mercoledì 2 giugno 2010

Update italiota




























Eccoci di nuovo con un altro aggiornamento sulla situazione italiana, alla luce anche della manovra di 24 miliardi di euro varata dal governo una settimana fa.


Le balle che preludono al caos
di Massimo Fini - http://antefatto.ilcannocchiale.it/ - 1 Giugno 2010

Nell'ultima pagina del mio libro Il denaro. Sterco del demonio, del 1998, dopo aver raccontato la trionfale cavalcata del denaro dall'epoca della sua prima apparizione (a cavallo fra l'VIII e il VII secolo a.C., in Lidia piccolo regno dell'Asia Minore nell'orbita della cultura greca) ai giorni nostri e della sua progressiva trasmutazione, quasi alchemica, da mero intermediario dello scambio, per evitare le triangolazioni del baratto, e misura del valore a merce vera e propria sia pur assai volatile, così concludevo: “Il giorno del Big Bang non è lontano. Il denaro, nella sua estrema essenza, è futuro, rappresentazione del futuro, scommessa sul futuro, rilancio inesausto sul futuro, simulazione del futuro a uso del presente. Se il futuro non è eterno ma ha una sua finitudine noi, alla velocità cui stiamo andando, proprio grazie al denaro, lo stiamo vertiginosamente accorciando. Stiamo correndo a rotta di collo verso la nostra morte, come specie.

Se il futuro è infinito e illimitato lo abbiamo ipotecato fino a regioni temporali così sideralmente lontane da renderlo di fatto inesistente. L'impressione infatti è che, per quanto veloci si vada, anzi proprio in ragione di ciò, questo futuro orgiastico arretri costantemente davanti a noi. O, forse, in un moto circolare, nietzschiano, eisteiniano, proprio del denaro, ci sta arrivando alle spalle gravido dell'immenso debito di cui l'abbiamo caricato.

Se infine, come noi pensiamo, il futuro è un tempo inesistente, un parto della nostra mente, come lo è il denaro, allora abbiamo puntato la nostra esistenza su qualcosa che non c'è, sul niente, sul Nulla. In qualunque caso questo futuro, reale o immaginario che sia, dilatato a dimensioni mostruose e oniriche dalla nostra fantasia e dalla nostra follia, un giorno ci ricadrà addosso come drammatico presente. Quel giorno il denaro non ci sarà più. Perché non avremo più futuro, nemmeno da immaginare. Ce lo saremo divorato”.

È quanto sta accadendo, anche se non nei termini così radicali che io indicavo. Per un collasso definitivo ci vorrà ancora un po' di tempo. Non molto. Il prossimo colpo sarà quello del ko. Lo ammette il ministro dell'Economia Giulio Tremonti che in un'intervista ad Aldo Cazzullo afferma:
“Il crollo delle piramidi di carta, nell'autunno 2008, ha causato il crollo dell'economia reale, che invece si stava sviluppando in senso positivo. Ora a rischiare per un nuovo immanente crollo dell'economia di carta non c'è solo l'economia reale, ma anche la struttura sovrana dei debiti pubblici e quindi dei governi”. Aggiunge infatti Tremonti: “Il salvataggio dell'economia di carta, garantito dagli Stati, ha riprodotto in forma diversa le stesse condizioni di crisi potenziale che c'erano appena due anni fa... Da un lato sul mercato over the counter, il mercato principe dell'economia di carta sono tornati gli stessi valori ante-2008, dall'altro lato nel mondo ogni otto secondi si emette un milione di dollari o di euro di nuovo debito pubblico”.

Tremonti ammette cioè che, come avevo scritto qualche tempo fa sul Fatto, la crisi è stata temporaneamente tamponata immettendo nel sistema altro denaro inesistente, drogato, tossico non meno dei titoli "tossici", nella speranza che il cavallo dopato faccia ancora qualche passo in avanti. Ma la cosa non può durare ancora a lungo, perché, prima o poi, arriva il momento fatale dell'overdose mortale.

