sabato 25 luglio 2009

Israele-Iran: eterno braccio di ferro

Si ritorna sull'annoso braccio di ferro tra Iran e Israele.

Intanto è ufficiale la notizia che Esfandiar Rahim Mashaie, il vicepresidente iraniano che voleva dialogare con Israele, si e' dimesso. Ne ha dato oggi notizia l'agenzia di stampa Fars.
E sempre oggi il comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohammad-Ali Jafari, ha dichiarato in tv che l'Iran colpirà gli impianti nucleari israeliani se Tel Aviv attaccherà la repubblica islamica.

Continua quindi la guerra psicologica tra i due Paesi, ma resta sempre sullo sfondo la solita domanda: ci sarà l'attacco israeliano, o no?


Armagheddon?
di Carlo Bertani - carlobertani.blogspot.com - 23 Luglio 2009

Recentemente, Maurizio Blondet ha pubblicato un articolo (per i soli abbonati) (1) dal titolo eloquente: L’Europa a Sion: bomb Iran, nel quale affermava che un attacco all’Iran da parte di Israele è in agenda, da oggi alla fine del corrente anno.
Ripercorrerò molto brevemente le tesi esposte per chi non l’abbia letto:

- Durante il recente G8, l’Europa avrebbe dato il “via libera” per il bombardamento dell’Iran;
- Quattro navi da guerra israeliane (2 sommergibili e 2 caccia, con armamento nucleare) hanno attraversato il canale di Suez e sono in navigazione nel Mar Rosso;
- Alcun squadriglie di cacciabombardieri israeliani sono stato spostate nel Kurdistan iracheno;
- Il “ritorno” economico dell’impresa sarebbe da identificare nel nuovo oleodotto Nabucco – che non passa per la Russia, ma “raccoglie” il greggio delle ex Repubbliche sovietiche asiatiche – il quale, però, senza l’apporto del petrolio iraniano, non raggiungerebbe volumi di transito sufficienti per renderlo economicamente vantaggioso.

Fin qui i dati salienti, considerando anche una dichiarazione del vicepresidente USA Biden il quale, senza mezzi termini, affermava: “Israele è libero di fare quel che ritiene necessario per eliminare la minaccia nucleare iraniana”.

Blondet presenta il quadro come un evidente approccio al bombardamento dell’Iran e, ad osservare soltanto i dati esposti, non fa una grinza. Ci sono, però, argomenti che Blondet non approfondisce e che sarebbe, invece, meglio presentare.
Ritengo che molti lettori siano stufi della “querelle” iraniana, poiché da anni va avanti questo balletto: “Una flotta USA in partenza per il Golfo!”, “Israele pronto a bombardare l’Iran con l’atomica!” e via discorrendo. Poi, non succede nulla.
Vorrei precisare che questo articolo non vuole essere assolutamente un attacco a Blondet, che per alcune doti stimo, ma più che altro una precisazione.

Mi rendo perfettamente conto che il lettore cerca risposte alla domanda “Ci sarà una guerra all’Iran?” – e così è giusto che sia – ma il lettore accorto avrà compreso che nessuno – né Blondet, né chi scrive – è in grado di fornirgli un’assicurazione in merito, certa al 100%. D’altro canto, non ho mai nascosto la mia profonda convinzione che una guerra all’Iran sia un evento troppo pericoloso per gli attuali equilibri politici e, soprattutto, economici: di conseguenza, ritengo che, prima di scatenare Armagheddon, ci sia qualcuno che ci pensa su due e più volte.
Vediamo gli attori della contesa ed i loro equilibri interni, che sono la prima cosa da porre sotto la lente d’ingrandimento quando si parla di guerra.

