venerdì 18 giugno 2010

Haiti: il colpo di grazia del post-terremoto

A cinque mesi dal devastante terremoto, Haiti conferma il vecchio adagio che al peggio non c'è mai limite.

Centinaia di migliaia di persone vivono ancora in condizioni disumane senza alcuna assitenza in tende di fortuna molto spesso acquistate al mercato nero, tra fogne a cielo aperto, promiscuità insostenibile, criminalità, traffico di bambini con la scusa delle adozioni internazionali e prostituzione minorile dilagante per via soprattutto dell'arrivo in massa dei cosiddetti operatori umanitari di agenzie Onu e Ong.

Miliardi di dollari sono stati stanziati per la ricostruzione ma finora solo una piccola percentuale è stata spesa e di ricostruzioni neanche l'ombra.

E sta anche per iniziare la stagione delle piogge torrenziali, spesso accompagnate da tempeste tropicali e uragani, che non farà che peggiorare ulteriormente le già terribili condizioni di vita degli haitiani.

Proprio ieri è andato in onda su RaiTre un eloquente reportage dell'ottimo Silvestro Montanaro sul post-terremoto che sta dando il colpo di grazia definitivo al Paese.


Cinque mesi dopo la tragedia dove sono finiti i soldi per ricostruire Haiti?
di Fausto Biloslavo - www.ilgiornale.it - 7 Giugno 2010

La macchina della solidarietà ha racimolato 15 miliardi di dollari per l'isola distrutta dal terremoto. Ma i lavori non partono, le organizzazioni umanitarie non investono i fondi, pesa la ricostruzione locale

Grandi organizzazioni umanitarie che non utilizzano i fondi raccolti per le vittime del terremoto di Haiti, la gente terrorizzata di tornare a vivere fra quattro mura, che vuole abitazioni in legno e scuole sotto le tende per i propri figli.

Un piano per la ricostruzione ancora in alto mare, nonostante sulla carta siano disponibili 15 miliardi di dollari. Non solo: Le scosse hanno fatto saltare anche le elezioni e il presidente, René Perval, viene additato come un «dittatore» per aver esteso il suo mandato fino al prossimo anno.

Cinque mesi dopo il terribile terremoto che il 12 gennaio ha falciato 220mila persone (secondo i dati forniti dal governo), l'isola caraibica sta ancora cercando la strada giusta per il futuro.

Un'inchiesta della tv americana Cbs ha dimostrato che le grandi organizzazioni umanitarie, legate soprattutto alle donazioni negli Stati Uniti, stanno spendendo con il contagocce i fondi raccolti per l'emergenza Haiti.

Proprio negli Usa si era mobilitata, come in nessun’altra parte al mondo, la macchina della solidarietà. La fondazione Clinton-Bush, messa in piedi con grande pubblicità dai due ex presidenti Usa, non ha voluto neppure fornire i dati ai giornalisti. Dal suo sito si scopre, però, che su 52 milioni di dollari raccolti in beneficenza ne ha spesi appena 7.

Un altro colosso del bene, l'ong Care, ha messo a disposizione 34,4 milioni di dollari, grazie a donazione e altro, utilizzando ad Haiti solo il 16%. In pratica 5,75 milioni di dollari, 2,5 dei quali in prefabbricati per la prima emergenza.

Ancora peggio la Catholic relief services (Crs) che dei 165 milioni di dollari raccolti, sotto forme diverse, ne ha spesi solo l'8% (12,2 milioni). Va un po' meglio la Croce rossa americana, che su 444 milioni a disposizione ne ha utilizzati 111, il 25 %. La metà in aiuti di emergenza, ma sei mesi dopo il terremoto Haiti deve guardare avanti.

Forse aveva ragione Guido Bertolaso, che dopo essere sbarcato sull'isola per una breve missione aveva criticato soprattutto gli Stati Uniti per il mancato coordinamento negli aiuti.

