E' la fine dell'Impero degli Stati Uniti?
da www.eurasia-rivista.org - 21 Luglio 2009
Igor Panarin intervistato al Grande Gioco, programma RAI2 condotto da Pierangelo Buttafuoco
Professore, ci spiega la sua teoria, è veramente la fine dell'impero degli Stati Uniti, così come era stato per quello Romano?
E' molto indovinato parlare di questo proprio in questa bella città, Milano (*). La caduta dell'Impero Romano è stata causata dal fatto che l'élite di Roma non riuscì a proporre un nuovo modello di sviluppo non solo di Roma, ma di tutto l'Impero Romano. Oggi l'America si trova proprio in questa fase, in cui gli Stati Uniti non riescono ad offrire al mondo un nuovo modello, un modello di sviluppo senza conflitti, un modello di sviluppo dell'economia, e loro stessi sono piombati in una crisi di sistema, io credo che ci troviamo sull'orlo dello stesso sconvolgimento che ha portato alla caduta dell'Impero Romano.
Quindi finirà come l'Urss, Obama è come Gorbaciov?
Gli Stati Uniti d'America oggi ricordano molto l'Unione Sovietica ai tempi di Gorbaciov. E il signor Obama, il nuovo Presidente americano, parla, e in modo molto convincente, come l'ultimo Presidente dell'Unione Sovietica, Gorbaciov, però tutte le sue dichiarazioni oggi molto spesso si basano su elementi reali. E sono molto simili, perché il signor Obama potrebbe diventare l'ultimo Presidente degli Stati Uniti d'America.
Ma ci sarà una guerra civile?
E' un'eventualità che esiste, dopo che nell'aprile del 2009 il governatore dello Stato del Texas ha dichiarato che questo Stato potrebbe recedere dalla confederazione. Inoltre ha pronunciato questo discorso durante un enorme meeting, in cui la folla scandiva le parole “Usciamo dalla compagine degli USA!”.
Un altro fattore è che negli ultimi sei mesi la vendita delle armi da fuoco è aumentata del 40%, e anche la stessa quantità degli omicidi all'interno degli Stati Uniti d'America, che avvengono in diversi Stati USA. (Che tipo di omicidi?) Gli omicidi di persone che perdono il lavoro, che uccidono loro congiunti.
Cambiamo argomento. Può chiedere al professore se può darci una definizione breve di Eurasia?
L'Eurasia è uno spazio enorme tra l'Oceano Pacifico e l'Unione europea, che per lungo tempo è stata unita da forze diverse. All'inizio ci furono popolazione turciche, poi i mongoli, e infine i russi hanno unito l'Eurasia in un unico spazio geoeconomico e spirituale.
Quali sono oggi i problemi che attraversa l'Eurasia?
In Eurasia oggi il problema principale è la crisi economica, la crisi spirituale. E' una crisi che può essere superata solo con l'integrazione dell'Eurasia in un unico spazio geoeconomico e spirituale.
Può la Russia portare un'identità culturale, spirituale all'Europa?
Sì, la Russia può e deve apportare una nuova cultura, una nuova spiritualità, inoltre la Russia è una parte dell'Europa e deve, in quanto parte globale dell'Eurasia, unire le proprie forze insieme all'Europa nella lotta per un maggiore sviluppo di tutti i nostri popoli.
Bene, chiederei al professore ancora un attimo di pazienza, se ci fa vedere il libro (**)...gli facciamo le ultime riprese e poi ci salutiamo.
* Intervista rilasciata a Milano il 16 maggio 2009 ** in realtà si tratta di Eurasia. Rivista di studi geopolitici , numero dedicato alla NATO, a. VI, 1/2009
L'Impero a rischio liquidazione
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 24 Luglio 2009
Nonostante l’inconcludente passeggiata al G8 dell’Aquila, fermo restando lo straordinario gusto glamour della moglie, il gelato al mirtillo delle figlie, le simulazioni delle scosse sismiche e qualche buon tiro a canestro, Mr. Obama si prepara ad affrontare una situazione che non ha precedenti nella storia degli Stati Uniti, dove dovrà dar prova di ben altre capacità che non sia quella di uccidere mosche. L’impero monetarista americano è giunto finalmente al capolinea e qualcuno, vedendolo come il liquidatore dell’impero, già immagina paragoni col Gorbaciov sovietico. A dare il felice annuncio sono una serie di segnali inequivocabili e facilmente considerabili come collegati. A tremare infatti non è più un solo settore, ma tutti gli indici di riferimento che vanno considerati se si ha intenzione di valutare lo stato di salute di un’economia.
