venerdì 10 luglio 2009

Il Punto G: dal G8 al G14

Il G8 dell'Aquila è ormai terminato, mettendo ancora una volta in luce la sua totale inadeguatezza come format adatto a rispondere concretamente alle sfide globali presenti e future.

E a tutti gli 8 leader sembra chiara l'idea che ben presto si dovrà passare al format del G14, che ha già una sua struttura consolidata formata dai Paesi del G8 più Brasile, Cina, India, Messico, Sud Africa ed Egitto.

E per gli 8 sarà finito il tempo dei diktat al resto del mondo. Anzi, è già finito.


Il capolinea di un club troppo esclusivo
di Franco Venturini - Il Corriere della Sera - 10 Luglio 2009

Da anni l’appuntamento annuale del G8 ha cattiva stampa. Da anni si rinnova in alcuni censori una retorica anti-vertice che è uguale, senza rendersene conto, a quella del vertice. Ma la novità, stavolta, è che all’Aquila il G8 è davvero arrivato al suo canto del cigno. Non perché abbia sfigurato, nella preparazione e nei risultati, rispetto alla maggioranza delle riunioni precedenti. Non perché sia tramontata la voglia, sempre viva e sempre utopica, di un «governo mondiale» il più pos­sibile ristretto. Ma piuttosto perché, a forza di cambia­re, il mondo non può più permettersi il lusso di un salotto buono troppo selezionato.

A strappare gli ultimi veli di una realtà che andava profilandosi da tempo è stata, beninteso, la crisi eco­nomica e finanziaria che ancora viviamo. Il suo effet­to non è stato di creare i fenomeni (per esempio l'ascesa della Cina o dell’India) bensì quello di accele­rarli e di obbligare tutti a prenderne atto. Chi pensa più, oggi, che le questioni poste dalla crisi possano essere affrontate e risolte senza il coinvolgimento dei cosiddetti Paesi emergenti?

Il G14 ha deciso ieri di diventare un foro «stabile e strutturato». Un modo di prendere atto, semmai tardi­vamente, dell’inarrestabile ascesa del multipolarismo economico oltre che politico. Ma non per questo il G8 ha dichiarato di volersi autoaffondare. E poi gli sguar­di sono già puntati sul G20 che si terrà a Pittsburgh a fine settembre. Siamo dunque alla vigilia di una «guerra delle G»? Non esattamente, ma il meno che si possa dire è che l’idea di una necessaria governance mondiale appare al momento piuttosto confusa.

La sorte del G8 appare comunque segnata, anche se un’ultima boccata di ossigeno potrebbe essergli concessa l’anno venturo in Canada. Ma nel 2011 la presidenza tocca alla Francia, e Sarkozy ha già annun­ciato che il suo vertice sarà come minimo un G13. Il problema, allora, è di immaginare una credibile divi­sione dei ruoli, e anche di comporre esigenze tecni­che e riserve politiche.

Il Giappone, per dirne una, non vede di buon oc­chio l'ingresso stabile della Cina nel G8: battaglia or­mai di retroguardia, perché la Cina è presente tanto nel G14 quanto nel G20. Qualche resistenza lo sherpa italiano Giampiero Massolo l'ha trovata anche negli americani.

Ma qui il motivo è diverso, e ben più insi­dioso per tutti gli altri a cominciare dagli europei: gli Usa, accanto al G20, vedono bene un G2, un rapporto privilegiato, cioè, con il determinante colosso cinese. Il risultato è che si arriverà fatalmente a una geome­tria variabile. Al centro del sistema il G20 specifica­mente incaricato di affrontare la crisi economica e di fissare nuove regole finanziarie. In subordine ma non troppo il G14 impegnato sulle altre questioni globali, come la difesa dell’ambiente lungamente discussa ie­ri all'Aquila (senza escludere che all’interno del G14 su alcune questioni possa riunirsi ancora un G8). E soprattutto, pragmatismo e flessibilità diventeranno la regola a seconda delle esigenze.

All'Italia non dispiacerebbe che il G14 formalizzato ieri avesse una influenza in tema di riforma del Consi­glio di Sicurezza dell’Onu. Ma la vera incognita è altro­ve. Non risulterà troppo difficile trovare un consenso decisionale a venti? Andrebbe davvero meglio a quat­tordici? Il rischio è chiaro: che invece di allargarsi il G8 finisca per restringersi, e diventi sempre di più un G2.


