero attendibili, la spiegazione della crisi economica basta da sola a suscitare ilarità e ad essere una confessione spassionata della propria nullità politica. L’opposizione e i radicali in testa chiedono chiarimenti sull’origine dei dati. Ministeri, Istat, Centri di Ricerca indipendenti è la risposta di Giovanardi.
A noi basterebbe il mondo delle comunità di recupero e la voce delle persone che lavorano seriamente con il disagio giovanile a rendere ridicolo l’incubo ricorrente di Giovanardi sullo spinello e ad offrirci un quadro ben più serio sui nuovi riti dello sballo e sulle età sempre più basse di iniziazione.
Strano il mondo del sottosegretario Giovanardi. Dove un tossicodipendente diventa, di fatto, un detenuto; dove Morgan ha il potere si scatenare campagne politiche ma dove un ragazzo sorpreso con uno spinello di troppo rischia il carcere. Un mondo, per chi non lo ricordasse, dove Giovanardi potè affermare che Stefano Cucchi è morto per anoressia e per droga. Non di botte e di abbandono terapeutico.
Compagno a chi? I nativi democratici rinnegano la sinistra
di Luca Telese - www.ilfattoquotidiano.it - 21 Giugno 2010
Uno dei ribelli, Matteo Cimalli, la spiega così: “Quella parola non rappresenta la nostra identità. Anzi, ci umilia”. Ci voleva un saggio del ben noto talento autolesionista del Partito democratico per riuscire nell’impresa: simbolicamente, nello stesso giorno in cui si celebra l’assalto referendario all’ultimo fortino operaio di Pomigliano d’Arco, nel partito di Pier Luigi Bersani si raccolgono firme per dire che “Compagni” è un appellativo abusivo. E si trasforma un attore compassato come Fabrizio Gifuni – che ha voluto salutare la platea proprio con la “parola proibita” – in una sorta di eroe bolscevico.
È inutile provare a spiegare che la parola “compagno”, come ha recentemente ripetuto Pietro Ingrao, “Indica la comunanza di chi divide con il suo prossimo ogni cosa, compreso il pane”. Cum panis, Com-pagni. Una simbologia onomastica più vicina all’iconografia cristologica dell’Ultima cena che al Manifesto di Marx.
Inutile, perché cinque giovani virgulti del Pd, come ha raccontato ieri su La Stampa Iacopo Iacoboni, hanno preso carta e penna per indirizzare una lettera aperta al loro segretario: “Ti scriviamo perché vorremmo renderti cosciente del nostro disagio di fronte a parole e comportamenti che guardano in maniera ingiustificatamente romantica al passato.
Le parole compagni o compagne, la festa dell’Unità – scrivono – le rispettiamo per la tradizione che hanno avuto ma non rientrano nel nostro pensare politico e quindi facciamo fatica ad accettarle”. In calce i nomi dei giovanissimi sottoscrittori: Luca Candiano, Veronica Chirra, Sante Calefati e Mariano Ceci e lo stesso Cinalli.
Certo, basta sentire quattro persone a caso nel Pd e ti spiegano che il teatro su cui si è proiettato questo messaggio è l’eterno scenario delle contese interne. Ti raccontano che un ex democristianone come Beppe Fioroni ha visto di buon occhio – se non incoraggiato – l’iniziativa.
Che questo discutere di nomi, feste, simboli, serve anche a tener vivo l’orgoglio identitario di chi (l’ex Margherita) vorrebbe ottenere da Bersani risarcimenti e garanzie. Eppure nemmeno il microscopio elettronico delle ragioni correntizie basta a spiegare il terremoto simbolico che i cinque ragazzi hanno innescato.
Nemmeno nelle sinistre più moderate del mondo il termine “compagni” è mai stato messo in discussione. “Compagni” sono stati i riformisti blairiani del labour inglese, i militanti del Pt di Lula, i socialdemocratici olandesi che hanno gridato in tutte le piazze “Yes we Camp” per sostenere il loro candidato.
