domenica 26 luglio 2009

Afghanistan: escalation in atto

Manca meno di un mese alle elezioni presidenziali afghane e, come prevedibile, aumentano costantemente gli scontri a fuoco tra le truppe ISAF-NATO e i guerriglieri taliban.

E naturalmente anche i militari italiani sono sempre più coinvolti nei combattimenti e oggetto di attacchi. Ieri pomeriggio infatti vicino a Herat un ordigno esplosivo azionato a distanza contro una pattuglia di militari italiani ha causato due feriti.

Ma non è stato l'unico episodio della giornata in cui sono rimasti coinvolti soldati del contingente italiano. Un altro militare è stato ferito non gravemente in un attacco nell'area di Farah, nell'ovest dell'Afghanistan. Un'unità composta da personale del 187esimo Reggimento Folgore e del Primo Reggimento Bersaglieri è stata attaccata nei pressi del villaggio di Bala Boluk, a circa 50 chilometri a nord di Farah, mentre svolgeva una operazione congiunta con le forze di sicurezza afghane per il controllo del territorio. Nell'area sono stati allora inviati sia degli aerei della coalizione per il supporto ravvicinato che gli elicotteri italiani Mangusta. I combattimenti sono durati 5 ore.

Ovviamente è scattato il solito trito rituale delle autorità italiane che esprimono auguri e pronta guarigione ai soldati feriti.

Ma mentre La Russa ha sottolineato "come questa sia l'ennesima conferma della fase estremamente pericolosa che si sta vivendo nel paese per la frequenza degli attacchi. Una fase, che ho potuto verificare nella recente visita in Afghanistan dalla quale sono emerse precise indicazioni su come rafforzare la sicurezza dei nostri soldati nelle fasi operative", Bossi invece dichiarava "Io li porterei a casa tutti. La missione costa un sacco di soldi e visti i risultati e i costi bisognerebbe pensarci su. Secondo me è necessario spendere il meno possibile anche se è chiaro che in Afghanistan c'è un problema internazionale che non è così semplice da risolvere".

Subito dopo però lo stesso La Russa lo ha rimbrottato "Torneranno indietro quando avranno concluso l’obiettivo della missione. Se pensassi da papà, come ha pensato Bossi, l’idea di riportare a casa i militari italiani sarebbe il primo sentimento, ma da ministri, come Bossi, sappiamo che i ragazzi della Folgore e delle Forze armate in Afghanistan portano avanti un compito irrinunciabile, imprescindibile e importante".

Ma a confermare che le cose si stanno sempre mettendo più male per il contingente ISAF-NATO è stato oggi il ministro degli Esteri Frattini che ha annunciato che l'Italia impiegherà i Tornado sia a copertura delle truppe italiane che in azioni di combattimento.

Oggi il mondo politico italiano non ha dovuto pronunciare la fatidica parola: cordoglio. Ma ci saranno senz'altro altre occasioni, visto che anche Frattini si è accorto che "c'è visibilmente un'escalation"...


Lo stupore di scoprirsi in guerra
di Angelo Miotto - Peacereporter - 26 Luglio 2009

Due nuovi attacchi, tre militari italiani feriti: un bersagliere rimasto ferito in una battaglia di oltre cinque ore nella provincia di Farah e due militari feriti a bordo di un blindato a Herat, per l'esplosione di un ordigno nascosto su una motocicletta.

Stupisce lo stupore dei media italiani, che domenica 26 luglio titolano sulle 'truppe italiane sotto attacco' descrivendo con analisi e inviati quello che PeaceReporter va raccontando fion dall'inizio della campagna afghana del contingente italiano. Quando i caveat imposti dal Parlamento erano ben più rigidi di oggi, PeaceReporter ha denunciato l'eristenza di operazioni segrete, vere e proprie azioni di guerra. Era il dossier dell'Operazione Sarissa, con squadre di incursori impiegati senza cronache o comunicazioni ufficiali che potessero turbare il dibattito politico del Paese.