Iran
Le recenti elezioni iraniane – di là degli evidenti interventi esterni per mettere in crisi l’attuale governo – hanno portato all’attenzione le frizioni interne della società iraniana, più che una mera questione elettorale o di voti.
Nella storia dell’Iran (ossia della moderna Persia), soprattutto dalla metà del secolo scorso, la società iraniana ha vissuto le stesse contraddizioni che abbiamo visto in piazza a Tehran.
Gli introiti petroliferi trasformarono la società iraniana: come avvenne in Europa, una borghesia dedita al commercio, alla nascente industria petrolchimica ed alle attività corollari, affiancò le tradizionali agricoltura e pastorizia.
Ciò avvenne con Mossadeq – che cercò una sintesi meno traumatica, ma anche meno favorevole alla borghesia, e per questo fu detronizzato con l’aiuto degli americani – poi con Reza Phalavi: la rivoluzione iraniana del 1979 fu una rivoluzione popolare, sorretta proprio dai milioni di diseredati che lo Shah, corrotto e succube delle ingerenze esterne (soprattutto statunitensi), aveva necessariamente trascurato per sorreggere la borghesia. La quale, non dimentichiamo, vive soprattutto a Tehran e nelle città.

Oggi, le migliorate condizioni economiche, ci hanno mostrato il volto di una borghesia che vuole occidentalizzarsi – ossia desidera partecipare alla spartizione della ricchezza nei modi e nei termini di quelle occidentali – a scapito proprio dei ceti popolari, che a loro volta si sentono più protetti da quella specie di “socialismo reale” (riconosciamo un’evidente difficoltà nell’identificare, economicamente, il sistema iraniano) instaurato da Mahmud Ahmadinejad.
Il quadro si complica, poiché rivendicazioni di “cassetta” si mescolano con le “tinte” islamiche del regime: apparentemente, assistiamo all’appoggio ad Ahmadinejad da parte dei ceti popolari mentre, dall’altra, la borghesia cerca “sponda” anche nel clero, nella figura di un corrotto Rafsanjani. In altre parole, se si gratta via un po’ di “vernice” religiosa, appare l’eterno scontro di classe.

Le ultime elezioni, vinte da Ahmadinejad molto probabilmente con i due terzi dei voti, indicano proprio la frattura della società iraniana: semplificando, le città a Moussavi e le campagne ad Ahmadinejad.
Ciò nonostante, Ahmadinejad è uscito fortemente indebolito dalle ultime elezioni, poiché la borghesia iraniana ha compreso che opporsi con i mezzi delle borghesie internazionali – supporto mediatico, internazionalizzazione del conflitto interno, ecc – può, alla lunga, riportare il Paese ad un equilibrio più favorevole per i ceti cosiddetti “moderati”, ossia per il commercio, gli affari, ecc.
Allo stato dell’arte, non scorgiamo – però – da parte di Ahmadinejad nessun cedimento: d’altro canto, il presidente non ha scelta, se non quella di continuare ad appoggiare (ed a farsi appoggiare) dalla popolazione rurale, dai settori dello Stato, dalle industrie controllate dal governo stesso.
Una guerra, in questa prospettiva, chi avvantaggerebbe?

Certamente non i sostenitori di Moussavi e di Rasfanjani, poiché un attacco dall’esterno condurrebbe inevitabilmente a zittire ogni contrasto interno. Più probabilmente, il tintinnio di sciabole inscenato da Israele è indirizzato più alla borghesia iraniana – “non siete soli!” – che ad un vero e proprio attacco all’Iran.
Per riuscire a rovesciare il governo iraniano, e l’impianto stesso della Repubblica islamica, sarebbe necessaria una vera guerra con tanto d’invasione: dubitiamo che qualche bomba farebbe crollare gli Ayatollah.

