lunedì 21 giugno 2010

Marea nera: un'apocalisse senza prezzo

Mentre Tony Hayward, l'amministratore delegato di BP, se la spassa ad una regata velica al largo dell'isola di Wight, il petrolio continua a fuoriuscire sempre più copioso nel Golfo del Messico.

Il deputato democratico americano Ed Markey ha infatti divulgato oggi un documento interno della BP dove si stima che la perdita di petrolio nel Golfo potrebbe raggiungere in realtà i 100.000 barili al giorno, pari a circa 16 milioni di litri, 40.000 in più rispetto a quelli ufficialmente stimati dalla compagnia petrolifera britannica.

Inoltre sempre oggi Tyrone Benton, un operaio della piattaforma Deepwater Horizon sopravissuto all'incidente, ha rivelato alla Bbc che BP sapeva che c'erano delle falle nel sistema di sicurezza e non le ha riparate. Il sistema di sicurezza difettoso fu semplicemente chiuso e si fece affidamento su un secondo sistema.

Ma ripararlo, invece di attivarne un'altro, avrebbe significato un'interruzione temporanea dell'attività di trivellazione sulla piattaforma, che costava alla BP circa 400mila euro al giorno. E non è stato fatto nulla, ovviamente...

Il superiore di Benton avrebbe anche informato via e-mail sia la Bp che la Transocean, compagnia proprietaria della piattaforma e quindi responsabile della manutenzione di quell'attrezzatura, delle falle appena scoperte. Ma come è noto la Transocean prima dell'incidente del 20 aprile scorso aveva dichiarato di aver testato il sistema con successo.

Comunque sia, si sta assistendo ad un'apocalisse ambientale senza pari con BP e l'amministrazione Obama che si affidano al cielo per riuscire ad arginare completamente la fuga entro il prossimo agosto.

Quindi altri due mesi di petrolio in mare, sempre che riescano a bloccare definitivamente la perdita. Perchè in caso di fallimento le conseguenze ambientali sono semplicemente incalcolabili, dal momento che secondo gli esperti il pozzo ha una riserva stimata in 50 milioni di barili e, con una fuga di circa 60.000 barili giornalieri pari a circa 9 milioni e mezzo di litri, potrebbe continuare a perdere petrolio per un periodo che va dai due ai quattro anni.

E non basteranno certo nè i 20 miliardi di dollari già stanziati da BP nè gli eventuali altri 30 che BP avrebbe intenzione di sborsare per risarcire i danni. Un'apocalisse del genere non ha prezzo.


Il business nascosto sotto la macchia di petrolio Bp
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 18 Giugno 2010

Nella rubrica di oggi potevo parlarvi di Borsa, volatilità, crisi del debito, collocazione di bonds governativi e quant’altro: lo abbiamo fatto fino a oggi, riprenderemo a farlo dalla settimana prossima.

Quest’oggi parliamo della marea nera scatenata dal guasto all’impianto di British Petroleum nel Golfo del Messico, una tragedia ambientale che da settimane riempie pagine di giornali e le headlines dei principali tg.

Per una volta non sembrano esserci dubbi nell’identificazione di buoni e cattivi: i primi sono i dirigenti della Bp, il secondo è Barack Obama che, dopo aver promesso di prendere a calci nel sedere i responsabili e passato ore a parlare con i pescatori della Louisiana, ieri ha mostrato una faccia ancor più dura.

I vertici dell’azienda petrolifera britannici, infatti, sono stati accolti con freddezza glaciale alla Casa Bianca e nonostante abbiano dato l’ok all’esborso di 20 miliardi di dollari per ripagare i danni causati, si sono sentiti rispondere dal numero uno della Casa Bianca che quella cifra «non rappresenta il tetto massimo». Ovvero, preparatevi a scucire molto altro denaro, ormai siete sotto scacco non mio ma dell’intero pianeta che vi odia a morte.

