mercoledì 16 giugno 2010

Kirghizistan: chi sta soffiando sul fuoco?

Il 10 giugno sono scoppiati in Kirghizistan pesanti scontri tra i due maggiori gruppi etnici locali, uzbechi e kirghizi, trasformandosi nelle più gravi violenze registrate in 20 anni nell'ex repubblica sovietica e rafforzando la prospettiva di una nuova lunga e sanguinosa guerra civile interetnica.

Negli scontri sono rimaste uccise ufficialmente almeno 179 persone - ma c'è chi parla invece di circa un migliaio - in gran parte nella città di Osh vicino al confine con l'Uzbekistan. Migliaia i feriti.

E secondo l'UNHCR, l'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati, le persone scappate in Uzbekistan sono già oltre 75.000. Un numero però in costante aumento e destinato a superare presto quota 200mila.

Tutto ciò a due mesi dal golpe che ha deposto l'ex presidente Bakyev e ha portato alla formazione di un governo provvisorio guidato da Rosa Otunbayeva che ha accusato Bakiyev, di etnia kirghiza, di aver istigato le violenze. Ma Bakiyev, dal suo esilio in Bielorussia, ha negato il proprio coinvolgimento nella vicenda.

Comunque per l'Alto commissario Onu per i Diritti umani le violenze sarebbero cominciate con cinque attacchi coordinati condotti da uomini armati di fucili e con il volto coperto da passamontagna. Un piano quindi preparato con cura già da tempo.

Ora però la domanda sorge spontanea: si tratta veramente di un regolamento interno tra bande di criminali di etnia diversa legate ai gruppi di potere del Paese, quello deposto due mesi fa e l'attuale in carica?

Oppure dall'esterno qualcuno ha provocato scientemente la catena di azioni e reazioni, soffiando sul fuoco delle annose rivalità etniche/criminali per poi intervenire e gestire al meglio i propri interessi?

E' risaputo quanto siano importanti e contrastanti gli interessi in quella regione di Usa, Russia e Cina.


L'accusa dell'Onu: violenza interetnica pianificata con cura
di Astrit Dakli - Il Manifesto - 16 Giugno 2010

Forse migliaia le vittime dei pogrom. Situazione più calma, per ora niente peacekeepers

Sembra essersi leggermente placata l'ondata di violenza interetnica che da giovedì sconvolge il Kirghizstan e in particolare le sue regioni meridionali di Osh e Jalal-abad.

Così sostiene il governo di Bishkek, che però si appresta a fronteggiare una nuova escalation di disordini, stavolta nel nord, nella regione di Chui e nella stessa capitale: secondo le autorità, un piano di provocazioni da parte di sostenitori del deposto presidente Bakiyev sarebbe già pronto per dar vita a sanguinosi disordini anche in quelle località.

Che la violenza dei giorni scorsi non sia stata «spontanea» ma pianificata con cura da parte di qualcuno, lo dicono anche gli osservatori delle Nazioni unite presenti in Kirghizstan, che pure non alzano accuse precise contro nessuno.

Secondo i rapporti Onu, ci sono testimonianze attendibili che parlano di «almeno cinque attacchi simultanei condotti nella città di Osh da uomini armati e mascherati» contro obiettivi «caldi» - si fa l'esempio di una palestra frequentata da gruppi malavitosi - con l'evidente obiettivo di innescare una catena di reazioni e vendette tra le comunità etniche della zona, divisa a metà fra kirghizi e uzbeki.

Dopo queste provocazioni «chiaramente pianificate e organizzate a freddo», sarebbero iniziati gli attacchi reciproci di bande di giovani delle due comunità, armati di coltelli, spranghe di ferro, machete e bottiglie molotov, degenerati infine in una terribile serie di pogrom con stupri e uccisioni in massa, anche di bambini.

Un bilancio credibile delle vittime finora non è possibile: le cifre ufficiali parlavano ieri di 176 morti e migliaia di feriti, ma è stata la stessa presidente kirghiza Roza Utumbayeva ad affermare che il numero reale dei morti potrebbe essere «molte volte superiore». Fonti di stampa parlano addirittura di duemila vittime.

