venerdì 25 giugno 2010

G20: un altro flop all'orizzonte

Domani a Toronto comincia il G20 ma i nodi da sciogliere sono tanti e la prospettiva di un altro fallimento è già all'orizzonte.

Le divergenze, in particolare tra Usa e Ue, sono infatti consistenti. I primi ad esempio chiedono più stimoli all'economia mentre la seconda - con in testa Francia e Germania - punta più sul risanamento dei bilanci e il consolidamento dei conti attraverso politiche di austerity.

Idem dicasi per la tassa sulle banche o le transazioni finanziarie. Gli Usa, ma anche Cina e Brasile, sono contrari e la stessa Ue è divisa in proposito.

Un altro flop sembra scontato, mentre la crisi economica continua ad imperversare, come e più di prima, senza serie misure di contrasto. Anzi...


Arriva il G20 ma è un dialogo tra sordi. Torna la paura della bancarotta greca
di Federico Rampini - La Repubblica - 25 Giugno 2010

Gelo tra Usa ed Europa. Giù le Borse anche per i debiti di Madrid e Lisbona. Mentre gli americani criticano la Merkel per la politica restrittiva

"Ora che hai cominciato a usare Twitter possiamo finalmente sbarazzarci del telefono rosso d'emergenza tra la Casa Bianca e il Cremlino". Barack Obama apre così la conferenza stampa congiunta con il suo omologo russo Dmitry Medvedev. Reduce, quest'ultimo, da una visita nella Silicon Valley californiana a caccia di investimenti nelle tecnologie avanzate.

E' singolare che il presidente americano riservi alla Russia il solo incontro bilaterale che precede la partenza per il G20 per Toronto. Altra anomalìa: l'unico vero regalo a Obama, in una settimana per lui catastrofica (tra Bp e generali indisciplinati), glielo ha offerto il leader cinese Hu Jintao avviando un rafforzamento della sua moneta. E i vecchi amici europei dove sono finiti?

"Qualsiasi parvenza di unità del G20 è già un ricordo". Il bilancio impietoso, alla vigilia del summit mondiale, lo traccia uno sherpa che di vertici ne ha preparati molti, l'americano Dan Price. "Nessun altro G20 - aggiunge Price - è stato preceduto da così tante lettere in cui i leader si accusano reciprocamente e puntano il dito contro gli errori altrui".

Prima ancora di cominciare, il G20 è già finito? Questa formula che ha sostituito il G8 non è più efficiente del predecessore. Le geometrie del potere planetario cambiano troppo velocemente, nessun "guscio" di global governance è riuscito finora ad esprimerle.

Sulla crescita economica, le regole della finanza, l'ambiente, l'energia, la lotta alla proliferazione nucleare e al terrorismo, c'è una geometria variabile di "cerchi". Le potenze che contano, quelle che sono presenti in tutti i cerchi, non sono le stesse del passato. Venti membri sono troppi, soprattutto se gli europei non parlano con una voce sola.

C'è anche una ragione positiva per cui il summit di questo weekend è stato svuotato in anticipo di aspettative. E' la decisione della Cina di avviare un graduale rafforzamento della moneta, il renminbi o yuan. Pechino ha accolto una richiesta americana e ha tolto dall'agenda di Toronto una potenziale controversia. La Repubblica Popolare, guidata da un governo che continua a definirsi comunista, sta dimostrandosi un partner giudizioso per Obama.

Per quanto graduale, l'apprezzamento del renminbi va nella direzione desiderata: aumenta il potere d'acquisto cinese e in prospettiva la domanda di prodotti e servizi occidentali. Il gesto di Hu Jintao fa sentire gli americani ancora più distanti dall'Europa.

Con il vecchio partner atlantico le incomprensioni sono superiori a quelle che dividono Washington da Pechino? Sembra incredibile ma sul terreno economico è vero. Alla vigilia del G20 la "guastafeste" per eccellenza è Angela Merkel. Alla Germania, Obama rivolge una richiesta analoga a quella che ha fatto ai cinesi.

E' una richiesta coerente con le analisi del Fondo monetario internazionale. I macro-squilibri dell'economia mondiale possono riassumersi così: ci sono paesi che hanno vissuto al di sopra dei loro mezzi, creando debiti insostenibili e bolle finanziarie. L'America è il primo fra questi. Ora gli americani hanno iniziato a sanare lo squilibrio: la propensione al risparmio delle famiglie è in netto aumento. Ma perché questo non si traduca in un effetto depressivo, altri paesi devono fare la loro parte.

Le nazioni che hanno vissuto "al di sotto" dei loro mezzi, esportando e risparmiando troppo, devono aumentare i consumi. Si tratta per l'appunto di Cina e Germania. E' impossibile aggiustare gli squilibri di una parte del mondo se l'altra metà non fa altrettanto in senso inverso.