Sembra il film “Wag the dog”, una creazione mediatica straordinaria. Sono bastate, infatti, le immagini di quattro pennuti con le ali impiastrate di greggio e tre interviste ad altrettanti esperti pronti a proclamare la morte dell’oceano, per chiudere completamente gli occhi del mondo al molto altro che sta dietro alla vicenda che vede prootagonista la piattaforma Deepwater Horizon.

Lasciate stare che il paladino del mondo, ovvero Barack Obama, non più tardi di quattro mesi fa aveva autorizzato trivellazioni offshore anche nel “giardino delle rose” della Casa Bianca per non dipendere più dalla bizze ricattatorie dell’Opec e della speculazione otc sui futures, salvo ora trasformarsi nel Fulco Pratesi di turno, il problema è altro: che quell’incidente sarebbe accaduto lo si sapeva da mesi e mesi, era questione di tempo.

Anzi, di timing visto che le implicazioni sono anche - e forse soprattutto - economche e finanziarie: prima delle quali, uccidere Bp, renderla scalabile e ottenere a prezzo di saldo le sue attività estrattive.

Cominciamo dal principio. La Deepwater Horizon, carta canta nei documenti ufficiali, è stata classificata fin dall’inizio della sua attività un progetto potenzialmente soggetto ai cosiddetto “low probability, high impact event”, classificazione che vede tra gli altri incidenti occorsi l’11 settembre, l’esplosione dello Shuttle e l’uragano Katrina: come per questi casi, l’ipotesi di “worst case scenario” è stata completamente ignorata. Con dolo o meno, lo scopriremo dopo.

Cosa è accaduto, quindi? Due sono le paroline magiche, “blowout preventer”, ovvero un meccanismo meccanico che fisicamente deve evitare possibili fuoriuscite di petrolio: nel caso della Deepwater Horizon, entrambi questi aggeggi, uno attivato manualmente e uno di back-up automatico, hanno fatto cilecca.

Quando accadono incidenti di questo genere, ci dice Robert Bea, docente di Ingegneria alla University of California, le responsabilità si diramano in tre direzioni o filiere: i lavoratori della piattaforma, il cosiddetto “errore umano”, le gerarchie dell’azienda per cui questi operai lavorano e le burocrazie governative che sovraintendono i lavori, ovvero i cosiddetti controllori o regolatori.

Bea, dopo aver lavorato su una casistica di circa 600 incidenti in strutture estrattive, ha concluso che nell’80% dei casi le responsabilità sono imputabili a «fattori umani e organizzativi» , a loro volta all’interno di questa percentuale la metà fa capo a carenza nel design ingegneristico della struttura riguardo l’equipaggiamento o i processi estrattivi. Per Bea, quanto accaduto ha molto a che fare con l’uragano Katrina, «un misto di hubris, arroganza, ignoranza combinato con l’azzardo della natura».

“Maledetti, avidi inglesi perforatori!”, gridano in tutto il mondo. Peccato che la Bp sia solo corresponsabile, visto che nel caso della Deepwater Horizon ci troviamo di fronte a un classico caso di frammentazione delle responsabilità: la piattaforma è un’operazione di British Petroleum ma quest’ultima ha ottenuto il leasing della struttura dalla Transocean e i lavori, fattivi, quando l’incidente è accaduto erano in mano alla Halliburton, potentissima azienda statunitense che vede ai vertici una vecchia volpe della politica statunitense come Dick Cheney, braccio destro dell’ex presidente Usa, George W. Bush e uomo potentissimo per quanto riguarda la questione petrolio.

Il fatto è che questi tre soggetti hanno interessi diversi rispetto non solo alla Deepwtare Horizon ma all’intero processo operativo: Bp è interessata all’accesso alle risorse di idrocarburi per mandare avanti le sue raffinerie e la rete di distribuzione.

Halliburton offre invece servizi sul campo, ovvero operativi. Transocean, infine, opera come un taxi: insomma, diversi obiettivi e quindi diversi processi operativi. Peccato che, in pasto all’opinione pubblica, sia stata data solo Bp.