I caveat sono stati rivisti, il contingente è aumentato, le critiche interne ai militari dicono cose precise: sono messi in difficoltà dalle limitazioni rispetto allemoperazioni che stanno conducendo e sono equipaggiati in maniera spesso errata. Una dimostrazione efficace del nodo 'armamenti' sta in un semplòice accostamento che si trova mettendo a confronto due interviste: la prima, sulle pagine del Corsera, vede il ministro degli Esteri Frattini affermare che 'dobbiamo utilizzare i Tornado', i caccia bombardieri inviati alcuni mesi fa nel teatro di guerra afghano. La seconda è sulla Stampa di Torino: il generale Angioni risponde a una domanda affermando che proprio i Tornado non servono un granchè nel tipo di guerra che si sta sviluippando sul territorio. Dice testualmente: "I Tornado appartengono a un armamento utile per gli equilibri fra Nato e Patto di Varsavia", per l'Afghanistan sono vecchi di almeno 25 anni.

Dalle pagine di Repubblica spiccano le parola di un altro generale, di cui PeaceReporter riporta spesso l'opinione: Fabio Mini. Scrive nel suo taccuino strategico, fra l'altro: " La sorpresa per gli attacchi, per i feriti e perfino per i morti dovrebbe essere ormai bandita perché quello che è successo ieri è esattamente quello che succede ogni giorno" e conclude ricordando che è una "situazione di guerra alla quale ci dobbiamo abituare".

L'ultimo accento del dibattito nazionale è il pragmatismo leghista di Umberto Bossi, che scopre il costo - più che umano economico - della missione. Una frase per distinguersi che dice solo ora , come se non facesse parte di quella coalizione di governo che sull'Afghanistan sta giocando i buoni rapporti con le amministrazioni statunitensi. "Se fosse per me li riporterei a casa, visti i costi e i risultati", ha detto.

Ripubblichiamo le cronache di guerra che ben ci ha raccontato il nostro inviato, Enrico Piovesana, Sono e resteranno corrispondenze di tremenda attualità.

Afghanistan, morire da alleati L'artiglio della pantera Una lunga estate calda

Nell'occhio del ciclone

L'ordine dei Taliban, "Fuoco fino al voto"
di Guido Rampoldi - La Repubblica - 26 Luglio 2009

KABUL - Quanto più si avvicinano le elezioni presidenziali del 20 agosto, tanto più inasprisce lo scontro afgano. Nel sud americani e Nato hanno messo in campo i rinforzi, grosso modo quindicimila uomini.

Ma i Taliban si sono sottratti alla battaglia campale e stanno contrattaccando altrove con il loro ingegnoso arsenale: gli ordigni sempre più potenti con cui fanno saltare anche i blindati italiani; e i kamikaze fabbricati in Pakistan, uomini-pallottola di cui sembrano avere una disponibilità illimitata. Non si può dire che l'offensiva occidentale stia andando bene. Chi torna dal sud racconta che i Taliban si nascondono dentro una popolazione più terrorizzata che solidale. Evitano i rischi, e intanto incassano tangenti dai trasportatori pachistani che arrivano da Quetta con gli approvvigionamenti per le truppe Nato.

Potremmo concludere che al momento il successo è loro. Ma la battaglia in corso ha una dimensione più simbolica che militare, e dunque va giudicata con parametri più complicati. Il suo territorio principale è l'opinione pubblica occidentale, cui gli uni vogliono dimostrare che la guerra della Nato è persa, e non vale la vita dei nostri soldati; gli altri, all'opposto, che la situazione comincia a migliorare, tanto che è possibile tenere autentiche elezioni. Magari non correttissime, ma credibili.