USA
Blondet afferma che il vicepresidente Biden avrebbe dato il “via libera” ad Israele con la frase sopra citata: verrebbe da dire che ciascuno è libero di dire quel che vuole, perché non scorgiamo proprio quali potrebbero essere i vantaggi, statunitensi, dell’avventura israeliana.
La presenza, in Kurdistan, degli aerei israeliani implica una sostanziale indipendenza del Kurdistan dall’Iraq ed una sua alleanza con Tel Aviv? E gli USA, che cercano di calmare le acque in tutto il Paese per andarsene?
Un attacco all’Iran partendo dal Kurdistan farebbe scoppiare la polveriera irachena ancor più, considerando che il Kurdistan iracheno non confina solo con l’Iran, ma anche (a Sud-Est) con le zone interne a maggioranza sciita. E, gli sciiti iracheni, si sentono di certo più vicini a Tehran che a Baghdad.

Se non basta l’Iraq, riflettiamo sulla situazione interna americana: non ho mai creduto che Obama sia la colomba di pace che ci propinano, e lo scrissi in tempi non sospetti, addirittura nel Gennaio del 2008 (2).
La situazione economica prospettata da molti analisti (3) è una sentenza priva d’appello: gli USA devono correre ai ripari – ed in fretta! – se non vogliono incorrere in traumi economici ancor peggiori. La prospettiva di Bush – ovvero compensare l’inevitabile declino economico statunitense con le avventure militari, sostenere il dollaro con l’aumento del greggio ed appropriarsi delle risorse energetiche altrui con la forza – è fallita miseramente nella bolla speculativa.
Obama, oggi, non ha altra scelta che quella di ridurre il deficit statale, ed ha già mosso i primi passi per andarsene dall’Iraq. Inoltre, ha già parlato di “exit strategy” anche per l’Afghanistan.

In definitiva, Obama ritiene più vantaggioso per gli USA ridurre l’esposizione militare nel Pianeta, per tentare difficili (e costose) ristrutturazioni industriali, per “agganciare” la “locomotiva” delle rinnovabili e, in futuro, sperare di tornare potenza industriale.
Tutto ciò è un sentiero colmo di dubbi, trabocchetti ed incertezze: vogliamo aggiungerci una guerra all’Iran?
Per quanto ci scervelliamo, non riusciamo proprio a trovare una sola ragione per la quale, oggi, convenga a Washington imbarcarsi in un’avventura militare – sia pure per sperare nei profitti del Nabucco – poiché è evidente che, una guerra all’Iran, non potrebbe mai essere intrapresa e sostenuta da Israele.
C’è la possibilità che gli USA restino a guardare ma, per quanto sopra esposto, l’attacco israeliano finirebbe per trasformarsi in una mera distruzione d’entrambi, che lascerebbe il Pianeta messo peggio di quanto già oggi è.

Israele
Non ci sembra che Israele, con l’avvento della nuova amministrazione statunitense, abbia di che temere: sono state fatte timide avance per la creazione del solito Stato palestinese, ma niente di più che la solita aria fritta.
Anche la cessione del West Bank, in cambio di un “via libera” per bombardare l’Iran, ci sembra un non sense: cosa rimarrebbe del West Bank – e della stessa Israele – se avvenissero attacchi reciproci con armi nucleari da un lato e batteriologiche dall’altro?

Inoltre, Israele non ha una struttura militare adatta per operazioni a vasto raggio: in tutta la sua Storia – salvo il bombardamento del quartier generale di Arafat a Tunisi, una complessa operazione di rifornimento in volo per sganciare solo poche bombe – ha sempre combattuto a ridosso dei suoi confini.
Un attacco partendo dal Kurdistan necessiterebbe di una logistica d’appoggio troppo complessa per chi non ha esperienza bellica in operazioni distanti dalle proprie basi. Inoltre, gli aerei israeliani dovrebbero vedersela con la caccia e la contraerea iraniana.
Se, invece, l’attacco dal Kurdistan fosse solo la miccia per innescare la ritorsione balistica iraniana ed il contrattacco atomico israeliano, non si comprende quale differenza facciano due sottomarini e due cacciatorpediniere in più: Israele può colpire con i missili Jericho dal territorio metropolitano.