Per Andrew Hopkins, un sociologo della Australian National University, quanto accaduto «è simile a quanto successo con la crisi finanziaria. I grandi manager ricevono enormi bonus per rischi presi quest’anno o l’anno scorso, il problema, i rischi reali, per tutti, arriveranno nelle case di tutti anni dopo».

Non la pensavano così negli Usa, nemmeno nell’epoca Obama (abbia già ricordato la sua decisione della scorsa primavera di trivellare l’Alaska senza tante precauzioni), visto che le decisioni governative riguardo le piattaforme estrattive si sono basate sempre sul principio del “tanto non succederà nulla”.

Chi deve controllare e sovraintendere è il Minerals Management Service (MMS), una divisione dell’Interior Department, il quale dagli anni Ottanta in poi ha basato i suoi check riguardo l’operatività delle strutture su un principio unico: esenzione.

Ovvero, nessun controllo sull’impatto ambientale delle varie aziende e strutture operanti: si opera sub judice e via così, a certificarlo con una denuncia molto circostanziata è stato non il sottoscritto ma Holly Doremus, professor di legislazione ambientale ad Harvard.

Nel silenzio degli altri media, troppo occupati a mostrare immagini catastrofiche e volontari al lavoro, Washington Post e Associated Press hanno certificato e scritto che la Deepwater Horizon aveva ottenuto una nuova esenzione (in gergo tecnico “Categorical exclusion”) lo scorso anno: su cosa si basava questa certezza operativa, questo ennesimo nulla osta?

Calcoli empirici pubblicati nel 2007 in base ai quali la “most likely size”, la quantità più probabile di petrolio che si sarebbe riversata in mare in caso di incidente, sarebbe stata pari a 4.600 barili. Peccato che nel Golfo del Messico, a oggi, siamo sopra quota 80mila barili riversati: complimenti ai controllori e regolatori, oltre a chi stava operando in quel momento sulla piattaforma!

Già, perchè se come sembra l’errore è stato umano e dovuto alla non attivazione dei due “blowout preventers”, perché la Casa Bianca non si è infuriata con la potente e statunitense Halliburton, in carico operativo sulla struttura?

Chiedetelo al presidente che minaccia calci nel sedere ma si guarda bene dal toccare interessi nazionali più grandi di lui: e forse, così facendo, capirete anche la stizza malcelata del premier britannico, David Cameron, per il crucifige generale ed esclusivo contro Bp.

Colmo dei colmi, ieri Washington ha annunciato un’inchiesta federale sull’accaduto: e a chi sarà affidata? Allo stesso MMS, l’ente dall’esenzione facile. Come ha dichiarato ancora Andrew Hopkins, «la MMS è il regolatore e un fallimento della regolamentazione è parte di questo disastro. Quindi, MMS sta per investigare su se stessa. Direi che è quantomeno totalmente inappropriato».

Pensate il quadro sia già sufficientemente esaustivo da rimettere un po’ in discussione il can can mediatico e politico di questo periodo? Sbagliate. Il bello arriva ora e potete desumerlo da questa tabella. (http://moneycentral.msn.com/ownership?Holding=Institutional+Ownership&Symbol=BP )

Al 31 marzo di quest’anno, come sempre, Thomson Reuters ha reso noto l’assetto proprietario di Bp dopo il primo trimestre dell’anno: mancava poco all’incidente, proprio poco e guardate un po’ chi ha scaricato 4.680.822 di azioni di British Petroleum per un valore di 250 milioni di dollari e pari al 44% del totale?

Goldman Sachs, banca d’affari legata a doppio filo a Washington e all’establishment politico e soprattutto unica banca d’affari che fa soldi quando gli altri perdono: loro non si scottano mai le dita.

