Riguardo alla riforma sanitaria poi, secondo un sondaggio di NBC News e Wall Street Journal, il 42% degli americani pensa che sia una pessima idea che rischia di peggiorare la qualità dei servizi sanitari.
E intanto già slitta il voto al Congresso e Senato su questa contrastata riforma. Obama lo voleva prima del 7 Agosto, ma sarà solo a settembre e si prevede già un taglio di 100 miliardi di dollari al suo costo complessivo, stimato tra i 1000 e i 1500 miliardi.
Se a tutto ciò si aggiungono l'escalation della guerra in Afghanistan, il panorama iracheno tutt'altro che confortante e soprattutto la crisi economica ben lungi dall'epilogo, i prossimi mesi per Obama saranno veramente sul filo del rasoio.
Una pioggia di dollari sulla riforma sanitaria di Obama
di Michele Paris - Altrenotizie - 27 Luglio 2009
La vera portata e gli effetti reali della riforma sanitaria in discussione negli USA e voluta dal presidente Obama non appaiono ancora del tutto chiari, nonostante la quasi certezza di un esito alla fine quasi certamente favorevole al presidente. La consueta retorica dell’inquilino della Casa Bianca presenta agli americani il proprio progetto come la soluzione che metterà fine allo strapotere delle compagnie private di assicurazione e garantirà, per decine di milioni di cittadini ora esclusi da ogni forma di copertura, un’assistenza accessibile. Ma la credibilità dei politici democratici e repubblicani incaricati di scrivere le regole della riforma appare fortemente minata. L’industria sanitaria privata ha infatti donato quasi 200 milioni di dollari per le campagne elettorali dei candidati al Congresso di entrambi gli schieramenti tra il 2007 e il 2008 e nei primi tre mesi di quest’anno gli “investimenti” sui politici sono risultati in media nell’ordine di 1,4 milioni di dollari al giorno.
Uno dei politici democratici che maggiormente ha beneficiato e continua a beneficiare, nella sua carriera politica, dell’appoggio delle compagnie operanti nel settore della sanità privata, è il senatore dello stato del Montana, Max Baucus. Presidente della Commissione Finanze del Senato, Baucus è emerso come un personaggio chiave nella stesura della nuova legge che dovrebbe rivoluzionare il sistema sanitario americano. Da qualche mese a questa parte si è poi contraddistinto per i suoi sforzi nel raggiungere un compromesso sulla riforma con l’opposizione repubblicana, con la quale condivide tradizionalmente molte preoccupazioni per l’equilibrio del bilancio federale e per il carico fiscale sui redditi più alti.
Le battaglie elettorali del senatore Baucus, entrato al Congresso per la prima volta nel 1979, sono state finanziate nel corso degli anni in buona parte proprio da strutture ospedaliere private, compagnie di assicurazioni ed altre grandi aziende con interessi nel settore sanitario. Il comitato elettorale di Baucus ha incassato 1,5 milioni di dollari solo negli ultimi due anni, da quando cioè la sua commissione ha iniziato le operazioni preliminari per la preparazione della riforma sanitaria.
Dal momento poi che a Washington, come altrove, è il denaro che permette il libero accesso di lobbisti e industriali ai politici, le serate destinate alla raccolta di fondi a favore di Max Baucus sono sempre affollate di dirigenti di compagnie assicurative e fornitrici di prestazioni sanitarie. Come quella del maggio scorso a San Francisco, documentata dal Washington Post, per assistere alla quale era necessario staccare un assegno di almeno 10 mila dollari. Proveniente da uno stato come il Montana dove la maggior parte degli abitanti vive quotidianamente a contatto con la natura, il senatore poi pare dilettarsi nell’organizzazione di escursioni a cavallo e arrampicate, rigorosamente a pagamento, per i suoi finanziatori e attivisti.
Sfiorato solo recentemente da qualche scrupolo di coscienza, Baucus e il suo staff hanno fatto sapere di aver rinunciato a partire dal primo giugno ai contributi provenienti da organizzazioni e comitati politici con interessi nel settore sanitario. Tale condizione tuttavia, per non rinunciare del tutto ad un flusso cospicuo di denaro diretto verso le proprie casse, non è applicato ai lobbisti registrati e ai dirigenti delle grandi compagnie, i quali proseguono nel manifestare la loro generosità nei confronti del senatore del Montana.