Conclusioni
In tutta onestà, ci sembra che queste siano solo manovre militari destinate – come ricordavamo – a gettare un po’ di benzina sul fuoco, per sperare che l’opposizione iraniana “abbocchi”. Una sorta di “Naval diplomacy” e nulla più.
La strategia nei confronti dell’Iran – questo è chiaro da tempo – mira alla destabilizzazione interna, non ad un attacco militare. Perché?

Poiché un attacco all’Iran significherebbe il blocco dello stretto di Hormuz per chissà quanto tempo, con prezzi del petrolio alle stelle. Altro che i 150 $/barile del record!
Inoltre, Siria ed Iran sono legate da una alleanza che prevede il mutuo soccorso in caso d’attacco: nel 2006, Israele si guardò bene dall’attaccare il territorio siriano. In caso d’attacco, sarebbe tutta la regione a saltare per aria, con scenari veramente imprevedibili.
E, con tutte le prudenze espresse nei vari G8 – per tentare di salvare quel poco che resta ai sette grandi con le pezze al sedere – la “bella pensata” è quella d’attaccare l’Iran?
Francamente, mi sembra una follia. Aggiungere Armagheddon al fallimento economico del liberismo è cosa assai diversa rispetto alla “soluzione” della crisi degli anni ’30 con la guerra mondiale: all’epoca, gli USA erano pochissimo indebitati ed erano una potenza economica in ascesa, non un paese di disoccupati senza prospettive.

Perciò – pur apprezzando la puntualità di Blondet nell’informare – le conclusioni che sottende non mi trovano d’accordo. Certo, la follia umana non ha limiti, ma continuo a credere che le guerre servano per incrementare i profitti del capitalismo, non per dargli il colpo di grazia, come avverrebbe se lasciassimo correre Armagheddon.

Note

(1) Per cortese segnalazione di Piero Deola.
(2) Vedi: http://carlobertani.blogspot.com/2008/01/uomo-della-provvidenza-o-cavallo-di.html
(3) Vedi, fra gli altri: http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6124

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Iran e Israele scoprono le carte
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 21 Luglio 2009

Nei giorni scorsi due navi da guerra con le insegne della Stella di David, la Hanit e la Eilat, hanno attraversato il canale di Suez e si sono dirette verso il Golfo di Aden, dove da alcune settimane incrocia uno dei tre sottomarini Dolphin in forza alla Marina Militare israeliana. Un messaggio chiaro, che si va ad aggiungere alle manovre navali condotte qualche settimana fa nel Mar Rosso e all’accelerazione dei progetti volti a dare a Israele uno scudo antimissilistico.

Fatti che confermano la grave situazione di instabilità e di insicurezza in cui versa il vicino Medio Oriente e che dimostrano come lo Stato ebraico sia pronto a dar seguito a quelle che fino a ieri erano solo promesse. Secondo una fonte anonima del quotidiano britannico The Times, i governi occidentali starebbero lavorando a un accordo con Gerusalemme che, in cambio di concessioni l’Autorità Nazionale Palestinese, avrebbe il sostegno di gran parte della comunità internazionale ad un attacco israeliano contro le installazioni nucleari iraniane.

La luce verde dovrebbe arrivare entro e non oltre la fine un anno, prima cioè che l’Iran sia in grado di effettua il lancio simultaneo di vettori a lunga gittata, eventualità alla quale la difesa aerea israeliana non sarebbe ancora pronta. Un problema non da poco, soprattutto ora che Teheran ha dato il via alla fabbricazione su vasta scala del missile terra-terra Sejil II, un razzo a due stadi, alimentato a combustibile solido, che i tecnici hanno sperimentato con successo nel maggio scorso e che i vertici militari preferirebbero al più collaudato Shehab-3, del quale per altro avrebbero già sospeso la produzione.