Dall'Italia, la costola nazionale della Croce rossa, ha raccolto molto meno soldi di quella americana, ma in termini percentuali ne ha già utilizzati una bella fetta. Su 2 milioni e 253mila euro raccolti con le donazioni, un milione è servito per ridare una boccata d'ossigeno alla sanità di Haiti, 350mila euro per attività sul campo e 100mila per famiglie haitiane curate in Italia.

Una fonte della Croce rossa spiega: «La nostra linea è investire bene e presto i soldi della beneficenza. Talvolta ci troviamo di fronte a ong, come il network italiano Agire, che raccoglie fondi, anche attraverso convenzioni con la Rai e poi non li spende tutti, come è capitato per lo tsunami. E staremo a vedere cosa succederà per Haiti».

Il vero nodo è la ricostruzione. I 15 miliardi di dollari della comunità internazionale dovranno servire a rimettere in piedi Haiti nei prossimi 10 anni. L'obiettivo è non solo ricostruire le città distrutte, ma fare uscire il paese dalla crisi e dalla povertà endemica che lo attanaglia da sempre.

Molti ministeri, distrutti dal terremoto, continuano a funzionare a singhiozzo e il governo non ha le idee chiare sul piano di ricostruzione. Le grandi organizzazioni umanitarie temono di compiere passi sbagliati o affrettati, come capitò dopo l'emergenza tsunami.

Per questo hanno il braccino corto. L'impasse politica e l'ombra della corruzione fanno il resto. I soldi raccolti in beneficenza restano in cassa per i progetti a lungo termine. E nel frattempo fruttano non poco, grazie agli interessi.

Le scosse hanno cancellato pure le elezioni e la decisione del presidente Perval, ratificata dal parlamento, di rinnovarsi il mandato fino al 14 maggio 2011 ha scatenato proteste di piazza. Gli oppositori parlano di «nuova dittatura», in un paese abituato a golpe e tiranni.

Poi c'è il problema dei senzatetto, che non vogliono, per ora, tornare nella case in muratura. Un milione e mezzo di persone è stato colpito dal terremoto. Quattro mesi dopo fra 500mila e 700mila vivevano ancora in condizioni di emergenza.

La gente non vuole saperne di edifici in muratura. Preferisce case in legno e scuole sotto le tende per i propri figli. L'Avsi, una delle più importanti ong italiane presenti a Haiti manda a scuola circa 3.000 bambini organizzandoli in classi sotto le tende, dalla materna alla sesta elementare.

E sta costruendo strutture temporanee in legno dove verranno allestite 10 istituti scolastici, 7 ambulatori sanitari per una capacità di assistenza medica a10.000 bambini e 2.000 donne incinte e in fase di allattamento.

Con i primi di giugno si sono ritirati dall'isola i 22mila soldati americani, che l'avevano «invasa» per evitare che il paese sprofondasse nell'anarchia. Rimarranno solo 500 uomini della guardia nazionale e la portaerei Iwo Jima per l'assistenza medica specialistica a bordo.

Invece l'Onu ha rinforzato la missione dei caschi blu presenti ad Haiti dal 2004, per garantire una minimo di stabilizzazione e sicurezza. Fino a ottobre continueranno a venir dispiegati circa 10mila uomini, che proteggono pure le organizzazioni umanitarie e gli aiuti per la popolazione.


Haiti, non è cambiato niente
da www.ilpost.it - 30 Maggio 2010

Sono passati quasi cinque mesi dal terremoto, ma la gente continua a non avere una casa.
In tutta Port-au-Prince, scritte sui muri e proteste contro il presidente Préval

Oltre duecentomila vittime, circa centomila case crollate e altre duecentomila danneggiate. Sono passati quattro mesi e mezzo ma Haiti è ancora ferma al 12 gennaio scorso, quando un terremoto di magnitudo 7.0 ha distrutto buona parte della capitale, Port-au-Prince, e del paese intero. In molti speravano che il post-terremoto potesse portare nuova linfa vitale alla nazione, ricostruendola più forte, efficiente organizzata di prima.