Il potere degli emergenti
di Federico Rampini - La Repubblica - 10 Luglio 2009

Archiviato il primo giorno di summit nel formato ormai obsoleto del G8, l'allargamento della seconda giornata alle cinque potenze emergenti (Cina India Brasile Messico e Sudafrica) ha rivelato la forza tremenda del "fronte dei veti". Gli emergenti hanno una visione del mondo lontana dalla nostra. Hanno altre priorità. Hanno il peso economico e politico per esercitare un formidabile potere d'interdizione.

E' questo il vero senso della giornata di ieri. La coalizione degli esterni al G8 non è più "la periferia". Al contrario, Cina e India rappresentano potenzialmente i motori della crescita mondiale, gli unici giganti ad essersi sganciati dal ciclo recessivo. Ma allargare la rappresentanza della governance globale fino a includerli, espone al rischio della paralisi decisionale: tanto ampio è il divario degli interessi.

"E' un buon inizio, non è un compito da poco riuscire a colmare le distanze fra così tanti leader, ed è ancora più difficile riuscirci nel bel mezzo di una recessione". Con il suo energico ottimismo Obama ha voluto imprimere un segno positivo al vertice. Quel suo giudizio si riferiva all'accordo sul clima, firmato da paesi che generano l'80% delle emissioni carboniche del pianeta. Ma poco prima la delegazione cinese aveva suonato tutt'altra musica: "L'accordo sul clima non vincola la Cina, che ritiene fondamentale prendere in considerazione le diverse condizioni dei paesi emergenti".

Dall'India all'Egitto, altri hanno appoggiato la posizione cinese, respingendo l'impegno di ridurre del 50% le emissioni di CO2 entro il 2050. La controproposta: che i paesi industrializzati si impegnino a fare molto di più, tagliando del 40% le loro emissioni entro il 2020; e che offrano fondi e tecnologie ai paesi meno avanzati per la riconversione a uno sviluppo sostenibile.

Pechino articola una posizione che fa il pieno di consensi in tutto il mondo non-occidentale.
Primo: la Cina ci ricorda che storicamente l'inquinamento accumulato nel pianeta lo abbiamo prodotto in massima parte noi "vecchi ricchi" nei decenni in cui eravamo i soli protagonisti dell'industrializzazione.
Secondo: le nostre multinazionali hanno un ruolo decisivo nel trasferire verso le nazioni emergenti le produzioni più distruttive per l'ambiente.
Terzo: il tenore di vita dei cinesi e degli indiani resta molto inferiore al nostro, in fatto di consumo frugale noi dovremmo imparare qualcosa da loro.
Conclusione: non si può chiedere ai colossi asiatici di fermare le centrali a carbone solo perché loro sono troppo numerosi. Questa non è una divergenza "negoziabile" su cifre e date; è lo scontro tra visioni, interessi e bisogni profondamente diversi.

Per la stragrande maggioranza dell'umanità lo sviluppo resta la priorità, l'urgenza, l'imperativo assoluto. Riuscire a cambiare la qualità di quello sviluppo, esige soluzioni profondamente innovative che fuoriescono dall'arcaica cultura negoziale delle diplomazie e degli sherpa. "Tra vecchi paesi ricchi e nazioni emergenti - osserva Kim Carstensen del Wwf - non è stato superato il grande fossato della diffidenza".

D'altra parte quando il fronte degli emergenti sprigiona la sua grande forza d'interdizione, mette a nudo anche i limiti di audacia dei leader occidentali. A parte l'aver ripudiato finalmente il "negazionismo" di Bush sul cambiamento climatico, di concreto sull'ambiente Obama cos'ha fatto?
Sta spingendo faticosamente al Congresso una legge sul trading di diritti d'emissione, copiata dal modello europeo che ha dato risultati deludenti. Non ha neppure messo all'ordine del giorno un aumento delle tasse sulla benzina, che al distributore in America costa meno che in Cina.

Non è solo sul clima che l'apparente concordia è stata ottenuta solo annacquando all'infinito i contenuti. G8 più G5 si sono "impegnati a resistere al protezionismo e a incoraggiare l'apertura dei mercati", promettono una "conclusione ambiziosa ed equilibrata dei negoziati sulla liberalizzazione dei commerci" (Doha Round) nel 2010.