I Taliban sanno che tra le file della Nato affiora un certo scoramento. Alcuni tra i contingenti più segnati dalla guerra hanno annunciato il ritiro. L'anno prossimo gli olandesi (600 uomini, 19 morti) lasceranno una delle province più pericolose dell'Afghanistan meridionale, l'Oruzgan, e al momento non c'è un altro contingente disposto a rimpiazzarli. I notabili del luogo si sono riuniti e hanno annunciato, perché non restino dubbi, che se gli olandesi se ne vanno, partirà con loro una parte della popolazione; e chi resterà si consegnerà ai Taliban e farà atto di sottomissione. Settemila bambine non andranno più a scuola.

Chiuderanno ginnasi e licei, i maschi potranno studiare solo nelle moschee. Nel 2011 dovrebbero partire da Kandahar i canadesi, un contingente quasi decimato (125 morti). Presto potrebbero tentennare altri occidentali.

Ma anche tra i Taliban il morale non pare altissimo. Dopo cinque anni di guerra i distretti che controllano sono appena 10 su 350, stima Unama, la missione Onu in Afghanistan. Non è un bilancio entusiasmante, e conferma che la popolazione non è affatto dalla loro parte. Però in altri 165 distretti il governo afgano incontra problemi nell'esercitare la propria autorità: insomma metà del Paese bordeggia il caos, o comunque è esposto alle incursioni della guerriglia.

Gli attacchi sono aumentati da quando il mullah Omar ha ordinato di sabotare le elezioni perché, ha detto, "i candidati più importanti sono stati selezionati da Washington". L'impegno e i metodi con i quali le bande guerrigliere svolgono la loro missione variano da provincia a provincia, a conferma che i Taliban sono una somma di differenti gruppi e di diverse motivazioni. In molti villaggi, nottetempo hanno affisso ai muri lettere che promettono a chi oserà votare: "Vi decapiteremo con la spada della verità e vi consegneremo alle fiamme dell'inferno".

Ma in alcuni distretti si disinteressano alle elezioni, forse per effetto di accordi sottobanco con questo o quel notabile. Vi sono circoscrizioni in cui le donne che andranno a votare rischieranno una pallottola. Ma in altre può accadere quanto mi racconta il deputato Shahla Ata, una delle due donne che con altri 36 uomini concorrono nelle elezioni presidenziali: "Ho raggiunto il luogo del comizio con una scorta di Taliban" (ma la Ata discende dalla famiglia reale, cara alle tribù pashtun che sono il serbatoio della guerriglia).

Tutto questo dà il segno di una crescente confusione, in un campo come nell'altro. Perfino il confine amico/amico comincia ad avere contorni incerti. Alcuni candidati cercano i voti dei guerriglieri di Hizb-islami, una formazione alleata dei Taliban che mantiene legami con l'omonimo partito, rappresentato nel parlamento afghano e nello stesso gabinetto di Karzai. Altri si prospettano all'elettorato come i più idonei per convincere il mullah Omar a firmare la pace, lasciano intendere di aver già avviato un dialogo segreto e alludono alla possibilità di un armistizio.

Ma quando li interpelli scopri che i loro contatti con i Taliban si sono sistematicamente arenati di fronte al fatto che gli interlocutori erano divisi e non riuscivano mai a prendere una decisione. Un afgano ben inserito dentro questo canale di comunicazione mi racconta di aver scambiato messaggi con un Talib del vertice supremo, mullah assai vicino all'emiro, e di aver constatato la disponibilità ad un accordo nella cornice della Costituzione, per la quale il diritto delle afgane a studiare e a lavorare è sacro. Ma al momento questa posizione sembra largamente minoritaria nella cerchia suprema di quel caotico movimento, e comunque non impedisce ai Taliban di continuare ad ammazzare donne che osano affacciarsi nello spazio pubblico.

Sicché forse ha ragione Fawzia Koofi, la giovane vicepresidente del parlamento, quando mi dice: "L'unico argomento che può convincere sul serio i Taliban è un bombardiere americano". In Italia parrà incredibile, ma la Koofi è una femminista e milita nella sinistra.