Del debito pubblico oramai fuori controllo, dopo i recenti interventi di spesa per rilanciare l’economia, appare quasi inutile fare menzione e lo stesso dicasi per il mostruoso disavanzo commerciale. A ciò si aggiunga che, secondo i dati diffusi appena qualche giorno fa, a giugno gli occupati calano di 467 mila unità, molto oltre l'attesa discesa di 363 mila a cui, peraltro, va aggiunta una perdita di 322 mila unità a maggio. Il tasso di disoccupazione sale al 9,5% dal 9,4% di maggio. Si tratta del dato peggiore dal 1983.
I numeri sono tuttavia troppo aridi per comprendere la brutalità della situazione. Si potrebbe immaginare, per rendere l’immagine più nitida e comprensibile, una famiglia letteralmente divorata dai debiti che, nonostante la perdita del posto di lavoro da parte di uno dei genitori, continui a sostenere quello stesso stile di vita causa della sua rovina finanziaria. A sostenerla i soliti usurai amici di famiglia.
Con le dovute proporzioni il quadro descritto è la dura realtà alla quale il tanto decantato sogno americano a già incominciato a lasciare il posto. Per completezza si aggiunga che, il 10 giugno scorso, Washington faceva sapere che l’aumento del prezzo del greggio delle ultime settimane ha fatto salire in aprile la bolletta delle importazioni di petrolio a 13,63 miliardi da 11,98 in marzo con un prezzo medio del barile che é salito a 46,60 dollari da 41,36.
In termini di volumi, sono stati importati 292,60 milioni di barili contro i 289,69 milioni del mese precedente. Il totale della bolletta energetica, incluse dunque anche le importazioni di altri tipi di energia, si é invece assestato in aprile a 17,40 miliardi, in netto rialzo rispetto ai 16,05 miliardi del mese precedente. In sintesi si spende di più, s’incassa di meno, il debito sale alle stelle e la disoccupazione inizia a dilagare in una nazione in cui il Welfare State è considerato alla stregua di una bestemmia in chiesa.
In questo quadro generale non sorprende che nessuno sia disposto più a fare credito, acquistando i titoli del suo debito pubblico, ad una nazione orami prossima al collasso economico. È qui, infatti, che si gioca la vera partita: un’economia sana può, a buon rendere, contrarre debiti per massimizzare la propria capacità produttiva piuttosto che aumentare i beni e i servizi d’importazione; quello che non può fare è continuare a spendere quando non ha più soldi e nessuno le concede più prestiti. Per debito pubblico s’intende, infatti, il debito dello Stato nei confronti di altri soggetti, individui, imprese, banche o soggetti stranieri, che hanno sottoscritto obbligazioni (negli USA i T-Bonds) destinate a coprire il fabbisogno finanziario statale.
A dare scacco, infatti, all’economia americana, sarà il crollo dei suoi titoli del tesoro. Ma andiamo con ordine. Dalla fine del 2008, il governo cinese, il principale finanziatore del debito americano, ha iniziato a disfarsi di 50-100 miliardi di beni denominati in dollari ogni mese. Approfittando della crisi finanziaria e del conseguente crollo dei valori di un ampio insieme di beni utili all'economia cinese (minerali, energia, azioni europee o asiatiche ed altre materie prime come il rame), Pechino ha fatto shopping coerentemente con il suo primo bisogno: fare il meglio possibile con i suoi beni denominati in dollari, cioè scambiarli con beni non americani. Ultimamente i segnali in questo senso stanno aumentando in modo costante. Nel mese di aprile le riserve auree cinesi sono aumentate del 75%, passando da 600 tonnellate della fine di marzo, a 1.054 tonnellate.
Al di là del dato del forte aumento delle riserve auree va segnalato un altro elemento: negli ultimi dieci anni le riserve cinesi erano cresciute soprattutto in dollari, mentre l’accumulo di oro era rimasto praticamente fermo; alla fine del 1999 la Repubblica Popolare aveva riserve auree per sole 394 tonnellate; nel dicembre del 2001 le riserve passano a 500 ed arrivano a 600 nel dicembre del 2002. Da allora, smise di accrescere le riserve auree, dedicandosi ad accumulare dollari.