Perchè sono i più bravi, questo è innegabile e va detto per evitare di scadere nel complottismo: certo, il fatto che quella piattaforma fosse a rischio lo certificava l’MMS con le sue esenzioni, certo il fatto che le azioni di Bp siano crollate è altrettanto vero - se le avesse tenute, Goldman avrebbe perso il 36% del loro valore - ma non sono quelle “briciole” a far paura a un gigante come la firm newyorchese: il danno è reale, le responsabilità diffuse ma veicolandole in modo giusto e nascondendo alcune di esse, magari Bp diviene scalabile e le sue attività acquisibili.

Ma non solo Goldman ha magicamente scaricato le azioni di Bp giusto in tempo: Wachovia ne ha vendute 2.667.419 e Ubs qualcosa come 2.125.566. Ripeto non è il numero di azioni o il controvalore a dover far riflettere ma il timing: ma come, Obama dà luce verde a trivellazioni offshore ovunque e soggetti del genere escono dal business? Strano.

In compenso, qualcuno ha comprato. Chi? Ad esempio Wells Fargo, acquirente di 2.398.870 azioni: strano però, visto che Wells Fargo è proprietario della “scaltra venditrice” Wachovia. Puzza di partita di giro, almeno al sottoscritto.

E chi altro? La Fondazione Melinda e Bill Gates, quella patrocinata dal signor Microsoft e il Wellington Management, una grande asset firm: bella fregatura hanno preso, almeno formalmente.

Il fatto strano è che a metà marzo, prima della vendita, il sito di ricerche di mercato Morningstar, quotava le azioni di Bp con un rating di tre stelle su cinque, quindi fomalmente appetibile: Goldman Sachs, per una volta, aveva sbagliato la scelta ed è stata “salvata” dall’incidente? No, perché nella descrizione del titolo, Morningstar elencava solo le debolezze di Bp, ovvero «la minore integrazione di Bp rispetto a Shell o ExxonMobil, le fluttuazioni del prezzo del petrolio, potenziali perdite dovute a rischi politici, soprattutto la forte esposizione in Russia (il consorzio Tnk-Bp, terzo gruppo petrolifero del paese, con 100mila occupati e la brutta idea di voler mettere i bastoni tra le ruote a Gazprom che ha portato con sé l’espulsione del presidente del gruppo, la presa di ostaggi tra gli operai da parte del governo di Mosca e altre manifestazioni democratica di amore per la concorrenza, ndr)».

E, infine, il meglio: «Spaccature causate da limiti ambientali e operativi potrebbero ulteriormente limitare il potenziale di guadagno». Accidenti, o portano sfiga o sono dei portenti questi di Morningstar!

Peccato, poi, che in febbraio altri analisti di Morningstar, in una nota separata, avevano invece salutato come un portento il risultati presentati da Bp nel quarto trimestre dello scorso anno dicendosi «incoraggiati dai continui guadagni grazie a nuovi progetti e tagli dei costi».

Come cambiano le cose, in pochi giorni! Un bel quadretto, non c’è che dire. Ora, il disastro ambientale, immane, resta ma non fatevi abbindolare dalla faccia contrita di Barack Obama mentre parla con i pescatori o dalle immagini di pennuti con le ali intrise di petrolio: dietro a quanto sta accadendo c’è molto di più, responsabilità molto diffuse e in alto e soprattutto interessi.

Lo certificava il 2 giugno scorso il sito di Bloomberg, gente che di mercati ne sa qualcosa: «Bp a rischio poiché il crollo delle azioni alimenta le voci di scalata», aggiornato addirittura quattro volte in un solo giorno.

Chissà che a ExxonMobil, principale concorrente di Bp negli Stati Uniti, qualcuno non ci stia pensando, visto l’improbabile scalata di Shell, che già nel 2004 doveva fondersi con British Petroleum: con tutte quelle azioni vendute o passate di mano a soggetti così fedeli alla Casa Bianca e agli interessi, leggittimi, degli Usa...