“Ma come può intervenire la politica?” chiede a questo punto Cazzullo con un tremito nella voce (almeno così immagino). “È già molto capire e l'impressione è che, sopra i popoli, superato lo choc iniziale, anche segmenti sempre più ampi delle classi dirigenti comincino a capire”. Ma noi non abbiamo bisogno di classi dirigenti che capiscono le cose quando sono già avvenute, che ci dicano il risultato della partita quando è finita.

Ciò che io, che non sono un economista, avevo capito o intuito nel 1998, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti aveva il dovere di capirlo almeno nel 2007 quando ci fu il tracollo dei subprime americani.

Le sue prediche di oggi, elargite con gran prosopopea, sono inutili oltre che sommamente irritanti (tra l'altro Tremonti, per salvarsi l'anima, colloca il sopravvento dell'“economia di carta” sulla cosiddetta “economia reale” nei primi anni del 2000, ma il processo si è prodotto molto prima, tanto che già nel 1964 l'americano David T. Bazelon aveva scritto, che non era neppure lui un economista ma un letterato, L'economia di carta che sosteneva questa tesi).

E ciò vale, ovviamente, non solo per Tremonti ma per tutte le classi dirigenti occidentali, politici, economisti, imprenditori, intellettuali che o non hanno capito, e allora sono dei coglioni indegni di dirigere una Asl, o sono dei mascalzoni che hanno fatto finta di non capire e ci hanno ingannato come continuano ad ingannarci.

Perché anche la distinzione fra capitalismo finanziario e capitalismo industriale (l'“economia reale”) è un inganno. Anche il capitalismo industriale si basa sulla stessa logica di quello finanziario: una inesausta scommessa su un futuro, additatoci continuamente, per tenerci al basto, come Terra Promessa, che arretra costantemente davanti ai nostri occhi con la stessa inesorabilità dell'orizzonte davanti a chi abbia la pretesa di raggiungerlo.

Se mai il capitalismo finanziario, con la sua brutalità, ha il pregio di smascherare questo giochetto infame che dura da due secoli e mezzo e che deve finire. E finirà. In un bagno di sangue, quando, crollato questo modello di sviluppo paranoico, la gente delle città, accorgendosi che non può mangiare il cemento e bere il petrolio, si dirigerà verso le campagne dove verrà respinta a colpi di forcone da chi, avendo compreso le cose per tempo, sarà tornato, come ai vecchi tempi, all'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) in cui il valore di una mucca, a differenza di quello del denaro o del petrolio, resta sempre tale, perché una mucca bruca, trasforma l'erba in latte, caga come dio comanda e concima, in un ciclo biologico perfetto, e, al limite, se ne può sempre fare bistecche.

In quanto a Tremonti e a tutti i Tremonti della Terra per loro è pronto, se saranno ancora vivi, l'albero cui saranno pregati di appendersi.


La manovra salva guerra
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 26 Maggio 2010

Il provvedimento del ministro dell'Economia Giulio Tremonti taglia tutto, dagli stipendi statali alle auto blu, ma non i fondi destinati al rifinanziamento delle missioni di pace all'estero.

Chi più chi meno pagheranno tutti. Di più, manco a dirlo, gli impiegati statali che avranno gli stipendi bloccati per i prossimi tre anni. Di meno i rappresentanti della ormai famosa "casta": ministri e i sottosegretari che, seppur in modo meno amaro, si dovranno arrendere all'emergenza prospettata da Bruxelles e rinunciare al 10 percento di tutti i compensi, comunque lauti, che superano gli 80 mila euro annui.

Nella manovra da 24 miliardi di euro sono poche le macroaree di intervento non coinvolte dai pesanti tagli ideati dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Fra queste non poteva mancare la voce "rifinanziamento delle missioni internazionali di pace" che da sola vale più di un decimo della manovra: 1,5 miliardi di euro solo per il 2011.

Missioni di "pace". Attualmente l'Italia è impegnata in 21 paesi con 33 missioni e 9295 militari, 3300 dei quali sono in Afghanistan. Il governo ha deciso di decurtare del 50 percento le missioni "ad esclusione - riporta la bozza di legge - delle missioni internazionali di pace nonché di quelle strettamente connesse ad accordi internazionali indispensabili per assicurare la partecipazione a riunioni presso enti e organismi internazionali o comunitari".