Oggi, l’inversione di tendenza, con questa forte crescita del 75%. E’ evidente che la scelta di accumulare oro significa considerarlo un bene rifugio, di fronte alla possibile caduta della quotazione del dollaro. In tutto il 2009 i cinesi hanno infatti investito - e stanno continuando ad investire - fortemente all’estero, se è vero che nel solo mese di febbraio hanno investito 65 miliardi di dollari al di là dei confini nazionali, più di quanto avevano investito in tutto il 2008.
Se alle cifre sopra descritte aggiungiamo la dichiarazione del Governatore del Banco Popolare Cinese (la banca centrale), Zhou Xiaochuan, che parla della necessità di sostituire il dollaro e di utilizzare una nuova valuta di riferimento per gli scambi internazionali, si comprende che la Cina non è più intenzionata a finanziare la disastrata economia statunitense; ha quindi ha progressivamente smesso di accumulare riserve al ritmo precedente. E’ possibile che nei prossimi mesi la Cina non solo azzeri totalmente la crescita delle riserve in dollari, ma cominci a liberarsi di quelle di cui è in possesso, massimizzando gli investimenti all’estero. Può diventare l’atto primo della caduta dell’impero.
USA a rischio di esplosioni sociali
da www.iarnoticias.com - 24 Luglio 2009
Versione italiana - www.vocidallastrada.com
Traduzione per Voci della strada a cura di Vanesa
Quello che sembra uno scenario fantastico per l’impero nordamericano (gli scioperi e i conflitti sociali) è uno scenario a breve termine che già stanno controllando fra le righe analisti e media nordamericani alla luce della crisi industriale e dei fallimenti aziendali che stanno scatenando una crescente ondata di licenziamenti ed un record nella disoccupazione negli USA.
Dall’ inizio della crisi finanziaria, nell’ultimo settembre, l' ONU, la Banca Mondiale , la maggior parte degli esperti e ultimamente il G-8, stanno allertando sul pericolo di esplosioni sociali mondiali che potrebbero crearsi con l’impatto della crisi di recessione e per l’aumento dei prezzi dell’energia e degli alimenti nei paesi più poveri dell’Asia, Africa e America Latina.
Questa settimana, il Gruppo degli 8 (G-8) , considerato il “direttorio del mondo”, ha dichiarato che la situazione “continua ad essere incerta” nell’economia globale, con “rischi significativi per la stabilità”. Per le potenze centrali vincolate all’entità, l’aumento della disoccupazione quest’anno ed il prossimo possono produrre esplosioni e rivolte sociali.
Sorprendentemente, l’evoluzione della crisi (che si è trasformata da finanziaria a crisi strutturale con la recessione) oggi colpisce con più forza alle potenze centrali che i paesi emergenti o sottosviluppati.
Il malessere sociale che causa la disoccupazione continua ad aumentare ed il deterioramento delle condizioni e degli stipendi, così come la restrizione della capacità di consumo, alimenta e esaspera lo stato di frustrazione collettiva, provoca una perdita della fiducia nei politici e stimola gli scioperi e le proteste sociali che già cominciano ad estendersi per tutta l’Europa e minaccia con estendersi negli Usa.
La crisi sociale (conseguenza della caduta del consumo e dei licenziamenti) si profila come una emergente potenziale della crisi recessiva-lavorativa che è apparsa in modo crescente come conseguenza della crisi finanziaria negli USA.
I segnali sono chiari: la crisi finanziaria è già diventata recessione e minaccia ( a causa della disoccupazione in massa) di trasformarsi in una crisi sociale con un pronostico difficile negli USA.
“Il mercato del lavoro degli Stati Uniti ha un ruolo ancora peggiore che quello dell’economia in generale, quello che causa timore dentro e fuori il governo è che il risultato potrebbe essere quello di un recupero senza lavoro anche quando la recessione sia finita”, segnala il Wall Street Journal nella sua edizione di questo giovedì.
“E’ una sfida alle norme storiche, il tasso di disoccupazione – che sale a un 9, 5%- è di 1 a 5 punti percentuali più alto di quello che il senso comune aveva previsto, dice Lawrence Summers, uno degli assessori economici del presidente Barack Obama, al Journal.