Golfo del Messico: verso la legge marziale?
di Tom Bosco - www.nexusedizioni.it - 20 Giugno 2010

La preziosa testimonianza del coraggioso giornalista e documentarista James Fox dalla Lousiana tratteggia uno scenario degno dei nostri peggiori incubi: è in corso una vasta operazione, apparentemente (e illegalmente, aggiungerei) gestita dalla stessa BP insieme, pare, alla Chevron, attorno alla quale è stata stesa una cortina di protezione quasi impenetrabile.

È impossibile avvicinarsi alle zone del disastro, o parlare con qualcuno degli addetti alle operazioni, vincolati al segreto più totale. Nessuno può filmare o fotografare nulla (pena la confisca degli apparecchi), lo spazio aereo sopra la chiazza è stato virtualmente chiuso (quindi non è possibile effettuare riprese dall'alto che aiutino a capire la situazione) e sono state segnalate truppe in pieno assetto da combattimento nonché l'arrivo presso l'aeroporto militare di Jacksonville di un gran numero di veicoli bianchi delle Nazioni Unite.

Tutto lascia ipotizzare che stia per essere dichiarato lo stato di emergenza con conseguente Legge Marziale. In altre parole, un altro insano passo avanti verso la realizzazione di un Nuovo Ordine Mondiale.

Il corexit, solvente usato in quantità industriali per dissolvere le chiazze di petrolio (e occultare in tal modo la magnitudine della catastrofe in corso) sta provocando danni enormi, non solo all'ambiente marino ma anche all'atmosfera, in numerose aree letteralmente velenosa. Qualcuno ritiene possa ricadere sotto forma di piogge tossiche, addirittura per anni! (1) Senza dimenticare il benzene:

Il petrolio ormai sembra fuoriuscire direttamente da alcune crepe sul fondo marino:

Questo video sembrerebbe confermare i timori espressi più di un anno fa da numerosi geologi, secondo i quali il fondo marino oggetto delle trivellazioni della BP è marcatamente instabile se non decisamente pericoloso a causa della presenza di un'enorme sacca sotterranea di gas metano, in pressione a 100.000 libbre per pollice quadrato (PSI), e date le premesse che l'incidente alla piattaforma Deep Horizon era un evento praticamente scontato, il quale ora ha messo in moto una catena di conseguenze irreversibili.

Due membri del Congresso, in un rapporto inviato all'amministratore delegato della BP, Tony Hayward, hanno affermato: "Sembra che la BP abbia continuato a prendere, una dopo l'altra, decisioni per risparmiare tempo e denaro che hanno aumentato il rischio di un'esplosione." Fatto sta che ora esiste il rischio concreto che dalle fessure sul fondo si formino enormi bolle di gas metano in pressione che risalendo alla superficie potrebbero devastare navi e piattaforme di trivellazione nella zona e uccidere un gran numero di persone.

Ma questo è ancora niente: lo scenario peggiore prevede che se queste bolle dovessero fratturare ulteriormente il fondo marino, si verificherebbe un'esplosione di una potenza assimilabile alla devastante eruzione di Mt Saint Helens, nel Pacifico nord-occidentale, avvenuta nel 1980.

Un enorme flusso di gas si farebbe strada attraverso chilometri di roccia sedimentaria, strato dopo strato, esplodendo con una pressione stimata di 50 tonnellate per pollice quadrato che squarcerebbe varie miglia di fondo marino con una detonazione gigantesca, uccidendo tutto ciò con cui entra in contatto e innescando un'ondata di tsunami quasi supersonica con velocità fra i 650 e 950 chilometri orari e alta oltre trenta metri. (2) Florida, Lousiana, Texas... devastazione totale, con decine, forse centinaia di migliaia di vittime.

Come ciliegina sulla torta, sembra che il petrolio che continua a fuoriuscire sia anche moderatamente radioattivo! (3) Apparentemente questo fattore è legato, guarda caso, proprio alla forte presenza di metano. (4)

Ho molto apprezzato una mail speditami appena rientrato dal Giappone dal mio amico e collaboratore Andrea Rampado, che occupandosi tramite la sua azienda Biokavitus di tecnologie di cavitazione e nanobolle mi ha segnalato una brillante soluzione per il recupero del petrolio nel Golfo del Messico proposta da una loro concorrente statunitense. Sono d'accordo con lui che la massima divulgazione dell'esistenza di queste soluzioni è vitale in situazioni come questa. Potete scaricare qui l'interessantissimo documento (in inglese).