In Italia si può dire che l’appellativo fosse una delle poche cose che ha unito tutte le sinistre: da quella repubblicana in cui un fiero utilizzatore del termine “compagni” era Libero Gualtieri, a quella socialista in cui persino un leader iconoclasta come Bettino Craxi mai avrebbe rinunciato a quel vocabolo, ai comunisti ovviamente (che combinavano solennemente la parola con il cognome, “Il Compagno Longo ci ha detto…”), e anche ai radicali, che in questo stesso modo vengono evocati, ogni domenica nell’immarcescibile filo diretto di Marco Pannella. Per non parlare del cislino Pier Carniti, cattolicissimo. Persino nel pop irruppe la parola con il capolavoro dei Cccp che informavano solennemente sulle Affinità e divergenze fra il compagno Togliatti e noi.
Se non si intitolasse Il compagno non avrebbe avuto lo stesso successo uno dei primi romanzi di Cesare Pavese. E vollero chiamarsi compagni anche tutti coloro che venivano espulsi dal partito ortodosso: “I magnacucchi” e anche tutti gli eretici trotszkisti.
Eppure Matteo Cinalli, 22 anni, pescarese, uno dei promotori dell’iniziativa, non demorde: “Vengo dalla tradizione cattolica, ho rinunciato a molto per fare il Pd. Il termine compagni è il simbolo dell’egemonia di una parte sull’altra. L’intervento di Gifuni è solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. E racconta: “Sapevamo che la provocazione avrebbe suscitato dibattito. Ma non ci aspettavamo il diluvio di reazioni che sta arrivando”.
In ogni caso, “i nativi democratici” (Bersani ha definito così i giovani che non vengono da altre storie politiche) non mollano: “Se dovessi intervenire domani non avrei dubbi: direi Cari democratici e care democratiche. Solo così eviteremmo di schiacciare delle identità e uccidere la novità del Pd”.
Sconfortato un altro giovane emergente, Pippo Civati: “Posso dirlo in modo brusco? È una questione senza senso! Si chiamino come preferiscono. Per me compagni è una parola bella, che non può offendere nessuno.
Giulietto Chiesa: io, Di Pietro e quei soldi
di Alessandro Giglioli - http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it - 22 Giugno 2010
Giulietto Chiesa, 70 anni a settembre, è stato eletto all’Europarlamento nel 2004 proprio nella lista capeggiata da Di Pietro, in un’alleanza di breve durata tra l’ex pm e Achille Occhetto. Chiesa, appunto, era candidato “in quota” a Occhetto e fu eletto a Strasburgo dopo la rinuncia dell’ex segretario del Pds.
Il divorzio politico, poi, divenne una sanguinosa questione di soldi e di finanziamento pubblico che Di Pietro «si prese per intero», lasciando a secco l’altra componente, che lo portò in tribunale.
Ora che Di Pietro è indagato proprio per una presunta appropriazione non lecita di rimborsi elettorali, Piovonorane ha chiesto a Chiesa di raccontare la sua versione e i suoi ricordi di quel 2004.
Iniziamo da quando lei divenne europarlamentare con l’Italia dei Valori.
«Per la precisione, era una lista di coalizione tra Antonio Di Pietro e Achille Occhetto. Io fui chiamato appunto da Occhetto, che mi propose di candidarmi. Poi ebbi un colloquio con Di Pietrò e tutto sembrò andare bene».
In che senso?
«Io posi una questione per me dirimente, quella del pacifismo e dell’opposizione alla guerra in Iraq. Spiegai a Di Pietro le mie posizioni in merito, e lui mi rispose che non era ferratissimo sul tema ma si fidava di me, insomma non c’erano problemi. Così accettai la candidatura».
E poi?