Da quando è cominciata la crisi nel settembre del 2007, l’economia statunitense ha perso 6,5 milioni di posti di lavoro, 4,7 % del totale dell’impiego nel paese. Il tasso di disoccupazione è salito del 5% mentre l’economia si è contratta intorno al 2,5%.
Negli ultimi giorni, Summers, il direttore della finanziaria della Casa Bianca, Peter Orzag ed il presidente della FED, Ben Bernanke hanno rilasciato dichiarazioni pubbliche sulla “sconnessione inusuale” tra la crescita ed la disoccupazione.
Lo stesso presidente statunitense, Barack Obama, pronosticò mercoledì scorso, che la disoccupazione nel paese ha raggiunto un record del 9,5%, probabile che continuerà ad aumentare nei prossimi mesi, dato che i posti di lavoro impiegano più tempo nel recupero rispetto ad altri settori dell’attività economica.
Per il Wall Street Journal, i recuperi economici senza lavoro non sono nulla nuovo: le aziende sono reticenti ad assumere quando appena comincia a ripristinarsi la domanda.
Nonostante questo, ci sono possibilità più scure- aggiunge- dato che i lavoratori con problemi potrebbero trascinare un’economia fragile ad una recessione più profonda.
“La domanda finale e la produzione hanno mostrato dei segnali che tentano una stabilità”, ha detto mercoledì, il presidente della FED, B. Bernanke, ai regolatori , come parte della sua presentazione di fronte al Congresso degli Stati Uniti. Nonostante questo ha chiarito : “Il mercato del lavoro, comunque, continua ad indebolirsi.”
In base agli ultimi dati, in un record storico, il rosso fiscale negli USA è salito a più di 1 bilione di $ nei primi nove mesi dell’attività annuale ed implica l’8% del PIL. Ma chiuderebbe a più di 1,8 miliardi, contro i “soli” 455.000 milioni dell’anno scorso.
Il Dipartimento del Tesoro degli USA ha informato che tra ottobre 2008, quando inizia la finanziaria e questo giugno, il “rosso” è stato di 1,086 miliardi di dollari, un record senza precedenti.
La crisi economica recessiva nella più grande economia del mondo, si esprime come recessione, disoccupazione, minor entrata fiscale e più spese, che tra le altre variabili, complica i conti pubblici.
In questo quadro, quello che sembra come un panorama fantastico per l’Impero nordamericano (gli scioperi e i conflitti sociali) è uno scenario a breve termine che già stanno controllando fra le righe analisti e media nordamericani alla luce della crisi industriale e dei fallimenti aziendali che stanno scatenando una crescente ondata di licenziamenti ed un record nella disoccupazione negli USA.
Ogni giornata dell' economia nordamericana (dalla fine del 2008) si è trasformata in una vertigine marcata da una dinamica inevitabile : Recessione industriale e commerciale con diminuzione del consumo e della disoccupazione generale che si proietta dagli Stati Uniti ai paesi centrali al mondo periferico “sottosviluppato” e/o emergente.
In questo modo, la disoccupazione (emergente da questo rallentamento economico) si è convertita in questione cardinale per il team di Obama e l'establishment del potere statunitense che temono che la sua propagazione trasformi gli USA, la prima potenza mondiale, in una polveriera di scioperi e di conflitti sociali che finiscano per paralizzare ancora di più l’economia.
In un ordine sequenziale, affinchè si produca lo svolgimento del processo recessivo, ci deve essere una convergenza interattiva tra la “crisi finanziaria” ( i mercati del denaro), la crisi strutturale ( l’economia reale) e la crisi sociale (l’impatto della crisi economica- finanziaria nella società).
In queste ore, media e analisti nordamericani, concordano sul fatto che la disoccupazione ( come emergente della recessione industriale) è diventata la priorità assoluta dell’agenda di Obama e del suo team.
Da vari mesi, il protagonismo della crisi finanziaria e della borsa ha superato la misura e ha ceduto il posto a nuovi attori : I fallimenti aziendali e i licenziamenti in massa.
