lunedì 13 luglio 2009

L'ottimismo della crisi economica globale

Ecco qui di seguito alcuni degli aspetti positivi della crisi economica globale che possono veramente infondere ottimismo per un futuro migliore.

Naturalmente è un ottimismo che si fonda su principi diametralmente opposti a quelli su cui si basa quello propagandato dal Presidente Operaio/Ferroviere/Muratore/Corruttore/Utilizzatore ecc. ecc.


Il buono della crisi
di Valerio Lo Monaco - www.ilribelle.com - Luglio 2009

Mandati al diavolo imbonitori, testimonials, carcerieri, banche, venditori e parcheggi sotterranei nei centri shopping del fine settimana, ci prenderemo innanzitutto indietro due cose che ci sono state tolte: tempo e silenzio.

Per scelta o per necessità, il crollo del nostro sistema di sviluppo ci toglierà beni materiali e ci farà tornare nelle mani la possibilità di riappropriarci di quelli spirituali.

Tutto risiede nella differenza tra prezzo e valore. Ci hanno fatto vivere in un mondo in cui tutto ha un prezzo. E abbiamo dimenticato le cose che hanno valore e nessun prezzo.Tolta la materia,e la necessità di dover lavorare a più non posso per crearla,scambiarla,venderla comprarla e accumularla, avremo il vuoto. E la possibilità, finalmente, di riempirlo con ciò che vogliamo. Non con ciò che ci hanno fatto credere che dovevamo.
E ora che faccio?

Semplice. Tutto quello che non si è potuto fare sino a ora perché troppo presi a lavorare sempre più per poter acquistare merce. Alla grande maggioranza delle persone nel nostro Paese non manca da mangiare né da vestire né un tetto sopra la testa. Con questa crisi mancherà denaro soprattutto per comperare il resto. Che serve poco o non serve affatto.

Se sapremo passare dall'essere poveri pieni di elettrodomestici in ricchi capaci di vivere con poco, non subiremo la crisi, ma ne coglieremo le possibilità. Svincolati dal denaro e dall'accumulo, dal dover vivere nei luoghi e con le modalità tipiche di una società che a questo è stata votata, ritroveremo cose che per quasi tutti sono solo un lontano e rimpianto ricordo.

Quando è stata l'ultima volta che abbiamo fatto qualcosa per il puro piacere di farla? Quando l'ultima volta che abbiamo potuto fare qualcosa senza motivazione economica? Non sarà difficile constatare che il tempo libero dal lavoro, poco, sino a ora è stato possibile viverlo unicamente per riposarsi, e sempre per troppo poco, per presentarsi il giorno successivo nuovamente al lavoro.

In una spirale ipnotica e sterile. Il lavoratore medio che alla fine di una lunga giornata di lavoro non ha altre energie se non quelle di sprofondare intorpidito su un divano e attendere l'ora di andare a dormire è fenomeno diffuso. Così come quello di chi imponendosi - letteralmente - di vivere un po' di tempo per sé è costretto a fare del movimento nelle prime ore del mattino oppure nelle ultime della sera, o ancora a relegare relazioni umane e piccoli piaceri passeggeri negli interstizi lasciati liberi dal lavoro e dal caos soffocante delle nostre città e delle competizioni serrate che questo sistema impone.

L'equazione è di una semplicità disarmante:troppo tempo a lavorare e troppo poco per vivere. Bene, anzi male. È tempo di lavorare solo per quanto ci serve e dunque avere del tempo libero per fare altro.

La chiave di volta è nel fare a meno di tante cose (superflue). E di scoprire che la vita, con meno "roba", è più degna di essere vissuta. Dunque potersi permettere di lavorare meno o, allo stesso modo, non soffrire oltremodo del meno lavoro che c'è in giro.

Se ci sapremo e potremo sottrarre al resto, se riusciremo a passare attraverso questo cambio di paradigma dovuto alla crisi, non dovremo più correre da una parte all'altra, né competere in duelli all'ultimo sangue per ogni cosa e riavremo indietro, in sostanza, la nostra vita. Stabilito un nuovo cosmo di valori, e tagliato (giocoforza o, meglio, come scelta) l'inutile, ritroveremo l'essenziale.