«La lista andò male, meno del due per cento. Con due eletti, ovviamente Di Pietro e Occhetto. L’ex segretario del Pds però scelse di restare senatore e si dimise. Quindi gli subentrai io, primo dei non eletti».
E con Di Pietro?
«All’inizio ci fu una separazione consensuale, morbida. Insomma, avevamo capito subito che l’alleanza tra lui e Occhetto non aveva funzionato in termini di voti e quindi conveniva a tutti andare per la propria strada. Da una parte lui, con l’Italia dei Valori, dall’altra parte noi – diciamo – “occhettiani”, che ci chiamavamo Il Cantiere. Ma, ripeto, all’inizio non litigammo. Anzi, Di Pietro mi chiese di iscrivermi al gruppo liberal-democratico, per fargli avere più peso, e io accettai, anche se ero un po’ perplesso».
E poi?
«Poi passò l’estate e in autunno il gruppo del Cantiere – Occhetto, Novelli, Veltri, Falomi e altri – mi chiese di andare da Di Pietro per domandargli una parte del “rimborso elettorale” che lo Stato aveva dato alla nostra lista comune, cioè due milioni e mezzo di euro. Avevamo anche noi l’affitto della sede da pagare, i manifesti da stampare, insomma le solite cose».
Quanto volevate?
«Guardi, eravamo ben consci che Di Pietro era l’asse portante di quella lista, però anche noi avevamo portato i nostri voti ed eletto un eurodeputato. Insomma, non ci sognavamo nemmeno di chiedergli la metà e quindi lasciammo decidere a lui».
In che senso?
«Io andai a trovare Di Pietro nel suo ufficio di Strasburgo e gli chiesi, cortesemente: “Secondo te, quanto ci spetta?”».
E lui?
«Apriti cielo. Perse quasi subito la calma, s’inalberò furibondo e iniziò a urlare che non ci spettava neanche una lira. Gridava: “Io non vi devo niente, sei tu che devi tutto a me, se sei qui è tutto merito mio” e così via. Non l’avevo mai visto alterarsi così e non mi aspettavo che alzasse la voce in quel modo. Fu di una volgarità offensiva».
E lei?
«Io gli feci presente che c’era una questione di lealtà e di correttezza politica, ma anche giuridica, perché non poteva tenersi tutto visto che il gruppo parlamentare eravamo noi due e ci si era appena divisi. Lui si mise a ridere e mi disse: “Sì sì, provateci pure a portarmi in tribunale, tanto avete firmato una delega secondo la quale il finanziamento pubblico spetta tutto a me”».
Che cosa avevate firmato?
«Ecco, io al momento nemmeno capii. E rimasi zitto. Ma tornato a Roma lo chiesi a miei compagni del Cantiere: scusate, che cosa abbiamo firmato?».
E alla fine lo avete capito?
«Sì: con molta amarezza scoprimmo che nel giorno dell’accettazione delle candidature, nell’ufficio del notaio di Di Pietro in piazza del Tritone, quello ci aveva messo in mano un bel po’ di carte da firmare e tra queste c’era anche l’accettazione che i rimborsi elettorali andassero tutti a Di Pietro. Ovviamente nessuno di noi quella carta l’aveva letta, se non altro per educazione: vai dal notaio che ti fa firmare la candidatura e mica pensi che ci sia sotto la fregatura. Invece era proprio così: come le assicurazioni che ti rifilano le clausole vessatorie in fondo al contratto».
Quindi?
«Abbiamo intentato lo stesso la causa civile, ritenendo che il modo in cui ci era stata estorta quella firma la invalidasse. E abbiamo anche cercato di trovare una mediazione con Di Pietro. Ma lui niente, non ha voluto sganciare un euro. Comunque il procedimento giudiziario è ancora in corso».
Allora secondo lei ha ragione Veltri, quando accusa Di Pietro di essersi intascato i rimborsi con false autocertificazioni?