Ieri le Nazioni unite hanno rivolto al governo kirghizo un pressante invito perché riprenda subito in mano la situazione e metta fine alle violenze che hanno provocato la fuga in massa da Osh e Jalal-abad degli abitanti di etnia uzbeka, riversatisi verso la vicina frontiera dell'Uzbekistan prima che le autorità di Tashkent decidessero di chiuderla.

Il numero delle persone in fuga è incerto: si parla di almeno centomila - stime dell'Unhcr che chiede anche l'urgente apertura di un corridoio umanitario per portare aiuto ai rifugiati. Aiuto di cui peraltro necessita anche la popolazione rimasta a Osh e Jalal-abad, dove quasi tutti i negozi sono chiusi o sono stati bruciati e saccheggiati. Il governo ha fatto aprire delle cucine da campo.

Intanto sembra allontanarsi l'ipotesi di un intervento di peacekeepers esterni, in particolare russi. Dopo una serie di riunioni affannose lunedì, i vertici del Patto di sicurezza collettiva che riunisce sotto la guida di Mosca i paesi centrasiatici dell'ex Urss hanno deciso (per ora, almeno) di limitarsi all'invio di aiuti logistici e umanitari per sostenere il regime di Bishkek (che aveva chiesto aiuto anche militare).


Asia ex sovietica, è guerra civile
di Carlo Benedetti - Altrenotizie - 15 Giugno 2010

Nella regione asiatica della Kirghisia - sconvolta da una guerra civile che ricorda i primi tempi della Rivoluzione d'Ottobre - i morti sono più di 120, migliaia e migliaia i feriti, oltre 75 mila i profughi di nazionalità usbeka che hanno attraversato la frontiera fra Kirghisia e Uzbekistan.

Carri armati e colonne di militari presidiano le maggiori arterie del Paese, mentre le lotte di strada si fanno sempre più cruente e il vento che soffia è quello delle faide di palazzo.

C'è una travolgente azione per vicende legate alle scalate verso un potere asiatico che già tanti danni ha regalato alle nazioni dell'area. C'è - nella capitale Biskek - un vecchio presidente in fuga e una leader come Roza Otumbaieva che si scontra con una crisi epocale che sta incendiando l'Asia, ci sono bande armate che organizzano pogrom.

Tutto questo mentre nelle città di Osc e di Gialal Abad gli scontri e le scorribande sono anche caratterizzati da saccheggi e incendi. La Russia e gli Usa, intanto, che si sono dichiarati neutrali quanto alle lotte intestine, mostrano serie preoccupazioni per le loro basi militari esistenti nell'area.

E a questo magma di problemi si aggiunge il dramma che agita quella valle della Ferghanà, condivisa con Tagikistan e Uzbekistan. Popolata in massima parte da uzbeki, la più consistente minoranza etnica presente nella Kirghisia vede qui i due popoli - entrambi musulmani sunniti che pur parlano lingue affini di ceppo turco - divisi da profonde rivalità.

E' lotta tribale per l'egemonia ed è l'incendio dell'Asia ex sovietica. Avvolge la Kirghisia e coinvolge l'Uzbekistan, ma anche altre regioni dell'area sono a rischio.

Ed ora il conflitto - uno dei problemi più complessi e acuti - non è solo frutto di uno sconvolgimento politico: è un "fatto" etnico che mette in evidenza una questione soprattutto asiatica. L'allarme raggiunge Mosca e Pechino rivelando così la tragicità della situazione eurasiatica.

Le cronache e le cronologie segnano la complessità dello scenario. I disordini partono da lontano, quando scoppiò, una rivoluzione improvvisa, nel giugno del 1990, che venne chiamata la “rivoluzione della seta”, perchè avveniva in luoghi esotici e lontani, traversati un tempo dalla via della seta.

Fu poi con la “rivoluzione dei tulipani”, nel marzo 2005, che venne destituito, il presidente Askar Akayev che aveva governato il paese per 15 anni. Era accusato di autoritarismo, nepotismo e corruzione.