E l'essenza di due cose fondamentali che abbiamo e delle quali è giusto disporre come meglio crediamo: di noi stessi e del tempo che abbiamo a disposizione in questa vita. Il pericolo maggiore, dietro l'angolo, come accennato poco fa, può essere il vuoto. Il vuoto pneumatico inoculato a forza (e ad arte) nel corso di almeno trenta anni, è stato il punto cardine, metodico, attraverso il quale i media di massa (in primo luogo la televisione) e chi ne ha fino a ora comandato i fili, ha determinato la più importante mutazione antropologica dell'Occidente.

La falsa rappresentazione del migliore dei mondi possibili, l'imposizione sottile dei vacui modelli di riferimento che tutti conosciamo, ha consentito nella sostanza di modificare, giorno dopo giorno, la percezione della realtà e lo spostamento di valori che altrimenti, per secoli, erano rimasti immutati. E che avevano al centro la vita. L'uomo.

Questa rappresentazione della realtà, con punte di parossismo dal dopoguerra in poi,è stata invece il terreno più fertile per coltivare consumatori seriali, e non persone. Ci ha tolto (quasi) tutto, e ci ha lasciato nel consumo l'unico elemento con il quale tentare di riempire il vuoto esistenziale che ne è scaturito e che si autoalimentava nell'alienazione stessa del suo espletamento. Operazione tecnicamente perfetta, non c'è che dire.

Persone senza alcuna altra aspirazione che consumare compulsivamente, senza alcun altro tempo ed energia, oltre a quelle da dedicare all'indispensabile lavoro per potersi permettere il consumo, sono state (e sono tuttora, nella maggior parte dei casi) gli attori perfetti per perpetrare questo stato delle cose. Sine die. Lavora consuma crepa per tutta la vita. Ed è (stato) tutto.

Fortuna che,non ci stancheremo di dirlo,il sistema da sé non ha retto. E ora si può - si deve - necessariamente cambiare. Beninteso, si può essere d'accordo con la portata benefica di questa crisi solo nel momento in cui si abbia la voglia di riappropriarsi dei valori altri della vita. Per esempio di se stessi. Chi si trovava (o credeva) perfettamente a proprio agio nella macchina precedente e ambisce a ritornarvi il prima possibile non può che disperare della situazione attuale.

Per gli altri, per chi già allora si ribellava al meccanismo, è ora giunto finalmente un momento topico. Un momento nel quale mai come ora si può tentare di dare la svolta alla propria esistenza. E aiutare gli altri a questo risveglio, se si ha qualche velleità di servizio, di comunità e prossimità. Se si ha insomma a cuore almeno le sorti di chi si ha vicino oltre alle proprie.

Ma sia chiaro, ribadiamo, il punto più critico è nel passaggio. Nel vuoto di chi, privo (o privato) di risorse culturali e lucidità, non avendo più accesso all'unica gratificazione del mondo ante-crisi, ovvero il consumo, si troverà disorientato, con un orrido da riempire e poca attitudine a ritrovare i temi e i valori attraverso i quali farlo.

In questo senso ci sarà una riscossa degli intellettuali, così come dei testimoni che malgrado i tempi difficili sono riusciti a rimanere lucidi nella selva di neon, insegne luminose, spot, scaffali pieni e allibratori in ogni angolo di strada.

Essere e fare

Innanzitutto,già passare dal concetto di avere a quello di essere è cosa che riesce a riempire una vita di linfa del tutto nuova. Per non parlare dell'altro concetto (che Erich Fromm non cita nel suo Avere o essere) che è invece di importanza fondamentale: fare. Si badi bene che oltre all'assunto in sé, noi oggi viviamo nel mondo dell'avere avendo quasi del tutto dimenticato l'importanza di essere.

Il rovesciamento culturale fondamentale si è situato poi nel convincere le masse che era possibile riuscire a essere solo attraverso l'avere. Gli esempi non sono mancati:ho denaro e potere, dunque divento Presidente del Consiglio; ho un corpo perfetto, divento Ministro; ho gli agganci giusti, divento opinionista del maggiore quotidiano nazionale.

Ma di chi stiamo parlando? Tolto ciò che hanno, questi personaggi, chi sono? Meglio, che cosa sono?

