Si preannunciano quindi tempi duri sia per la compagine di governo che soprattutto per il Paese.
Ma non è certo una novità.
Un esplosivo tranquillo autunno
di Alessandro Robecchi - Il Manifesto - 26 Luglio 2009
Credo che succederà questo. Che in settembre-ottobre avremo 700-800 mila posti di lavoro in meno (un impoverimento per alcuni milioni di persone). Che taglieranno fondi alle università con metodi furbetti parlando di merito e di efficientismo. Che aumenteranno le tasse universitarie. Che i terremotati de L'Aquila non avranno nuove case, con l'eccezione di una minuscola quota da mostrare in apertura di Tg1 e Tg5. Che i precari passati da «reddito poco» a «reddito zero» diventeranno un esercito. Che la crisi servirà a giustificare l'ennesima mattanza sociale. Insomma, credo che succederà quel che tutti dicono debba succedere: paura e casino.
Per una volta non è peregrino misurare la società con i meccanismi della domanda e dell'offerta: la domanda è molto forte. Domanda di stabilità, di difesa dalla crisi, di qualità dell'offerta scolastica. Domanda di uscire dalle tende. Domanda di arrestare l'erosione di reddito e di diritti. Domanda di dignità per il paese (vero, papi?). Domanda di fermare la ristrutturazione feroce attuata con la scusa della crisi. La domanda non manca, ma l'offerta è inesistente. Credo che succederà questo, che quando salterà il tappo non capiremo al volo.
Ci siederemo lì a leggere, che so, le pagelle della signorina Serracchiani. O annuiremo al vecchio buon senso progressista di Bersani su musica di Vasco. O commenteremo le astute strategie dalemiane di apertura all'Udc. O leggeremo come fondi di caffè le elucubrazioni di partitini inconcludenti che prendono il tre per cento se si presentano insieme e il tre per cento a testa se si presentano divisi, miracolo dell'aritmetica comunista.
Credo che ci siederemo comodi, tristi ma dignitosi. E quando comincerà a volare qualche sasso, e qualche schiaffone farà sciak!, ci chiederemo esterrefatti: ehi, come? Cosa? E dovremo reimparare da capo a scrivere e pronunciare la parola «conflitto». E sarebbe anche ora.
Tra Tremonti e Draghi affonda l'Italia
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 28 Luglio 2009
È buffo osservare la disputa che emerge dalle diverse rappresentazioni che vengono date dello stato dell’economia italiana. Da una parte abbiamo il sempre ottimista Tremonti, che afferma di essere soddisfatto di riuscire a mantenere lo status quo. Ci tiene a puntualizzare il suo nuovo slogan e afferma che, per lui, “in un momento straordinario mantenere l’ordinario è già straordinario”. Dall’altra, il severo Governatore della Banca d’Italia, Draghi, pone l'accento sul debito, ricordando il limite che esiste tra le parole e i fatti. Il tesoriere di Papi immagina di superare la peggiore crisi del capitalismo, mentre tutti gli altri paesi europei finanziano la spesa pubblica cercando di ripristinare la domanda aggregata oramai in caduta libera, semplicemente rimanendo immobile. Per lui questo ovviamente proverà solo che siamo circondati da irrinunciabili pessimisti.
Congiuntamente ai ripetuti riferimenti alla ormai prossima e certissima riforma del federalismo fiscale sembra venga lanciato un messaggio, un idea. L’idea che in questo paese ognuno sarà presto lasciato più solo. Sentire parlare Tremonti è sempre una sofferenza. Lui sa, fa intendere di sapere, è pronto a fare lunghe discussioni su come il mondo sia messo male con questa crisi finanziaria. Vederlo soddisfatto dire che “le entrate in Italia tengono nel loro gran totale e la caduta si sta in qualche modo fermando" fa quasi tenerezza. Lui - sembra voler dire - fa solo il possibile con quel poco che ha. Assopito e speranzoso dispensa ottimismo, ma solo quello. Mario Draghi interviene infatti funesto e spezza l’idillio mediatico, frena la giostra e ammonisce tutti i presenti: "La crisi lascerà conti pubblici deteriorati".
"Per uscire dalla crisi economica - continua il capo di Bankitalia - la priorità deve essere il sostegno al sistema produttivo, ma anche una strategia organica di riforme strutturali, interventi che assicurino il contenimento della spesa e la riduzione del debito pubblico”. Va detto che in un momento come questo, mantenere basso l’intervento dello Stato nell’economia, equivale a razionare il cibo ad un affamato per ragioni di dieta. Quando l’immagine della crisi mediatica incomincia ad assumere le sembianze, - drammaticamente concrete - di un avviso di licenziamento o di un mancato rinnovo, è tempo che lo Stato intervenga. Qui invece si ordina di trattenere tutto il trattenibile e di osservare zelanti le esigenze che impone il nostro piccolo gigantesco mostro, quel debito pubblico su cui si discute troppo poco e quasi sempre male.
