giovedì 10 giugno 2010

Update italiota

Un altro aggiornamento sul desolante panorama italiota di questi giorni, con una serie di articoli che rinvigoriscono il fegato...


Nucleare: ecco i franco-tedeschi
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 10 Giugno 2010

La tedesca E.On e la francese Gaz De France-Suez hanno siglato un protocollo d'intesa per lo sviluppo del nucleare in Italia; lo si apprende da una nota congiunta dei due colossi dell'energia.

In pratica, nasce una seconda cordata internazionale per la costruzione del sistema nucleare in Italia, dopo quella Enel-Edf. La nota congiunta è un "Memorandum of Understanding" (MoU) focalizzato sullo sviluppo del mercato dell'energia nucleare in Italia, e conferma la volontà di partecipare attivamente alla spartizione della torta nucleare nella nostra penisola.

Come per altri progetti nucleari, entrambi i partner sono a favore di una forte cooperazione con utility locali così come con società italiane nel settore energetico. E.ON e GDF-SUEZ esamineranno tutti i punti chiave relativi ai nuovi investimenti nelle centrali nucleari come la tecnologia, l'individuazione dei siti e le partnership industriali.

Inoltre, "s’impegneranno in tavoli di dialogo con le autorità nazionali e locali volti a promuovere un quadro regolatorio stabile, chiaro e prevedibile".

In pratica intendono dichiaratamente esercitare una pressione di tipo lobbistico sulle autorità italiane, con lo scopo di ottenere regole a loro più favorevoli. In questo probabilmente rimarranno delusi, poiché per quanto riguarda le autorità nazionali non c'è mai stato bisogno di esercitare grandi pressioni, da parte dei sistemi industriali, per ottenere di tutto e di più.

"Il nucleare", ha dichiarato Klaus Schäfer, Amministratore Delegato di E.ON Italia, "è una delle soluzioni per l'Italia in grado di ri-bilanciare il mix di generazione di energia nei prossimi 15 anni, garantendo allo stesso tempo la sicurezza degli approvvigionamenti, riducendo le emissioni di CO2 e consentendo di produrre energia a costi relativamente competitivi. L'introduzione di energia nucleare, accanto allo sviluppo di fonti fossili più pulite, delle rinnovabili e dell'efficienza energetica, sarà essenziale nel futuro. Se le condizioni nel Mercato Italiano evolveranno nella direzione auspicata, la nostra cooperazione con GDF-SUEZ potrebbe contribuire nel futuro alla costituzione di un ulteriore consorzio".

"L'accordo tra E.ON e GDF SUEZ, ha dichiarato a sua volta Stéphane Brimont, Presidente e Amministratore Delegato di GDF-SUEZ Energy Europe, costituisce un primo passo nella nostra cooperazione per fornire un iniziale, concreto e vitale contributo alla rinascita del nucleare in Italia.

Per proseguire, avremo bisogno del completamento del quadro regolatorio già ben avviato, di una forte partnership industriale aperta ad altri partner italiani e europei e di un processo competitivo per l'acquisizione dei siti nucleari disponibili”.

Di sicuro non si tratta di due gruppi industriali poco esperti nel settore. Dal punto di vista finanziario, infatti, posseggono quote di partecipazione in 30 centrali nucleari in Germania, Belgio, Francia e Svezia. Dal lato più propriamente industriale, invece, E.ON gestisce e opera direttamente in nove centrali, mentre GDF-SUEZ in altre sette.

Si tratta, sia sul piano dell'economia industriale che di quello politico, di una vera e propria sfida alla cordata italo-francese composta da Enel ed Edf. Il governo italiano punta a coprire nel 2030 il 25% del fabbisogno nazionale con il nucleare e solo la metà di questa fetta dovrebbe arrivare proprio dal consorzio Enel-Edf, almeno per ora.

Di conseguenza, ci sono spazi per altre cordate, per altri voraci e rampanti gruppi stranieri che vogliano entrare nell'industria tricolore dell'atomo, soprattutto perché l'industria tricolore, nel settore nucleare, non c'è più da decenni.

Pertanto, contraddicendo chi sostiene che il nucleare potrebbe darci la cosiddetta "indipendenza energetica", in realtà ci si sta legando alle tecnologie nucleari estere, soprattutto quella francese, che si avviano a gestire non solo la costruzione, ma anche l'esercizio delle centrali stesse, cioè in pratica stanno allungando le mani verso le nostre bollette elettriche.