Certo sarà difficile vivere per chi con la crisi sarà stato condannato a una vita differente che non ha in realtà mai voluto. Così come sarà difficile farlo per chi avrà serie difficoltà anche solo a sopravvivere. Per chi invece nel corso degli anni passati avrà sentito scorrere via i giorni senza un motivo valido per ricordarli, per chi avrà avuto abbastanza a noia la frenesia, la competizione, e più in generale per chi sente il proprio cuore voler trovare un ritmo molto differente da quello che gli era invece imposto di sostenere sino a ora, il momento è propizio.

È di una rinascita che si parla. Di un'altra chance. Cosa che molti, e sotto i tanti aspetti della vita, non hanno mai potuto neanche sognare. E che invece oggi, grazie alla indispensabilità,è concessa potenzialmente a tutti. Non è un caso che il settore dell'editoria relativa ai libri e alla cultura non sia uno di quelli maggiormente in crisi.

I lettori continuano a leggere. Per pochi che siano, nel nostro Paese, gli uomini e le donne di cultura continuano a vivere nel solco del senso. Perché questo è il punto, ancora una volta. Cultura - cultura vera - è senso. Direzione e significato. E dunque contenuto per riempire di direzione e significato quello spazio di vita, ben oltre le tre dimensioni e forse anche oltre la dimensione del tempo terreno. Tempo fa siamo stati contattati, in redazione, da una ennesima agenzia che stava operando un sondaggio, come è capitato certamente a tutti.

Una delle domande era relativa al consumo di libri - consumo,ancora una volta:quasi che i libri diventassero scarti dopo essere stati consumati. Ebbene, la domanda, relativa a quanti libri avessimo letto nel corso dell'ultimo anno, prevedeva tre risposte: da uno a cinque, fino a dieci, più di dieci.

Naturalmente fuori media tra l'incredulità e la presunzione ironica che abbiamo sentito dall'altra parte del telefono - abbiamo comunicato approssimativamente il nostro dato (tra quelli che studiamo, quelli che leggiamo, quelli che recensiamo, sfogliamo o consultiamo, per non parlare di quelli che rileggiamo come messali o haiku del mattino, abbiamo preferito comunicare un dato mensile intorno alle cinquanta unità e lasciare fare il conto alla cortese signorina).

Ma il punto è un altro, ed è relativo alla domanda. Un sondaggio del genere, e tutti quelli simili, partono dal presupposto che la maggior parte delle persone, almeno in Italia, leggano fino a cinque libri all'anno o al massimo non più di dieci. Il che, numericamente, non è un errore. Perché è il dato di fatto. Provate a fare un sondaggio tra le persone che conoscete e poi tirate le somme.

Chi non ha avuto modo di migliorarsi con la cultura, di capire veramente cosa è successo e cosa succede, e dunque di poter avere gli strumenti per decidere, cosa aspetta? Rinunciando a pagare rate per cose che non servono e conseguentemente lavorando meno (o viceversa) la crisi porta con sé tempo e silenzio per cultura e riflessione. Un investimento al sicuro da speculazioni e truffe, tra le altre cose...

Il punto è insomma rovesciare i cardini della rappresentazione della realtà che ci hanno imposto per anni. Cosa apparentemente difficile - per molti certamente lo è - ma in realtà di una semplicità assoluta, almeno dal punto di vista concettuale,se si riflette per un po' dopo aver (ri)stabilito il proprio cosmo di valori. Si tratta, con tutta evidenza, di un esercizio culturale. Anzi, molto più precisamente, della traslazione in pratica di concetti culturali.

Perché uno degli errori più comuni è quello di credere che un cambiamento culturale non sia azione pratica. Quando invece, e al contrario, un cambiamento culturale seguito da azione-reazione nelle cose di tutti i giorni, non può che suggerire e far realizzare delle azioni pratiche del tutto differenti. Dal che, come dovrebbe essere, dal pensiero all'azione il passo è breve. Ciò che si suggerisce, ciò che ci auspichiamo e più in generale ciò di cui abbiamo un disperato bisogno, è una controrivoluzione culturale in grado di dare scacco matto al sistema.

Incidendo sulle menti con un processo opposto a quello al quale le nostre società sono state sottoposte. Il punto è sottrarsi e cambiare direzione e valori. Per ribellarsi e andare sulla strada che si sente propria.