Il Governatore si fa anche scrupolo di indicare una direzione da seguire: “In tal senso la riforma delle pensioni, quella della pubblica amministrazione e opportune modalità di realizzazione del federalismo fiscale, saranno cruciali per rendere più efficace la gestione delle risorse, in quanto solo un insieme organico di riforme volte a potenziare il capitale fisico e umano del Paese potrà risultare vincente”. “La crisi - puntualizza - inciderà notevolmente sulle finanze pubbliche lasciandoci con un debito pubblico molto elevato”.
Sembra purtroppo il sempre recitato “vorrei ma non posso” all’italiana. E non fa presagire nulla di buono. In modo neanche troppo velato si lascia intendere, per rimanere nella metafora del ministro, che si chiederà di fare lo straordinario ad un paese che non riesce neanche ad assicurare l’ordinario. Se a livello di proclami e dichiarazioni c’è discordanza, nei fatti, però, il Governo e il Governatore subito sìintendono sul chi dovrà subire il peso di responsabilità non sue.
Già da subito, infatti, si potranno cogliere i primi segnali del significato di questa crisi. Il momento di difficoltà è infatti condizione indispensabile per ottenere dei cambiamenti ed in questo caso si parla di pensioni. Questo anche perché ce lo dice l’Europa, troppo spesso ingiustamente percepita come soluzione dei mali nostrani. La mini-riforma delle pensioni avviata dal governo, che aggancia l'età di pensionamento all'allungamento della vita media, "è di fondamentale importanza", ha sottolineato il ministro dell'Economia. "Non è giusto - ha aggiunto il ministro mettendo le mani avanti - pensare alle manovre sulle pensioni come se fossero finanziarie”. Non sarà giusto ma la coincidenza non sembra fortuita.
Toccato poi sul suo punto debole, l’evasione fiscale, croce e delizia di tutta la sua carriera, rispondendo ad una domanda di un parlamentare, Tremonti ha detto di credere che "il federalismo fiscale sia fondamentale per contrastare davvero l'evasione fiscale strutturale in questo Paese”. “Abbiamo trasmesso al Parlamento la settimana scorsa – continua stufato - la relazione sull'evasione fiscale e credo che sia acquisibile agli atti". Con questo probabilmente Tremonti manda a dire che non intende farsi carico da solo dei futuri dissesti e disordini sociali creati dalla crescente disoccupazione. Nel 2009, infatti, il numero di persone occupate dovrebbe flettere dell'1,3%, cioè circa 300.000 posti di lavoro in meno. In questo scenario le regioni dovranno contribuire perché - si dice - adeguatamente responsabilizzate. Ottimi propositi che si concretizzeranno in una reale frattura della seppur già malconcia unità del Paese.
Anche se la televisione non lo dice l’economia reale è in evidentissima difficoltà, ma il governo in questo è immobile, bloccato da esigenze di cassa. Non potendo fare nulla Mister Impunità sorride sempre, si preoccupa di illuminare a dovere ogni buona pecorella con il suo occhio mediatico oltre, ovviamente, ad intrattenerci con tutti i suoi consigli vietati ai minori. Un grande capo di governo. Immobile davanti al pericolo, lui trova sempre la soluzione giusta. Noi dobbiamo solo fidarci.
Abruzzo, scontro sindaci-Bertolaso "Sulle macerie lavori a rilento"
di Giuseppe Caporale - La Repubblica - 29 Luglio 2009
Il sottosegretario: "A settembre chiuderemo le tendopoli,
non si può pretendere che faccia tutto la Protezione civile"
Le macerie del terremoto del 6 aprile sono ancora lì, in quasi tutti i 49 paesi colpiti dal sisma. Ferme da 113 giorni. Dopo la vicenda di Castelnuovo (riportata ieri da Repubblica), si scopre che anche in altri borghi gravemente danneggiati, la situazione è quantomeno simile, specie a Villa Sant'Angelo, Fossa, Sant'Eusanio e Tione degli Abruzzi (anche a causa degli ingenti danni). Ogni Comune dell'area del cratere, nel suo territorio, ha provveduto a pulire esclusivamente le vie d'accesso per la circolazione ed ha isolato la "zona rossa", lasciando così gran parte delle macerie al loro posto.Alcune amministrazioni locali hanno anche predisposto siti temporanei per lo stoccaggio, ma i lavori, comunque, procedono a rilento. Non solo, all'Aquila - da giorni - è scoppiato un "caso macerie": la giunta guidata da Massimo Cialente ha affidato lo smaltimento di un milione e 500mila metri cubi di "rifiuti derivanti dai crolli connessi all'evento sismico", ad una sola ditta. Senza gara d'appalto. "Un business da 50 milioni di euro - accusa l'opposizione guidata dal capogruppo del Pdl, Gianfranco Giuliane - quanto meno sospetto per le procedure adottate". Dopo che la Guardia di Finanza ha acquisito gli atti della vicenda per approfondimenti, l'incarico è stato revocato.
E sulla vicenda "ricostruzione e macerie", ieri, è intervenuto anche il capo del Dipartimento della Protezione Civile, Guido Bertolaso: "Noi a settembre chiuderemo le tendopoli, riapriremo le scuole, ma non si può pretendere che faccia tutto la Protezione Civile. Anche le altre amministrazioni ed i cittadini si devono impegnare per affrontare i problemi e risolverli".