Ma non c'è alcun cenno alla grande disputa sul protezionismo agricolo europeo e americano, immenso ostacolo all'accordo di Doha. Neanche una parola sulle malefiche clausole protezioniste infilate surrettiziamente in tutte le manovre di spesa pubblica anti-recessione, dal Buy American di Washington al Buy Chinese di Pechino. (L'Italia, piccola economia molto dipendente dall'export, ha tutto da perdere se avanza indisturbata questa marea neoprotezionista).

La vacua convergenza sul rilancio della crescita globale è stata raggiunta solo dopo aver messo fra parentesi un'altra sfida poderosa lanciata dai cinesi: l'attacco a sua maestà il dollaro. Chiedendo di "promuovere un sistema monetario internazionale più diversificato", la delegazione di Pechino ha comunque sancito l'inizio di un processo inevitabile. Il signoraggio del dollaro, che primeggia sia nelle riserve delle banche centrali sia nei pagamenti dei commerci fra nazioni, è l'eredità di un'epoca in cui la supremazia economica americana era incontrastata.

Ora la Cina moltiplica gli accordi bilaterali con India, Russia, Brasile, Argentina; in quel club già si abbandona il dollaro per passare a pagamenti bilaterali con le valute nazionali. E' naturale che questo avvenga. Basti pensare che la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come primo partner economico del Brasile: perché gli imprenditori di Shanghai e Sao Paulo dovrebbero continuare a usare dollari nelle loro relazioni, esponendosi alla capricciosa volatilità di una moneta che riflette le debolezze del bilancio federale di Washington? Il tramonto del vecchio ordine è nei fatti. Ma quello che si disegna nel post-G8 è un mondo assai più complicato, e non necessariamente più stabile.


L'esempio di Barack
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 10 Luglio 2009

In questo che sarà se non l'ultimo, certamente uno degli ultimi, G8, strumento ormai "non idoneo" come ha detto il presidente di turno Berlusconi che ormai non aveva più niente da chiedergli, mentre incassava quella giornata di sole della quale l'Italia, e lui specialmente, avevano tanto bisogno, Barack Obama affrontava invece uno dei primi rovesci internazionali della sua presidenza: il nyet delle nuove potenze nascenti alla sua campagna contro il riscaldamento della Terra.

Alla preoccupazione di immagine che aveva animato il nostro presidente del Consiglio italiano, aveva fatto da contrappunto la battaglia di sostanza che l'americano si era proposto di condurre e che la fuga del presidente cinese Hu Jintao, tanto tempestiva da apparire persino sospetta, aveva svuotato prima ancora che cominciasse. Era evidente che raggiungere accordi parziali sul clima fra nazioni occidentale che comunque erano già d'accordo sarebbe stato facile e il difficile sarebbe venuto nel convincere colossi umani, finanziarie, politici e industriali come Cina, Brasile e India, da sole oltre un terzo della popolazione planetaria, a non fare quello che per secoli noi abbiamo fatto, secondo la sindrome del villeggiante al mare che vorrebbe bloccare ogni nuova costruzione dopo essersi comperato la casa.

Questo dell'Aquila, nel secondo giorno in cui proprio Obama ha preso la presidenza del futuro Gruppo, formato non dai soli Otto, ma da quattordici nazioni, era il primo incontro pratico, su terreni concreti, fra il nuovo presidente americano e quella Cina che lui, pur nell'attivismo politico dimostrato nei sei mesi alla Casa Bianca, aveva sempre aggirato ed evitato con cura. A differenza del predecessore Bush che era salito al potere nel gennaio del 2001 annunciando la dottrina contraddittoria dei "concorrenti e partner", un bluff che i Cinesi avevano subito visto costringendo un aereo spia americano ad atterrare e Washington a chiedere scusa, Obama non aveva mai articolato una propria ben definita strategia cinese. E ora si capisce il perché.

Perché la Cina, non ancora un co-eguale negli affari del mondo per la propria natura politica, è già capace di essere il punto di riferimento e di coagulo di coloro che non cercano pacche sulle spalle da Washington e non vogliono accettare a scatola chiusa le scelte fatte dalle nazioni occidentali e dagli Stati Uniti che le guidano.