Ma come racconta il New York Times tutto questo non sta accadendo, anzi: la maggior parte dei terremotati haitiani continua a vivere tra le macerie, e dal governo non arriva alcun segnale che lasci intravedere un futuro migliore.

Le scritte sulle macerie e le proteste quotidiane dei cittadini si riassumono nello slogan “Aba Préval”, “Abbasso Préval”, il presidente haitiano considerato il principale colpevole della situazione di stallo in cui si trova il paese.

Le macerie che riempiono le strade di Port-au-Prince non sono più solo quelle del terremoto: gli haitiani stanno ammassando i pezzi dei muri crollati nelle piazze e nelle vie, per rendere ancor più visibile la loro condizione e obbligare il governo a rimuoverli.

Subito dopo il terremoto erano state distribuite circa 564.000 tende di plastica, che hanno fornito un riparo d’emergenza a oltre un milione e mezzo di haitiani. Ma dopo quell’intervento, il governo — insieme alla commissione per la ricostruzione guidata dal primo ministro e Bill Clinton — non è più intervento a soccorso dei cittadini.

Michèle Pierre-Louis, fino all’anno scorso il primo ministro sotto Préval, ha detto che la banca centrale di Haiti avrebbe dovuto garantire dei prestiti e allentare le richieste di permessi per l’apertura di piccole attività commerciali, o annullare la legge che prevede che le aziende in multiproprietà siano al 51% haitiane per invogliare investitori esterni a partecipare alla ricostruzione ecomica della nazione. E anche le organizzazioni non governative trovano vita dura, per nulla agevolate dall’assenza di direttive e facilitazioni.

L’impressione è quindi che non ci sia alcun piano in atto da parte del presidente Réné Préval, che si limita a chiedere la pazienza dei suoi cittadini. Le autorità delle Nazioni Uniti sono quasi certe che si arriverà a nuove elezioni presidenziali entro fine anno, ma in questi mesi non sembra essere nata alcuna alternativa a Préval.


L'agonia di Haiti
di Barbara Schiavulli - L'espresso - 7 Maggio 2010

La solidarietà dopo il terremoto. I fondi stanziati. Ma quattro mesi dopo nulla è cambiato. Non esiste un programma di ricostruzione , nelle tendopoli dilaga il tifo. Ed è cominciata la stagione delle piogge.

Loukense non riesce neanche a dirlo. Parla solo della sua casa, di come è crollata come se fosse stata di carta, mentre lui era andato un momento al cancello. Ci mette un giorno e mezzo e una bottiglia di rum, a raccontare che il 12 gennaio scorso, quando il terremoto ha colpito Haiti, ha perso la sua bimba di tre anni.

Non gli è rimasta neanche una foto, del suo angelo, che aveva chiamato Pucca, come il cartone animato giapponese che le piaceva tanto. Loukense ci metterà un'altra ora a dire che è morta anche sua moglie. Quando l'ha vista per l'ultima volta teneva Pucca in braccio, sono morte insieme in cucina. "Ogni notte sogno la mia bimba che dice 'papà ti prego aiutami'. Cerco di non dormire per non vederla e mi chiedo perché Dio non ha fatto morire anche me".

Sono trascorsi quasi quattro mesi e Haiti è ancora sotto shock, piegata dal dolore dei sopravvissuti e dalle tonnellate di macerie che nessuno sembra riuscire a raccogliere anche se qua e là ci sono ruspe e tanti operai che si arrampicano sui resti dei palazzi e cercano ancora i corpi nei punti della città dove l'odore di morte impregna ogni cosa.

La prigione distrutta, gli schedari dati alle fiamme, e migliaia di detenuti in libertà. Il manicomio crollato ha scaricato migliaia di disabili per le strade, uno è riuscito a trovare la famiglia e l'ha sterminata.

Dieci giorni fa il primo temporale, la stagione delle piogge sta per esplodere e un milione e mezzo di sfollati deve trovare una sistemazione perché le tende non saranno in grado di contenere la forza delle alluvioni.