Questo ha risposto a margine dell'inaugurazione della strada per la funivia del Gran Sasso (risistemata dall'Esercito) alla presenza del ministro della Difesa Ignazio La Russa. Ed ha aggiunto: "La Protezione Civile ha emanato nei tempi stabiliti le ordinanze. Tocca però ad altri applicarle e ciò non sta avvenendo".
Secca e tecnica la replica del sindaco Cialente: "Al Comune dell'Aquila sono arrivati 20 milioni di euro, per far fronte alle domande di intervento delle case classificate A, B e C. Per le sole A, secondo le nostre stime ne servono 120. E poi: il prezziario regionale è incompleto; siamo sommersi da richieste di revisione per case classificate agibili. Ed i rimborsi per la ricostruzione leggera hanno procedure poco chiare".
Intanto l'1 agosto prenderà il via un censimento. Spiega Bertolaso: "Metteremo gli aquilani che sono ancora senza alloggio davanti a tre scelte: trasferirsi nelle case che stiamo costruendo, oppure andare ospiti presso parenti o amici. O andare in affitto in case che può trovare la Protezione Civile e si può eventualmente procedere a requisire le case sfitte".
Il governo delle ronde
di Rosa Ana De Santis - Altrenotizie - 28 Luglio 2009
Dopo l’annuncio del pacchetto sicurezza consacrato in legge, il timore che le ronde diventassero appendici fuori controllo di certe frange violente era stato messo a tacere. La neutralità di rivendicazioni quali la difesa dei cittadini e l’incolumità delle donne doveva, nelle intenzioni del governo, normalizzare un tema bollente. Doveva trattarsi di cittadini ben equilibrati e solo devoti al bene comune. Dotati di divise e disarmati. Assolutamente inutili, ma scenografici. Una pillola di sedativo per l’allerta e la paura sociale di certe classi e di certe aree periferiche delle città. Le ronde di oggi sono invece quello che sono. Squadroni di esaltati trasformati in gendarmi. Sigilli e divise in odore di destra estrema. Ex poliziotti reclutati e giovani in ozio cresciuti a propaganda. Maroni più volte ha rassicurato, come se lui potesse rassicurare qualcuno.
A conferma, invece, c’era stato il caso delle ronde d’ispirazione fascista. Aquile imperiali e nomi da milizia del ventennio come “la Guardia nazionale”. Poi il titolo ufficiale della non politicizzazione di questi aspiranti sceriffi. Una versione troppo ridotta all’osso e poco credibile. E’ la scelta del governo, che ha messo in campo la misura delle ronde, ad aver dato alle stesse una valenza politica e un ben precisa collocazione culturale.
Al tema della sicurezza nazionale, ammesso che vi fosse l’emergenza paventata, il governo ha risposto identificando negli stranieri il capro espiatorio e delegando ai privati, non alle istituzioni, la libertà di difendere e intervenire. E’ già questa una risposta politica ben precisa. Ed è una politichetta nazional-popolare, un misto volgare di populismo e regime che non si cura neppure di appartenere ad una precisa identità politica. Le sigle e gli acronimi contano davvero troppo poco.
Poi arriva la notizia degli scontri di Massa. L’editoriale di La Repubblica con le parole di Gad Lerner lancia un allarme di preoccupazione. Gli scontri tra presunte ronde rosse e ronde nere sembrano farci tornare alle piazze degli anni Settanta. Ma è davvero cosi’? Il mare tornerà agitato? Propaganda faziosa, risponde Cicchitto. Siamo all’alba di un'altra stagione di rivolte e scontri intestini, temono alcuni. Il furore dell’ebbrezza ideologica che ha trasportato allora, in un vento di protesta e di scontro, tanti giovanissimi, che ha disegnato nuove piazze e nuove fabbriche, scuole migliori e famiglie diverse è davvero tornato?
Nel frattempo la cronaca dell’accaduto si frammenta tra tanti titoli strani, mordicchiati da strategici non detti. Certo è che il caso di Massa diventa piuttosto emblematico e le prove generali sono sufficienti a smascherare le rassicurazioni del Ministro degli Interni, fondate sul rigoroso regolamento attuativo delle ronde, a vanificare ogni ipotesi di utilità dei parapoliziotti e a dimostrare che la forze dell’ordine avranno semmai lavoro supplementare e nessuna facilitazione.
Quanto al rischio forse anche un po’ poetico di ritornare alla stagione della rivolta, nessuna illusione: il seme di quella rivolta sociale e politica non torna. Il vento non è lo stesso. Oggi non funziona più la protesta condivisa, il gruppo e l’appartenenza. Oggi vince su tutto l’individuo utente, non quello che agisce. Ben collegato agli altri, ma mai insieme a loro.
Chi avvicina questi episodi alle piazze degli anni settanta avvicina il tema della paura e la china della violenza. Ma siamo lontani, lontanissimi e forse non per fortuna. Oggi mancano non le sponde ideologiche, ma le idee. La politica vivacchia in un recinto mediatico e la partecipazione è estinta, se non nelle forme scenografiche di ronde e simili. Le idee stanno appese sulle bandiere, sulle gambe non camminano più.
