mercoledì 8 luglio 2009

Xinjiang: chi vuole destabilizzare la Cina?

Mentre ieri il presidente cinese Hu Jintao ha lasciato il G8 per rientrare subito in Cina, torna a salire la tensione nella Regione autonoma cinese dello Xinjiang - dopo i circa 200 morti e 1000 feriti di domenica scorsa negli scontri tra manifestanti uiguri e polizia -, sconvolta ormai da una vera e propria violenza etnica tra i musulmani turcofoni uiguri e i cinesi di etnia han.

Centinaia di uiguri con armi improvvisate stanno oggi protestando in un quartiere musulmano della capitale Urumqi in un faccia a faccia con la polizia, dopo che ieri centinaia di cinesi di etnia han avevano marciato sempre a Urumqi armati di bastoni, vanghe e machete in una caccia all'uomo, distruggendo anche molti negozi di proprietà uigura.

Tutto sarebbe nato il 26 giugno a Shaoguan, nel sud della Cina, quando operai cinesi di etnia han hanno attaccato con rudimentali armi il dormitorio degli operai di etnia uigura originari del Xinjiang, uccidendone almeno due. La spedizione punitiva era stata decisa sulla base di voci, risultate poi false, secondo cui alcuni giovani uiguri avevano violentato due ragazze han.
Da qui le manifestazioni di domenica scorsa represse nel sangue.

Ma restano comunque forti sospetti che dietro tutto ciò ci siano forti interessi, in campo già da tempo, nel fomentare sempre più una destabilizzazione/balcanizzazione della Cina, con l'obiettivo ultimo di disgregarne l'integrità territoriale.

E ora, in tempi di crisi economica globale, si assiste ad un'accellerazione in tal senso.


Cina e Russia nel mirino della geopolitica finanziaria
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 7 Luglio 2009

«I paesi del G8 non devono dare per scontato che la ripresa dell'economia mondiale sia vicina»: così scriveva ieri il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, in una lettera inviata al premier Berlusconi e ai leader che parteciperanno al summit internazionale dell'Aquila. «Il 2009 resta un anno pericoloso - si legge nella missiva -, i recenti guadagni potrebbero svanire presto e il ritmo della ripresa nel 2010 è tutt'altro che certo».

Purtroppo, ha ragione. Anche perché alcuni dati parlano chiaro: dopo aver assistito a un caso di speculazione over-the-counter spaventoso che martedì scorso ha portato il prezzo del petrolio a guadagnare tre dollari in una mattinata (quei mercati, i cosiddetti “casino”, andrebbero regolati seriamente, altro che gli hedge funds), ieri il barile è crollato a 63,85 dollari, il minimo da un mese a questa parte.

Il perché è presto spiegato: da un lato i fondamentali sono tornati a dettare legge come è giusto che sia, dall’altro la crisi in Cina dove scontri tra polizia e miliziani islamici nella provincia di Xinjiang ha portato alla morte di oltre 140 persone: se la bolletta energetica di marzo del gigante cinese parlava la lingua della crisi, questa inaspettata destabilizzazione rischia di creare danni molto seri al paese e alla sua economia, tutt’altro che sana e con tassi di crescita ben lontani da quelli millantati dal regime.

Insomma, l’unico motore di possibile ripresa a livello mondiale non solo si è inceppato ma vede alcuni meccanismi decisamente sabotati. Se alla rivolta principalmente etnica e religiosa si unirà in un combinato congiunto di malcontento anche quella dei contadini, il prezzo che Pechino sarà chiamata a pagare rischia di essere davvero pesante.

Pochi giorni fa avevamo messo in fila tutte le criticità del gigante asiatico e ora conviene ripeterle, visto che alla luce degli avvenimenti attuali e del G8 che sta per aprirsi non solo assumono significati e drammaticità nuovi, ma permettono una lettura della realtà che travalichi le versioni ufficiali.

Come anticipato, Pechino mente sulla crescita. Il dato di del 6,1% nel primo trimestre di quest’anno è semplicemente irrealistico se posto in paragone con il calo dell’utilizzo di energia elettrica del 3,2% registrato a maggio e con quello delle spedizioni navali, calate del 26% e quindi moltiplicatore della crisi dell’export. Inoltre, l’ennesima massa di prestito da 1000 miliardi di dollari emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato a scopo puramente assistenziale per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi.

Ma non è tutto, il peggio è che la società di rating Fitch si è messa a fare le pulci alla Cina in questo periodo e il quadro che ne è uscito è stato tutt’altro che consolante. «Le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero presentare entità maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina nell’indicatore “macro-prudential risk” da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda).