Come dire che si può concepire tutto, anche l'abbassamento - seppur ridotto rispetto alle attese - degli stipendi dei parlamentari e delle oltre 600mila auto blu che trasportano loro e le loro famiglie in giro per il bel Paese, ma non ci si può permettere di abbandonare campi di battaglia dove in nome della pace sono morti, solo dal 2000, sessantacinque militari italiani.

Uomini alla cui morte "non ci si abitua mai", come ha sostenuto qualche giorno fa il ministro della Difesa Ignazio Larussa, ma che in vita sono solo persone che fanno il loro dovere, che hanno scelto di fare quel lavoro. E allora, in nome di uno "sforzo" economico che dev'essere di tutti a quegli uomini la manovra finanziaria sopprime una parte delle indennità di impiego operativo che verrà corrisposta, riporta il disegno di legge, "nella misura del 70 percento di quello determinato per l'anno 2009".

Soldi su soldi. Dopo aver appreso le linee del provvedimento di Tremonti tanto i parlamentari, "abbiamo un mutuo da pagare" hanno detto, quanto il premier Silvio Berlusconi, "non è la finanziaria che avrei scritto io" ha chiosato il Cavaliere, hanno dimostrato di non digerire l'austerità della manovra che, invece, ha ottenuto il plauso dell'Ocse.

Per salvarsi da un tracollo simile a quello greco solo la Germania sta per avviare una misura più aspra di quella varata dal titolare di via XX settembre. La cancelliera Angela Merkel si sarebbe infatti detta pronta a tirare la cinghia per arrivare a un risparmio di dieci miliardi l'anno. Ancora non è dato sapere se anche la Germania salverà le spese relative alla voce Difesa.

Il dato che invece appare scontato è che, in Italia, la crisi non tocca le guerre anche se i due fenomeni sono spesso fortemente legati. Per garantire l'impegno internazionale il governo ha, solo qualche settimana fa, raschiato il fondo del barile delle casse statali introducendo, nel decreto legge incentivi, un comma - il quinques Utilizzo maggiore entrate dei giochi- all'articolo 2 dove viene stabilito che le maggiori entrate derivanti dal riordino in materia di giochi dello Stato siano destinate per quest'anno al fondo per le missioni internazionali di pace.

La cifra, che dovrebbe aggirarsi intorno agli 800 milioni di euro, verrà impiegata il prossimo anno per rifinanziare il 5 per mille dell'imposta sul reddito delle persone fisiche per poi reindirizzarsi, definitivamente dal 2012, alle "esigenze di finanziamento delle spese militari all'estero".

Il che apre un dilemma politico fra la necessità di richiamare tutti gli italiani al sacrificio e l'opportunità di proseguire, senza soluzione di continuità, nel pompare soldi pubblici nel grande calderone bellico mondiale.

Prima in virtù di un provvedimento ideato per incentivare le attività finanziarie e combatere l'evasione, poi, solo quindici giorni dopo, con una manovra storica, in quanto a tagli e lotta agli sprechi, nella quale si spende più per i carri armati a Beirut e Kabul di quanto non si faccia per lo sviluppo del Mezzogiorno.

E questo la dice lunga sul fatto che la classe politica italiana non riesce proprio a fare a meno della partecipazione ai conflitti in giro per il mondo come strumento di potere diplomatico. L'imperativo rimane quello di sedersi, sempre e comunque al tavolo delle trattative e parteciparvi in qualità di superpotenza amica, anche a costo di doverci andare col tram piuttosto che con l'auto blu.


Posta Certificata: la chimera

di Valerio Di Stefano - Altrenotizie - 1 Giugno 2010

L'entusiasmo seguìto all'istituzione delle caselle di posta elettronica certificata (PEC) per i cittadini, dopo l'annuncio trionfalistico del Ministro Brunetta e gli immancabili “disguidi tecnici”, dovuti a fantomatiche e non ben meglio precisate richieste di accesso in quantitativi massicci, pare essersi spento dopo la fiammata iniziale, rivelando una serie di contraddizioni e inefficienze che non fanno altro che ampliare il divario tecnologico e dei diritti del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.