Al suo posto arrivò, tra scontri e duri attacchi, Kurmanbek Bakiyev, che a sua volta venne spodestato nell’aprile 2010 con le stesse accuse. Bakiyev - per tenere in piedi il suo potere - si appoggiò sui clan tribali di Osc e Gialal Abad, nel Sud del Paese.

Il vento della guerra civile, intanto, era sempre più presente. Ed è a questo punto che viene avanti una leader come Roza Otumbaeva (un passato nel ministero degli Esteri dell'Urss e un posto di direzione all'Unesco).

E' lei che, da capo del governo provvisorio, sale sul carro delle proteste e da fuoco al Paese. Ed ora, in vista del referendum del 27 giugno sulla nuova Costituzione, chiede all'antica "madre Russia" di mandare nel Paese, «truppe di pacificazione».

Il Cremlino, in merito, si muove con prudenza. Natalja Timakova, portavoce del presidente Dmitrij Medvedev, fa presente che il capo del Cremlino ha dato disposizione ai ministri della Sanità Tatjana Golikova e della protezione civile Sergej Shojgù di prestare aiuto umanitario al Kirghizistan, alla volta del quale sono già partiti aerei carichi di generi di prima necessità ed altri per l’evacuazione dei feriti.

Circa l’invio di truppe, Mosca fa sapere che «tale decisione può essere presa solo in accordo con la Carta dell’Onu e dopo consultazioni con tutti i membri di questa organizzazione». In ogni caso «si tratta di un conflitto interno e per ora la Russia non vede le condizioni per partecipare alla sua soluzione».

Detto questo Mosca non dimentica la gravità della situazione. Medvedev inizia consultazioni con i capi militari, compreso Nikolaj Bordjuzha, segretario dell’Odkb (truppe collettive della Csi sotto controllo russo) e con il presidente kazakho Nursultan Nazarbayev. Otumbaeva telefona al premier russo, Vladimir Putin.

Nello stesso tempo una fonte del ministro della Difesa russo dichiara che i militari della base russa di Kant, in Kirghisia, «non saranno coinvolti nelle misure per il ristabilimento dell’ordine nel sud della repubblica». Questo contingente, infatti, «ha una sua missione precisa e non sarà chiamato ad adempiere ad altri compiti».

Prudente anche Pechino, che è pur sempre attenta a ogni rigurgito nazionalista, autonomista o islamista che infiammi l’Asia centrale, sapendo bene come la sua turbolenta regione autonoma dello Xinjang si potrebbe riscaldare di conseguenza. E sarebbe una dura prova. Le diplomazie asiatiche, in merito, non si pronunciano, ma si chiedono quanto direttamente sia disposta Pechino a impegnarsi.

Finora, la strategia cinese ha puntato sulla penetrazione economica nell'area e sul soft power. È forse ancora troppo presto per scendere nell’arena direttamente. E qui va ricordato che Washington ha sempre vagheggiato di fare della Kirghisia "una democrazia amica".

Intanto la situazione sul terreno è sempre più grave. Il vicepremier kirghiso Azimbek Beknazarov annuncia che lo stato d’emergenza, oltre che a Osh, è stato proclamato anche al vicino distretto di Suzak. Il governo, intanto, manda rinforzi di truppe a Osc e la polizia ha l’ordine di «sparare a vista» su persone che usino armi da fuoco.

La situazione si aggrava di ora in ora. E così dalla rivoluzione della seta del 1990 sono passati vent’anni e almeno altre due rivoluzioni popolari. Ora è allarme eurasiatico. E c'è l'alto rappresentante della Politica Estera e di sicurezza comune dell'Ue, Catherine Ashton, che alla riunione dei ministri degli Esteri, a Lussemburgo, manifesta serie preoccupazioni per gli scontri in Kirghisia, affermando che l'ondata di violenza è molto pericolosa per la regione.

E da tutto questo - è la tragica conclusione del momento - l'Asia centrale diviene sempre più non solo una questione continentale, ma globale.