I “rossi” sono ridotti a frammenti nostalgici, incapaci della portata rivoluzionaria di allora. I neri sono solo più liberi di pubblicizzare la loro immondizia, coperti non più dai settori deviati dello Stato, ma dai livelli pubblici della politica e dei media che dello Stato hanno fatto strame. Il nemico interno è diventato ridicolo. Tutto sembra un po’ teatro, performance; niente sembra davvero reale. Anche solo per questo non siamo in quel bivio di trasformazione e passaggio che era allora. La destra è riciclata nelle ronde, la sinistra non morde più. La rabbia viene utilizzata e non è più repressa. La vittima è straniera. Fuori dal recinto di casa. E’ “la roba” il dio della cittadinanza passiva, consumatrice e guardiana dei propri beni.
A chi si domanda se le ronde debbano fare paura, la risposta è si. Perlomeno quelle di destra. Per il caos e il disorientamento che proietteranno sulle istituzioni, per la violenza vuota che genereranno. Il Fascismo resiste come categoria di violenza e discriminazione e, molto più semplicemente, come banale gioco del male. Il male autentico è la normalità silenziosa che accompagnerà questa banda di annoiati texani e i loro malcapitati. Il rumore di qualche scazzottata notturna non è il sale della rivoluzione.
Lodo Bernardo: i panni sporchi non si lavano e basta
di Mariavittoria Orsolato - Altrenotizie - 29 Luglio 2009
Ci risiamo. Non pago di aver architettato una truffa ai danni dei terremotati con un G8 tanto costoso quanto inutile, probabilmente non del tutto soddisfatto dal maxicondono sdoganato dallo scudo fiscale, il Governo delle Libertà vigilate scampate fa un altro passo verso quella che sembra sempre più essere una democradura, varando un nuovo lodo nell’ormai zeppo Dl anti-crisi. Il nome in codice è Bernardo, dall’omonimo anonimo soldatino parlamentare scelto dal gregario avvocato Ghedini, che immaginiamo duramente provato e colpito nell’orgoglio da questo continuo e ingrato lavoro di ghost-writing. Il bersaglio del provvedimento è di nuovo la magistratura, in particolare la Corte dei Conti, quell’organismo che dal 1882 (su ispirazione dei più antichi tribunali romani delle quaestio perpetuae de peculatu) vigila sul corretto impiego del flusso di denaro pubblico e che, con la sue recenti inchieste, potrebbe mettere in imbarazzo - perché è questo il massimo che ci possiamo aspettare - più di una carica istituzionale.
In breve, se il provvedimento passerà indenne all’esame delle due Camere il prossimo 3 agosto, la Corte dei Conti potrà aprire fascicoli d’indagine solo ed esclusivamente nei casi in cui ci sia “una specifica e precisa notizia di danno, qualora sia cagionato per dolo o colpa grave” e non il semplice sospetto che qualcosa - dal momento che si parla di conti - non torni. A segnalare l’inghippo è stato proprio il procuratore generale della Corte dei Conti, Furio Pasqualucci, che nei giorni scorsi ha scritto un’accorata lettera al presidente della Repubblica Napolitano nella quale smascherava le enormi limitazioni alle indagini contabili espresse nell’emendamento al decreto anti-crisi. Soprattutto puntualizzava come questo potesse inficiare indagini in pieno corso di svolgimento, come quella sul crack dell’azienda di trasporti pubblici genovese o quella sulle consulenze strapagate dal sindaco milanese Letizia Moratti.
Il problema come al solito sta tutto nella semantica: specificando che l’azione penale deve essere originata da una precisa e specifica notizia di danno si cerca di ripercorrere la strada già usata nel discusso disegno di legge sulle intercettazioni, ovvero prima accertare che il reato sia stato effettivamente consumato e poi procedere. E’ un po’ come la storia del famoso marito tradito che pur di fare un dispetto alla moglie si evirò: mettere una norma che, di fatto, facilita il peculato all’interno di un complesso procedurale volto a fronteggiare la crisi economica, è quantomeno paradossale, per non dire limpidamente autolesionista. Ma al tafazzismo siamo geneticamente abituati.
Certo è che il lodo Bernardo rappresenta l’ennesimo tassello nel piano di smantellamento della giurisdizione della magistratura, dopo la normalizzazione di quella ordinaria (che prevede di fatto uno svuotamento della funzione del pubblico ministero, trasferendo al Governo il potere di direttiva sulle indagini) e dopo la stretta sul disegno di legge a proposito di intercettazioni - previste ora solo in casi “forti indizi di colpevolezza” - il lodo (ormai sinonimo di scudo giudiziario) chiude il cerchio della supposta inviolabilità dei colletti bianchi. Insomma secondo il nostro Governo, la magistratura deve intervenire solo nei casi in cui palesemente non ne possa fare a meno, ossia quando il latte è già stato versato e le lacrime altrettanto.