Lanciato per la prima volta dal poligono di Semnan, nell’Iran settentrionale, il Sejil II è destinato a sostituire un altro vettore relativamente vecchio, il missile Ashoura, lanciato per la prima volta nel novembre 2007. Con un range effettivo di 2000 chilometri, sufficiente quindi a colpire in qualsiasi momento lo Stato d’Israele e le basi americane nel Golfo Persico, il Sejil II rappresenta la nuovo generazione dei missili iraniani: sensori e sistemi di navigazione estremamente sofisticati e più accurati di quelli montati sulla serie Shahab; utilizzo di combustibile solido e conseguente possibilità di stoccaggio in bunker sotterranei; doppio stadio, grazie al quale è possibile raggiungere una quota più elevate ed una gittata superiore a quello dello stesso Shahab3, considerato fino a poco tempo fa il più pericoloso dei sistemi missilistici iraniani.

Lo Stato Maggiore prevede che, con una media di 200 missili all’anno, nei prossimi cinque anni l’industria bellica iraniana riuscirà a produrre mille esemplari; un target ambizioso che, secondo gli specialisti occidentali, non dovrebbe però superale i 15 vettori/anno e che potrebbe raddoppiare solo attraverso un investimento di parecchi miliardi di dollari. Il salto di qualità tecnologico è comunque notevole e per certi versi preoccupante. La prima “qualità” è rappresentata dal sistema di combustione: i missili che utilizzano propellente liquido, come lo Shehab, hanno bisogno di parecchie ore per essere riforniti e questo li espone alla possibilità di essere intercettati dai satelliti spia israeliani e americani.

Al contrario, il Sejil, può essere rifornito in breve tempo e può rimanere nascosto fino al momento del lancio, cosa che mette in seria difficoltà anche i più sofisticati “radar early warning” israeliani, come il sistema FBX-T installato nel deserto del Negev. Il Sejil II può essere infatti rilevato ed ingaggiato dai satelliti militari solo a decollo eseguito e quando è ormai diretto verso l’obiettivo, limitando quindi i tempi di reazione della difesa aerea. Teheran avrebbe inoltre reclutato alcuni esperti cinesi che dovrebbero coadiuvare i tecnici iraniani nella costruzione delle rampe di lancio.

Da Pechino arrivano anche i missili antinave C-809, gli stessi che durante la guerra israelo-libanese del 2006 danneggiarono gravemente un’altra nave della classe Saar 5, la INS Hanith. Costruite nei cantieri statunitensi di Ingalls Shipbuilding, le corvette Hanit ed Eilat rappresentano la parte finale dell'evoluzione di questi modelli: dotate di sofisticati sistemi di rilevamento ed accorgimenti stealth, sono navi armate con un cannone da 76 mm o con un apparato per la difesa antiaerea (CIWS Phalanx da 20 mm a 6 canne) e con 8 missili Harpoon con gittata di 130 chilometri, 8 missili Gabriel II in funzione antinave, 32 missili Barak in celle verticali per la difesa aerea e 6 tubi lanciasiluri Mark 32 per siluri Alliant Techsystems Mark 46 da 324 mm.

I tre sommergibili Dolphin, cinque dal prossimo anno con l’arrivo di due U-212, sono invece dotati di sofisticati sistemi di navigazione e combattimento ed hanno a disposizione sei tubi di lancio da 533 mm, adatti a missili a corto raggio, e quattro da 650 mm, per il lancio di missili nucleari da crociera (Popeye Turbo). Ma i tre sottomarini rappresentano solo una parte dell’arsenale nucleare israeliano; oltre ai missili in dotazione alla marina, Gerusalemme dispone infatti di quasi 300 testate nucleari, di altrettanti bombardieri F15 ed F16 e di circa 50 missili balistici Jericho II montati su rampe di lancio mobili.