Vi aggiornerò quanto prima sulla situazione, condendo il tutto con interessanti notizie su quanto sta accadendo al Sole...

Note:

  1. http://www.examiner.com/x-33986-Political-Spin-Examiner~y2010m6d17-North-America-facing-years-of-toxic-rain-from-poisonous-BP-oil-spill-dispersants

  2. http://www.helium.com/items/1864136-how-the-ultimate-bp-gulf-disaster-could-kill-millions; http://www.washingtonsblog.com/2010/06/bp-admits-that-if-it-tries-to-cap-leak.html

  3. http://www.rense.com/general91/glf.htm

  4. http://www.rense.com/general91/d2se.htm


Il grande bluff di Obama Bp paga, ma il greggio esce
di Marcello Foa - www.ilgiornale.it - 17 Giugno 2010

Parole, parole e ancora parole. Un tempo bastavano, ora non più. Barack Obama l'altra notte ha parlato della marea nera, rivolgendosi alla nazione, dallo Studio Ovale, nell'ora di massimo ascolto televisivo, come accade solo nei momenti solenni e drammatici per la nazione. Ma il discorso solenne non ha convinto nessuno. E allora ieri il presidente è stato costretto ad abbandonare la retorica.

La British Petroleum ha accettato di creare un fondo di ben 20 miliardi di dollari per risarcire le vittime della fuoriuscita di greggio, cominciata il 20 aprile e ancora in corso.

Venti miliardi sono tanti, più del previsto. E sono stati annunciati proprio alla Casa Bianca, dove in mattinata erano stati ricevuti i dirigenti della compagnia britannica al gran completo. Volti seri, contriti, hanno parlato per venti minuti con lo stesso Obama, poi, a pranzo, per novanta con il vicepresidente Joe Biden, mentre i legali delle due parti definivano gli ultimi dettagli. Nel pomeriggio l'annuncio.

A gestire i venti miliardi sarà un fondo indipendente gestito da Kenneth Feinberg, a cui fu affidato anche quello per le vittime dell'11 settembre.

La Bp non riesce ancora a turare la falla e dunque il problema continua ad essere irrisolto, ma perlomeno ora Obama può proclamare che i responsabili del disastro pagheranno per le loro negligenze e che coloro che hanno subito danni economici verranno in qualche modo ricompensati.

La Casa Bianca, accusata finora di compiacenza nei confronti della multinazionale britannica, può finalmente attribuirsi qualche merito e proiettare l'immagine che alla fine la Giustizia prevarrà. In teoria.

Restano infatti aperte molte questioni. Il premier britannico Cameron, che ormai è schierato apertamente dalla parte della Bp, ieri ha ricordato che i risarcimenti non potranno essere illimitati, pena il fallimento della società. Come dire: non pensate di rilanciare oltre i 20 miliardi.

L'opinione pubblica americana continua a essere insoddisfatta del modo in cui il governo ha affrontato l'emergenza, con punte di malcontento in Louisiana che ha dovuto subire sia l'uragano Katrina sia la marea nera. Ebbene, oggi gli abitanti di questo Stato ritengono che Obama si sia comportato peggio addirittura di George Bush ai tempi dell'allagamento di New Orleans.

Il tasso di approvazione del presidente in carica continua a calare. Solo il 24% degli elettori americani è molto soddisfatto del suo operato, mentre il 44% esprime un profondo disappunto. I delusi sono complessivamente il 57%. Cifra record.

L'annuncio di ieri aiuterà senz'altro Obama a recuperare qualche punto, ma non basterà a mutare il giudizio nei suoi confronti, che il discorso televisivo, aulico nei toni, ma evanescente nei contenuti, ha confermato.