Ma c’è di più. Nelle quindici righe dell’emendamento sono specificate anche le aree di competenza per le indagini della Corte dei Conti, che vengono ridotte a “uno degli organi previsti dall'articolo 114 della Costituzione o altro organismo di diritto pubblico". Il che significa strozzare la lista dei soggetti potenzialmente perseguibili, levando in un sol colpo le temibili municipalizzate che privatizzano i beni di prima necessità come l’acqua, gli enti mutualistici che drenano risorse a ai lavoratori, le tanto discusse quanto inutili comunità montane che sorgono come funghi anche a 25 metri sul livello del mare e la stessa Bankitalia, madre generosa e arrendevole di tutti gli scandali finanziari della penisola.
Com’è ovvio la disposizione prevede che “qualunque atto istruttorio processuale posto in essere in violazione di queste disposizioni alla data di entrata in vigore della legge, è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento”, che tradotto in italiano corrisponde alla soppressione di tutti i processi in corso e all’avocabilità di quelli che si concluderanno, in nome della retroattività del provvedimento. Il diavolo, com’è noto, fa le pentole; in Italia però, anche i coperchi e lo scolapasta.
La paura dei migranti che non fanno la badante
di Luca Fazio - Il Manifesto - 25 Luglio 2009
Le nostre mamme e le nostre nonne a una certa età sono insopportabili (vale anche per padri e nonni) e per questo nessuno batte ciglio per lo scandalo della regolarizzazione selettiva delle badanti, costrette a sopportare una vita di semi-schiavitù per risolvere i problemi delle nostre sacre sfasciate famiglie. Loro dentro, «sanate» da un governo razzista (tranne quelle che verranno cacciate perché qualche famiglia non vorrà regolarizzarle), e tutti gli altri fuori. Braccati, anche se lavoratori, come piace a un De Corato qualsiasi, «adesso che c'è il reato di clandestinità l'obiettivo è rendere Milano off-limit per i 38mila clandestini presenti in città». Gli stranieri non hanno mai avuto così paura.
La geografia antropologica di questo provvedimento ingiusto è già scritto: donne di etnie rassicuranti a fare le serve, giovani uomini minacciosi da sfruttare, umiliare e incarcerare. E la vita era già complicata prima. Jacques, senegalese, ha 27 anni. Scappa da quando è arrivato in Italia, vende merce contraffatta e quando capita lavora per un'impresa di pulizia. Ha trovato un po' di calore umano, e le scarpe - «ancora adesso ho problemi ai piedi, ho passato un inverno a piedi nudi» - quando è entrato in una squadra di calcetto. Vuole andare in Svezia, un sogno. Più o meno come l'unica soluzione che fino ad ora gli hanno prospettato. «Sono molto preoccupato - dice - il mio capo mi ha consigliato di trovarmi un anziano per fare il badante, lui è figlio di migranti italiani e vorrebbe aiutarmi. E' assurdo che la sanatoria non riguardi anche i clandestini...io ho chiamato un amico prete».
Ci sono immigrati che trovano amici anche tra i «padroni», i datori di lavoro. Vorrebbero assumerli, ma non possono farci niente. Rauf, 31 anni, è egiziano, fa lo stuccatore nei cantieri di periferia, «in centro a lavorare non ci vado, troppo pericoloso». La domanda la fa lui: «Senti, sono le 7 di sera e sono qui dentro che non ho ancora finito di lavorare, mi dici che reato sto commettendo, me lo dici?». Difficile rispondergli, e a vergognarsi sono in pochi. Rauf ha un'idea solo apparentemente strana di questa sanatoria selettiva: «Hanno dato la possibilità solo ai ricchi che vogliono prendersi le colf...», e per lui i ricchi siamo noi, e a mettersi una mano sulla coscienza sono sempre gli stessi, troppo pochi.
Tocca a Mohamed recitare la parte del maschio delinquente, un marocchino di 32 anni, che fa lavoretti ogni tanto, ai mercati generali. In passato ha avuto dei «casini» con la polizia, ma adesso ha 2 figli piccoli che vanno all'asilo a Milano e una moglie che sta aspettando la cittadinanza italiana. Un veterano, che è arrivato a 14 anni e ancora viene trattato come uno scarto della società. «Io non posso fare la badante - s'incazza subito - io sono maschio e giovane, allora cosa faccio?».
Lavora ogni tanto nei cantieri, anzi, a Bergamo aveva anche la busta paga, poi l'hanno chiamato in questura ai tempi dell'ultima regolarizzazione, ma invece del permesso - che aveva potuto chiedere grazie al suo datore di lavoro - l'hanno sbattuto dentro per sei mesi. «Piccolo spaccio, una cazzata di quando ero ragazzino, pochi grammi di fumo». Anche uno come Mohamed, che trascorre le giornate nei mercati di periferia con merce di contrabbando, «mah, un po' di tutto», ha paura. Molta. «Andare in giro è diventato impossibile, ti fermano per niente e ti portano in questura, adesso che ho due bambini mi sento schiacciato, vivo perennemente cercando di schivare certe situazioni».