Per rispondere a eventuali attacchi, Israele sta anche cercando di mettere a punto una serie di sistemi che dovrebbero formare uno scudo difensivo contro i missili iraniani. Oltre alle batterie antimissile Patriot, diventate famose per la difesa contro i missili SS-1 Scud lanciati dall'Iraq contro Israele durante la guerra del Golfo del 1991, Gerusalemme sta portando avanti il progetto Arrow-3, sistema di difesa antibalistico di teatro ad alta accelerazione e con testata a frammentazione, che dovrebbe essere utilizzato contro gli Shehab-3 e i Sejil II e che, prossimamente, dovrebbe subire un importante test nell’Oceano Pacifico.

Concepito per intercettare missili balistici a corto e medio raggio, il sistema Arrow-3 è in grado di colpire vettori in un range di 1.000 chilometri e gestire e discriminare fino a 14 intercettazioni simultanee. C’è infine l’Iron Dome (Cupola di ferro), un sistema di difesa sviluppato dalla Rafael Advanced Defense Systems Ltd e collaudato recentemente nel deserto del Neveg, capace di distruggere in volo i razzi e missili a corto raggio (5-70 chilometri) e quindi indirizzato contro i Katyusha e i razzi da 155 mm in dotazione agli Hezbollah ed i Qassam utilizzati dalle frange estremiste di Hamas.

Il fatto che si possano barattare gli insediamenti della West Bank con la possibilità di poter scatenare sull’Iran un attacco atomico dalle conseguenze spaventose, sembra comunque una soluzione quantomeno folle, anche perché Teheran risponderebbe e questo significherebbe la morte di milioni di persone, dall’una e dall’altra parte. Neanche il presidente americano sembra intenzionato ad avvallare un tale disegno strategico che probabilmente servirebbe solo a rafforzare l’attuale regime iraniano e a far collassate definitivamente il sistema finanziario occidentale.

Un attacco israeliano all'Iran avrebbe infatti effetti tanto devastanti da non poter essere paragonato neanche all’11 settembre: schizzerebbe in alto il prezzo delle materie prime, crollerebbero i listini, si paralizzerebbero i mercati e tornerebbe a farsi sentire la paura del terrorismo. E’ più probabile e più auspicabile che quello a cui stiamo assistendo altro non è che la classica goccia che farà traboccare il vaso: una nuova e costosa guerra fredda, basata sull’elemento della deterrenza, che costringerà le grandi potenze a definire finalmente una politica sul disarmo atomico.



Prove di Nabucco con il gas della discordia
di Carlo Benedetti - Altrenotizie - 22 Luglio 2009

Parte il “Nabucco”. Il già tanto progettato gasdotto è in pista. L’accordo, raggiunto ad Ankara dinanzi al presidente della Commissione europea, Jose Manuel Barroso, vede come firmatari Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. Tutti paesi che saranno attraversati per portare il gas del Mar Caspio in Europa senza passare dalla Russia. Comincia così una nuova pagina di geoeconomia. Eppure questo sospirato accordo intergovernativo non dissipa i forti dubbi di esperti, economisti e politici sulla sostenibilità finanziaria del costosissimo megagasdotto (almeno 7,9 miliardi di euro per 3.300 chilometri di tubi destinati a convogliare in Europa a partire dal 2015 fino a 31 miliardi di metri cubi l'anno) destinato a determinare il corso dei nuovi processi economici.

Il progetto dovrebbe entrare in servizio nel 2014 con un costo stimato di 7,9 miliardi di euro, sostenuto dalla Commissione Ue, dagli Stati Uniti e, soprattutto, da diversi Paesi dell'est Europa, ansiosi di diminuire la loro dipendenza dal gas russo e dalle vie russe di approvvigionamento di gas naturale, rivelatesi negli ultimi anni a tratti incerte. E di conseguenza si avvia un processo di disgregazione economica.