La Folgore e "l'escalation della guerriglia"
di Andrea Garibaldi - Il Corriere della Sera - 26 Luglio 2009

FARAH - Mentre gridano «Folgore urrà!», ricordano che un uomo, o un ra­gazzo, della Folgore, 187˚ reggimento paracadutisti, non ha paura. Anche se il primo caporal maggiore Alessandro Di Lisio è morto pochi chilometri là fuori, il 14 di luglio, e se il primo caporal mag­gior Simone Careddu rischia di non tor­nare a camminare. Anche se ieri i soldati italiani sono stati per altre due volte col­piti. «Silenziosi e aggressivi», c’è scritto su uno degli stemmi della Folgore affissi sulla baracca nel cortile del campo base e gli uomini e i ragazzi hanno stretto i denti mercoledì davanti al ministro La Russa che è venuto a trovarli e che con la sua camicia mimetica, il suo piglio mi­­litare, il suo saluto assorto alla bandiera, in fondo, è piaciuto. Ma qui è sempre più difficile stare, se gli episodi ostili si moltiplicano.

Questa è Farah. Se vi guardate attor­no per 360˚ vedete solo sabbia chiara e monti scuri. Un albero? Forse uno, lag­giù, pare un albero. Il comando italiano, a Herat, ha battezzato la base El Ala­mein, ma molti — con poca fantasia — la chiamano Fort Apache. L’avamposto più a sud. Il più sperduto del contingen­te italiano in Afghanistan, il più vicino all’offensiva anglo-americana «Colpo di spada» nell’Helmand, terra meridionale di sterminati campi d’oppio e di taleba­ni in rimonta. Farah è un frammento d’Italia gettato lontano.

Trecento paraca­dutisti inquadrati in un battle group, gruppo di battaglia, e cento incursori nella «Task 45», forza speciale, per mis­sioni speciali. I primi, con compiti di as­sistenza alla popolazione, sminamento, ricostruzione, i secondi con riservati compiti bellici: contrastare la propagan­da talebana nei villaggi, il reclutamento, la sottomissione della popolazione civi­le, i traffici di droga. Anche con la forza. Poi, ci sono gli uomini dei servizi di si­curezza, si contano sulle dita delle ma­ni, lavorano in borghese, si calano fra vi­coli e casupole, cercano di capire che succede, d’interdire. Questo è diventata la spedizione italiana in Afghanistan, tesserina dentro un Grande Gioco, ar­duo da decifrare.

Il C-130 arriva in mezz’ora da Herat a Farah, scende a precipizio, poi ondeggia volgendo verso il suolo l’ala destra, poi la sinistra, per evitare colpi, prima d’at­terrare sulla pista di sabbia e di terra, coi sassi che schizzano sotto le ruote. Una immensa spianata, 1.200 metri di altez­za. Nessun essere umano, a vista d’oc­chio. Il capitano Paolo Bianconi punta l’indice in lontananza. Prima ci sono del­le case col tetto arrotondato, l’abitato di Farah, e molto oltre le pendici di altri monti: «Guerriglieri, lontano, da quella parte». Quelli che hanno messo l’ordi­gno che ha ucciso Di Lisio e menomato Careddu, probabilmente. Cosa architetta­no ora? «Avete mai passeggiato per un villaggio afgano — chiede Bianconi —? L’80 per cento della gente sorride, è con­tenta che siamo qui».

E allora? Quanto è difficile capire, soprattutto se si è arma­ti. Il comandante italiano Rosario Castel­lano dice che in Afghanistan si mescola­no undici motivi di instabilità che si tra­sformano in «insorgenza», ribellione contro la presenza di truppe straniere: i talebani antigovernativi, i trafficanti di droga, i coltivatori di oppio, la faide tri­bali, i signori della guerra, i trafficanti di armi, lo spionaggio, la criminalità, gli estremisti religiosi, i gruppi autonomi, i poveri. In questo momento dall’Hel­mand, sotto pressione per l’attacco ame­ricano, molti insurgents trovano sbocco verso l’Ovest, verso Farah e premono sul­la zona sotto la responsabilità italiana: per questo Castellano è in contatto stret­to con il comandante dei marines.