Ognuno scappa a modo suo, Cirante, per esempio, un cingalese di 30 anni, da quando è diventato un reato vivente si veste meglio per non dare nell'occhio, per darsi un tono. Anche lui potrebbe essere assunto, va a fare le pulizie da una signora due giorni alla settimana, la famiglia ha avviato tutte le pratiche ma dopo un anno ancora nessuno si è fatto sentire.
Ha un po' di paura la sera quando va a fare le pulizie in un ufficio di piazza San Babila: «Esco alle 21,30 e a quell'ora non ci sono in giro molte persone». E allora? Il problema è la polizia, qualunque divisa. Fa di tutto per stare lontano dalle situazioni a rischio. Niente di che...«Gli amici e i parenti vanno spesso a fare delle gite, sono andati anche in Francia, ma io preferisco restare a casa...meglio non farsi vedere in troppi».
Umilmente. Tra le dieci fatidiche, c'è spazio per un'altra domandina-tormentone, o al «premier» non abbiamo più il coraggio di chiedere nient'altro?
I "sudisti" e lo sfogo di Tremonti sul jet, "Silvio devi mettere a posto Miccichè"
di Francesco Bei - La Repubblica - 29 Luglio 2009
Un aereo di Stato rulla sulla pista di Linate. Diretti a Roma, dove si voterà il decreto anticrisi, si accomodano nel salottino di prua Silvio Berlusconi, Giulio Tremonti, Umberto Bossi e altri ministri come Roberto Calderoli e Michela Brambilla. Sopra il Tirreno la discussione entra nel vivo e si parla dei soldi per il Mezzogiorno, una sostanza pericolosa da maneggiare visto le crepe che si sono aperte nel governo e nella maggioranza. Come se non bastasse l'offensiva del partito del Sud, ieri il Carroccio è ritornato all'attacco - dopo il "tutti a casa" sull'Afghanistan - con la proposta shock di introdurre test di dialetto ai professori. Ma sull'Airbus presidenziale questa ennesima bomba ancora non è scoppiata.
Tremonti è una furia e, in alta quota, si scaglia contro Gianfranco Micciché, il regista dei vespri siciliani del Pdl. "Adesso basta - alza la voce il ministro dell'Economia - spetta a te Silvio rimetterlo al suo posto. Io non ci sto a essere insultato in questo modo, non ci sto a passare per quello che strangola i meridionali. Farlo ministro del Sud poi... ma a chi è venuta l'idea?". Tremonti è un fiume in piena: "Io ti do la massima disponibilità a fare tutto quello di cui c'è bisogno, ma non possiamo non tener conto di quello che è già stato fatto e non è poco. E poi, presidente, abbiamo la terribile esigenza di ridurre il debito pubblico".
Umberto Bossi annuisce alle tesi del ministro dell'Economia, ma non vuole alimentare una dialettica Nord contro Sud e non si mette di traverso rispetto all'idea di un Piano per il Mezzogiorno. "Se i fondi vengono spesi per delle opere concrete e non regalati a pioggia - sentenzia infatti il Senatur - per noi va bene". A questo punto il Cavaliere prende la palla al balzo e chiude il capitolo: "Giulio con Micciché ci ho già parlato io, stai tranquillo. È tutto sotto controllo, la cosa è già rientrata". L'idea del Cavaliere sarebbe infatti quella di accontentare il ribelle siciliano con un incarico ad hoc nel partito, qualcosa come coordinatore di una costituenda "Consulta per il Mezzogiorno", che ne faccia una sorta di proconsole in Sicilia. Non solo.
Per domani sera, dopo averli chiamati uno ad uno personalmente, Berlusconi ha organizzato una cena con i dissidenti "sudisti" che hanno votato alla Camera un ordine del giorno contro il parere del governo. Una tattica per sopire, per ora con le maniere gentili, l'accenno di rivolta dentro i gruppi parlamentari.
Un'insubordinazione che ha colpito molto il Cavaliere, così come lo ha preoccupato vedere che anche ieri alla maggioranza sono mancati decine di voti sul decreto anticrisi. "Ma chi erano quelli che non ci hanno votato?", ha sussurrato preoccupato alla buvette al capogruppo Cicchitto, "erano solo dell'Mpa o anche nostri?".
Oggi intanto pranzo di lavoro tra Berlusconi e i ministri Tremonti, Matteoli, Scajola, Fitto e Prestigiacomo sul "Piano per il Sud" annunciato dal premier dopo gli ultimatum di Micciché. "La mia parte di proposte - raccontava ieri in Transatlantico Altero Matteoli - l'ho già messa su carta e domani la consegno a Berlusconi". Tutto ruota intorno allo sblocco dei residui fondi Fas e palazzo Chigi sta lavorando a un'ipotesi di compromesso: Tremonti aprirà la cassaforte e i fondi verranno trasferiti alle Regioni, ma solo per finanziare progetti vagliati dalla "cabina di regia" ministeriale a Roma.
Prima di tutto però il ministro Fitto, che è diventato il principale antagonista di Tremonti in Consiglio dei ministri, chiederà al Tesoro una ricognizione sui mille rivoli della spesa pubblica al Sud. "È un ginepraio pazzesco - ha spiegato a un collega - in cui nessuno ha idea di quanti soldi siano già stati stanziati. Occorre un monitoraggio serio, altrimenti restano solo chiacchiere". "Ma noi - ha chiuso Fitto con una frecciatina a Tremonti - non siamo mica l'Aspen, siamo il governo del paese".