La risposta di Obama è stata quella di "aprire la scatola", di non imporre a questo gruppo di nazioni che vogliono contare di più, il "chi non è con me è contro di me" caro al manicheismo di Bush, ma di provare a dimostrare che, finalmente, l'America intende praticare quello che predica, in materia di democrazia, di stato di diritto e di difesa della Terra, per "non chiedere ad altri quello che noi non siamo disposti a fare". "I giorni dello spreco sono finiti anche per noi" ha detto nella dichiarazione finale, per togliere quella antica sensazione che i ricchi siano sempre bravissimi a predicare quello che essi non vogliono praticare, magari accusando dall'alto, come il lupo, l'agnello di sporcare l'acqua. O che, come fu in uno dei primi e più infelici atti di Bush stracciando la modesta intesa di Kyoto, neghino addirittura l'esistenza del problema per non doverlo affrontare.

La sfida di Obama al mondo che anela a quei modelli di sviluppo che le nazioni più mature cominciano a riconoscere come insostenibile, è di "lead by example", come disse più volte in campagna elettorale, di "guidare con l'esempio" e di essere il migliore, non il più prepotente. Anche Silvio Berlusconi, che sembra avere già interamente dimenticato gli anni della presidenza Bush con l'entusiasmo del convertito per l'"obamismo", si è prontamente adeguato, e anche questa conversione al neo-ecologismo era parte del prezzo pagato, insieme con i 500 militari in più in Afghanistan e i tre prigionieri di Guantanamo accettati in Italia, per proteggere la propria posizione internazionale e quella dell'Italia.

Se il G8, come istituzione, è ormai in agonia e altri gruppi più rappresentativi del mondo lo sostituiranno, non sarà il caso di piangerlo.

Anche questo, come tutti gli organismi e le organizzazioni ha svolto la propria funzione e ormai palesemente era un sopravvissuto alla propria ragione d'essere. Ma nel Gruppo che lo sostituirà, e del quale fortunatamente l'Italia farà ancora parte in attesa di una rappresentanza collettiva dell'Europa, la lezione di questo ultimo valzer all'Aquila sarà importante, non per massaggiare la vanità dei singoli, ma per avere detto che il tempo del direttori e dei diktat dell'Occidente a "chi ci sta" e peggio per gli altri, sta tramontando.

Se l'America, con l'Europa, intende ancora guidare, dovrà farlo convincendo gli altri di meritarlo con l'esempio della propria capacità di governare la propria gente e il proprio spicchio di mondo meglio con più coscienza e integrità di quanto sappiano fare Cina o India o Brasile, se ci riescono, e non per autoinvestituira. Come ha cominciato a fare, o a tentare di fare, Barack Obama riconoscendo che dall'America degli sprechi deve partire la nuova economia dello sviluppo intelligente.


L'ossessione
di Ezio Mauro - La Repubblica - 10 Luglio 2009

Il Presidente del Consiglio, dimenticandosi di essere il chairman del G8, ha esportato ieri in mondovisione la sua ossessione privata, e tipicamente italiana, nei confronti di "Repubblica". Prima ha cercato di non rispondere alla domanda di Gianluca Luzi (l'altroieri aveva accuratamente fatto togliere i microfoni ai giornalisti per garantirsi un monologo), cercando di interromperlo con evidenti segni di nervosismo, nel timore che l'ombra del "ciarpame politico" in cui affonda da due mesi venisse proiettata sul fondale dell'Aquila. Poi, parlando della buona immagine del summit, ha lanciato la solita accusa di disfattismo al nostro giornale: "Non avete raggiunto il risultato che volevate".

Avevamo scritto due giorni fa che per il bene dell'Italia, Paese ospite, il successo del vertice era importante. E ieri Vittorio Zucconi ha analizzato il primo esito, cioè l'assicurazione di Barack Obama sul nostro ruolo tra gli otto Grandi, scrivendo che "questo è il risultato vero che il nostro Paese, il governo Berlusconi e i futuri governi incassano al G8 e che l'Italia può riporre in cassaforte come un capitale".

Un giornale, com'è evidente, sa distinguere tra l'interesse del Paese e il clamoroso interesse negativo che in tutto il mondo suscitano le avventure del Capo del Governo. E' il Premier che non sa distinguere tra se stesso e la Nazione, come accade soltanto nei regimi.