La Posta Elettronica Certificata, in realtà, è da anni ampiamente disponibile, in forma capillare, ai cittadini, sia pure a pagamento. Non costituisce, dunque, di per sé, una novità. Probabilmente il “nuovo” ostentato era la gratuità della risorsa per il cittadino. Ma anche quest’aspetto si sgretola al confronto coi fatti.

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, recante "Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini", in vigore dal 6 maggio 2009, prevede che ogni cittadino che lo desideri e ne faccia richiesta possa ottenere una casella di posta elettronica certificata gratuita e senza oneri (art. 2).

Del resto, non poche perplessità aveva destato il comma 4 dell'articolo 3 dello stesso testo, che prevedeva letteralmente: “La volontà del cittadino espressa ai sensi dell’art. 2, comma 1, rappresenta la esplicita accettazione dell’invio, tramite PEC, da parte delle pubbliche amministrazioni di tutti i provvedimenti e gli atti che lo riguardano” .

Dunque, con la richiesta della assegnazione di una casella di posta elettronica certificata il cittadino non solo dimostrava di volersi dotare di uno strumento, ma accettava anche che tutto ciò che veniva inviato dalla Pubblica Amministrazione rivestisse carattere di ufficialità (una comunicazione da una casella di PEC a un'altra, come è noto, ha il valore legale della classica raccomandata con ricevuta di ritorno). Con l'aggravante (naturalmente a carico del cittadino), che i documenti inviati alla Pubblica Amministrazione richiedono spesso la firma digitale, di cui nella quasi totalità dei casi il cittadino è sprovvisto, per poter dimostrare l'identità di chi formula una determinata richiesta o fornisce un determinato documento.

In breve, anche se il cittadino usa la PEC per rivolgersi al proprio Comune per richiedere un intervento dei Vigili Urbani, qualunque altra Pubblica Amministrazione diversa dal suo comune può notificargli qualunque documento via PEC (ad esempio, un atto giudiziario, una comunicazione da parte del fisco e quant'altro). Tutto questo in nome di una supposta trasparenza e abbattimento di costi e tempi di gestione a beneficio di tutti.

Il risparmio sui costi, appare evidente, è tutto a beneficio della Pubblica Ammistrazione che, già dal 2009, con l'introduzione della legge n. 2, deve comunicare con i suoi dipendenti attraverso la PEC. Il che non significa solo che il dipendente del Comune di Vibo Valentia possa e debba ricevere qualsiasi comunicazione dal suo ente di servizio nella casella PEC di Stato, ma anche - e soprattutto - che se lo stesso dipendente di Vibo Valentia dovesse incorrere in una contravvenzione del Codice della Strada nel territorio del Comune di Orgosolo, il Comune di Orgosolo è tenuto a notificargliela via PEC.

Ed è qui che il sistema comincia ad andare in tilt: nella Pubblica Amministrazione manca personale, risorse e know-how per gestire il baraccone inutile che il Ministro Brunetta ha costruito su un sistema di comunicazione indubbiamente utile (anche se costituisce un'anomalia del tutto italiana). Non si tratta di ripetere che basta una casella di posta elettronica tradizionale, come succede in qualsiasi altro Paese dell'Unione, perché è evidente che la necessità di certificare il messaggio e il mittente sono sacrosante; si tratta di rendere effettivamente chiaro e trasparente il rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione che, in questo momento, appare assolutamente squilibrato a favore di quest'ultima.

Perché se il settore pubblico può interfacciarsi con il cittadino, non sempre (anzi, quasi mai) è vero il contrario. L'art. 34 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, aggiungendo il comma 2-ter all'art. 54 del D. Lgs. n. 82/20905 (Codice dell'Amministrazione Digitale) ha stabilito che le amministrazioni pubbliche, che dispongono di propri siti, sono tenute entro il 30 giugno 2009 a pubblicare nella pagina iniziale del loro sito web un indirizzo di posta elettronica certificata, a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta che riguardi il codice digitale della pubblica amministrazione.