La profonda influenza delle aziende operanti in questo settore non è diminuita con la formazione di una maggioranza democratica al Congresso e con l’elezione di un presidente deciso a mandare in porto una riforma complessiva del sistema sanitario. Semplicemente, i contributi elettorali si sono spostati a favore dei membri del partito di maggioranza. Tra gennaio e marzo del 2009, il 60% di quanto versato da queste compagnie ha finito così per beneficiare proprio i democratici.
Max Baucus non è ovviamente l’unico parlamentare impegnato nella produzione del nuovo progetto di riforma ad aver goduto della magnanimità delle aziende interessate a modellare a proprio favore il progetto di legge sulla sanità americana. L’attenzione dei donatori è rivolta soprattutto ai moderati di entrambi gli schieramenti, elementi chiave nel raggiungimento di un compromesso sulla versione finale del piano di riforma.
Così, ad esempio, il senatore dell’Iowa Charles Grassley, il repubblicano più anziano presente nella Commissione Finanze, ha ricevuto oltre 2 milioni di dollari dal settore delle assicurazioni private a partire dal 2003; per il presidente della potente Commissione della Camera dei Rappresentanti che si occupa di tassazioni e welfare (“Ways and Means Committee”) - il democratico di New York Charles Rangel - i milioni sono stati 1,6 negli ultimi due anni; uno solo invece per il repubblicano del Michigan Dave Camp che fa parte della stessa Commissione.
Nonostante la competizione nell’accaparrarsi i fondi, è però proprio il senatore Baucus ad occupare un ruolo di primo piano nei rapporti con l’industria farmaceutica e delle assicurazioni private. Il suo comitato elettorale - Glacier PAC - ha raccolto infatti ben 3 milioni di dollari tra il 2003 e il 2008, vale a dire il 20% del totale dei contributi incassati. Di tutto il denaro versatogli, solo il 10% risulta poi provenire dal suo stato. Tra i maggiori donatori ci sono Schering-Plough, corporation farmaceutica del New Jersey, New York Life Insurance, Ameng Inc., società californiana delle biotecnologie, e Blue Cross and Blue Shields, organizzazione di Chicago che raccoglie 39 compagnie assicurative.
I membri dello staff del presidente della Commissione Finanze del Senato, spesso coinvolti in ruoli di primo piano nelle trattative per la riforma sanitaria, possiedono inoltre con una certa frequenza un curriculum inequivocabile, essendo stati o essendo tuttora lobbisti per l’industria dei farmaci o per compagnie di assicurazioni.
Di fronte ad una realtà di questo tipo, non è difficile immaginare quali saranno i referenti dei parlamentari di tutti e due i partiti nel momento in cui sarà necessario decidere, ad esempio, se e quale ruolo affidare ad un eventuale piano pubblico di assistenza sanitaria. Quasi tutti i finanziatori menzionati si oppongono infatti ad un progetto che comprenda un incisivo intervento del governo federale, opzione invece sostenuta da Obama e da molti leader democratici, soprattutto alla Camera dei Rappresentanti.
Se tali ingenti investimenti richiedono necessariamente un ritorno, le sorti della riforma sanitaria, e soprattutto la sua efficacia nel limitare il dominio incontrastato del settore privato, non sembrano far prevedere niente di buono. La realtà della politica americana d’altra parte rivela un peso sempre crescente dei grandi interessi economici e finanziari, le cui attività avvengono peraltro (quasi) sempre alla luce del sole.
Decisamente meno trasparente è apparso al contrario in questi ultimi giorni il comportamento della Casa Bianca, il cui inquilino aveva promesso in campagna elettorale e all’indomani del suo insediamento di voler mettere un limite all’influenza delle lobbies. L’amministrazione Obama ha infatti rifiutato di rivelare ad un gruppo di organizzazioni civiche il nome dei dirigenti di aziende operanti nel settore sanitario e dei lobbisti che recentemente hanno visitato la Casa Bianca per incontrare il presidente e, verosimilmente, fare pressioni affinché la legislazione in fase di studio possa comprendere le loro richieste principali. Anche questa, d’altra parte, è collaborazione al raggiungimento di una riforma che vorrebbe essere di portata storica per gli Stati Uniti d’America.