Intanto, sulla scuola, un'altra grana è esplosa nella maggioranza a causa della Lega. E Berlusconi, informato in serata dalla Gelmini, ha confortato la ministra: "Vai avanti tranquilla. A Bossi ci penso io". Il fatto è che la provocazione dei test in dialetto per i professori aveva già fatto capolino nella discussione in commissione e sembrava fosse già stata scartata.
"Anche per me - aveva confidato alcuni giorni fa il leghista Calderoli a Valentina Aprea - quella proposta è incostituzionale". E invece una parlamentare leghista se ne è infischiata, gettando la maggioranza nel caos. Sarà questo infatti un altro terreno di scontro, visto che Gianfranco Fini in Aula ha già lanciato la parola d'ordine del rispetto "pieno e totale" della Costituzione a cui dovrà conformarsi la riforma della scuola. Il che ovviamente esclude i test dialettali. La polemica con il Carroccio si alimenta anche con la questione dell'Afghanistan, visto che ieri i leghisti, nonostante tutte le rassicurazioni di Berlusconi, hanno ufficialmente ribadito le loro perplessità sulla missione militare. Una posizione che Fini, conversando con i suoi, non ha esitato a bollare come "ambigua".
Il Pdl e l'inizio della deriva localista
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 29 Luglio 2009
Probabilmente non siamo alla vigilia della crisi del centrodestra. Ma certo sta entrando in tensione «un» centrodestra: quello che riusciva a tenere insieme tutto. In apparenza sembra la metafora della coperta troppo corta, o di un’Italia troppo lunga per accontentare ogni sua porzione. Ma gli interessi sono sempre stati contrastanti.
La vera novità è che il governo di Silvio Berlusconi non si mostra più in grado di conciliarli come ha fatto in passato. L’ipoteca della Lega nord sulla maggioranza sta assumendo un peso schiacciante. L’ipotesi di un ritiro italiano dall’Afghanistan, la polemica contro il Pd, gli esami di dialetto per gli insegnanti sono pezzi della stessa strategia. Anzi, suonano come anticipi della campagna elettorale per le regionali del 2010. Si tratta di un braccio di ferro a tavolino con gli alleati del Pdl, prima che col centrosinistra. Ed ha come trofeo le presidenze di Veneto, o Lombardia, o di entrambe.
Il partito di Umberto Bossi osserva con freddezza le difficoltà berlusconiane; e ne trae le conseguenze. La sua spregiudicatezza è simmetrica a quella dei teorici del «partito del Sud», che hanno costretto palazzo Chigi a scendere a patti; e additato polemicamente l’«asse del Nord» fra Lega e ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il risultato, per il momento, sono la paralisi decisionale ed un’immagine deprimente della maggioranza.
In parte, probabilmente, è una spia della crisi di leadership di Berlusconi, della quale le vicende private sono il sintomo più che la causa. È bastato che il premier garantisse soldi alla Sicilia, perché il Carroccio riaprisse quasi di rimbalzo una serie di fronti conflittuali «padani»; ed il premier non ha saputo fare argine. Ma in questa difficoltà personale si intravedono implicazioni più di fondo: un cambio di fase, e la conferma che la vera insidia per la maggioranza viene dalla crisi economica. Nel momento in cui gli spazi di mediazione ed i finanziamenti si inaridiscono, rischia di scheggiarsi il blocco sociale che ha rispedito Berlusconi a palazzo Chigi nel 2008.
È come se di colpo fosse saltato l’armistizio nazionale stipulato appena un anno fa tra leghismo nordista ed autonomismo siciliano all’ombra del Cavaliere. Al suo posto rimangono le rivendicazioni corporative e territoriali; e di riflesso una difficoltà crescente a legiferare. Si indovina una sorta di «si salvi chi può» che in realtà promette solo di mandare un po’ più a fondo il Paese, e soprattutto le sue aree più deboli. E in questo scenario inquietante, la Lega è decisa a far valere il suo potere contrattuale. Non vuole perdere il controllo dell’agenda governativa. Ed è intenzionata a monetizzare politicamente un ruolo crescente, consacrato dal voto europeo di giugno.
Le conseguenze sono paradossali e assai poco incoraggianti. Un’Italia che ritiene, magari con qualche ragione, di potere affrontare la crisi meglio di altri Paesi, mostra il volto della precarietà: nonostante i numeri parlamentari mettano in teoria la coalizione al riparo da qualunque pericolo. Ma, paradosso nel paradosso, un modello di centrodestra entra in crisi anche perché non ha avversari in grado di proporsi come alternativa: non per ora, almeno. Così, riemergono gli istinti di una Lega «di lotta e di governo», come è stato detto; e simmetricamente di una Sicilia conquistata e dominata dal Pdl, ma pronta ad andare all’opposizione di palazzo Chigi per avere più soldi. C’è da chiedersi chi possa fermare questo inizio di deriva, e come.