Obama ha annunciato la nomina di uno «zar» per l'emergenza, ma senza attribuirgli grandi poteri e ha sollecitato l'America ad abbracciare la causa delle energie pulite, ma senza indicare soluzioni concrete. Il presidente più popolare è diventato il più retorico. Dallo Yes, we can si è passati al Maybe, we can, ovvero dal «Sì, si può fare», al «Si può fare, forse».

L'America ha scoperto la vera indole di Obama, che è quella del temporeggiatore, del mediatore riflessivo, sensibile alle pressioni delle lobby, refrattario ad agire sotto pressione e a prendere decisioni nell'emergenza.

Predilige i tempi lunghi, talvolta lunghissimi. Sono trascorsi quasi due mesi dall'incidente che ha provocato la falla nel pozzo petrolifero del Golfo del Messico e solo ora il Comandante in capo mette la Bp davvero di fronte alle proprie responsabilità.

Gli americani si chiedono, peraltro, perché le operazioni per chiudere quel maledetto buco nero siano rimaste ad appannaggio della Bp anziché affidate alla protezione civile e all'esercito, come sarebbe stato logico.

La risposta è implicita: fino a oggi Obama non è stato in grado di opporsi alle pressioni della lobby petrolifera, i cui interessi sono stati anteposti a quelli della nazione. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.


Germania: l’oro nero fatto in casa che non fa male alla Terra
di Bruno Picozzi - www.terranews.it - 18 Giugno 2010

Nel laboratorio del professor Willner dell’Università di scienze applicate di Amburgo si ottiene petrolio da una semplice centrifugazione di mais, orzo, gramigna, sterco, plastica usata e anche spazzatura.

Alambicchi, provette e misuratori di ogni tipo. Fa caldo nel laboratorio del professor Thomas Willner, responsabile di uno degli oltre 20 progetti di ricerca sulle fonti rinnovabili di energia sviluppati all’Università di scienze applicate di Amburgo.

Tre studenti mascherati di camici bianchi e occhiali protettivi si agitano davanti a macchine pulsanti e grafici incomprensibili, un piccolo imbuto infila dei semi in un contenitore trasparente pieno d’olio molto denso che viene mescolato e riscaldato a circa 350 gradi. Le molecole organiche si sciolgono e il vapore d’olio finisce in un tubo di raffreddamento dal quale gocciola un liquido scuro che viene raccolto in un vasetto di vetro

Quello è petrolio, ricavato non da invasive trivellazioni degli strati fossili ma da una semplicissima centrifugazione di mais, orzo, gramigna, sterco, plastica usata, spazzatura o chissà che altro. Qualsiasi materiale organico si trasforma in ricchezza attraverso la piccola macchina da scrivania, al ritmo di cento grammi di materia l’ora.

Indossiamo occhiali protettivi e andiamo a scoprire dietro a un paravento una macchina più grande e complessa che ingurgita un chilo di materia l’ora. Presto nel cortile all’esterno del laboratorio sorgerà una terza macchina con una capacità cento volte superiore.

Il passo successivo sarà la dimensione industriale. Chiediamo al professore se non sia un controsenso sforzarsi a produrre petrolio in un laboratorio finanziato per studiare le fonti rinnovabili. Au contraire, ci risponde.

«Questo combustibile non deriva dagli strati fossili ma dalla materia organica già presente sulla superficie terrestre per cui, bruciando, rimette in circolo esattamente la stessa quantità di gas assorbita dall’atmosfera».

È il principio delle biomasse applicato al petrolio “fatto in casa”, ecologico e rinnovabile all’infinito. E non solo! L’intero processo, così come è stato pensato, non produce alcun tipo di rifiuto. Come materia prima possono essere impiegati residui dell’industria alimentare o di falegnameria, erbacce o compost urbano. L’olio pesante si autorigenera e l’acqua viene usata in un circuito chiuso.