Parsi: sarà la riforma sanitaria a dire se Obama sarà più Ronald Reagan o Jimmy Carter
da www.ilsussidiario.net - 27 Luglio 2009
A nove mesi dalla vittoria elettorale i sondaggi lo danno in forte calo, ma Barack Obama rilancia la sfida e dice di voler realizzare la riforma sanitaria entro l’anno. Dove cinque presidenti prima di lui hanno fallito, il nuovo presidente democratico vuole dare l’assistenza sanitaria pubblica ai 46 milioni di americani che ne sono sprovvisti. L’ostacolo maggiore sono i costi, davvero esorbitanti: la legge che dovrà finanziare la riforma dovrebbe costare tra i 1000 e i 1500 miliardi di dollari. «Il primo, vero momento cruciale della presidenza - dice Vittorio Emanuele Parsi -. Un fallimento sarebbe un vulnus permanente nell’azione politica del nuovo presidente».
Obama ha detto che la riforma sanitaria si farà. Tuttavia i sondaggi lo danno in forte calo, proprio mentre si accinge a intraprendere la riforma più difficile di tutte. Ce la farà?
Siamo di fronte al primo, vero momento cruciale della sua presidenza. Se non riesce a “quadrare il cerchio”, rischia di avere un vulnus permanente nella sua azione politica. Qui si vede se è possibile far la politica che ha promesso di fare.
Sarà davvero così discriminante il risultato?
Sì, perché da un lato c’è un certo consenso sul fatto che un paese come gli Stati Uniti non possono non avere un sistema sanitario nazionale all’altezza. Dall’altro un sistema sanitario universale lascia perplessi gli americani: il fatto che chi ha di più paghi di più, in cambio di niente, non li convince. La tassazione come redistribuzione del reddito è lontana dalla mentalità americana.
Secondo lei il Congresso è disposto a seguire ovunque il presidente? Pare che anche esponenti democratici siano contrari.
Qui ci sono due problemi. Il primo è la paura del deficit. Una paura che tutti i sondaggi sono concordi nel mettere in cima alla lista delle preoccupazioni dei cittadini americani, di tutti e non solo di quelli delle classi più alte. È la preoccupazione di una tassazione ulteriore e permanente. E Obama dovrà dimostrare e convincere, carte alla mano, che il suo progetto di riforma renderà più efficace la copertura sanitaria di quella attuata per via privata, e meno costosa per lo stato.
Cosa che non sarà facile. E l’altro problema?
Il secondo riguarda da vicino che deve votare la riforma. Ora, Obama ha una forte maggioranza, sia al Senato che alla Camera. Questo vuol dire che ci sono senatori democratici e deputati democratici che hanno vinto in collegi tradizionalmente repubblicani. Essi sanno, quindi, che se si presentano tra un anno alle elezioni di mid-term con un programma di tasse e spesa, rischiano seriamente di non essere più rieletti. Il sistema elettorale americano, basato sul collegio uninominale, è molto diverso dal nostro. Se tu, democratico, vinci in un collegio conservatore esprimi un elettorato che ti ha votato anche se è conservatore, e quindi devi fare attenzione a come voterai, perché è possibile vedere come hai votato i singoli provvedimenti.
Hanno allarmato la Casa bianca alcuni sondaggi dei giorni scorsi che davano la disapprovazione del presidente al 41% e il consenso a circa il 55%, ben al di sotto dal 70% di gradimento di inizio mandato. L’“effetto Obama” è svanito?
Obama succede ad un presidente, George Bush, divenuto molto impopolare per le sue scelte, o meglio impopolare perché alle sue scelte non ha arriso il successo sperato. In campagna elettorale si è scontrato con un candidato nettamente più debole e ha fatto valere l’effetto di novità. Partendo così alto, era inevitabile che il suo gradimento scendesse. Ora i dati ci dicono che è il terzo peggior risultato di un presidente a 180 giorni dall’elezione.