Già, queste sono le previsioni. Avvalorate da un dato spaventoso presentato da Michael Pettis dell’Università di Pechino: «Se correttamente calcolato, senza maneggi politici o di propaganda, il rapporto debito/Pil della Cina sta ormai viaggiando a livelli del 50-70 per cento». Le banche, poi, non stanno meglio: l’esposizione ai debiti corporate ha toccato i 4.200 miliardi di dollari, una cifra che sale a colpi del 30% alla volta a fronte di una contrazione dei profitti del 35%. Il cosiddetto roll-over risk, il rischio legato al pagamento o alla rinegoziazione di un debito, sta salendo a dismisura. E il problema è che in molti vedevano la Cina come il motore che poteva far ripartire l’economia mondiale e, soprattutto, garantire un mercato del debito sufficiente a mantenere artificialmente in vita anche un sistema disfunzionale come quello scelto dalla Fed per deprezzare il dollaro e spalmare nei quattro continenti il debito Usa sotto forma di bond del Treasury.

Nessuno vuole ovviamente puntare il dito né tantomeno azzardare teorie complottistiche ma questo timing presocché perfetto - il grande evento internazionale, i primi scricchiolii e soprattutto la volontà di Pechino insieme a Brasile, India e Russia (il cosiddetto Bric) di sostituire il dollaro (troppo debole e instabile) con un paniere valutario misto come valuta di riferimento per le reserve mondiali - la dice lunga sulla portata storica di questo momento.

Il crollo del prezzo del petrolio, inoltre, potrebbe essere frutto di una duplice strategia studiata accuratamente a tavolino: nel mese del grande rally si sono fatti i soldi con la speculazione, ora si lascia crollare il prezzo al fine di mettere del tutto in ginocchio Mosca, la cui capacità di onorare il debito estero contratto dipende unicamente dalle revenues petrolifere: pensate che la Russia farebbe fatica ad onorare gli impegni anche se il barile toccasse quota 90 dollari, figuriamoci ora che punta al ribasso verso il tendenziale dei 60.

Due avvenimenti, due segnali proprio prima del G8: coincidenze, ovviamente. Ma che fanno ben capire come la già citata geo-finanza sia davvero la scienza economica e politica del futuro. Vedremo quali misure verranno adottate al prossimo vertice, ivi comprese quelle potenziali contro l’Iran, altro snodo del mercato petrolifero. Chi ha giocato al ribasso comincia a contare i soldi, chi aveva creduto al rally spera di chiudere la posizione il prima possibile.

I futures funzionano così, infatti, anche se qualche genio vorrebbe ora metterli fuori legge per abbassare il prezzo del petrolio: peccato che le speculazioni si fanno over-the-counter, ovvero in maniera non regolamentate né dall’Ice a Londra (e quindi dalla Fsa) né a Washington: togliere i futures regolamentati vorrebbe dire distruggere ad esempio le compagnie aeree - che li usano per comprare carburante quando il prezzo scende, volete pagare un Milano-Londra 700 euro solo andata? - e fare la gioia di chi utilizza squeezes e corners per speculare. Vedete un po’ voi…

I veri dati sulla Cina fanno tremare gli ottimisti

di Mauro Bottarelli - www-ilsussidiario.net - 30 Giugno 2009

Francamente poco mi importa che Silvio Berlusconi abbia o meno utilizzato l’espressione “tappare la bocca” riferendosi ai cosiddetti “pessimisti” riguardo le sorti della crisi in atto: io sono uno di questi e come vedete sto scrivendo ancora senza cambiare idea, quindi la pletora di penitenti pronti a evocare la censura sudamericana è meglio che taccia e pensi a lavorare.

Detto questo, non è colpa mia se nell’edizione di giugno di Forbes Robert Lenzner, national editor, ebbe l’ardire di scrivere che «il mercato dell’ordo è terminato il 9 marzo e finalmente intravediamo la fine della peggiore recessione dal 1930». Pochi giorni e i mercati sono crollati insieme alle stime di ripresa del Fmi: anche quelli molto bravi, a volte sbagliano. Che dire, d’altronde, di quanto vaticinato nel maggio 1930 nientemeno che dalla Harvard Economic Society: «Il mercato azionario sta finalmente offrendoci dei segnali di sostanziale ripresa». Poche settimane e l’azionario crollò facendo ulteriormente peggiorare l’intero quadro economico. Anche in quel caso, ci si sbagliò.