Circondarsi dei Grandi della Terra, uniformandosi per una volta al loro stile e al loro standard, è un esercizio utile per lui e per il Paese, finalmente, e Berlusconi è stato un ottimo padrone politico di casa. Ma se pensa che i sette Grandi si portino via dall'Aquila anche i suoi problemi, s'inganna. In democrazia un leader ha un solo modo per risolvere i suoi guai che hanno fatto il giro del mondo: affrontarli davanti alla pubblica opinione, provando addirittura a dire la verità, e non nasconderli sotto le macerie del terremoto.


Maschere, spaghetti e mafia. I (pre)giudizi sul Cavaliere
di Gian Antonio Stella - Il Corriere della Sera - 10 Luglio 2009

«Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?», si chie­deva Donatien- Alphon­se- François marchese de Sade. Oltre due secoli dopo, quel sen­timento di sottile pregiudizio verso gli italiani, di ammirazio­ne sempre smorzata da una cer­ta incredula ironia, di amicizia venata da un pizzico di diffiden­za, continua a riaffiorare anche dietro i giudizi degli stranieri su Silvio Berlusconi.

Intendiamoci: le critiche al Cavaliere, anche le più dure, so­no legittime. E i lettori sanno che questo giornale non ha mai fatto sconti. Ed è vero che qual­che volta lui stesso se le va a cer­care. Un esempio? L'invito agli imprenditori americani a inve­stire da noi perché c'è il sole e «oltre al bel tempo e alla bellez­za dell'Italia, abbiamo anche bellissime segretarie». Per non dire dell'insistenza sul nostro essere «i più simpatici del mon­do». Nessuno sceglie un dentista o un chirurgo perché è «simpa­tico ». E così il socio in un gros­so investimento industriale.

Detto questo, perfino gli av­versari più critici avrebbero buoni motivi per essere infasti­diti dal costante riemergere, at­traverso il berlusconismo, di vecchi, rancidi, insopportabili stereotipi che hanno fatto soffri­re e arrabbiare i nostri padri, i nostri nonni, i nostri bisnonni. Lo ammise tempo fa, proprio sul «Corriere», anche l'ex diret­tore dell'Economist Bill Em­mott: «Non vediamo l'ora di tro­vare una scusa per riproporre i soliti pregiudizi e luoghi comu­ni sull'Italia e gli italiani. Voglia­mo parlare di sesso e belle don­ne, e della mania italiana per il calcio. (...) gongoliamo addirit­tura se si tratta di menzionare la mafia».

Donne, sesso, calcio, mafia. Non c'è argomento usato con­tro il Cavaliere che non sia sta­to automaticamente buttato ad­dosso a tutti gli italiani, compre­si quanti berlusconiani non so­no. Ed ecco Der Spiegel fare una copertina sul leader della destra col titolo «Der Pate» (il Padrino) e bollarlo come «Al Ca­fone ». Ecco la Bbc dedicare un documentario all'Italia berlu­sconiana con la colonna sonora del film di Francis Ford Coppo­la.

Ecco Eva Erman, sul quoti­diano svedese «Dagens Nyhe­ter», scrivere che «la saga ma­fiosa di oggi, con Don Berlusco­ni nel ruolo principale, non ha lo stesso pathos nel racconto. Costui è semplicemente un 'pa­drinowannabe', un aspirante padrino. (...) Don Corleone per costruire il suo impero e proteg­gere la sua famiglia violava spesso la legge e corrompeva i politici, se non li ammazzava. Creava delle proprie regole e una propria morale. Don Berlu­sconi invece modifica la legge. Se è sotto processo per falso in bilancio fa modificare la legge sui tempi di prescrizione».
Conclusione: «Forse è davve­ro giunto il momento di un par­ricidio per cercare di fare entra­re un po' di aria fresca nello sti­vale dell'Europa e togliere l'odo­re del più puzzolente sudore del piede».

Puzza che il premio Nobel José Saramago avverte ancora più forte: «Ma nella ter­ra della mafia e della camorra, che importanza può avere il fat­to provato che il primo mini­stro sia un delinquente?» Va da sé che il giudizio sul Cavaliere ricade su chi lo ha messo in sel­la. «Ci sono Paesi che non si me­ritano i loro governanti. Quasi nessuno. Però l'Italia, per poco che stimi la politica, dovrebbe comportarsi più degnamente», accusa un giorno Antonio Gala su «El Mundo». Conclusione? «Impossibile credere in un po­polo che vota un simile mostro. A meno che non lo abbia eletto per scherzo...». «El País» concorda. E come titola un servizio sul nostro Paese? Tirando in ballo la pa­sta, i maccheroni, gli spa­ghetti. Titolo: «La espague­ti- democracia». Occhiello: «L'Italia rivive la sua leg­genda di anomalia euro­pea».