E' assurdo che tutti i paesi simultaneamente vogliano uscire dalla crisi aumentando il loro attivo commerciale, a meno di riuscire a esportare su Marte. Ma la Merkel, facendosi interprete di un sentimento diffuso nell'opinione pubblica tedesca, vede l'economia sotto una prospettiva "etica", con i debiti identificati al "vizio" e il risparmio come la virtù assoluta.

Lo ha ribadito in un'intervista al Wall Street Journal dove respinge al mittente le richieste di Obama, quasi fossero un'eresìa. "Non è interesse di nessuno - ha detto la Merkel - ridurre la competitività tedesca".
Secca la replica della Casa Bianca: "E' nell'interesse della crescita europea e mondiale, che i paesi in attivo aumentino la loro domanda interna".

Berlino e Parigi vogliono la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, Washington no. Altro che la Bretton Woods 2 per rifondare le regole dei mercati, di cui si favoleggiava ai G20 precedenti.

Oggi si assiste a un dialogo tra sordi tra le due sponde dell'Atlantico. L'incomprensione s'inserisce in un contesto ancora preoccupante. A poche ore dal summit, l'economia globale manda nuovi segnali di pericolo. I mercati tornano a temere una bancarotta della Grecia (dove la Borsa ha chiuso a meno 4,1%), e il costo dei credit default swaps (contratti assicurativi contro l'insolvenza) schizza al rialzo.

Preoccupa anche la nuova impennata dei debiti in Spagna e Portogallo. Le Borse europee, ieri fortemente in ribasso, penalizzano i titoli bancari perché gli istituti di credito sarebbero i primi ad affondare se qualche Stato diventasse insolvente.

In America le vendite di case negli Usa sono crollate del 33% non appena è scaduto il generoso incentivo fiscale: è una conferma di quanto la ripresa sia ancora dipendente dal sostegno pubblico.

Sintomatico è il commento dell'ufficio studi Deutsche Bank: "Così come il mercato immobiliare americano è appeso al sostegno statale, il sistema bancario europeo dipende dagli aiuti della Bce. E' ancora capitalismo questo?"

La domanda accresce il senso d'inadeguatezza del G20. Insieme con la frustrazione di Washington verso l'Europa, si rafforza il peso di modelli alternativi. Il capitalismo di Stato cinese, con una forte capacità di dirigismo pianificatore, ha retto meglio alla crisi. Pechino diventa il perno di nuove alleanze che bypassano le geometrie dei vari G8 e G20.

La Cina ha superato gli Usa come principale partner del Brasile. Quest'ultimo, a sua volta, si afferma come una vera potenza con una politica estera autonoma: sul dossier nucleare iraniano le iniziative del Brasile hanno spiazzato Washington.

Su ambiente, energia, terrorismo, interlocutori come Russia, India, Arabia saudita, pesano più di Italia e Francia. Nei cerchi che illustrano le nuove gerarchie post-G20, l'America vede sempre meno Europa.


Ecco perchè non credere a chi dice che la crisi è finita
di Lorenzo Torrisi - www.ilsussidiario.net - 25 Giugno 2010

Il Centro Studi Confindustria ha diffuso ieri dati che sono rimbalzati sulle agenzie di stampa con toni trionfalistici: “L’Italia è fuori dalla recessione”. Gli economisti di Viale dell’Astronomia prevedono infatti che il Pil nel 2010 crescerà dell’1,2% (contro la precedente stima dell’1,1%) e l’anno prossimo dell’1,6% (contro il precedente 1,3%).

Tutto questo mentre il Governo vara una manovra che avrà un effetto restrittivo sulla crescita, stimato dagli esperti di Confindustria in un -0,4% annuo. A favorire questa crescita l’apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro. Ma attenzione, perché oltre a un aumento dell’evasione fiscale, i dati diffusi prevedono anche un incremento della disoccupazione.

Il quadro complessivo sembrerebbe tutto sommato positivo, ma non per Luigi Campiglio, Prorettore dell’Università Cattolica di Milano e docente di Politica economica, che spiega: “In questi dati vedo solo un appello ottimista agli animal spirits imprenditoriali”.

Perché Professore?

Gli ultimi dati sull’Italia dicono che: a) la disoccupazione aumenta; b) i consumi diminuiscono, in particolare quelli alimentari; c) l’inflazione cresce. Tutto questo non è certo positivo. Va bene dare slancio ottimistico, ma non si può parlare di uscita dalla recessione quando la disoccupazione continua ad aumentare. Il più importante segno robusto di crescita, di uscita dalla crisi, è infatti l’aumento dei posti di lavoro. Il resto sono solo buoni auspici.

Ma siamo o non siamo usciti dalla recessione?