Non hanno sbagliato, invece, quelli della Bundesbank a non rendere noti i risultati degli stress test compiuti sugli istituti di credito tedeschi: per utilizzare le parole di Wolfgang Munchau su Financial Times, «non vorrebbero dover dimostrare al mondo che il sistema bancario è insolvente». Già, insolvente: ricordate l’articolo dedicato alle banche zombie, bene siamo arrivati alla resa dei conti e con le elezioni politiche a settembre la Germania sta per affrontare la sfida più seria dopo la riunificazione.

Il problema, però, è generale e lo dicono chiaro sia alla Capital Economics che alla Standard Chartered per bocca di Gerrad Lyons: «Il rischio per l’eurozona è quello di non aver ancora visto il peggio della crisi». Insomma, siamo a metà strada ma con due grosse debolezze rispetto agli Usa: primo, l’aver scaricato finora soltanto 280 miliardi di cosiddetti bad loans e quasi nulla di titoli tossici, tutti ben occultati negli assets. Secondo, l’abuso di pratiche aggressive di accounting atte proprio all’occultamento nei bilanci delle negatività e quindi il travisamento delle reale condizioni di salute delle banche.

Inoltre, le banche europee sono sottocapitalizzate, la stretta del prestito si fa sempre più seria nonostante la Bce continui a stampare denaro e pompare liquidità e le figure macro vedono lo scenario indebolirsi di giorno in giorno. Inoltre, a giustificare il pessimismo ora ci si mette anche un altro dato, spaventoso soprattutto per gli Usa: la crisi della Cina, il cui miracolo starebbe per rivelarsi un brutto scherzo per gli investitori, stando al giudizio di Albert Edwards di Societe Generale.

Pechino mente, il dato di crescita del 6,1% nel primo trimestre di quest’anno è semplicemente irrealistico se posto in paragone con il calo dell’utilizzo di energia elettrica del 3,2% registrato a maggio e con quello delle spedizioni navali, calate del 26% e quindi moltiplicatore della crisi dell’export. Inoltre, l’ennesima massa di prestito da 1000 miliardi di dollari emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato a scopo puramente assistenziale per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi.

Ma non è tutto, il peggio è che la società di rating Fitch si è messa a fare le pulci alla Cina in questo periodo e il quadro che ne è uscito è stato tutt’altro che consolante. «Le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero presentare entità maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina nell’indicatore “macro-prudential risk” da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda).

Già, queste sono le previsioni. Avvalorate da un dato spaventoso presentato da Michael Pettis dell’Università di Pechino: «Se correttamente calcolato, senza maneggi politici o di propaganda, il rapporto debito/Pil della Cina sta ormai viaggiando a livelli del 50-70 per cento». Le banche, poi, non stanno meglio: l’esposizione ai debiti corporate ha toccato i 4.200 miliardi di dollari, una cifra che sale a colpi del 30% alla volta a fronte di una contrazione dei profitti del 35%.

Il cosiddetto roll-over risk, il rischio legato al pagamento o alla rinegoziazione di un debito, sta salendo a dismisura. E il problema è che in molti vedevano la Cina come il motore che poteva far ripartire l’economia mondiale e, soprattutto, garantire un mercato del debito sufficiente a mantenere artificialmente in vita anche un sistema disfunzionale come quello scelto dalla Fed per deprezzare il dollaro e spalmare nei quattro continenti il debito Usa sotto forma di bond del Treasury.

Questa politica e questa speranza stanno per svanire: il brutto è che al momento nessuno ha ricette alternative. E la crisi “a tre ondate contemporanee” si avvicina, i primi di settembre saranno i giorni topici della terza onda iniziata a metà giugno: non spaventatevi se qualcuno sarà tentato di chiudere forzatamente le banche per qualche giorno o, peggio, sospendere le contrattazioni in Borsa. Sarà il minore dei mali.

P.S.: «Tutto questo non deve sorprendere, visto il rapido deterioramento delle finanze pubbliche». Queste le parole usate ieri a Londra da Niall Cameron, capo analista alla Markit, nel presentare i quattro nuovi indici su cui si potranno trattare i cds delle nazioni a rischio di default sul debito. Già, si scommette su chi finirà per primo sul patibolo sperando di essere in fondo alla lista del boia. I due indici che alla Markit pensano attrarranno il maggior numero di investitori sono l’iTraxx SovX Western Europe che traccia i cds di 15 nazioni dell’Europa occidentale - comprese Francia, Germania, Regno Unito e Italia - e il Markit iTraxx Ceemea che invece segue l’andamento di Europa dell’Est, Medio Oriente e Africa. Gli altri due indici seguiranno i valori in punti base delle sette nazioni più industrializzate e un bouquet misto di Europa, Asia, America Latina, Medio Oriente, Africa e Nord America.