A quasi un anno dall'entrata in vigore di quel provvedimento si continua ad assistere a una vera e propria diserzione da parte degli Enti Pubblici all'obbligo previsto. Comuni, Scuole, Istituzioni Pubbliche, Università, Ministeri, Tribunali, Uffici che dispongono di un sito web, difficilmente forniscono la loro casella di posta elettronica certificata, che il cittadino deve andarsi a cercare, se esiste, su altre risorse (www.indicepa.gov.it).

Un caso eclatante, in questo senso, è quello del sito ufficiale del Ministero dell'Istruzione e della Ricerca (www.istruzione.it) che continua gelminianamente a fornire un indirizzo di posta elettronica tradizionale per i contatti con il pubblico senza dare nessuna garanzia che i messaggi siano stati effettivamente ricevuti.

Il collasso finale del sistema si verifica alcuni giorni fa, quando, tra l'indifferenza della stampa e dei mezzi di informazione, lo stesso Ministero dell'Economia blocca alcune disposizioni del nuovo Codice dell'Amministrazione digitale, tra cui gli articoli 10 e 20 bis. Secondo il Ministero, l'assegnazione di un recapito di Posta Elettronica Certificata ad ogni cittadino per i contatti con l'Amministrazione Pubblica, avrebbe un significativo impatto sull'organizzazione delle Amministrazioni stesse.

In parole povere, il cittadino avrebbe tra le mani un'arma che la P.A. non sarebbe minimamente in grado di gestire (ogni Amministrazione avrebbe l'obbligo di protocollare qualsiasi comunicazione). Basti solo pensare alla paralisi che si avrebbe se ogni impiegato comunicasse, come sarebbe suo diritto, la propria condizione di malattia. Potrebbe farlo in qualunque ora (comprese quelle notturne), avrebbe un’immediata ricevuta della propria mail valida a tutti gli effetti legali e non avrebbe nessun altro obbligo, se non quello di recapitare successivamente la certificazione medica.

Se il personale addetto alla segreteria non controlla la PEC perché l'ufficio apre solo pochi minuti prima del turno del dipendente, o perché - si veda il caso - non è capace di gestire il sistema, tutto crolla miserevolmente: il dipendente risulta assente, lo si chiama a casa con ulteriore aggravio di costi per accertarsi che sì, aveva dato regolare comunicazione, ma spesso non si è in grado di sostituirlo (si prenda in considerazione l'assenza di un insegnante in una scuola).

Dulcis in fundo, l'obbligo delle Amministrazioni pubbliche di comunicare tra loro con la PEC, prevedere “ulteriori oneri finanziari e organizzativi“, per cui le pubbliche amministrazioni potranno continuare a comunicare tra di loro tramite telefono, raccomandata tradizionale, posta e fax a spese dei cittadini, in uno sperpero di denaro pubblico che ha come unica giustificazione l'incapacità di interfacciarsi con la tecnologia.


Se la ricerca e' uno spreco

di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 28 Maggio 2010

La manovra piomba addosso agli Istituti di Ricerca italiani ed è caos di proteste e mobilitazioni. I lavoratori non ci stanno. In ballo c’è qualcosa che non riguarda soltanto loro, ma tutto il paese, la sua gente. Il patrimonio che è in mano alla ricerca pubblica rischia di non valere abbastanza per essere custodito e tutelato. La lista degli “enti inutili” è fitta di sigle impegnate nella ricerca.

Gli istituti nazionali di alta matematica, astrofisica, oceanografia e geofisica per riportare l’esempio più eclatante. E poi l’IAS (Istituto Affari Sociali) e l’ISFOL (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), che ora sembrano aver scongiurato l’ipotesi dell’azzeramento e che - pare - saranno accorpati.

Siamo abituati a vedere i ricercatori sul tetto, come era accaduto all’Ispra, e all’Isfol li abbiamo trovati a dormire nei loro uffici, accampati tra le scrivanie, in una occupazione che è andata avanti ad oltranza, per scongiurare l’ipotesi che appariva nelle prime bozze del decreto e che ne minacciava la chiusura. Il tutto in palese contraddizione con le parole che proprio il Ministro Sacconi aveva speso sull’ISFOL definendolo una perla della ricerca italiana.