Per gentile concessione de “La Voce del Ribelle”
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Ripensare il lavoro, ripensare la disoccupazione
di Debora Billi - http://crisis.blogosfere.it - 4 Luglio 2009

(Nota: questo post non parla della tragedia di chi ha perso il lavoro e deve pagare il mutuo e mantenere la famiglia. Parla invece del dramma di tutti gli altri.)

Un'amica su Facebook un bel giorno se ne esce con questo status: Non sono disoccupata ma in vacanza. Userò la vacanza per diventare una cuoca, una moglie, una zia, una poliglotta e una viaggiatrice migliore. Da molto tempo volevo consigliarvi un libro uscito almeno 13 anni fa, che si chiama L'orrore economico, la cui autrice è la giornalista francese Vivianne Forrester entrata di diritto nel club delle Cassandre.

In pieni anni '90, Vivianne anticipava il disastro della globalizzazione, delle chiusure delle fabbriche, del dumping sui salari, della forza lavoro nei Paesi sottosviluppati. Ma più di tutto, la saggia giornalista rimetteva in discussione la mitologia del lavoro: quella secondo cui siamo realizzati solo con una carriera, o almeno un "posto nella società" anche se è solo un cubicolo da call center. Per poter andare a testa alta (anche se la abbassiamo tutti i giorni davanti a un datore di lavoro sprezzante), per "non dover chiedere niente a nessuno" (anche a prezzo di umiliazioni inenarrabili - molto superiori al chiedere venti euro al papà pensionato).

La crisi, tra i tanti sconvolgimenti che produce, sarà anche causa di una completa revisione della nostra percezione di lavoro, posto di lavoro, ruolo sociale. Il disoccupato, come sottolineava anche la Forrester, è stato finora persona invisibile, che striscia lungo i muri oppresso dalla propria vergogna e dal proprio senso di colpa, perché "se non trovi lavoro è perché non lo cerchi abbastanza". Nulla come la disoccupazione è stato causa di depressioni, ansie, persino tentati suicidi. Altro che le corna.

Fermo restando, come premesso, il rispetto per chi non ha da dar da mangiare ai figli, ci si chiede se sia sensato ed opportuno per tutti gli altri abbandonarsi alla disperazione quando è ormai assodato che non c'è più trippa per gatti. Non avere lavoro sarà sempre più la norma, ed averlo l'eccezione. E qui torniamo alla mia amica: in presenza di una solidità alle spalle, che siano i genitori pensionati, il coniuge con un reddito, o la casa di proprietà, vale davvero la pena rischiare la propria salute mentale e fisica a disperarsi per la perdita di un lavoraccio magari precario e sottopagato? Non sarà meglio dedicarsi alla cucina e buonanotte?

In fin dei conti, è sempre stato così. Fino a cinquant'anni fa, la zia zitella, il nipote orfano, il fratello fannullone avevano qualcuno che li manteneva. Era normale, la solidarietà familiare. Oggi ci si sente subito "parassiti", non appena si smette di racimolare quei 400 penosi euro col proprio lavoro "creativo", "intellettuale" o sfruttato che sia. Cucinare cibi sani per la famiglia, fare volontariato sulle ambulanze, cimentarsi con orti e giardini pubblici, impegnarsi per l'ambiente, non sono attività che configurerei come parassitarie, tutt'altro. E questi ruoli saranno sempre più riconosciuti socialmente, anche dal papà pensionato e dal marito con la busta paga. E' la fine della vergogna da disoccupazione, se vogliamo considerarla una buona notizia.

Probabilmente non sarete d'accordo con me e leverete alti lai. Non mi importa: precaria da una vita, ho capito da tempo che nel disperarsi si rischia solo la salute. Noi non siamo qualche biglietto da cento, siamo parte di una comunità a cui possiamo essere utili in mille modi. Gli yuppie sono morti da un pezzo, seppelliamoli senza rimpianti e riprendiamoci la nostra esistenza... senza vivere "alle spalle di qualcuno", ma dando qualcosa, molto, in cambio.