La piccola quantità di gas prodotta può essere raccolta e utilizzata per innescare il procedimento. Bisogna solo pulire il contenitore, di tanto in tanto, e comunque quel poco che resta non è materia tossica.

Il prodotto della ricerca sarà in commercio forse già tra cinque o dieci anni, ci dice Willner, con un sorriso leggermente diabolico e con evidente autocompiacimento. Noi ci aggiungiamo un forse, visto che la crescita della prima generazione di biocarburanti in Germania ha subito un forte stop nel 2007.

Fino allora trasformare prodotti agricoli in petrolio era sembrata una buona idea. Secondo i dati del ministero tedesco per l’Ambiente, l’Europa unita contava per un quinto del consumo totale di biocarburanti. Il settore era cresciuto di oltre il 23 per cento in un anno, nell’Unione, e la Germania vantava da sola metà del consumo.

I biocarburanti a loro volta rappresentavano il 2,4 per cento del consumo mondiale di carburante per trasporto automobilistico. Poi qualcuno improvvisamente ha realizzato che biodiesel ed etanolo sono ricavati rispettivamente da olio di semi e zucchero di barbabietola, ossia da prodotti alimentari, e ha cominciato a porre domande come: «Il grano, lo vogliamo nel piatto o nel serbatoio dell’auto?».

Il dibattito, alimentato dalle maggiori Organizzazioni non governative, si è trasformato in slogan, ha colpito l’immaginazione della gente e la risposta finale è stata più che ovvia. In Germania, Paese leader del settore, la produzione e il consumo sono crollati in attesa di nuove idee.

La ricerca cui assistiamo nel laboratorio dell’Università di Amburgo ha quindi come oggetto i biocarburanti cosiddetti di terza generazione, masse organiche liquefatte e idrogenate a temperatura relativamente bassa ma dotate di alta efficienza energetica.

L’approvvigionamento di materia prima, ci assicura il professor Willner, non entra assolutamente in competizione con la produzione di cibo e può anche essere d’aiuto per chiudere alcuni cicli industriali.

Il piccolo vasetto pieno di liquido scuro può dunque essere una chiave per raggiungere gli obiettivi obbligatori fissati l’anno scorso dalla Commissione Ue e citati nelle pubblicazioni del ministero dell’Ambiente.

«Entro il 2020 la proporzione di energia da fonti rinnovabili in ognuno degli Stati della Ue dovrà ammontare almeno al 10 per cento del consumo energetico totale nell’intero settore dei trasporti». Ci viene tuttavia ripetuto più di una volta che i biocarburanti, sebbene di terza generazione, non sono la soluzione finale quanto piuttosto parte della soluzione.

Perché la questione energetica è complessa e richiede un approccio complesso. «Abbiamo bisogno di idee nuove per ricavare energia in maniera sostenibile - recita una brochure dell’Università di Amburgo - e lo sviluppo di tecnologie legate alle fonti rinnovabili gioca un ruolo chiave in questa sfida».

Quella del professor Willner è solo una delle buone idee in fase di studio. Opportunamente testata e trasferita nella dimensione industriale potrà contribuire a creare il giusto mix energetico capace di proiettare la Germania verso la realizzazione degli obiettivi fissati. Il 18 per cento di consumo elettrico da fonti rinnovabili entro il 2020 è il minimo garantito.

La visione nel lunghissimo periodo è arrivare a coprire nel 2050 l’intero fabbisogno elettrico e in più avere 900mila addetti nel settore. Perché in Germania, quando si parla di ambiente, non è solo alberi e ruscelletti ma anche più impresa, più lavoro, maggior prelievo fiscale e un migliore utilizzo del territorio.

Il professor Willner smetterà presto i panni dello scienziato per indossare quelli dell’imprenditore, dimostrando ancora una volta che è la ricerca a fare della Germania la nazione leader nel campo tecnologico. E sarà la ricerca a renderla sempre meno dipendente da combustibili fossili e assurdità nucleari: la potenza industriale meno inquinante della storia.