Insomma, un modo per speculare ma anche per proteggersi dal rischio di default sul debito in tempi di spesa pubblica incontrollata, evitando di scommettere sul cds di un singolo paese ma facendolo su un portafoglio più composito. Se si arriva a questo punto, vuol dire che siamo davvero messi male.


Uno tsunami economico si abbatte sull'America; la Cina guarda e aspetta
di Michael Payne - http://onlinejournal.com - 15 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Mauro Saccol

Questa è una storia di due nazioni molto potenti. Una, definita l’unica Superpotenza mondiale, ha una politica estera molto aggressiva e una rete massiccia di installazioni militari sparse sul pianeta. L’altra, la potenza economica mondiale che sta salendo alle stelle, ha una politica estera moderata e non ha una reale presenza militare eccetto che all’interno dei suoi confini. America e Cina, con due filosofie e due agende chiaramente differenti sono in una rotta di collisione che determinerà chi di loro guiderà il mondo nei decenni a venire.

La Cina è guidata da un governo comunista, ma ha anche un sistema economico capitalistico. Tra le principali nazioni industrializzate, la Cina ha la più dinamica, la più veloce economia in crescita. La sua crescita prevista per il 2009 è del 6 percento, mentre l’America e il resto del mondo stanno giusto tentando di sopravvivere. Il suo budget militare è minuscolo, meno del dieci percento di quello americano. Non è coinvolta in guerre all’estero. Siccome la sua economia dipende in gran misura dalle importazioni di petrolio, è stata molto attiva nello stipulare contratti e accordi per il petrolio in tutto il mondo, incluso il Sud America, con un business e sforzi diplomatici molto aggressivi.

L’America [qui e in seguito intesa come Stati Uniti, ndt] è una repubblica democratica, governata da un presidente e un Congresso eletti, con un sistema economico capitalistico. La sua economia si è trovata in progressivo declino per un po’ di tempo, in quanto le imprese statunitensi hanno delocalizzato in maniera aggressiva milioni di lavori manufatturieri. Il suo budget militare è più grande di quello di tutte le altre maggiori nazioni industrializzate nel mondo messe assieme. Gli USA mantengono una presenza militare in più di 750 basi in tutto il mondo e sono coinvolti in conflitti e occupazioni sia in Iraq che in Afghanistan. Importano la maggior parte del suo fabbisogno di petrolio da fonti straniere e il loro esercito è impegnato attivamente a proteggere i loro interessi petroliferi in varie parti del mondo.

Sì, queste sono due nazioni molto potenti le cui agende riguardanti gli affari mondiali, le strategie economiche e l’uso delle risorse militari difficilmente potrebbero essere più differenti. E, ancora, queste due nazioni sono legate insieme nel più grande accordo economico al mondo – almeno per il momento.

Come ha fatto l’America ad arrivare al punto di essere così dipendente dall’industria cinese e dalla necessità di chiedere continuamente prestiti a essa per finanziare tali acquisti? Come è passata l’America dall’essere una volta la prima nazione creditrice nel mondo ad essere la prima nazione debitrice?

Fin dagli anni ottanta, l’America si è trasformata da principale forza industriale in una nazione che si è concentrata sulla produzione industriale delocalizzata in tutto il mondo, mentre si dedicava ad un’economia dei servizi. La lunga, debole e conflittuale relazione tra i sindacati e il management causò infine una rottura totale, che vide le imprese partire in quarta con le delocalizzazioni. Ciò arricchì gli amministratori delegati, aumentò i profitti e gli stock values, arricchì gli investitori e, in tal modo, iniziò il crollo della classe operaia americana.

A tal punto, la produzione industriale, la pietra angolare dell’America, iniziò un declino rapido e intenso. Questo fu il momento significativo per un’economia che si basa sui consumatori per il settanta percento del PIL. Quando ebbe luogo tale inversione di rotta, dalla produzione industriale all’abbraccio alla delocalizzazione rampante, essa garantì un declino continuo nell’economia, dato che il potere d’acquisto della classe operaia americana iniziò a erodersi.

Durante tale periodo, il Giappone era la stella economica crescente e iniziò ad accelerare il suo motore produttivo. La Cina non era realmente un attore economico principale ma stava iniziando a mostrare il suo reale potenziale. Così la presenza giapponese sul palcoscenico americano subì una fase di rapida crescita in quanto entrò nei mercati elettronico e automobilistico statunitensi come una forza principale che avrebbe potuto fornire prodotti di qualità a prezzi estremamente competitivi.