Via anche il Comitato nazionale per il medio credito, l’ICE ( Istituto Nazionale per il commercio estero) e l’Ente per la Montagna. Dopo la rincorsa disordinata di conferme e smentite, alla fine sembra che a rimanere in piedi saranno Coni Servizi e Difesa SpA, evidentemente considerate più proficue della ricerca sulla geofisica - ovvero la sismologia e la vulcanologia - che, come la cronaca e la storia insegnano, toccano da vicino il nostro territorio e non dovrebbero proprio essere considerate inutili.

L’idea, con buona probabilità, non è tanto quella di abbandonare la ricerca, ma di slegarla sempre di più dall’autorità pubblica e dal controllo dello Stato, mandandola a caccia di sponsor e originando quindi un metodo di finanziamento in cui il profitto e il business diventano la categoria predominante rispetto all’utilità, alla sicurezza e soprattutto all’onestà intellettuale che deve guidare la mano del ricercatore. Il binomio ricerca e affari non sta insieme per niente.

La povertà dell’Italia, numeri alla mano, non è tanto o solo monetaria, quanto culturale. Soltanto il 16, 4% della popolazione ha un livello d’istruzione alto e la differenza con la media europea è preoccupante. A fronte di questo scenario parlare solo di PIL è riduttivo e fuorviante.

Proprio l’ISFOL nelle sue ultime ricerche ha evidenziato come sia fondamentale introdurre nelle valutazioni economiche il concetto più ampio e diffuso di BIL (benessere interno lordo) che non può considerare variabili ininfluenti quelle dell’istruzione, della ricerca o della fuga dei cervelli che mette una triste ipoteca di depauperamento intellettuale sul futuro.

Ma la manovra cancella e taglia, mentre le fiaccolate di protesta dei ricercatori proseguono. Serve un piano programmatico per la ricerca e serve soprattutto che i soldi sprecati per Alitalia e le “grandi opere” tornino ad essere investiti per l’emergenza della ricerca scientifica. Non é meno triste vedere azzerati gli Istituti culturali che dalla Resistenza alla Shoah lavoravano per conservare e insegnare la memoria storica. Il passato non ha valore nella contabilità del governo, né il futuro.

E chi sente la pancia soddisfatta per la mannaia tanto invocata dai padani e da Brunetta sulla pubblica amministrazione, prima o poi capirà dalle nuove generazioni che sarebbe bastato controllo e sorveglianza per correggere i vizi della costosa macchina dello Stato, e che invece, aver cancellato la ricerca pubblica, avrà significato avere meno opportunità, appartenere ad una società in regressione e avere il sogno di andare via. Lontano da qui.


L'Italia e' malata, bastoniamola

di Roberta Carlini - www.sbilanciamoci.info - 26 Maggio 2010

Tremonti si accoda nel vento europeo con la sua manovra di emergenza. Nelle stesse ore, l'Istat diffonde i numeri del paese, che mostrano i guasti già fatti da una recessione che con i nuovi tagli potrà solo approfondirsi, in una spirale pericolosa. La contro-manovra di Sbilanciamoci!.

Il debito pubblico italiano è troppo alto in rapporto al Pil? Certo che sì. Serve a qualcosa, la manovra da 24 miliardi sobriamente definita da Tremonti “un tornante della storia”? Certo che no.

Da tempo gli economisti (solo alcuni per la verità) cercano di spiegare quello che i bambini di solito studiano in quarta elementare, cioè le frazioni: se scende il numeratore, ma contemporaneamente scende anche il denominatore, non è detto che il valore del rapporto si riduca.

Anzi può persino aumentare: dipende (nell'aritmetica) dall'entità delle rispettive riduzioni, e (nell'economia politica) dalla strada che si prende per la discesa.

In parole povere: se scende il debito, ma scende anche il Pil, il rapporto può persino peggiorare.

Il Rapporto annuale dell'Istat sulla situazione del paese, diffuso per coincidenza nello stesso giorno della manovra ci aiuta a capire che proprio questa è la dinamica in cui ci siamo infilati; mentre un documento come la “contromanovra” di Sbilanciamoci! ci aiuta a pensare a strade alternative per una discesa sostenibile.