Per ora, l’impressione è che prevalgano quelli che la vogliono non bloccare ma sfruttare per i propri calcoli di potere. Si indovina una convergenza oggettiva fra le pulsioni localiste, quasi isolazioniste di pezzi di nord e di sud per regolare i conti con «Roma»; per svuotarne stavolta dall’interno la legittimità di luogo del governo e dell’unità nazionale, per quanto contestati. Si tratta di una manovra in incubazione, della quale è bene essere consapevoli.
Il Carroccio lancia la sfida sulle regionali
di Francesco Verderami - Il Corriere della Sera - 29 Luglio 2009
Il problema per Berlusconi non è il partito del Sud ma la competition con la Lega, in uno scontro di linea politica e di potere che mette in fibrillazione il governo, anticipando i tempi di una campagna elettorale per le Regionali di fatto già iniziata. E se domenica il premier è uscito allo scoperto sul Mezzogiorno, preannunciando un piano d’interventi, è stato per evitare che fosse Bossi a dettare l’agenda con la sua sortita sull’Afghanistan, ma anche per mettere quanto più possibile la sordina mediatica allo scontro avvenuto a Massa tra ronde di estrema destra e di estrema sinistra.
Sulla «legalizzazione» delle ronde proprio il Cavaliere aveva espresso dubbi a più riprese, temendo rischi di ordine pubblico, ma aveva dovuto sottostare alle richieste dell’alleato. Perciò ha premuto l’acceleratore sulla questione meridionale, per impadronirsi della scena, sebbene sia consapevole che un «piano» ancora non esiste. Infatti il vertice di oggi si preannuncia «al buio», sulla quantità delle risorse da investire e su chi le gestirà.
L’intento di Berlusconi era e resta quello di riequilibrare i rapporti con la Lega e ridimensionare il ruolo di Tremonti nell’esecutivo. «Il premier sono io», ha ripetuto ieri il Cavaliere, che grazie all’operato di Gianni Letta — impegnato in un gioco di sponda con il Colle — ha lavorato per modificare le parti del decreto anti-crisi su cui si è disputato il primo tempo della sfida con la Lega. E con Tremonti. Al titolare di via XX Settembre il premier ha chiesto un atteggiamento meno conflittuale con i colleghi di governo.
Per dirla con una battuta che la Gelmini ha fatto proprio a Tremonti, «tu sei il nostro male necessario». È un modo per riconoscergli «capacità» e «genialità». Ma ci sarà un motivo se Berlusconi ha invitato il ministro dell’Economia a «frenare il carattere», ad essere «più calmo e tranquillo»: «Devi capire che alla fine le tensioni si riversano su di me. Perché tutti vengono, chi per una cosa, chi per un’altra, a chiedermi d’intervenire».
Così il Cavaliere ha pensato di aver chiuso il cerchio, rimpadronendosi del primato. Senonché il Carroccio ha giocato al rilancio, aggiungendo al fuoco della polemica — dopo l’Afghanistan — anche la riforma scolastica. Perché è vero che sulla missione militare Bossi ha assicurato l’appoggio alla linea del governo, tuttavia le perplessità ribadite ieri sulla presenza italiana in quel territorio di guerra hanno destato scalpore, al punto che nei suoi colloqui riservati il presidente della Camera si è detto «molto preoccupato», ha definito «ambigua» la posizione della Lega e rilevato che «certi interrogativi, se posti in modo unilaterale, rischiano di indebolire la posizione dell’Italia nella Nato».
Come non bastasse, il Carroccio ha chiesto di inserire nella riforma della scuola un test per i professori sulla conoscenza del dialetto della zona dove chiedono di insegnare, bloccando il provvedimento in commissione alla Camera. È una questione solo all’apparenza folkloristica, in realtà mira a far presa nel tessuto profondo del corpo elettorale nordista, in vista delle Regionali.
Nella competizione la Lega è già pronta e in grado di dar battaglia sui propri temi, mentre il Pdl appare costretto a inseguire e muovere sulla difensiva. Certo, le mosse del Carroccio sono anche un modo per difendere il ministro dell’Economia, che è al centro di un’offensiva concentrica, e in questo senso il compromesso raggiunto sul dl anti-crisi, la decisione cioè di inserire le modifiche in un altro decreto, non possono soddisfare Berlusconi: varare un nuovo provvedimento per correggerne uno che non è ancora stato licenziato dal Parlamento, è un colpo all’immagine del governo e soprattutto del premier.
Il Cavaliere voleva utilizzare la questione meridionale per riprendersi una centralità che aveva perso per via degli scandali sui festini e le donnine. Ora, è vero che il fragore dello scontro nel centrodestra sovrasta il rumore delle polemiche sulla vita privata del premier, ma il costo politico rischia di essere alto, perché la maggioranza offre il quadro di una coalizione che non riesce ad avere una visione collegiale del Paese, spaccata negli interessi da difendere, con un Berlusconi che fatica a esserne la sintesi. Di qui l’ossimoro coniato da Fini, che vede una fase in cui regnano insieme «stabilità e incertezza».