Come reagirono le imprese statunitensi a questa potenziale minaccia alla loro superiorità? Continuarono il loro processo di delocalizzazione di ogni tipo di industria possibile in qualsiasi luogo trovassero oltreoceano con forza lavoro economica. Naturalmente, l’industria automobilistica statunitense aveva costruito anni prima stabilimenti industriali in Europa e altre nazioni oltreoceano. Ora vorrebbero vedere varie industrie automobilistiche straniere, giapponesi, tedesche, e altre ritornare il favore e costruire stabilimenti in America.

Così eccoci qui, ma cosa riserva il futuro? Dunque, la Cina ha in mano le carte e la maggior parte degli assi. Essa guarda pazientemente e aspetta mentre l’America continua a trovarsi in un oblio economico con una guerra infinita contro i cosiddetti terroristi islamici e la continua enorme importazione di beni che una volta venivano prodotti in America.

La Cina, perlomeno al momento, sta continuando a prestarci miliardi di dollari mentre guarda il nostro commercio e il deficit nazionale salire ad altitudini astronomiche. Oltre ai circa duemila miliardi di dollari che la Cina possiede in riserve di valuta straniera, circa mille miliardi di dollari sono in titoli del governo statunitense. Questo enorme trasferimento di ricchezza dagli USA alla Cina non può continuare con la stessa violenza perché sta erodendo le fondamenta economiche della nostra nazione. Cosa dobbiamo fare?

Una delle risposte a questo dilemma è che l’America semplicemente non può e non deve permettere che tale situazione continui a deteriorarsi. Deve ricostruire la sua base produttiva e invertire la delocalizzazione distruttiva del lavoro o non ristabiliremo le nostre fondamenta economiche.

Robert Reich, ex Segretario del Lavoro sotto il presidente Clinton e noto economista, in un recente articolo ha indicato che stiamo perdendo i lavori di routine, inclusi i tradizionali lavori produttivi, ma invita a non preoccuparsi perché verranno rimpiazzati in futuro dal ‘lavoro simbolico-analitico’ di “persone che analizzano, manipolano, innovano e creano. Queste persone sono responsabili della ricerca e dello sviluppo, della progettazione e dell’ingegneria o delle vendite, del marketing e della pubblicità ad alto livello. Essi sono compositori, scrittori e produttori. Essi sono avvocati, giornalisti, dottori e consulenti aziendali”.

Bene, il signor Reich è l’economista e io no, ma non accetto del tutto il suo ragionamento. Questa sembra essere la solita vecchia teoria, leggermente modificata, che sentivamo negli anni ottanta riguardo a come il settore terziario fosse la via del futuro per l’America. Il mio punto di vista è: puoi creare tutti i lavori simbolico-analitici che vuoi, ma se non abbiamo una consistente porzione di forza lavoro americana che esegua lavori che prendono una qualche forma di materiale grezzo, insieme al lavoro, per creare prodotti che vengano acquistati dagli Americani ed esportati all’estero, la maggioranza degli Americani non avrà il potere d’acquisto per alimentare la nostra economia basata sui consumatori.

Possiamo ricostruire la nostra base produttiva se cambiamo la filosofia avvelenata della delocalizzazione industriale che ha portato enormi profitti industriali e la distruzione della forza lavoro americana. Il signor Obama e il Congresso devono approvare una legislazione appropriata, e certamente hanno il potere per farlo, che fornisca detrazioni fiscali alle industrie che non delocalizzano o a quelle che riportano a casa il lavoro. In secondo luogo, a quelle industrie che continuano a delocalizzare devono essere applicate penalizzazioni fiscali.

In aggiunta al ritorno dei lavori produttivi basilari in America, un grande potenziale risiede nello sviluppo di un nuovo enorme settore industriale verde dove gli incentivi governativi in denaro e i fondi privati creino nuovi posti di lavoro per la produzione di pannelli solari, mulini a vento, sistemi di transito rapidi e varie nuove fonti di energia che rimpiazzino i combustibili fossili. Oltre a invertire la delocalizzazione di lavori americani, non c’è via migliore per risolvere i nostri problemi economici che attraverso una aggressiva promozione di programmi per sviluppare nuove fonti di energia.

Per il popolo americano è ora di dire ‘quel che è troppo è troppo’, e chiedere al presidente Obama che cominci il processo veramente necessario di invertire la nostra estremamente aggressiva e dispendiosa presenza militare in tutto il mondo, la quale sta causando una terribile emorragia nella nostra base economica. Il nostro debito nazionale sta aumentando così rapidamente che sta diventando insostenibile. Le nostre guerre all’estero, le occupazioni e il mantenimento di quell’enorme complesso di installazioni militari nel mondo sta dissanguando l’America. Il nostro governo deve capire che è ora di ridurre questa intera macchina militare prima che sia troppo tardi e che ci troviamo in una situazione di bancarotta nazionale. La domanda è: come mai Obama e i nostri leader al Congresso non capiscono che le nostre azioni e politiche militari nel mondo stanno portando l’America sull’orlo della bancarotta?