E qual è la sua lettura di questo fatto?
La prima ragione è che sia in politica internazionale che in politica interna non tutti i risultati auspicati sono stati conseguiti. E poi un conto è essere candidato, un conto è essere presidente. L’“effetto Obama” è servito per arrivare alla vittoria, poi i giochi si riaprono. Perché per vincere le elezioni possono servire qualità che sono diverse da quelle che servono per governare. Essere candidato vuol dire convincere gli altri a sostenerti, mettersi sul mercato. Ma un presidente deve convincere l’amministrazione, la macchina burocratica, il Congresso, a lavorare nella direzione che indica. È ben diverso.
Toccherà alla riforma sanitaria ridimensionare il fenomeno Obama?
Su Barack Obama ha sempre aleggiato un grande dubbio: quest’uomo è il nuovo Ronald Reagan, l’uomo capace di dare una svolta alla storia americana, o è semplicemente un nuovo Jimmy Carter? Il rischio di un presidente eletto con grandi aspettative di rinnovamento e un grande sostegno popolare, ma che poi risulta poco incisivo, non va dimenticato. Dobbiamo naturalmente augurarci che non sia così, nell’interesse degli Stati Uniti e nostro.
Qual è ora per Obama il dossier internazionale più importante?
L’Afghanistan è attualmente il fronte in cui Obama può ottenere un buon successo. Mentre le possibilità di incidere sull’Iran sono pochissime, perché il regime sta involvendosi e nessuno può sapere come va a finire e quindi la partita sul nucleare è sospesa, l’Afghanistan invece è una partita aperta. Nonostante le apparenze è il fronte più facile, perché si tratta di moltiplicare delle risorse che si hanno e di vincere la campagna. Qui molto dipende dal presidente e dalla sua capacità di mobilitare il consenso interno, gli alleati e la macchina politico-militare americana.
Come Obama riuscirà a superare Reagan nelle spese per la difesa
di Winslow T. Wheeler - www.counterpunch.org - 19 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Rachele Materassi
Il Rubinetto del Pentagono è Completamente Aperto
Il 27 gennaio, il segretario alla difesa Robert Gates ha annunciato al Congresso quanto segue: “Il rubinetto dei fondi per la difesa aperto dall’11 settembre si sta ora chiudendo”. Subito dopo che il budget per le spese della difesa di Gates è stato approvato in data 7 maggio, il revisore dei conti del Pentagono, Robert Hale, ha confermato alla stampa: “Il rubinetto sta cominciando a chiudersi”. Un rubinetto che si chiude significa meno soldi, ma il nuovo budget stanziato per il 2010 per la difesa mostra abbastanza chiaramente che la valvola non si sta chiudendo; è intasata – piena fino all’orlo. Senza considerare i costi delle guerre in Iraq e Afghanistan, l’ammontare dei fondi stanziati per il Pentagono per il 2009 è stato di 514 miliardi di dollari. Per il 2010, Gates ne ha richiesti 534. Il flusso cresce di 20 miliardi di dollari.
Il revisore Hale ha altresì detto alla stampa “Non abbiamo una pianificazione per il periodo successivo al 2010”. Ha detto che non ce ne sarà una fino a che il Dipartimento della Difesa non avrà completato la propria revisione di strategie, programmi e linee guida – la Revisione Quadriennale della Difesa (QDR).
In realtà, c’è un piano per gli anni “dopo il 2010”. E’ compreso nel budget che il presidente Barack Obama ha approvato e inviato al Congresso lo stesso 7 maggio. I materiali sul budget dell’Office of Management and Budget* (OMB) mostrano un torrente di numeri per il futuro del Dipartimento della Difesa. Essi sono tutti visionabili dal pubblico nella Tavola 26-1 del tomo da 415 pagine edito dall’OMB per il budget del 2010, “Prospettive Analitiche”. Esso pianifica le spese del Dipartimento della Difesa fino al 2019.