«Guardi, io sull’indagine penale non voglio entrare, anche perché si riferisce a un’altra questione. E non penso che Di Pietro usi il denaro del finanziamento pubblico per arricchimento privato. Ma sicuramente, avendo una gestione molto personalistica del partito, sa che il controllo dei finanziamenti è fondamentale per continuare a garantirsi questo suo ruolo di padrone. E quindi perpetuare e allargare il suo peso nella politica italiana. E lo fa senza badare né alla correttezza, né alla lealtà. Di Pietro è semplicemente un pezzo della Casta».
I senza vergogna
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 22 Giugno 2010
Ieri ho conosciuto Fabri Fibra, il rapper. Abbiamo chiacchierato a lungo. A un certo punto si è parlato della vergogna. Chi si vergogna più di qualcosa? Meglio: che deve fare uno, nell’Italia di oggi, per vergognarsi?
Se ne occupa anche lo scrittore Marco Belpoliti nel suo ultimo libro “Senza vergogna” (ed. Guanda). La risposta è che la soglia del vergognoso s’è talmente abbassata sotto il livello del mare che abbiamo dovuto attendere Claudio Scajola col suo “se scopro chi mi ha pagato la casa…” per intravedere un barlume di rossore sulle sue gote.
Ma è durato l’espace d’un matin. Poi si è tornati ai senzavergogna di sempre. Bertolaso dice che l’affitto del suo pied à terre in via Giulia, siccome non lui lo pagava ma nega pure che lo pagasse Anemone tramite Zampolini, “non lo pagava nessuno”. Forse interveniva direttamente lo Spirito Santo, tramite l’apposito cardinal Sepe.
Poi c’è Brancher, primo caso di ministro trovatello, figlio di N.N.: si pensava l’avesse imposto Bossi con gran scorno dei finiani e dei forzisti, ma Bossi dice che non ne sapeva nulla e che l’unico ministro del federalismo è lui; e allora forse s’è imposto da solo per strappare un legittimo impedimento e sfuggire al processo per i soldi di Fiorani (finora gli era negato, era solo sottosegretario); oppure l’ha imposto lo Spirito Santo.
Poi c’è il cardinal Sepe, che con quella faccia tira in ballo Gesù sul Calvario a proposito delle sue faccende di casette & mazzette: un cardinale che bestemmia in chiesa. Poi c’è Vittorio Feltri, che sul Giornale titola a tutta prima pagina: “La Chiesa sotto attacco”.
Forse ce l’ha col Giornale di Vittorio Feltri, che un anno fa mise in prima pagina il direttore di Avvenire, Dino Boffo, spacciando per informativa di polizia una lettera anonima sulla sua presunta omosessualità.
“Finire sui giornali – scrive infatti Feltri – quale protagonista di torbide vicende credo sia una sofferenza atroce per tutti”. Ma sì, deve avercela proprio con se stesso, meglio tardi che mai. Ah no, scusate, non avevo letto le righe seguenti: ce l’ha coi giudici che hanno rinviato a giudizio don Gelmini per molestie sessuali su una decina di ragazzi della comunità Incontro.
Poi c’è Marcello Lippi, che dà dei “banditi” ai giornalisti che osano fargli domande come un Berlusconi qualunque, solo che almeno Berlusconi vince, mentre lui pareggia con le pippe del Paraguay e della Nuova Zelanda.
E poi c’è il Pd, che come sempre sta al passo coi tempi: animata discussione sull’opportunità di farsi chiamare compagni dall’attore Gifuni, dibattito che promette di durare l’intera estate e una parte d’autunno. Intanto il Tg1 dedica un servizio al tema: “Non ci sono più le mezze stagioni”. Testuale.
Per chi vuol fare il giornalista non s’è mai visto un periodo migliore, infatti arrivano in Italia colleghi da tutto il mondo. E’ come allo zoo, anzi al circo: più gente entra più bestie si vedono. Un giornale per raccontare tutto non basta, ci vuole come minimo anche un sito.