Cosa succederà se non avremo la saggezza e il coraggio di cambiare? Prima di tutto, la nostra posizione debitrice nei confronti della Cina raggiungerà tali enormi proporzioni che la Cina, ad un certo punto, annuncerà di non poter più continuare a prestare all’America tanti miliardi di dollari come in passato, e ciò, in realtà, porrà una moratoria sugli altri prestiti finché l’America non metterà in ordine i suoi sistemi monetario ed economico. A tal punto, il valore del dollaro sarà chiaramente in pericolo e potrebbe diminuire così velocemente da non poter essere più utilizzato come valuta mondiale di riserva.

I finanziamenti per l’intero complesso militare nel mondo inizieranno a prosciugarsi rapidamente. Gli USA dovranno chiudere la maggior parte delle loro basi. E quando questo succederà, cosa faremo con le migliaia e migliaia di militari che abbiamo nel mondo i quali, quando saranno congedati, non avranno opportunità di lavoro in un’economia fallimentare?

Segni di grande preoccupazione stanno iniziano ad emergere dalla Cina. Un rapporto proveniente dalla Cina afferma che Guo Shuqing, presidente della China Construction Bank, controllata dallo stato, sta valutando la possibilità di concedere prestiti in yuan, la valuta cinese di base, alle industrie di import-export cinesi. Ciò permetterebbe alle aziende cinesi e a quelle straniere di usare lo yuan per saldare i propri debiti al posto del dollaro statunitense. Inoltre, la Cina ha recentemente convertito i suoi titolo del tesoro statunitensi da lungo termine a breve termine.

Non sto dicendo che la Cina voglia che l’economia americana collassi – non del tutto, perché la Cina sa che l’America, per ora, è la sua vacca da latte e sarebbe felice di continuare a nutrirsi attraverso tale finanza. Tuttavia, realisti come sono, i Cinesi vedono chiaramente come l’America sia diretta su un percorso pericoloso che minaccia di far collassare le sue fondamenta economiche, ed essi potranno sistemarsi per tale eventualità.

Un altro scenario, non bello, potrebbe coinvolgere le nazioni creditrici straniere, in particolare la Cina, le quali potrebbero accaparrarsi tutti i tipi di imprese americane. Infatti, tale scenario è già in corso, con la Chrysler e la General Motors che stanno andando entrambe verso la bancarotta. La Chrysler sopravviverà, almeno per un po’, con la Fiat italiana che possiederà la maggior parte delle azioni e dirigerà le operazioni. La General Motors sta perdendo molte divisioni automobilistiche, dato che un conglomerato industriale cinese sta comprando la linea Hummer della GMC. Questo scenario potrebbe essere il modello per il futuro, quando molte aziende statunitensi falliranno a causa di una cattiva gestione e dell’avidità, e molte nazioni straniere, con la Cina in prima linea, acquisteranno le risorse industriali americane per pochi centesimi di dollaro.

L’America si è per il momento salvata in corner dal punto di vista economico. Ci sono pochi segnali sul fatto che l’amministrazione Obama e il Congresso capiscano la necessità urgente di promuovere aggressivamente una rinascita della produzione industriale e ridurre rapidamente la nostra presenza militare sul pianeta. Se non hanno la lungimiranza e il coraggio e non si possono dedicare a fare le cose nell’interesse della popolazione americana, ecco dunque ciò che accadrà: la Cina diventerà la potenza economica principale nel mondo. Il dollaro americano non avrà più un effetto significativo nel commercio mondiale e verrà rimpiazzato. Il nostro vasto establishment militare nel mondo si disintegrerà velocemente, dato che non ci saranno fondi per alimentare ulteriormente la sua esistenza. A tal punto, l’America avrà perso il suo status di potenza economica leader mondiale e di ‘unica Superpotenza’.

Messaggio per il presidente Obama e il congresso statunitense: se mai c’è stato un momento per il vero cambiamento in America, tale momento è adesso!


Cina, si riapre il fronte degli uiguri
di Giuseppe Zaccagni - Altrenotizie - 7 Luglio 2009

A Roma Napolitano ricorda al presidente cinese Hu Jintao il problema del rispetto dei diritti umani. Ma nello stesso tempo nella lontana Urumqi, capitale della regione del Xinjiang (con una popolazione di circa 2.100.000), la polizia di Pechino si scaglia contro gli uiguri musulmani scesi in strada per protestare contro le sopraffazioni del governo centrale. I morti sono oltre centocinquanta, gli arrestati circa 1500. La situazione è estremamente tesa e l’intera regione è a rischio di guerra civile. Tutto sta a dimostrare, comunque, che la repressione degli uiguri non è un caso isolato e che la Cina sta divenendo una sorta di polveriera. Soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra il governo centrale e le varie chiese. Ci sono protestanti in carcere e vescovi scomparsi.