Silenzio assoluto da parte dei vertici della cordata franco-tedesca circa la tecnologia che potrebbe venire scelta dal nuovo consorzio, anche se nei giorni scorsi l'americana Westinghouse ha fatto sapere di stare proponendo la sua tecnologia nucleare AP1000, rivale dell'Epr scelto da Enel ed Edf, a tutte le grandi utility europee interessate al nucleare in Italia.

Nel nostro Paese, per ora silenzio dalla politica e dalla pubblica amministrazione, così come dall'industria. L'unico apprezzamento per la comparsa del cartello franco tedesco viene dall'utility lombarda A2A, secondo la quale l'accordo "rende più concreta l'idea di un consorzio per il nucleare che A2A sta auspicando".

Di sicuro, tuttavia, le imprese nazionali potranno avere, in questi consorzi, solo dei ruoli di secondo piano, alle spalle dei gruppi guida che, da Edf a Gaz de France, stanno calando come avvoltoi sul nostro Paese.

Al governo nazionale è lasciato il ruolo della cosiddetta sicurezza, dove non s’intende certo la sicurezza nucleare propriamente detta, quanto semmai il tenere al sicuro gli impianti dagli sguardi indiscreti di cittadini, associazioni, e perfino magistrati.

Su questo punto, il governo Berlusconi ha già saputo rispondere nei mesi scorsi, includendo tutti gli impianti che anche indirettamente operano nel ciclo nucleare nell'elenco dei siti strategici nazionali. In pratica, sono stati trasformati in zone militari, guardate a vista da sentinelle armate.


La casta di confindustria
di Gianni Petrosillo - http://www.conflittiestrategie.splinder.com - 8 Giugno 2010

Italia paese delle caste? Forse, ma non di tutte si parla e straparla allo stesso modo. Ci sono i partiti e i sindacati che svariate volte sono finiti sotto la lente d’ingrandimento della pubblica opinione a causa di scandali, ruberie, malversazioni, pletoricità dei rispettivi apparati e incapacità a svolgere un ruolo positivo e propositivo per il benessere del paese, essendo la loro principale preoccupazione quella di generare vantaggi per i propri drappelli dirigenti.

Ma vi è un’altra casta dominante, ugualmente ristretta e burocratizzata che si comporta secondo le stesse logiche, che pretende le medesime “congrue” e che non molla l’osso delle sue esclusive ed ormai insopportabili prerogative.

Eppure essa non viene coperta da equivalente sdegno generale. Forse perchè controlla adeguatamente giornali e televisioni?

La domanda è retorica quando si parla della Confindustria e del suo gruppo di comando che è lo specchio fedele del capitalismo italiano giunto al suo stadio di avanzata putrescenza.

Qualche tempo fa è uscito su Il Giornale un ottimo articolo di Stefano Lorenzetto che, recensendo un libro di Filippo Astone (“Il partito dei padroni”) ed intervistando lo stesso autore, ha fatto le pulci all’organizzazione diretta da Emma Marcegaglia.

Ne è venuto fuori un quadro impietoso di questa specie di società “a fottere il prossimo” diretta da despoti che predicano bene e razzolano malissimo.

Per esempio sulla politica economica dove i grandi manager confindustriali elargiscono grandi visioni e stucchevoli recriminazioni, soprattutto contro lo Stato oppressore, salvo poi farsi inondare da finanziamenti pubblici.

E che dire dei sermoni montezemoliani sul fare sistema, aprire sinergie, rilanciare lo sviluppo, ed altre banalità del genere che servono solo a coprire l’inconsistenza di una classe banco-industriale inabile a modernizzarsi rischiando in proprio e con i propri averi?

Tra i più influenti “partiti” italiani (può contare sulle tessere di 142.000 persone che danno lavoro a 4,9 mln di soggetti sul territorio) la Confindustria si avvale di una dotazione organica di 4000 dipendenti.

Preleva dalle tasche dei suoi associati 506 mln di euro all’anno per mantenere una sede a Roma, 18 sedi regionali, 102 provinciali, 21 federazioni di settore e 258 organizzazioni associate.

Salire a capo di questo organismo, con ramificazioni su tutto il territorio nazionale, non è una cosa semplice, soprattutto se non si fa parte di quei circoli dominanti ristretti che da sempre ne controllano e dirigono la struttura.