Escludendo le somme stanziate per le guerre in Iraq e in Afghanistan, il piano di budget approvato dalla presidenza continuerebbe a far aumentare il budget del Pentagono: di altri 8,1 miliardi di dollari nel 2011 (1,5% in più), di altri 9 miliardi di dollari nel 2012 (1,6% in più) e di 10,4 miliardi di dollari nel 2013 (1,8% in più), e così via fino al 2019.
Se aggiungiamo i costi delle guerre Iraq e in Afghanistan, il budget del Pentagono per il presente anno fiscale – 2009 – supera quello di qualunque anno a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, inclusi i picchi di spesa per le guerre della Corea e del Vietnam.
Il piano del presidente Obama è di aumentare quell’indirizzo.
Obama supererà anche Ronald Reagan per le spese della difesa.
Obama ha intenzione di investire 2,47 mila miliardi nel Pentagono per gli anni dal 2010 al 2013. Se riuscirà ad ottenere un altro mandato pensa di investire altri 2,58 mila miliardi per il periodo dal 2014 al 2017. Sommati per otto anni, dal 2010 al 2017, la spesa programmata di Obama è di 5,05 mila miliardi di dollari.
Nei suoi primi quattro anni, Reagan ha speso, in dollari rivalutati sulla base dell’inflazione, 2,1 mila miliardi di dollari. Durante il secondo mandato, ne ha spesi 2,11, per un totale di 4,21 mila miliardi di euro in otto anni. Obama nei suoi primi quattro anni ha superato Reagan di 369 milioni di dollari. In otto anni, Obama lo sorpasserà di 840 milioni.
Molti repubblicani stanno cercando di accusare Obama di aver tagliato gli stanziamenti per la difesa. Sembrano aver scambiato i segni del più e del meno. Secondo la loro logica, il quasi-santo Ronald Reagan è stato uno che ha tagliato il budget della difesa.
E cosa dire allora di Hale e della sua implicita affermazione secondo cui nessuno di questi numeri significa qualcosa finché il Pentagono non completerà il suo tanto propagandato QDR? Il Pentagono ha condotto questo tipo di revisioni fin dall’epoca dell’amministrazione Clinton. Ciascuna di esse è stata oggetto di un ampio battage pubblicitario ed è stata citata come precursore essenziale delle grandi decisioni da prendere. Ognuna di esse è andata e venuta e non ha fatto nulla per cambiare la traiettoria che i leader del Pentagono avevano già deciso; funziona poco più che come una revisione che il dipartimento amministrativo conduce di se stesso.
Al pari delle 50 decisioni di ‘program e policy’ che Gates ha annunciato alla stampa lo scorso 6 aprile contenevano qualche notizia cattiva, come ad esempio la soppressione dell’Air Force F-22, anche il nuovo QDR probabilmente conterrà qualche decisione degna di nota una volta completato nel corso dell’anno. Vale la pena sottolineare, comunque, che le 50 decisioni di Gates erano neutrali dal punto di vista del budget (il budget del 2010 è rimasto di 534 miliardi di euro sia prima sia dopo di queste).
Possiamo aspettarci che per il QDR sarà lo stesso.
Oppure ci possiamo aspettare che i numeri cresceranno un poco. Il 14 maggio, Gates ha detto al Comitato dei Servizi Armati del Senato che per sostenere il programma presentato dal Pentagono servirà un aumento annuale del 2 percento del budget del dipartimento.
Questo supera di poco quello che Obama ha pianificato.
Alcuni obietteranno strenuamente che dobbiamo aspettare i risultati del QDR e i grandi cambiamenti che tutti sanno essere necessari. In ogni caso, se ci basiamo sulla performance di Obama sulle questioni di sicurezza nazionale, questo non succederà. Con le sue decisioni sull’Afghanistan, le speciali commissioni militari giudicanti su sospetti terroristi, la pubblicazione di registrazioni di abusi sui prigionieri e altre questioni, Obama ha già dimostrato di non avere stomaco per staccarsi del tutto dalla saggezza convenzionale e da quanto di moderato – cioè politicamente sicuro- bisogna fare sulla questione della difesa nazionale.