Siamo tecnicamente fuori dalla recessione, come anche gli Stati Uniti, perché le variazioni del Pil non sono più negative. Ma parlando con gli americani, anche loro sanno bene che si esce realmente dalla recessione quando tornano ad aumentare i posti di lavoro. Il timore che tutti hanno ora è, non a caso, la jobless recovery.

Di che cosa si tratta?

Della ripresa senza la creazione di nuovi posti di lavoro. Che questo accada per un po’ (due-tre trimestri) è inevitabile, ma ora si ipotizza che possa andare avanti per tutto il 2011 e questo non è certamente un segnale di uscita dalla recessione. Possiamo dire semmai di aver raggiunto forse il fondo del precipizio e che ora possiamo iniziare una risalita (che vogliamo chiamare ripresa), che impiegherà diverso tempo, verso il punto da cui siamo caduti.

È possibile che il Pil cresca oltre le aspettative proprio quando entrerà a regime in Italia una manovra restrittiva?

Se le cose andranno veramente così, si tratterebbe del primo caso dall’inizio degli anni ’90, quando cioè eravamo solo noi italiani a varare manovre restrittive. Non vedo però per quale motivo dovrebbe accadere proprio ora, quando tutti i paesi europei stanno varano misure restrittive. Data questa simultaneità di azione, i risultati potrebbero essere pesanti. È vero che si teorizza che un’azione coordinata per il contenimento dei debiti pubblici sia un bene per l’economia, ma si tratta anche di una situazione obiettivamente e storicamente nuova. Gli esiti che ne deriveranno potrebbero quindi non essere quelli sperati.

Come possiamo allora arrivare alla ripresa dell’occupazione?

La risposta non è per nulla semplice, perché servirebbe ulteriore crescita economica, che, data la nostra dipendenza dall’export, potrebbe essere frenata dalle manovre restrittive europee. Una via d’uscita sarebbe un aumento della domanda interna tedesca, che farebbe comodo ad altri partner europei come noi. Il problema è che la Germania, dal canto suo, aspetta la crescita in Cina, su cui però hanno messo gli occhi anche gli Stati Uniti. Ci ritroviamo in una situazione simile a quella che abbiamo internamente sui tagli orizzontali contenuti nella manovra.

In che senso?

Coordinare i tagli non vuol dire togliere il 5% a tutti, ma una capacità di differenziare le misure in maniera tale che l’economia ne risenta il meno possibile, anzi magari ne possa trarre qualche beneficio. La stessa cosa vale per l’Europa: non è che tutti debbano fare lo stesso sacrificio nello stesso momento, nella stessa misura. Non perché uno stato sia più meritevole dell’altro, ma perché il risultato netto a livello europeo può essere molto differente.

Il problema è quindi di coordinamento delle politiche economiche?

Assolutamente. Muovendosi tutti verso il rigore, in attesa che sia un altro paese quello disposto ad “aprire alle importazioni”, non si creano le condizioni per crescere. Ecco, se la Germania, che ha la vera leadership europea (per dimensione e per opportunità di mercato), non deprimesse la propria domanda interna, allora potrebbe davvero diventare non dico la locomotiva mondiale, ma almeno un motorino europeo.

In alcuni paesi europei si discute dell’opportunità di introdurre una tassa sulle banche. Cosa ne pensa?

Non è ancora ben chiaro dove si voglia incidere, che cosa voglia dire concretamente tassare le banche. Mi pare comunque che la cosa più importante sarebbe introdurre più controlli, più verifiche sul sistema finanziario. L’idea non deve essere “facciamo pagare il conto alle banche”, ma “cerchiamo di trovare il modo perché non si crei una nuova crisi”. Bisogna risolvere il problema alla radice, altrimenti tutto rischia involontariamente di trasformarsi in un modo per mettere fieno in cascina in vista della prossima crisi. Quando forse tutti in realtà vorremmo che non ci fosse un’altra crisi.


La Grecia mette in vendita le sue isole

di Enrico Caporale - La Stampa - 25 Giugno 2010

La crisi che morde, l'Europa che pressa, i cittadini che protestano. Certo, la Grecia sta attraversando uno dei periodi più bui della propria storia. Ma vendere il proprio partimonio più grande, le splendide isole dell'Egeo, culla della civiltà, ai ricchi investitori di Russia e Cina è davvero la scelta giusta?

E' questa infatti l'ultima trovata del governo ellenico per saldare i pesanti debiti. All'asta, secondo quanto racconta il Guardian, circa 600 piccoli paradisi. Tra le offerte, oltre a disabitati atolli nel cuore del Mediteranneo, anche parte delle più famose mete turistiche d'Europa, come Mykonos e Rodi.

Il prezzo? Milioni di milioni di dollari, verrebbe da sperare. Purtroppo no. Chi possiede 15 milioni può acquistare i 1235 acri della splendida Nafsika. I più poveri, però, non si disperino. Con "appena" 2 milioni, il prezzo di un appartamento a Chelsea Town, si possono trovare isole di seconda scelta. Forse un po' fuori mano, sicuramente abitate da pericolosi mostri marini, ma in ogni caso incantevoli.