D'altra parte, cosa aspettarsi da un Paese che ha prodotto Pulcinella e Arlecchi­no e tante maschere che hanno reso grandi la nostra comme­dia, i nostri teatri dei pupi, la nostra letteratura? «Dobbiamo ammettere che i nostri scandali mancano di brio rispetto a quel­li dei nostri vicini. Per esempio noi potremmo cercare invano un personaggio così pittoresco come Berlusconi», spiega Ge­rard Dupuy su «Liberation» do­po il primo trionfo elettorale. Certo, ammette che «è un vez­zo francese quello di fare la mo­rale e guardare gli altri dall'alto. Il classico complesso di superio­rità. Lo facciamo anche con al­tri Paesi». Ma «con l'Italia è più facile, dato il personaggio al go­verno ». Qual è dunque l'aggetti­vo scelto anni dopo dal Times per schiaffeggiare il Cavaliere? «Buffone».

Sempre lì si finisce. Sui buffo­ni, le maschere, gli spaghetti, la mafia, il sole, il mandolino o se volete la chitarra di Apicella... E poi l'italiano furbo e magari a volte genialoide ma inaffidabile come quando Montesquieu scri­veva che «ognuno non pensa che a ingannare gli altri, a men­­tire, a negare i fatti». E poi Ro­dolfo Valentino e l'italiano ga­lante e l'italiano donnaiolo immer­so in una società ipocrita e corrotta come ai tempi in cui Flaubert mette­va nero su bianco che le donne napole­tane «sono sempre in eccitazione, fotto co­me un asino sbarda­to ».

E la mamma? Niente sull'Italia il Paese mam­mone, di cocchi di mam­ma e di mamme che «so­lo per te la mia canzone vola»? Ma certo: non ci è stato fatto mancare neppure questo. Ci pensò sei anni fa il New Yorker: «Nella letteratura ufficiale, que­sta straordinaria ascesa è trasfi­gurata, nella visione di Silvio, come la creazione di un mondo sicuro e libero per Rosella (...) Lei è l'emblema della mamma italiana. Spunta pressappoco in ogni conversazione con gli uo­mini della sua cerchia intima, una donna dalle omelie così im­probabili che potrebbe essere la June Allyson dei malinconici anni Cinquanta...». Di più: «Se è vero il cliché che le più dure­voli istituzioni dell'Italia - la Ma­fia e la Chiesa ne sono ovvi esempi - debbano il loro succes­so al prototipo della grande, au­toritaria famiglia italiana, piena di minacce e pietismi, allora do­vete guardare all'Italia di oggi come alla 'eredità di Rosella Berlusconi'».


Cronache di Bananaland
di Carlo Bertani - carlobertani.blogspot.com - 9 Luglio 2009

Ho da tempo affermato che non guardo più la televisione, ed è vero. Trovandomi, però, in vacanza in un luogo dove non giunge nemmeno il segnale per le comuni “chiavette” a banda (pressappoco) larga, ho dovuto “nutrirmi” delle verità delle due mamme, RAI e Mediaset.
La prima curiosità che mi ha assalito, è che stavo ricevendo notizie sul G8 organizzato da Silvio Berlusconi dalle emittenti di proprietà di Silvio Berlusconi, oppure controllate da Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio, dove si citavano giornali di proprietà della famiglia Berlusconi.
Prima domanda: è ancora l’Italia o siamo diventati il Bananaland?

La seconda, più che una domanda, è l’approfondimento di un’omissione che viene data per scontata: il presidente cinese Hu-Jin-Tao è dovuto tornare in Cina per la rivolta dei turcomanni del Xinjiang.
Le comunità islamiche turcomanne sono dislocate – almeno dal XV secolo – lungo la via “alta” della Seta, ossia nel percorso che giunge in Cina passando per gli odierni Iran ed Afghanistan, Persia e Carmania di un tempo: 50.000 turcomanni abitano tuttora a Kirkuk, nel cosiddetto “Kurdistan iracheno”.