I pacchetti milionari del “riscatto bancario” statale con denaro preso dalle tasse (pagate da tutta la popolazione statunitense) non sono serviti da antidoto e hanno fallito strepitosamente come misura per affrontare la crisi che si è trasformata da finanziaria a recessione su scala mondiale.
La mappa della crisi sociale.
La disoccupazione nella regione occidentale degli Stati Uniti ha superato il 10% lo scorso mese, la prima volta in 25 anni che una regione del paese raggiunge questa percentuale di disoccupazione.
Otto stati raggiungono cifre di disoccupazione senza precedenti e solo due, Nebraska e Vermont, non riportano nessun aumento.
Il Dipartimento del Lavoro ha informato lo scorso giugno che 48 stati e il Distretto della Columbia hanno sofferto dell’aumento della disoccupazione a maggio. La situazione peggiore è nel Michigan, dove le case automobilistiche si sono viste obbligate ad eliminare mille di posti di lavoro. Il tasso della disoccupazione è salito, lì, al 14,1 %.
La regione occidentale del paese è quella che ha subito il maggior numero di disoccupati, con il 10,1%. L’ultima volta che una regione ha raggiunto quella cifra è stato a settembre del 1983, quando il paese di stava uscendo da una recessione.
In questa regione si trova la California, dove la disoccupazione il mese scorso è salita di un 11.5%, un record, nel Nevada è salita del 11.3 %, altro record e altri stati colpiti dalla crisi immobiliare e dove è sceso l’impiego e le entrate.
La California è il maggior Stato del paese per numero di abitanti (36.7 milioni) e per il PIL ( con 1.84 bilioni di dollari rappresenta il 13.3 % degli Stati Uniti, in base a dati del 2008). Se fosse un paese indipendente darebbe tra le prime 10 potenze mondiali.
La debacle della costruzione (sia residenziale che terziaria) ha sommerso la California nella più grande recessione dall’epoca della Grande Depressione. Così, lo Stato ha perso 904.300 posti di lavoro da dicembre 2007.
La Casa Bianca indica la California come il terzo stato con più fallimenti creditizi. Inoltre, durante questo anno, 391.611 proprietà immobiliari hanno iniziato il processo di esecuzione ipotecaria, la cifra più alta degli Stati Uniti, che implica un aumento del 15% rispetto al 2008. Questa congiunzione sta colpendo alla banca degli Stati Uniti, principalmente la Bank of America, la prima banca del paese, molto esposta sulla costa ovest.
Gli altri sei stati che hanno un tasso di disoccupazione inedito dal 1976 sono la Carolina del Nord, l’Oregon, Rhode Island, Carolina del Sud , Florida e Georgia.
Per quanto riguarda i licenziamenti, l’Arizona e la Florida sono state le zone più sofferte, seguiti dall’Oklahoma, Arkansas, Kentucky e il Michigan.
Il rischio delle rivolte.
I licenziamenti in massa di operai e impiegati negli Stati Uniti sono il barometro e segnano il momento nel quale la crisi comincia ad uscire dalla superstruttura economica finanziaria e a mettersi dentro della società statunitense.
Tutto il pianeta (globalizzato e livellato dal sistema capitalista “unico”) presenta gli stessi sintomi: nuova ripartita e ritorno alla speculazione finanziaria del petrolio e delle materie prime, svalutazione della moneta e rivalutazione del dollaro, crisi del credito con diminuzione del consumo, aumento dei prezzi interni degli alimenti e dell’energia, ondate di licenziamenti costanti negli USA e nelle potenze centrali.
Durante la sua ultima riunione il G-8 ha sostenuto che per colpire la crisi “ bisogna sostenere la domanda e recuperare la crescita”, e questo implica affrontare la situazione con nuove risorse, se ce ne sarà bisogno.
Ma mentre la Germania vuole frenare l’emorragia dei fondi pubblici dell’economia, gli USA e la Gran Bretagna ed altre nazioni come la Francia, credono che è necessario impedire che la crisi- già devastante- si trasformi in una bomba sociale per l’aumento della disoccupazione.
A marzo di quest’anno, il giornale francese Le Monde ha pubblicato un dossier con il pronostico di specialisti del LEAP/Europa 2020, un gruppo di riflessione europeo, nel quale si è anticipato che la crisi finanziaria ed economica creerà esplosioni sociali violente in Europa e negli USA dove si potranno creare le condizioni di una guerra civile.