Con questi prezzi, ovviamente, si sono già fatti avanti i primi investitori. Molti provengono dalle economie emergenti di Russia e Cina. Stanchi del freddo, i magnati cercano un po' di svago sul caldo e assolato Mediterraneo. Tra loro, nonostante le smentite, anche il plurimiliardario Roman Abramovich.

«Sono molto dispiaciuto» - dice Makis Perdikaris, direttore del Greek Island Properties - «Vendere la terra che da sempre appartiene alla popolazione greca dovrebbe essere davvero l'ultima spiaggia. Ma ora è più importante l'economia. Il Paese ha bisogno di soldi».

Nel frattempo il governo sta pensando di cedere agli stranieri anche le aziende produttrici di acqua e la rete ferroviaria. Poche settimane fa è stato inoltre annunciato un accordo con Pechino per esportare in Cina l'olio di oliva.

«Capisco che è una cosa vergognosa» - lamenta Gary Jenkins, analista dello sviluppo del credito. Certo quest'ultima mossa non renderà felice la popolazione, già ampiamente delusa dal piano di austerità dei mesi scorsi «ma quantomeno - conclude lo studioso - dimostra che la Grecia sta facendo il possibile per onorare i propri impegni».


Quei soldi maledetti

di Giovanni Sartori - Il Corriere della Sera - 25 Giugno 2010

L’ultima stima di qualche anno fa che ho sott’occhio contabilizza il Pil, il Prodotto interno lordo, del mondo in 54 trilioni di dollari, mentre gli attivi finanziari globali risultano quattro volte tanto, di addirittura 240 trilioni di dollari.

Oggi, con i derivati e altre furbate del genere, questa sproporzione è ancora cresciuta di chissà quanto. E questa sproporzione non solo è di per sé malsana ma modifica la nozione stessa di sistema economico, di economia.

Semplificando al massimo, da un lato abbiamo una economia produttiva che produce beni, che crea «cose», e i servizi richiesti da questo produrre, e dall’altro lato abbiamo una economia finanziaria essenzialmente cartacea fondata su vorticose compravendite di pezzi di carta.

Questa economia cartacea non è da condannare perché tale, e nessuno nega che debba esistere.
Il problema è la sproporzione; una sproporzione che trasforma l’economia finanziaria in un gigantesco parassita speculativo la cui mira è soltanto di «fare soldi », di arricchirsi presto e molto, a volte nello spazio di un secondo.

Gli economisti «classici » facevano capo all'economia produttiva; oggi i giovani sono passati in massa all’economia finanziaria. È lì, hanno capito, che si fanno i soldi, ed è in quel contesto che l’economia come disciplina che dovrebbe prevedere, e perciò stesso prevenire e bloccare gli errori, si trasforma in una miriade dispersa di economisti «complici» che partecipano anch’essi alla pacchia.

È chiaro che in futuro tutta la materia dell’economia finanziaria dovrà essere rigorosamente regolata e controllata. Ma anche l’economia produttiva si deve riorientare e deve cominciare a includere nei propri conti le cosiddette esternalità.

Per esempio, chi inquina l’aria, l’acqua, il suolo, deve pagare. Vale a dire, tutto il sistema di incentivi va modificato. La dissennata esplosione demografica degli ultimi decenni mette a nudo che la terra è troppo piccola per una popolazione che è troppo grande.

Ma anche su questa sproporzione gli economisti non hanno battuto ciglio. Anzi, per loro stiamo andando di bene in meglio, perché tanti più bambini tanti più consumatori e tanti più soldi. Il loro «far finta di non ricevere», di non vedere, è così clamoroso da indurre Mario Pirani a chiedersi (su Repubblica) se gli economisti abitino sulla terra o sulla luna. Io direi su una luna che è due volte più grande della terra.

Ma qui cedo la parola a Serge Latouche, professore alla Università di Parigi, economista eretico ma anche lungimirante. Latouche ha calcolato che lo spazio «bioproduttivo » (utile, utilizzabile) del pianeta Terra è di 12 miliardi di ettari. Divisa per la popolazione mondiale attuale questa superficie assegna 1,8 ettari a persona. Invece lo spazio bioproduttivo attualmente consumato pro capite è già, in media, di 2,2 ettari.

E questa media nasconde disparità enormi. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti; e se tutti vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei. La morale di questa storia è che già da troppo tempo siamo infognati in uno sviluppo non-sostenibile, e che dobbiamo perciò fare marcia indietro.

Latouche la chiama «decrescita serena». Serena o no, il punto è che la crescita continua, infinita, non è obbligatoria. Oramai è soltanto suicida.