Guarda, guarda…proprio nell’occasione del G8, alcune migliaia (o decine di, centinaia di, poco importa) – visto che stiamo parlando di una nazione di oltre 2 miliardi di persone – si ribellano al governo di Pechino e giungono allo scontro. La battaglia dura un solo giorno poiché, quello seguente, già va in scena la vendetta dell’etnia dominante, quella han, e tutto sembra seguire il solito copione cinese già osservato per la questione tibetana oppure per le rivolte sindacali.

Ma, ecco la novità: il presidente cinese Hu-Jin-Tao ritorna precipitosamente in Cina, secondo le Berluscomanie nazionali, per “riprendere in mano la situazione”. Come se la Cina fosse paragonabile a qualche dimenticata Repubblica delle Banane dove, quando il Presidente è all’estero, ne approfittano per portargli via l’argenteria. Ora, pur sorvolando che la rivolta ha avuto luogo in una dimenticata città di confine cinese, che sarebbe bastata una misera brigata motorizzata per domarla (come sta avvenendo), viene da chiedersi chi siano stati i fomentatori della rivolta, in pieno stile complottista.

L’ipotesi A racconta che, gli Amerikani Kattivi, abbiano trovato uno Yuschenko turcomanno “arancione” e gli abbiano fornito una montagna di soldi per fomentare i disordini: a quel punto, un nonnetto rinfanciullito napoletano – di professione Presidente della Repubblica italiana – scambiava i fatti d’Ungheria del 1956 con lo Xinjang del 2009, e si permetteva di rammentare a Hu-Jin-Tao l’annosa questione dei diritti umani.
Hu-Jin-Tao lo squadrava di traverso poi, impaurito dalla minaccia (!) turcomanna, riprendeva la via della Cina con la coda fra le gambe e – fatto tesoro delle raccomandazioni italiane (!) – decretava migliaia di condanne a morte. Cosa che, senza il Presidente in cattedra sulla Piazza Tien an Men, non si può ovviamente fare (!).

L’ipotesi B è che le impostazioni definite dalle cancellerie occidentali per le questioni più spinose – controllo delle emissioni di gas nocivi, riduzione della temperatura del Globo, ecc – non fossero poi così gradite a Pechino. Nota: alla nazione che s’avvia, nei prossimi decenni, a diventare la prima economia del Pianeta.

Nella seconda ipotesi, una rivolta in una città di confine viene rintuzzata, fino a diventare un caso mondiale proprio per volontà cinese: a quel punto, Hu-Jin-Tao ha la scusa per tornarsene in Patria e lasciare quel vertice dal quale non poteva portare a casa nulla di buono.
Qualcuno dirà che, a L’Aquila, è rimasta la delegazione cinese: chi conosce almeno un poco il “palazzo” cinese e la sua storia, potrà facilmente comprendere quanto siano importanti i funzionari cinesi rimasti.
Difatti, fra i tanti successi strombazzati dalle Berluscomanie nostrane, c’è l’accordo sul clima e sulle emissioni gassose: peccato che non è stato accolto né dalla Cina e né dall’India, ovvero dalle nazioni che sono il vero apparato industriale del Pianeta.

Non vorrei, con queste poche righe, affrontare i problemi della questione turcomanna (che risale, come tante altre, all’eredità dell’Impero Ottomano) né trattare la questione del clima, che richiederebbe un saggio, altro che un semplice post, manco un articolo.

Desidero solo sottolineare che, quanto esposto dai media nazionali ed internazionali, non può corrispondere a verità, poiché nell’ipotesi A – l’unica propalata ai quattro venti (senza, ovviamente, approfondire il “come mai” i turcomanni s’erano sollevati) – un cenacolo di vecchie ed azzimate vecchiette indebitate, più una Russia sorniona, non era in grado d’imporre alla Cina proprio niente. Tanto meno un giovane avvocato dell’Illinois, il quale sa benissimo in quali mani è il debito estero americano, ovvero a Pechino e, in minor misura, a Mosca.

L’unico spettacolo al quale abbiamo assistito è stato, dunque, quello delle abbuffate di ravioli, delle degustazioni di vini abruzzesi, delle visite alle gelaterie romane da parte delle mogli con figli al seguito.
Nessuno, s'è accorto che la Cina ha lasciato il vertice con una scusa, a dir poco, puerile.
Domanda: se era un vertice internazionale, dov’è finita la politica estera?