Il progetto, comunque, è anche visto con freddezza da altri Paesi europei che considerano più economici e realistici i gasdotti alternativi dalla Russia come il “South Strem” (Gazprom-Eni), dalla Russia alla Bulgaria sotto il Mar Nero, e il “North Strem”, dalla Russia alla Germania sotto il Mar Baltico. E, soprattutto, l'Interconnettore Turchia, Grecia e Italia (Itgi), che porterebbe anch'esso gas del Mar Caspio (quindi non russo) in Puglia e in Europa, senza passare per la Russia, ma che ha il vantaggio di essere in parte già costruito e di essere molto meno costoso dell'ambizioso “Nabucco”.

Questo nuovo progetto parte anche con l'adesione in extremis del Turkmenistan, in quanto Paese fornitore di gas. Restano, ripetiamo, pesanti dubbi sulla consistenza delle forniture di gas da parte dei Paesi centroasiatici, tradizionali fornitori del russo “Gazprom”, specie dopo che quest'ultimo ha cominciato a offrire a quei Paesi prezzi internazionali di mercato in luogo degli altrettanto tradizionali prezzi politici ridotti.

Intanto arrivano le prime e dure polemiche. Perché questo “Nabucco” provoca una rivalità tra Gerhard Schröder e Joschka Fischer, che sono due ex icone della politica tedesca. Hanno governato fianco a fianco la Germania del dopo-Kohl dal 1998 al 2005. Schröder cancelliere e per un certo tempo presidente del partito socialdemocratico (Spd); Fischer leader dei Verdi, vice-cancelliere e ministro degli Esteri. Ora, con l’avvio del “Nabucco”, sull’esempio di Schröder anche l’ambientalista Fischer si è paracadutato “a tutto gas” nel mondo dei grandi affari energetici e delle “interessate” alleanze geopolitiche. Con l’ex cancelliere che dalla sua poltronissima di presidente del consiglio di sorveglianza del consorzio “Nord Strem” per la costruzione del gasdotto russo-tedesco attraverso il mare del Nord, è diventato il primo lobbista occidentale dei russi di “Gazprom”.

Fischer invece si è sistemato sulla sponda opposta che mira ad emanciparsi dai russi. E l’ha fatto intascando una consulenza a sei cifre (in Euro) dal gruppo statale austriaco OMV, che gli ha affidato l’incarico di promuovere nel mondo politico-finanziario gli interessi di “Nabucco” notoriamente in dichiarata concorrenza con il gasdotto “South strem” progettato da “Gazprom” con aiuti anche italiani (Eni e Enel).

In questo contesto di questioni tecniche finanziarie viene allo scoperto sempre più la posizione della Turchia, che si batte a favore di una partecipazione iraniana all’intero progetto di forniture. "E' nostro desiderio che il gas iraniano sia incluso nel “Nabucco”, quando le condizioni lo permetteranno", dice in proposito Erdogan ai governi partner del “Nabucco” e ai paesi della regione, tra cui Iraq e Georgia. Ma contro questa posizione si schiera l'inviato speciale Usa per l'Energia, Richard Morningstar, il quale ribadisce l'opposizione di Washington al possibile utilizzo di gas iraniano nel gasdotto in questione.

Erdogan, intanto, rincara la dose organizzando un polo di resistenza. Fa presente che il Qatar potrebbe rivestire un ruolo di primo piano nel progetto, con un terminal di gas liquefatto naturale in Turchia, e sostiene anche che il gas russo possa essere trasportato in Europa attraverso il “Nabucco”.

L'Ue, invece, sostiene il progetto, vedendolo come un modo per ridurre la propria dipendenza dal gas russo, ma il nuovo progetto non riesce a trovare capacità produttiva sufficiente per il gasdotto da 31 miliardi di metri cubi, che compete con il progetto rivale “South Strem”, sostenuto dalla Russia, per soddisfare il consumo europeo. E comunque sia la Turchia, che aspira ad entrare nell'Ue, spera che il “Nabucco” possa rafforzare la posizione del Paese favorendo il suo ingresso nel blocco impedendo nuove e pericolose conseguenze geopolitiche.