E la questione degli uiguri diviene il motivo centrale degli scontri che rientrano tutti nel contesto di una situazione sempre più difficile per un Islam che opera all’interno della Cina. Per Pechino si tratta di “combattere il terrorismo islamico”, ma in realtà l’obiettivo consiste nel colonizzare la regione opprimendo con leggi d’emergenza la popolazione e la sua religiosità.

Gli imam uiguri, intanto, devono presentare al governo ogni venerdì il testo dei loro sermoni; è proibita l’educazione religiosa dei giovani fino ai 18 anni; scuole islamiche e moschee sono distrutte e a favore dello “sviluppo economico” i ragazzi nelle scuole sono obbligati dagli insegnanti a mangiare durante il Ramadan. Fonti diplomatiche ed osservatori, intanto, diffondono notizie relative ad atti di violenza verso le minoranze degli uiguri e dei tibetani che rivendicano solo l’avvio di un normale processo di autonomia.

Ma a questo va aggiunto lo scontento per la crisi economica che coinvolge disoccupati e migranti, evidenziando che la Cina è seduta su una polveriera che può scoppiare da un momento all’altro e anzi sta provocando continue rivolte e scontri con esercito e polizia. Quanto ai fatti di Urumqi va rilevato che la regione interessata - quella dello Xinjiang - è una delle più complesse della Cina, da decenni teatro di tensioni etniche tra la popolazione musulmana e turcofona, principalmente uigura, e l'etnia cinese maggioritaria Han, alla guida del governo regionale.

Oggi, quindi, gli scontri tra uiguri e cinesi sono simili a quelli tra il governo di Pechino e la popolazione del vicino Tibet, eppure l'assenza di una figura di spicco come il Dalai Lama ha negato agli indipendentisti uiguri un riconoscimento internazionale. Ma gli uiguri non si sono mai rassegnati alla dominazione degli Han. Sanno di poter contare sulla ricchezza della loro terra dal momento che lo Xinjiang, è una regione ricca di petrolio e di gas naturale e che gli indipendentisti chiamano "Turkestan orientale" o "Uighuristan". Ed è questa la più grande delle regioni amministrative cinesi (1,6 milioni di chilometri). Dei 19 milioni di abitanti, quasi la metà (il 46%) sono uiguri, il 39% sono han (cinesi propriamente detti), il resto appartiene ad altre etnie musulmane, come i kazaki. Gli uiguri sono anche imparentati con altre popolazioni dell'Asia centrale e con i turchi, un popolo con cui condividono similitudini linguistiche, culturali e religiose.

Per quanto concerne le questioni territoriali e diplomatiche lo Xinjiang ha proclamato la sua indipendenza per due volte, negli anni Trenta e a metà degli anni Quaranta, assumendo il nome di Turkestan orientale indipendente. Poi le continue tensioni con Pechino hanno portato a diversi scontri, come quelli del 1990 a Barem, in cui morirono oltre 50 persone, o dello scorso 2008, quando il Paese si stava preparando alle Olimpiadi. In quell'occasione, secondo il governo cinese, due persone lanciarono una granata contro il confine della città turistica di Kashgar, causando 16 morti.

Ora risulta evidente che la Cina tiene continuamente sotto torchio i movimenti indipendentisti che reclamano l'indipendenza della regione, tra cui il Movimento islamico del Turkestan orientale (Etim), che secondo Pechino è collegato ad Al Qaeda e all'attentato delle Torri gemelle a New York. Ma la popolazione uigura in esilio ha una visione diversa del conflitto: alcuni attivisti come Rebiya Kadeer (esiliata in Europa e candidata varie volte al Nobel per la Pace) accusano Pechino di utilizzare la scusa della "lotta al terrorismo internazionale" per reprimere gli uiguri e le altre popolazioni musulmane, utilizzando metodi poco ortodossi: arresti ingiustificati, chiusura dei confini e applicazione della pena di morte. Tutto, infine, sta a dimostrare che la Cina - approfittando del fatto che le sue strutture economiche e sociali sono radicalmente cambiate - punta ora ad annullare, con precisi processi repressivi, l’identità culturale uigura.