Ne sa qualcosa l’imprenditore Riello, come racconta ancora Astone, il quale voleva accedere alla Presidenza di Confindustria Verona (una delle più importanti per influenza su giornali, tv, case editrici, distributori pubblicitari ecc. ecc) ma si è ritrovato tra i piedi un dossier sul suo conto che gli ha sbarrato completamente la strada.

La colpa di Riello è stata quella di mettersi contro Montezemolo dichiarando che costui non era un imprenditore vero ma solo un altro venditore di fumo che non aveva mai rischiato il proprio culo.

Parole sacrosante che andrebbero incorniciate ed affisse sui muri degli uffici pubblici e privati insieme alle foto del Presidente della Repubblica.

Ma soprattutto, dice Astone, Confindustria raccoglie molti fondi dalle PMI, che nel loro insieme versano 450 mln di euro (il 90% del totale della cassa), ricevendone in cambio quasi nulla, tanto in termini di rappresentanza nella cabina di comando dell’"onorata istituzione" che in termini di risposte alle loro istanze più impellenti.

Poi ci sono le grandi imprese a partecipazione statale come Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica che valgono il 4% della raccolta dei contributi e che giusto qualche tempo fa avevano rivendicato maggiore peso nelle decisioni confindustriali e nella elezione degli organi apicali.

Non sarebbe male se il prossimo leader del “partito dei padroni” fosse espressione di una di queste società di punta che portano ricchezza al Paese e che si fanno valere sui mercati internazionali, magari con l’appoggio proprio delle piccole e medie aziende, oggi turlupinate e vessate dai masnadieri del vapore assistiti dallo Stato.

Ed, invece, è ancora la Fiat (ed i suoi compari) a fare la parte del leone nella Confindustria, servendosi della propria influenza per condizionare la politica, il governo, i parlamentari e i mezzi d’informazione.

Così, rammenta Astana, uno come Montezemolo che si faceva pagare per favorire incontri con i grandi capi di Fiat, può candidamente affacciarsi sull’arena istituzionale - col suo bel carico di moralismo da quattro soldi (e coadiuvato da un parterre di “brava gente” che condivide gli stessi “facili costumi”) - per dire che lui vuole veramente cambiare il volto al paese. Roba da scompisciarsi dalle risate se il momento non fosse tragico e pericoloso.

Basterà in futuro seguire i movimenti di questo predone e della sua accolita di ladroni per interpretare al meglio le trame politiche con le quali si tenterà l'ennesimo scacco ai danni del paese. Ci proveranno con ogni mezzo perchè sono con l'acqua alla gola, siatene certi.



Pensione a 70 anni
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 9 Giugno 2010

In Italia esistono due classi: quella dei vecchi e quella dei giovani. La prima è al governo, ha una pensione, al termine dell'attività lavorativa ha avuto un tfr, ha goduto di un'Italia quasi scomparsa con fiumi puliti, spiagge libere, bassa criminalità.

I vecchi hanno un futuro dietro le spalle, hanno avuto la speranza di emergere nella loro professione e molti ci sono riusciti, hanno avuto la sicurezza di un lavoro a tempo indeterminato.

I vecchi hanno potuto scegliere tra grandi aziende come l'Italtel, la Telecom, l'Olivetti. Hanno comprato un appartamento, i più fortunati anche una casa di villeggiatura.

I vecchi hanno fatto studiare i figli per nulla, li hanno precarizzati, tolto loro l'ambiente, il diritto all'acqua pubblica. Li hanno indebitati con 30.000 euro a testa (lo stipendio di 3/4 anni di un interinale).

I vecchi se la sono goduta, ognuno a modo suo, fottendosene delle generazioni successive. Lo hanno fatto e possono continuare a farlo perché sono loro a detenere il potere. L'Italia ha il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio più anziani del mondo occidentale.

L'Italia ha anche 17 milioni di pensionati. Molti hanno pagato solo in parte la pensione che ricevono. Milioni sono a casa dall'età di 50/55 anni senza parlare delle baby pensioni con 15/20 anni di contributi o le pensioni scandalose dei parlamentari dopo solo due anni e mezzo di legislatura o le doppie e triple pensioni, le pensioni superiori ai 10.000 euro al mese, le pensioni cumulate con uno o più stipendi.