«Oggi la temperatura è a 50 gradi— dice il capitano Bianconi —. Certi gior­ni siamo più fortunati, si ferma a 45». Ecco le grandi tende dove dormono e mangiano i nostri e le strutture di le­gno che fanno da bagni. «Ma stiamo co­struendo la nuova base, in muratura, il Fob, Forward operative base , base avanzata operativa», dice Bianconi. Il capitano è ingegnere, ha 30 anni: «Ge­stiamo budget da milioni di euro, cosa che all’inizio della carriera in Italia sa­rebbe impossibile».

Si costruisce, dunque: non è prevista l’uscita in tempi brevi. Ma la situazione diventa sempre più critica. Arrivano ogni giorno, dal Sud soprattutto, le noti­zie dei caduti delle altre forze armate. So­lo nel mese di luglio 37 soldati america­ni uccisi (il conto degli afgani non lo tie­ne nessuno). Nella zona italiana a luglio gli attentati e gli Ied (ordigni esplosivi improvvisati) sono stati 134, buona par­te nella zona di Farah. Lo scorso anno fu­rono 56. Per agosto, mese delle elezioni presidenziali, il comando italiano ne pre­vede 179, contro i 79 dello scorso anno. È la strada 517, che parte dalla base e va verso la Ring Road, arteria che collega ad anello le principali città dell’Afghani­stan, uno dei punti d’allarme. Se gli in­surgents rendono insicura quella, incer­to diventa ogni collegamento della ba­se di Farah. Lì è saltato il carro Lince su cui viaggiava Di Lisio.

Ora il rischio è che la missione italiana, a Farah in parti­colare, si chiuda a garantire la propria sicurezza, prima di perseguire i compiti d’ufficio, che sarebbero consegnare strade e terre, ricostruire scuole e ospe­dali, addestrare esercito e polizia afga­ne, riconvertire i campi d’oppio. Rac­conta un ufficiale: «Abbiamo da poco consegnato ai contadini 27 tonnellate di zafferano per sostituire questa coltu­ra a quella del papavero». Fa una pausa: «Certo, poi occorre proteggere campi e contadini, altrimenti talebani e traffi­canti impediscono il cambiamento». Obiettivo finale: riconsegnare il Paese agli afgani, ma la parola «afgani» defini­sce una realtà molto differenziata.

Arrivano più Predator, gli aerei senza pilota, i Tornado potranno sparare per proteggere dall’alto i soldati italiani in difficoltà, i carri Lince avranno le torret­te protette. Aumentano gli effettivi, au­mentano le spese, già altissime. Basti pensare che Farah, come le altre basi, è tenuta in vita quasi esclusivamente con gruppi elettrogeni a gasolio e che il gaso­lio arriva con i camion dall’Iran. Abbia­mo sempre pensato al nostro esercito nel mondo nella chiave «Italiani brava gente». Ma da queste parti c’è stato un convoglio attaccato a settembre, un’au­tobomba contro un altro convoglio a ot­tobre, un’imboscata a giugno, un attac­co suicida all’inizio di luglio. Poi, Di Li­sio. Due agguati ieri.

Ora, invece, bisognerebbe pensare ai seggi da proteggere, 1.086 nella zona ita­liana, a impedire che i candidati venga­no uccisi. «Usciamo per Alessandro», di­ce il caporal maggior Fabio Barile, che era sul convoglio di Di Lisio. Lo sguardo fiero, che intuisce quanto è fragile la si­tuazione. Il cuoco di Farah sforna pizze, gesto che sdrammatizza. Il tenente Leo­nardo Bevilacqua è un ingegnere che ha fatto il percorso inverso a Bianconi: lavo­rava nel civile, si è arruolato. Quando ha visto il ministro La Russa, si è commos­so: «Il nostro ministro, qui...». «Non co­nosco l’impossibile», sta scritto su un al­tro stemma della Folgore. Bisogna cre­derci, per restare fra queste pietre.