Cina, strage nello Xinjiang
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 6 Luglio 2009

E' stato un massacro, con un numero di vittime già nettamente più alto delle rivolte del marzo 2008 in Tibet: a Urumqi, la capitale della provincia autonoma dello Xinjiang, ieri sera una manifestazione di protesta da parte della minoranza uigura è degenerata in scontri con le forze dell'ordine. Il bilancio provvisorio, fornito dall'agenzia Nuova Cina, è di 140 morti, oltre 800 feriti e 300 persone arrestate. Cifre che potrebbero peggiorare con il passare delle ore.

Almeno un migliaio di persone (alcune stime dicono tremila) sono scese in piazza nel pomeriggio di ieri nel quartiere uiguro di Urumqi, protestando contro l'uccisione di due uiguri in una fabbrica di giocattoli nella provincia del Guangdong, nel sud-est del Paese, il 26 giugno. Quel giorno, gli operai di etnia Han (cinese) presero di mira sei colleghi uiguri accusati di aver stuprato due lavoratrici Han: nella gigantesca rissa rimasero ferite altre 118 persone. Di fronte al gonfiarsi della manifestazione a Urumqi, ieri sera la polizia ha tentato di erigere delle barricate, che sono state presto sopraffatte dai dimostranti. A quel punto sono intervenuti i blindati dell'esercito. Ora la situazione sembra essere tornata alla calma, ma nella zona degli scontri i negozi rimangono chiusi, così come le strade che portano nella città. Gli abitanti confermano che l'accesso a Internet è stato disattivato. Anche a Kashgar, l'altra città principale dello Xinjiang ma al contrario di Urumqi ancora a maggioranza uigura, le forze dell'ordine hanno intensificato la loro presenza.

Le violenze, già con il bilancio di vittime attuale, fanno della rivolta il più sanguinoso sollevamento popolare in Cina negli ultimi dieci anni. Ma l'esatta dinamica dell'accaduto è ancora da appurare, e i media cinesi - come fecero l'anno scorso in Tibet - mettono l'accento sulla violenza dei dimostranti, che invece sostengono di aver messo in scena una manifestazione pacifica. Alcuni video messi in rete dagli attivisti uiguri sono stati presto tolti dalle autorità, che invece stanno facendo circolare immagini dei manifestanti che attaccano gli Han o la polizia, o ripresi mentre danno fuoco a dei veicoli; fonti cinesi contattate da PeaceReporter confermano come i media nazionali non facciano distinzione tra uiguri e Han, riportando solo la cifra delle vittime e scaricando in generale le colpe sui rivoltosi. Come fa con quella che definisce "la cricca separatista del Dalai Lama" per il Tibet, Pechino ha già accusato l'attivista uigura in esilio Rebiya Kadeer - più volte candidata al Nobel per la Pace - di aver sobillato la rivolta.

Comunque sia, gli eventi di Urumqi - una città di 2,3 milioni di abitanti che la sostenuta migrazione interna ha fatto ormai diventare al 70 percento cinese - riportano alla ribalta la frustrazione della comunità uigura dello Xinjiang. Nella sterminata provincia chiamata anche "Turkestan orientale" dai separatisti - un territorio grande cinque volte l'Italia e ricco di petrolio, ma popolato da solo 20 milioni di persone - questa minoranza centroasiatica musulmana rappresenta il 44 percento della popolazione, contro un 38 percento (e in crescita) di Han. Come i tibetani, gli uiguri lamentano di essere trattati come cittadini di seconda classe dai cinesi, la cui presenza sta lentamente erodendo la cultura e l'identità locale. La rissa mortale nel Guangdong arriva dopo diverse accuse di vera e propria "pulizia etnica" da parte degli Han nella provincia, a danno degli uiguri. E a Kashgar, da mesi le autorità stanno demolendo il caratteristico quartiere del vecchio bazar, trasferendo forzatamente le famiglie uigure in nuove costruzioni alla periferia della città.

Già la scorsa estate il problema dello Xinjiang era tornato di attualità, con tre successivi attacchi che nella prima metà di agosto causarono 30 morti. L'attentato più grave fu quello del 4 agosto, pochi giorni prima dell'apertura dell'Olimpiade di Pechino: un blitz contro un commissariato di polizia causò la morte di 17 agenti. Nei primi 11 mesi del 2008, nella regione sono state arrestate circa 1.300 persone per reati "relativi alla sicurezza". E c'è da scommettere che, come accaduto al Tibet, anche lo Xinjiang - dove già sono in vigore alcune restrizioni - verrà ora reso sempre più off-limits per i visitatori stranieri, nell'anno in cui la Cina vorrebbe celebrare i 60 anni della Repubblica Popolare dando di sè l'immagine di una pacifica potenza in ascesa.