A 45 chilometri da Port au Prince, nel campo di Coraile Cesselesse, non sono state costruite neanche 400 case stabili, ma la gente viene costretta a rifugiarsi lontano dalla capitale trascinata a forza sui pullman.

Il governo ha deciso di evacuare i campi più insicuri, ma la gente non vuole andarsene. "Se ci allontaniamo come faremo a trovare lavoro, a tenere d'occhio le nostre case, che ne sarà di noi?", chiede Paul mentre ringrazia un amico che gli presta dei vestiti. Ha perso la moglie e i genitori, sta nel campo Obama, gestito dagli haitiani in condizioni miserabili. "Non c'è più cibo, il mio bambino che ha perso una gamba ha fame, tutti abbiamo fame".

Il 31 marzo scorso, le Nazioni Unite, la Banca mondiale e decine di paesi donatori hanno stanziato 5,3 miliardi di dollari per i prossimi due anni e altri 5 per i successivi otto: Haiti non è mai stata così ricca. E così disorganizzata. Nessuno si fida di mettere i soldi in mano al governo che è stato dimezzato dal sisma e resta comunque uno dei più corrotti al mondo. Il Parlamento si riunisce in tenda ai piedi del palazzo presidenziale distrutto.

Centinaia di organizzazioni umanitarie sgomitano per aiutare la gente, ma un vero piano di intervento non c'è. Forse perché le Nazioni Unite hanno perso 200 persone il giorno del terremoto, forse perché il Paese non sa da che parte cominciare. Non sa neanche dove creare i nuovi campi con le case prefabbricate.

Il Duch relief group, Cordaid (organizzazione olandese), sta per finire 150 abitazioni con le pareti di tela e gli infissi di legno, più di una tenda ma meno di una casa. "Sono troppo lenti, così ci vorranno dieci anni", si lamenta una signora che aspetta fiduciosa di trovare il proprio nome nella lista di coloro che accederanno al villaggio.

Ma il problema, oltre alla presenza di macerie che impediscono la ricostruzione e il risanamento delle case ancora in piedi, è la guerra per la terra. Molti haitiani vivevano in affitto e i padroni di case e terre non vogliono in alcun modo prestare i loro beni per paura che le costruzioni provvisorie diventino permanenti, non sarebbe la prima volta in un Paese quasi tutto abusivo.

I proprietari di case, scuole e terreni, dove sorgono le tendopoli, stanno sfrattando gli ospiti. E per questo nella capitale non sono state edificate più di una decina di case provvisorie. "Sono dispiaciuto che dopo settimane e settimane di sforzi, non abbiamo ancora un posto per costruire", spiega il portavoce della Croce Rossa, Alex Winter.

Gli ingegneri passano il loro tempo a cercare di identificare i luoghi dove innalzare le gru . "Se non fai le cose come si deve, si possono creare scontri", dice Alex Coissac, dell'Organizzazione internazionale per la Migrazione.

Tra gli haitiani la tensione sale di giorno in giorno. "Dopo il trauma iniziale, la seconda fase riguarda la rabbia", spiega uno psicologo. Qualche giorno fa la gente è scesa in piazza, ha messo a ferro e fuoco il mercato centrale.

Si contano a decine le manifestazioni spontanee contro il governo, le Nazioni Unite e l'America. Progressi non se ne vedono. Gli haitiani devono ancora attaccarsi alle tubature per rubare acqua spesso non potabile, devono vagare tra i mercati per raccogliere gli scarti, perché il costo del cibo è raddoppiato mentre la benzina che prima del terremoto costava 5 dollari al gallone (4 litri), ora ne costa dieci.

I bambini sguazzano nel fango, con le loro stampelle e gli arti fasciati, le donne lavano nei secchi di plastica alle porte delle bidonville, gli uomini ciondolano in attesa che qualcosa accada. Si urina per la strada lungo i muri, mentre aumentano gli stupri e i rapimenti degli stranieri. Sono almeno due gli operatori di Medici senza frontiere catturati e poi rilasciati. Spuntano anche compagnie di sicurezza straniere, perché la polizia non ha ordini, e i militari dell'Onu non hanno il mandato giusto.