In questo modo, la crisi potrebbe perfino fomentare violente ribellioni popolari la cui intensità si vedrà gravata dalla libera circolazione di armi da fuoco, per la LEAP.
L’America Latina, ma anche gli Stati Uniti, sono zone che corrono maggiori rischi. “Ci sono 200 milioni di armi da fuoco in circolazione negli Stati Uniti e la violenza sociale si manifesta attraverso le bande”, avverte Franck Biancheri, che presiede l’associazione.
Questa visione apocalittica sembrerebbe “fantastica” se questo gruppo di riflessione non avesse vaticinato, a febbraio del 2006, con una precisione sorprendente l’attuale crisi recessiva mondiale.
Tre anni fa, l’associazione descriveva l’arrivo di una “crisi sistematica mondiale”, iniziata per una infezione finanziaria mondiale vincolata al debito nordamericano, seguito dalla caduta della borsa, particolarmente in Asia e USA (da -50% a – 20 % in un anno) e lo scoppiare delle bolle immobiliare mondiali. Un pacchetto che avrebbe provocato la recessione in Europa ed una “grande depressione” negli USA.
Comunque sia, ed alla luce dei dati economici, uno scenario di scioperi e di conflitti sociali nell’Impero USA non è preso da un romanzo di Giulio Verne ma (oltre alla crisi globale) da una proiezione logica ed emergente della disoccupazione causata dalla recessione industriale e manageriale statunitense, per la quale nè l’amministrazione uscente di Bush nè l’amministrazione di Obama hanno trovato soluzioni concrete.
Paulson rivela: L'Amministrazione Bush temeva un crollo nell'ordine pubblico a seguito della crisi
di Stephen Foley - The Independent - 17 Luglio 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Alcenero
Ieri è stato rivelato che l'amministrazione Bush e il Congresso hanno discusso della possibilità di un crollo nella situazione relativa alla legalità e all'ordine pubblico, e della logistica per sfamare i cittadini Usa nel caso del crollo del commercio e del sistema bancario in seguito al panico finanziario dello scorso autunno.
Facendo la sua prima apparizione a Capitol Hill dopo avere lasciato l'incarico, l'ex segretario al Tesoro Hank Paulson ha affermato che era importante in quel momento non rivelare la gravità delle preoccupazioni dei funzionari, per paura che ciò avrebbe "terrorizzato il popolo americano e portato ad un problema ancora maggiore".
Paulson ha testimoniato di fronte al Comitato di Controllo della Camera a riguardo dell'impopolare piano di salvataggio di Wall Street da $ 700 miliardi dell'amministrazione Bush, che venne innescato dal fallimento della Lehman Brothers lo scorso settembre. Nei giorni che seguirono, una corsa ai prodotti di investimento più sicuri sui mercati finanziari minacciò di rendere impossibile alle persone l'accesso ai propri risparmi.
"In un mondo in cui l'informazione può girare liberamente, in cui il denaro può spostarsi elettronicamente alla velocità della luce, ho considerato l'effetto domino e ho considerato che in caso di fallimento del sistema finanziario, l'intero sistema economico di una nazione può fallire" ha dichiarato Paulson. "Credevo che saremmo potuti ritornare indietro alle situazioni che abbiamo visto durante la grande depressione. Cerco di non usare iperboli. È impossibile dimostrarlo ora dal momento che non è accaduto".
Paul Kanjorski, un democratico della Pennsylvania, ha chiesto a Paulson di rivelare i dettagli delle preoccupazioni dei funzionari, che vennero riferite al congresso in una tesa seduta lo scorso anno. I dibattiti comprendevano discussioni sull'ordine e sulla legalità e sulla possibilità di sfamare il popolo americano, e per quanto tempo, secondo Kanjorski.
Il Comitato di controllo sta indagando sull'acquisizione di Merrill Lynch da parte di Bank of America, un accordo stabilito nel disperato weekend in cui fallì la Lehman Brothers, e che in seguito richiese l'appoggio governativo a causa delle sempre maggiori perdite della Merrill.
Paulson ha difeso l'iniziativa di fare pressione su Bank of America quando a dicembre ebbe dubbi dell'ultimo minuto sull'accordo. Non fare ciò avrebbe resuscitato la "devastazione finanziaria" che il piano di salvataggio aveva placato.