In questa situazione di privilegi e di profonda ingiustizia sociale, si è deciso che i giovani andranno in pensione a 70 anni, in pratica mai. Questo non è accettabile.

Se si deve procedere a una riforma delle pensioni, ognuno deve fare la sua parte oppure nessuno. Perché un ragazzo deve con il suo lavoro mantenere lo Stato sociale di cui beneficiano le vecchie generazioni?

Un giovane di vent'anni che inizi a lavorare nel 2010 andrà in pensione nel 2060. Da qui all'eternità. Chi fa un lavoro usurante a 70 anni è buono per l'ospizio. Perché un ragazzo dovrebbe pagare i contributi per esempio per Felice Crosta, ex presidente dell'Agenzia dei Rifiuti in Sicilia in pensione con 1.369 euro al giorno? O tutti o nessuno.

In pensione si può andare a 60 anni, l'innalzamento dell'età pensionabile è dovuto all'enorme spreco di soldi pubblici per le pensioni ATTUALI, non per quelle future che vengono dilazionate nel tempo, sempre leggermente più in là, come è avvenuto con l'accorpamento delle finestre pensionabili. Discutiamo delle pensioni ATTUALI, poi con calma di quelle future.

Mettiamo un tetto massimo pensionistico a ogni italiano, ad esempio 2.500 euro, vietiamo il cumulo di pensioni, aboliamo con effetto retroattivo le pensioni "super baby" dei parlamentari e, soprattutto, diamo a ogni pensionato una pensione commisurata a quello che ha realmente versato perché la differenza di qualche miliardo di euro è a carico dei giovani che la pensione non la vedranno mai, il tfr neppure e forse, neanche il lavoro. I sacrifici non hanno età, l'anagrafe non è un privilegio.



Politici spensierati in festa al Quirinale mentre il popolo soffre
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 4 Giugno 2010

Durante la seconda guerra mondiale, nei mesi dei più duri bombardamenti tedeschi su Londra, re Giorgio VI rimase ostentatamente nel suo palazzo londinese per mostrare ai suoi sudditi che condivideva con loro gli stessi rischi.

In quegli anni Elisabetta, la futura regina, allora poco più che adolescente, serviva come autista nell’esercito di Sua Maestà e non risulta che abbia goduto di particolari protezioni.

Alla guerra delle Falkland prese parte anche il principe Andrea, che rischiava più degli altri perché il suo scalpo sarebbe stato un formidabile colpo propagandistico per gli argentini.

C’era grande spensieratezza martedì al tradizionale ricevimento offerto dal Presidente della Repubblica nei giardini del Quirinale. Il più spensierato di tutti era il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi: una gag con Bersani, due con Rutelli, un siparietto con Mannehimer, uno con Giancarlo Giannini, una battuta con Cesa, un’altra con Barbara Palombelli e un «You are very beautiful» rivolto ad alta voce a una signora di colore, a conferma oltre, che del suo infallibile cattivo gusto, del suo inglese maccheronico.

Ma anche gli altri ospiti non scherzavano in fatto di spensieratezza. Nemici acerrimi che abitualmente si sbertucciano ogni giorno sugli schermi tv si sorridevano, si vezzeggiavano, si strizzavano l’occhio quasi increduli di aver fatto il colpo alla Ruota della Fortuna.

Che del resto è quello che accade ogni sera nelle belle case romane, magari acquistate con i soldi di qualche generoso e disinteressato benefattore.

C’era l’intero star system nazionale nei giardini del Quirinale: politici, manager dalla dubbia fama, personaggi della tv, giornalisti di regime, attori, veline mascherate da compagne di qualcuno.

Non c’era il popolo nei giardini del Quirinale, nemmeno in forma simbolica, magari rappresentato da un centinaio di ex minatori del Sulcis Inglesiente da anni senza lavoro.

Via gli straccioni, avrebbero guastato l’atmosfera festosa e spensierata del ricevimento in onore della Repubblica Democratica. Il popolo deve accontentarsi di guardare queste nuove aristocrazie dal buco della serratura, come accadeva quando Luigi XIV, il Re Sole - che però non pretendeva di essere democratico - dava le sue feste a Versailles.