Allo stesso modo, possiamo aspettarci che il primo esercizio di Obama con il QDR del Pentagono atterrerà su un territorio sicuro, non sui mari tempestosi delle riduzioni effettive – o sulle acque inesplorate di una riforma vera e significativa del Pentagono.
Il rubinetto è piuttosto bloccato nella posizione in cui si trova. Ci vorrebbe un cambiamento radicale perché le cose cambino.
* L’Office of Management and Budget è il principale ufficio dell’Executive Office del Presidente degli Stati Uniti, a cui è affidata una funzione di sorveglianza sulle attività poste in essere dalle agenzie federali. L’OMB, che attualmente impiega 500 persone, ha il compito di dare consigli tecnici ai membri anziani della Casa Bianca su una molteplicità di questioni, dall’ambito legale alle problematiche relative al budget. Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Office_of_Management_and_Budget (NdT)
Winslow T. Wheeler ha speso 31 anni a lavorare su Capitol Hill con i senatori di entrambi gli schieramenti politici e con il Government Accountability Office, specializzandosi in questioni di sicurezza nazionale. Attualmente dirige il Straus Military Reform Project del Center for Defense Information a Washington. Egli è l’autore di The Wastrels of Defense e l’editore di una nuova antologia: ‘America’s Defense Meltdown: Pentagon Reform for President Obama and the New Congress’.
La "mano tesa" agli Africani. I tre errori di Barack Obama in Africa
di Luc Mukendi*, Damien Millet*, Jean Victor Lemvo*, Emilie Tamadaho Atchaca*, Solange Koné*, Victor Nz - www.voltairenet.org - 29 Luglio 2009
Traduzione a cura di Tiberio Graziani
Barack Obama continua a migliorare l’immagine degli USA. In un discorso pronunciato a Accra al Parlamento ghanese, ha teso la mano agli Africani e si è impegnato ad aiutarli a vincere il sottosviluppo. Come nei messaggi precedenti del Cairo e di Mosca, questa retorica ha sedotto i media atlantisti –finalmente sollevati nel promuovere un “imperatore” simpatico-, ma ha annoiato fortemente gli interessati. I responsabili del Comitato per l’annullamento dei debiti del terzo mondo (CADTM) analizzano questo discorso paternalista.
Dopo il vertice del G8 in Italia, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è volato in Africa con un presunto regalo: un pacchetto di 20 miliardi di dollari da distribuire nell'arco di 3 anni in modo che i "generosi" donatori dei paesi ricchi "aiutino" a ridurre la fame nel mondo. Mentre la promessa di sradicare la fame viene regolarmente fatta dal 1970, le Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), il mese scorso, hanno pubblicato un rapporto il mese in cui indicano che il numero di persone sottoalimentate ha superato il tetto del miliardo, cioè 100 milioni in più rispetto all’ultimo anno. Contemporaneamente, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (PAM) lanciava l'allarme e annunciava di dover ridurre le razioni distribuite in Ruanda, Uganda, Etiopia, nella Corea del Nord e in Kenya (paese di origine della famiglia paterna di Obama), principalmente a causa della riduzione del contributo degli Stati Uniti, il suo principale finanziatore [1].
Oltre all’effetto mediatico della dichiarazione del Presidente Obama, che viene ad aggiungersi a un lungo elenco di pii desideri i quali non hanno contribuito affatto a migliorare la situazione attuale, occorre ricordare che l'importo degli aiuti di 20 miliardi di euri nell'arco di 3 anni è inferiore al 2% di quello che gli Stati Uniti hanno speso nel 2008-2009 per salvare i banchieri e gli assicuratori responsabile della crisi.
Così, dopo aver teso la mano agli "amici musulmani" nell’ambito del discorso al Cairo (pur continuando dietro le quinte a destabilizzare il Medio Oriente) [2], dopo aver teso la mano agli "amici russi" (pur mantenendo le sue posizioni sulla difesa missilistica in Europa orientale), Obama tende la mano agli "amici africani" (pur mantenendo il suo elmetto neocoloniale molto ben calzato sulla testa) [3].