Disoccupazione e ribellione
di Debora Billi - http://crisis.blogosfere.it - 8 Luglio 2009

Mi piace tornare sull'argomento che ha destato vivaci discussioni qualche giorno fa. So di camminare su terreno minato: c'è sempre quello che commenta "e io come pago l'affitto?" oppure il più banale "vai a lavurà!".
Non importa. Siamo qui per ragionare, magari anche per sbagliare.

Dov'eravamo rimasti? Ah si: alla disoccupazione come opportunità per rendersi utili alla società, alla famiglia, alla propria comunità. Alcune persone mi hanno scritto per ringraziarmi di aver valorizzato il loro lavoro di casalinghe, volontari, attivisti. Anche se c'è qualcuno che paga (e lo fa volentieri) le loro bollette, credo siano persone che sappiano vivere in modo sostenibile e non facciano shopping da Dolce e Gabbana.

Sempre più disoccupati sentono la responsabilità di porsi come esempio di vita in una situazione di crisi sistemica: frugalità, sostenibilità, aiuto, dignità nel servizio gratuito li rendono meritevoli di "mantenimento" (che brutta parola!) molto più di tanti altri che lavorano, sì, ma svolgendo mansioni inutili e legate a un sistema destinato alla morte.

Ma c'è un altro aspetto della disoccupazione che secondo me è importante far emergere. Sapete, tutti coloro che "possono permettersi" di restare disoccupati hanno anche un altro lusso: quello di agire come quinta colonna. Nel momento in cui ci si libera dell'ansia artificialmente indotta dalla società di sentirsi inutili senza uno straccio di lavoro, si scopre che ci si può anche vendicare del sistema che ci ha ridotti a questo punto.

Si scopre che si diventa dei piccoli sovversivi, in grado di minare alle radici la generale filosofia del datore di lavoro. Tale filosofia si basa NON sul vostro bisogno di uno stipendio per pagare l'affitto, ma sul bisogno (ripeto: fasullo) di avere un ruolo nella società produttiva quale che sia, pena la totale disintegrazione della sicurezza in se stessi.

Liberarsi di questo è magico. Molti anni fa, la titolare di un'azienda mi offrì un posto a cui tenevo. Mi guardò negli occhi e disse: "Il nostro direttore vuole te assolutamente. Dice che sei la migliore tra tutti i selezionati. Ma io ti posso offrire... (l'equivalente di 800 euro odierni), un contratto cococo e l'orario di lavoro arriva fino a mezzanotte, senza paga straordinaria ovviamente." Non dimenticherò mai il suo sguardo ironico, mentre mi prendeva per i fondelli in questo modo. Sapeva che avrei accettato. Ma si sbagliava. Le dissi: "Io valgo il doppio, me lo ha appena detto lei. Ci pensi su." Me ne tornai a casa disoccupata, con l'affitto da pagare e nessuno a mantenermi, ma con la dignità intatta. Avrei odiato ogni secondo di quel lavoro.

Tutti i disoccupati cercano continuamente lavoro, è giusto e legittimo. Ma essere consapevoli della propria dignità, di avere un proprio ruolo produttivo anche senza stipendio, significa poter disinnescare il ricatto. Significa poter ridere in faccia a chi propone lo "stage" non pagato per mesi e anni, con la scusa di "imparare", significa mandare affa senza rimpianti il furbone che non paga, che rimanda, che prende in giro, che sfrutta. Significa non presentarsi tremanti di speranza e con gli occhi bassi davanti a chi elargisce 400 euro per schiavizzarvi 10 ore al giorno.

Nel mondo illusorio che mi diverto a immaginare, vedo mille, centomila persone che cominciano a lasciare basiti tali approfittatori, sbattendo la porta e lasciandoli lì con le loro grandiose opportunità. Non vi stanno offrendo niente, in realtà, se non il loro arricchimento. Credo che una tale presa di coscienza da parte dell'immenso popolo dei disoccupati, serbatoio senza fondo di manovalanza da sfruttare che regge in piedi buona parte del nostro assurdo sistema, sarebbe forse ciò che gli darebbe il colpo di grazia. Tutto si regge sul vostro/nostro condizionamento psicologico a sentirsi esseri umani solo se si esce la mattina per andare a lavorare o a fingere di farlo (nel caso degli stage). Ribellarsi a questo, liberarsi di questo è una rivoluzione immane.

Capite ora che potere abbiamo?