Il popolo era altrove. A grattarsi le sue rogne, che sono tante e gravi. Se è vero che il 30% dei giovani (statistiche Istat) è senza lavoro e l’altro 70% rischia ogni giorno di perderlo mentre i disoccupati, nel complesso, sono due milioni e 220 mila, il 9% della popolazione.

Se è vero che il nostro spensierato premier, insieme ai suoi supporters, ci informa ogni giorno che l’Italia è in ripresa, ma noi cittadini, a meno che non si appartenga all’allegra cricca degli ospiti dei ricevimenti del Quirinale, sperimentiamo ogni giorno, sulla nostra pelle, il contrario.

Probabilmente il popolo italiano, che tutto subisce, pecora da tosare, asino al basto, avrà guardato con invidiosa ammirazione la «fairy band» che l’altro giorno si è riunita festosa intorno a Napolitano e Berlusconi.

Ma io credo che un po’ meno di esibita spensieratezza e un po’ più di austerità anche formale (la forma è spesso sostanza) non avrebbero guastato in un momento di crisi come questo su cui aleggia, oltretutto, un futuro anche più nero.

Ma noi non siamo inglesi. Loro sono un popolo, noi no. E hanno quindi una classe dirigente che nei momenti critici (Churchill docet) è all’altezza della situazione. Noi abbiamo quella che ci meritiamo, che in fondo, con la sua «spensieratezza» cialtrona, ci rispecchia abbastanza fedelmente.


I 40 giorni che sconvolsero l'Italia
di Alice Oxfam - http://antefatto.ilcannocchiale.it - 9 Giugno 2010

Quando Prodi è uscito dalla politica, quella politica è finita. Così scrive Alice Oxman in "Goodbye Prodi. I 40 giorni che hanno consegnato l'Italia a Berlusconi" (i Saggi Bompiani). Del libro, in uscita oggi, Il Fatto Quotidiano ha scelto di pubblicare l'introduzione.

Quando Romano Prodi, un giorno di gennaio del 2008, è uscito dalla politica italiana, quella politica è finita. Intendo dire: un leader, un partito, un programma, certe vittorie, certe sconfitte, come succede in ogni paese democratico.

Tutto finito. Qui, in Italia, dove vivo da non italiana appassionata e coinvolta, qui non c’è più politica, una volta uscito Prodi, che se ne è andato quasi all’improvviso e senza voltarsi dopo avere mancato il voto di fiducia in Parlamento.

Certo c’erano i segnali premonitori ma resta il fatto che, in Italia, per la seconda volta, c’è un solo grande partito di governo con un leader-padrone senza politica e una sola galassia di opposizione a cui la politica continua a sfuggire.

Il leader-padrone inventa, improvvisa, smentisce, cancella, segue strade secondarie di destra antica (bavaglio ai media, confini chiusi, via lo straniero) ma non governa.

L’opposizione non ha leader, non ha piani, non ha progetti, non propone idee nuove, e tutto in un vuoto, senza un contesto politico. Per chi, come me, viene da un paese e da una storia in cui neppure George W. Bush può interrompere il proseguire della politica, l’Italia di Berlusconi e di Bossi è incomprensibile. È fatta di strappi con il meglio dell’Italia dopo il fascismo. È una strana, indecifrabile corsa all’indietro.

E l’Italia della sua opposizione è incomprensibile perché non si oppone. O lo fa con voce molto tenue. O cerca continuamente una “tregua” fantapolitica con un leader-padrone.

Ecco perché è necessario parlare della fine di Prodi. È necessario ricostruirla, ripensarci. La sua ultima stagione politica è stata un alto e basso di successi e di errori.

Alcune cose erano riuscite e alcune iniziative fallite. Ma c’erano ancora i partiti e la politica. E, se la storia recente fosse una carta geografica, questo è il punto a cui dobbiamo tornare per vedere dove, in che modo, è morta la politica. In altre parole, forse senza saperlo, quando Prodi ha sbattuto la porta, è successo molto di più di un addio. Non stabilisco dei nessi. È una constatazione.

In questo diario propongo ai lettori di ritornare indietro, giorno per giorno, all’ultima stagione di Prodi. È come la scatola nera che si trova in fondo al mare. Ci dice, allo stesso tempo, che cosa è accaduto, e dà qualche spiegazione sulla fitta nebbia della non politica in cui sta brancolando l’Italia.