Kirghizistan, caccia all'uzbeco

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 15 Giugno 2010

Quartieri e villaggi uzbechi dati alle fiamme, civili massacrati. Finora si contano almeno 170 morti, 1.800 feriti e 100 mila sfollati

Esercito, stato d'emergenza e coprifuoco non sono bastati, finora, a fermare quella che ormai è diventato un vero e proprio pogrom anti-uzbeco.

In quattro giorni di incontrollabile follia, orde di giovani kirghisi armati di fucili, asce, coltelli e bastoni hanno seminato terrore, morte e distruzione nei quartieri uzbechi di Osh e Jalalabad e nei villaggi delle enclavi uzbeche.

Donne e bambini inseguiti e uccisi per le strade, i loro cadaveri abbandonati tra le macerie fumanti delle case date alle fiamme. Le uniche abitazioni risparmiate sono quelle contrassegnate dalla scritta 'kyrgyz', a indicare che lì ci vivono dei kirghisi.

Le violenze continuano. Finora si contano almeno 170 morti e 1.800 feriti, quasi tutti uzbechi. Secondo fonti uzbeche, i morti sarebbero oltre 200 ma il bilancio potrebbe essere anche più pesante, perché gli uzbechi non stanno più andando negli ospedali per paura: ormai, se ci riescono, scappano nel vicino Uzbekistan. Finora 100 mila persone sono fuggite oltreconfine, dove la locale crocerossa sta allestendo dei campi profughi.

Finora, polizia ed esercito non sono stati in grado di riprendere il controllo della situazione. In molti casi sembra anzi che abbiano dato man forte alle bande kirghise: diversi video mostrano carri armati e blindati guidati dai militari che scarrozzano in giro giovani armati esultanti.
Il governo provvisorio ha inviato in zona rinforzi e mobilitato i riservisti. Ha perfino chiesto l'intervento delle truppe russe di stanza nel paese: finora però il Cremlino ha declinato l'invito.

La presidente ad interim, Roza Otunbayeva, ha apertamente accusato il deposto presidente Kurmanbek Bakiyev di aver fomentato queste violenze per destabilizzare il nuovo governo al fine di impedire il referendum costituzionale del 27 giugno e le prossime elezioni di ottobre.

Bakiyev, dal suo esilio bielorusso, ha smentito ogni coinvolgimento, ma il sospetto di una manipolazione politica rimane. La regione degli scontri è la storica roccaforte dell'ex presdiente, mentre gli uzbechi sostengono il nuovo governo.

Il timore è che l'instabilità politica seguita alla caduta del regime di Bakiyev riporti a galla le mai sopite tensioni etniche che hanno sempre caratterizzato la storia di questo Paese, caratterizzato da una forte presenza autonomista di uzbechi nella fertile regione agricola meridionale del Fergana. Eredità dei confini anti-etnici tracciati da Stalin, che ripartì questa popolazione tra tre diverse repubbliche sovietiche: Uzbekistan, Tagikistan e appunto Kirghizistan.

Durante gli anni di disfacimento dell'Urss, l'indipendentismo degli uzbechi del Kirghizistan meridionale si risvegliò, esplodendo in proteste e rivolte contro la maggioranza kirghisa che sfociarono nel sanguinoso massacro di Osh, dove esattamente vent'anni fa (giugno 1990) oltre 300 persone morirono nel corso di violentissimi scontri etnici, terminati solo dopo l'intervento dei carri armati russi.

Negli anni successivi, la violenza tra le due comunità riesplose più volte, vestendosi di inediti significati politici e inserendosi nella lotta tra gli opposti clan in lotta per il potere. Gli uzbechi del Fergana furono i più attivi nella rivolta del 2005 che rovesciò il regime di Askar Akayev, e lo stesso è accaduto durante le sommosse dello scorso aprile che hanno rovesciato Bakiyev.


Kirghizstan, Amleto al Cremlino

di Astrit Dakli - http://blog.ilmanifesto.it/estestest/ - 14 Giugno 2010

Le riunioni si susseguono una dopo l’altra al Cremlino, mentre il Kirghizstan è in preda al peggior incendio da vent’anni in qua, sconvolto da violenze inter-etniche e politiche completamente fuori controllo.