Gli haitiani hanno paura, il presidente René Préval ha annunciato una scossa imminente anche più forte, nessuno vuole tornare nelle case che sono rimaste in piedi, anche se il governo cerca di cacciarli dalle tende. "Ci costringono a vivere come animali, il governo non ci aiuta nonostante i miliardi, solo quelli delle organizzazioni umanitarie ci portano vestiti e da mangiare", dice Aklush Louijeune, parlamentare dell'opposizione.

Le organizzazioni cristiane spopolano insieme a quelle non governative, tra le bidonville, nei quartieri si sentono i canti dei fedeli arrivati soprattutto dagli Stati Uniti. "Non resta che pregare", dice un reverendo che accompagna una ventina di anziani giunti a portare assistenza religiosa ad Haiti.

La Caritas ha già speso 14 milioni di euro e provveduto a sistemare 100 mila persone. Ma niente sembra bastare. Il tifo si sta diffondendo nel quartiere devastato di Cité Soleil, una volta regno dei trafficanti. "Il presidente ha già rimandato le elezioni parlamentari, ma quello che fa infuriare la gente è che sta cercando di estendere il suo mandato e nessuno lo vuole", afferma Louijeune.

La politica appassiona gli haitiani che ascoltano Radio Caribbean (trasmette da una tenda davanti al vecchio ufficio distrutto). "Rivogliamo il nostro esercito", urla Padovan Iknoll, ex sergente, congedato 16 anni fa quando il dittatore Aristide cancellò l'apparato militare per paura di un colpo di Stato.

Al loro posto ci sono 10 mila soldati dell'Onu, poco amati e molto armati, sui loro mezzi blindati con le mitragliatrici ben in vista, che nessuno sa cosa facciano oltre a sorvegliare le merci che arrivano e proteggere il presidente.

Qualcuno si riversa in spiaggia e guarda il mare. "Per noi è quella l'unica soluzione, andarcene, questa isola è maledetta", dicono in coro. Al largo spiccano due lussuose navi da crociera, Love Boat le chiamano gli haitiani, che ospitano gli operatori delle Nazioni Unite. La Ola Esmeralda (la cui proprietà viene ricondotta al presidente venezuelano Chávez) e la Sea Voyager costano all'Onu 112 mila dollari al giorno.

"Bisogna stare bene per poter aiutare gli altri", ha dichiarato Edmond Mulet, capo del contingente di peacekeeping (Minustah), "è come quando cadono le maschere di ossigeno in aereo, devi prima indossarla per poter dare poi una mano al tuo vicino".

"Oltre ai bisogni primari e alla corruzione, manca la programmazione", spiega Phil Hudson, direttore di Cure International: "Ci sono problemi strutturali che nessuno prende in considerazione. Per esempio, prima del terremoto l'assistenza sanitaria veniva pagata dagli haitiani e pochi infatti avevano accesso alle cure mediche (10 per cento). Ora è tutto gratis, i medici stranieri lavorano con i colleghi locali che però non hanno uno stipendio. Nessuno ha pensato a come pagare i dipendenti degli ospedali locali. Quando se ne andranno le ong che accadrà ad Haiti? Si può pensare di non curare più la gente o di pretendere soldi dai 300 mila feriti, la maggior parte donne e bambini con arti amputati?".

La verità per Hudson, è che 300 mila persone sono morte per il terremoto e molte altre moriranno per la povertà e la negligenza.

Intanto la vita si impone. I bambini nascono nelle tende e negli ospedali, i ragazzini tornano a scuola, anche solo perché sanno che avranno un pasto gratis. Bernadette e Louis invece si sposano, lei ha perso i genitori, lui i fratelli, ma hanno deciso di non aspettare. "La vita è così breve e se devo morire", dice Bernadette nel suo abito bianco, "voglio farlo come moglie di Louis, non mi resta altro che il nostro amore".