Romano Prodi, nel suo ultimo periodo di governo, è entrato da una porta socchiusa per un pugno di voti. È uscito quando amici e alleati infidi, o incapaci di capire che stavano tramando la propria fine, gli hanno aperto una botola.

Lui, Prodi, è sempre stato cocciuto, tenace, solitario. O almeno legato a pochi, lontano dai molti che lo hanno sostenuto fino all’ultima ora dell’ultimo giorno. Lavorava, lavorava. Purtroppo in silenzio. Lasciava un vuoto di discrezione ritrosa. Forse è stato un gesto di istintiva modestia in un mondo, l’Italia, di venditori?

Ma in politica il vuoto è soltanto vuoto. E si riempie subito. Da una parte di pochi sostenitori fedeli. E dall’altra di manovre degli iperattivi dediti alle manovre continue. Ma il silenzio era di pietra. Persino il suo portavoce non parlava mai. Al massimo una lettera di poche righe ai giornali.

Romano Prodi, laborioso e impegnato a spingere in salita un paese sull’orlo di un dissesto in cui poi è caduto, è stato il caso più strano di non comunicazione politica. Con la moglie, una coppia esemplare. Con gli elettori un rapporto non consumato. Loro (gli elettori) aspettavano fuori, senza legami e senza contatti. Non si affacciava mai nessuno per dare una notizia o mantenere, almeno, un filo di contatto.

Dentro, lui lavorava, senza mai lasciarsi distrarre da frivolezze come discorsi ai cittadini, conversazioni in pubblico o conferenze stampa. Lo vedevano in giro, a piedi o in bicicletta, un uomo semplice, alla mano, per bene. E molto competente nel suo lavoro, un lavoro pazzesco, in Italia, di riordino dei conti.

Nessun imbarazzo, niente da nascondere, reputazione impeccabile e stima nel mondo. Caso raro in Italia. Non c’è niente di cui vergognarsi, lui e la moglie indivisibili, laboriosi e quasi sempre per conto proprio. Come quei vicini di casa di cui non puoi non dire bene, per poi concludere: “Brave persone, tutte casa e lavoro. Però li conoscevo poco. Molto gentili ma con noi non si fermavano mai”.

Una coppia perfetta in strada, a Palazzo Chigi, sul treno verso casa, a Bologna. Routine rigorosa. Ogni venerdì a casa. E poi bonariamente a passeggio nella città-radice, in chiesa, sotto i portici, davanti al portone di casa. A volte li si vedeva alla finestra. Di solito di persone così si dice: “Sono di poche parole”. È un complimento.

Ma in politica? Se il tono della voce è sempre così quieto, quasi un sussurro, la gente piano piano va via, nonostante la buona qualità delle cose mormorate. Quando Prodi è uscito l’ultima volta dal governo e dalla politica, senza colpa, senza partito, senza gli alleati che avevano politicamente campato sulle sue spalle, non c’era nessuno. O meglio, dentro il Senato il governo di Prodi è stato puntellato fino all’ultimo voto dalla maggioranza di uno.

C’era un sostegno rischioso ma costante dei senatori a vita, vilipesi e insultati ogni giorno dalla violenza berlusconiana. Ma anche quei senatori se ne sono andati in silenzio. Nessuno ha salutato nessuno. Poi nessuno si è voltato indietro. Tutti si sono comportati come se Prodi avesse sempre abitato a Bologna, una coppia affiatata, discretamente occupata, ciascuno nel proprio lavoro.

Lui ha taciuto, gli ex amici tacciono. Il suo partito lo ha lasciato andar via, forse con una spinta. A volte lo cerca, in stato di necessità, con finta festa e un certo imbarazzo. Eredi non ce ne sono, né di lui né di altri, benché non siano finite le rivalità, spesso fondate sui ricordi. Per ora tutto avviene in un vuoto. Ecco l’immagine di Prodi che va via. Si volta? Ritorna? Siamo ancora in tempo utile?

Insomma, mentre lui si allontana forse fino alla Cina, si domandano in tanti se è “goodbye” o “arrivederci”. E non sono sicuri se, adesso, fa differenza. Fuori continua il silenzio. E un intenso vociare di esaltazioni e denigrazioni per l’avversario di Prodi, Berlusconi, il solo che fa notizia.

Intanto al voto per l’ex partito di Prodi mancano milioni di elettori. La fine di Prodi è un pezzo di storia mancante nel mosaico del nostro presente.