Le cifre dell'Istat. La quantità di informazioni è sterminata, e ciascuno se ne può fare un'idea direttamente (prima che il Gasparri di turno dica che a lui risultano altri numeri, o che si decida di chiudere anche l'Istat dopo l'Isae e l'Isfol).

Semplificando al massimo, l'Istat quest'anno ci dice due cose:

1) che la crisi economica in Italia è peggiore che in altri paesi europei: nel biennio 2008-2009 la flessione del Pil è stata del 6,3%;

2) che l'hanno pagata, finora, soprattutto i giovani, protagonisti della fascia del mercato del lavoro sterminata dal taglio dei contratti atipici, e le donne, che vanno ad aumentare la fascia degli inattivi per “scoraggiamento”.

Di tutto il capitolo 3 (Gli effetti della crisi su individui e famiglie) andrebbe data pubblica lettura nelle sedi in cui si discuterà e voterà la manovra; basti citare due dati: nel 2009 il reddito disponibile delle famiglie è sceso del 2,9% e il potere d'acquisto procapite è sceso sotto il livello del 2000.

Ma, restando ai conti pubblici, concentriamoci sulla prima parte della storia: l'avvitamento tra crisi, deficit e debito. I governi dei paesi europei hanno speso di più, mentre le entrate rallentavano e il Pil scendeva. Così per l'insieme dall'area dell'euro il rapporto tra debito e Pil è passato da 69,4 a 78,7%, mentre l'indebitamento netto (il deficit annuale) è salito dal 2 al 6,3%.In questo quadro, l'Italia occupa una posizione particolare: mentre gli altri hanno speso molto di più per sostenere le banche, la nostra spesa pubblica è cresciuta di meno e soprattutto in relazione all'aumento della cassa integrazione; inoltre, anche la riduzione delle entrate è stata meno forte di quella degli altri (per effetto dello scudo fiscale).

Però, “in ragione della forte caduta del Pil e del livello elevato del debito”, i conti alla fine sono peggiori di quelli degli altri: il rapporto debito/Pil sale da 106,1 a 115,8 e l'indebitamento da -2,7 a -5,3. Siamo partiti da un debito più alto (numeratore), siamo scesi con una caduta più rapida del Pil (denominatore).

Emergenza pubblica. Di fronte a queste cifre, chi vuole può continuare a pensare che l'emergenza sia nei numeri del debito pubblico – che è troppo alto sì, ma da qualche decennio – e non in quelli della disoccupazione, inoccupazione, spreco di risorse. Può dimenticarsi l'opportunistica riscoperta keynesiana di qualche mese fa, buona per tamponare le falle finanziarie, e tornare a una visione smemorina dell'economia e della politica economica, quella che dice che affamando lo stato (e i suoi impiegati, nel caso specifico) si risolleva l'umanità.

Deve comunque poi spiegare come fa a togliere risorse all'economia senza deprimere l'economia; a tagliare gli stipendi agli insegnanti convincendoli però ad andare a fare shopping e vacanze nel tempo libero; a bloccare le assunzioni e i nuovi contratti chiedendo nel contempo ai ragazzi di uscire di casa e magari comprarsela anche, una casa; a continuare a dare cassa integrazione in deroga senza far niente perché le deroghe cessino di essere la norma.

E' vero che in questa trappola – il rigore in recessione, bastonate sul malato – è caduta tutta l'Europa, ma è anche vero che ci sono malati e malati, bastonate e bastonate (nonché medici e medici: la lotta all'evasione fiscale fatta subito dopo il regalo ai capitali evasi all'estero e in contemporanea col condono edilizio è uno spettacolo inedito persino per il paese che costruisce ad Agrigento nella Valle dei Templi).

Si può fare qualcosa di diverso, per raddrizzare i conti e re-indirizzarli?

Qualcuno pensa di sì, e ci prova. Il documento della campagna Sbilanciamoci!, che si può leggere nell'allegato, mostra in successione una serie di mosse possibili. Sulla base delle quali vorremmo far partire su questo sito una riflessione: criticatele, smontatele, integratele, proponetene altre. Discutiamone.

NOTE RAPIDE 4- contromanovra.pdf 237,69 kB.