Intervenire o non intervenire? Scendere in campo manu militari per cercar di riportare l’ordine, o restare alla finestra? Questo è il dubbio tremendo che attanaglia la leadership russa, di fronte a una scelta che rischia di essere disastrosa qualunque sia la soluzione scelta.

Restare fermi e non fare nulla, mentre la violenza dilania un paese che si considera stretto alleato, che ospita una importante base militare russa, che ha recentemente cambiato (e sanguinosamente) regime proprio su ispirazione di Mosca, sarebbe una sconfitta terribile.

Non c’è solo l’aspetto “morale”, della lealtà verso uomini e istituzioni che confidavano nell’aiuto russo e che in queste ore lo stanno disperatamente reclamando: c’è anche il possibile, se non probabile, allargamento dell’incendio anche a paesi vicini e a loro volta alleati di Mosca come il Kazakhstan e soprattutto l’Uzbekistan – in altre parole la passività russa di fronte alla tragedia kirghiza rischia di dare un colpo mortale alla tradizionale amicizia fra la Russia e i regimi centroasiatici, che ovviamente non si sentiranno più protetti dal potente vicino.

Dall’altro lato, intervenire mandando truppe russe in Kirghizstan per “ristabilire la pace” – cioè per sostenere il nuovo e pericolante regime guidato da Roza Otunbaeva – non può non evocare in tutta la Russia, dal presidente all’ultimo contadino, il fantasma dell’Afghanistan e insieme quello, non meno spaventoso, della Cecenia.

Mandare truppe in un montagnoso e remoto paese islamico in preda alla violenza dev’essere l’ultima delle cose che un dirigente o un qualunque cittadino russo possono oggi auspicare.

E, dopo le lezioni apprese sulla propria pelle (nonché quelle che europei e americani stanno apprendendo oggi in Afghanistan) dev’essere molto chiaro al Cremlino che una volta partite le truppe, ogni fantasia di “intervento limitato” è destinata a sparire rapidamente in una voragine mortifera.

Per questo i leader russi stanno disperatamente cercando una via d’uscita “terza”. C’è chi sollecita un intervento multinazionale, in cui la Russia sia sì presente ma solo come partner di un corpo di spedizione internazionale, magari sotto mandato delle Nazioni unite; c’è chi spera di convincere gli uzbeki a intervenire loro in proprio – visto che al centro della violenza interetnica c’è proprio la minoranza uzbeka che vive nelle aree meridionali del Kirghizstan; c’è soprattutto chi pensa che forse si potrebbe dare una mano al nuovo regime di Bishkek con soldi armi e i classici “consiglieri militari”, perché se la cavi da solo usando la mano forte…

Le ricette sono molte, e chiaramente nessuna appare convincente, vuoi perché richiede troppo tempo (la spedizione internazionale a targa Onu o simili), vuoi perché rischia di accendere un conflitto peggiore (affidare il lavoro sporco all’Uzbekistan di Islam Karimov).

Tanto per mettere le cose in chiaro, Karimov ha già fatto chiudere la frontiera per respingere le decine di migliaia di profughi uzbeki in fuga da Osh e Jalal-Abad (e quei 40-45mila che sono riusciti a passare prima della chiusura rischiano di finire male…).

Se ci sarà da agire, l’Uzbekistan lo farà senza mettersi i guanti bianchi. Per giunta sulla scena sono presenti anche gli Stati uniti, che in Kirghizstan hanno una base aerea molto importante per la loro guerra in Afghanistan e che quindi sono estremamente preoccupati per gli avvenimenti in corso ma, proprio per via del loro impegno afghano, ancor meno dei russi possono permettersi di fare mosse azzardate.

Oggi Dmitrij Medvedev ha definito “intollerabile” la situazione in Kirghizstan, e una riunione ministeriale dei paesi del Patto di sicurezza collettiva russo-centroasiatico ha detto che bisognerà usare “tutto l’arsenale dei mezzi disponibili” per riportare la tranquillità nel paese sconvolto. A ore dovrebbe esserci anche un summit con i presidenti dei paesi del Patto, che dovrebbero decidere operativamente qualcosa. Purtroppo non c’è da essere molto ottimisti.