Quando Obama deresponsabilizza i paesi ricchi
Il lungo discorso d’Obama a Accra, nel Ghana [4], fa seguito ad una serie di incontri con i suoi omologhi stranieri. Con il preteso di rifondare le relazione statunitensi con il resto del mondo, Obama, ancora una volta, eccelle nell’arte di sostenere l’apertura e il cambiamento, pur continuando ad applicare le funeste politiche dei suoi precedessori [5].
All’inizio, egli afferma che “tocca agli Africani decidere il futuro dell’Africa”.
Tuttavia, mentre questa dichiarazione di buon senso mette tutti d’accordo, la realtà è sempre diversa, e l’azione dei Paesi del G8 è determinante da circa mezzo secolo nel privare i popoli africani della loro sovranità. Obama non dimentica di ricordare ch’egli ha « sangue africano nelle vene », come se ciò conferisse automaticamente più forza e legittimità al suo discorso. In ogni caso, il messaggio è chiaro : il colonialismo, di cui i loro antenati sono state le vittime non deve più costituire una scusa per gli Africani. Ci sono forti similitudini con il discorso pronunciato a Dakar dal presidente francese Nicolas Sarkozy qualche mese dopo la sua elezione [6], discorso che aveva sollevato un’onda di meritate proteste alla quale Obama sembra, per il momento, essere miracolosamente sfuggito… Ma noi abbiamo l’intenzione di riparare questa ingiustizia!
Velocissimamente, Obama deresponsabilizza l’Occidente riguardo allo stato attuale dello sviluppo del continente. Dichiarando che “lo sviluppo dipende dal buon governo” e che “questa è una responsabilità che soltanto gli Africani possono acquisire”, parte dal falso presupposto che la povertà che regna in Africa sia dovuta principalmente al cattivo governo ed alle libere scelte dei dirigenti africani. Insomma, la colpa è degli Africani. Niente di più sbagliato!
Con affermazioni quali « l’Occidente non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbawe degli ultimi dieci anni, né delle guerre, né dei bambini che vengono arruolati come soldati », il presidente Obama occulta il ruolo centrale dei paesi ricchi nell’evoluzione dell’Africa. Ed in particolare quello delle istituzioni finanziarie internazionali, FMI e Banca mondiale in testa, questi potenti strumenti di dominazione delle grandi potenze che organizzano la sottomissione dei popoli del Sud. Ciò viene fatto attraverso politiche di aggiustamento strutturale (sovvenzioni per l'abbandono di beni essenziali, tagli della spesa pubblica, privatizzazione delle imprese pubbliche, liberalizzazione dei mercati, ecc.) che impediscono la soddisfazione dei bisogni fondamentali, diffondendo una miseria dilagante, accrescono le disuguaglianze e consentono i peggiori orrori.
Quando Obama compara l’incomparabile
Per sostenere le sue tesi, Obama confronta l’Africa con la Corea del Sud. All’inizio spiega che cinquanta anni fa, quando suo padre lasciò Nairobi per andare a studiare negli Stati Uniti, il Kenya aveva un PIL per abitante superiore a quello della Corea del Sud, prima di aggiungere: “Si è parlato dell’eredità del colonialismo e delle altre politiche praticate dai paesi ricchi. Senza voler minimizzare questo elemento, voglio dire che la Corea del Sud, lavorando con il settore privato e la società civile, è riuscito a impiantare alcune istituzioni che hanno garantito la trasparenza e la responsabilità”. Tutti coloro che leggono attentamente le nostre pubblicazioni hanno avvertito un senso di soffocamento!
Giacché il preteso successo economico della Corea del Sud è stato fatto contro le raccomandazioni della Banca mondiale imposte alla maggior parte degli altri paesi in via di sviluppo. Dopo la Seconda Guerra mondiale e fino al 1961, la dittatura militare al potere nella Corea del Sud ha beneficiato di importanti donazioni da parte degli USA per un importo di 3,1 miliardi di dollari. Più del totale dei prestiti accordati dalla Banca mondiale agli altri paesi del terzo mondo nello stesso periodo! Grazie a queste donazioni la Corea del Sud non si è indebitata per 17 anni (1945-1961). I prestiti diventeranno importanti solo a partire dalla fine degli anni 70, quando l’industralizzazione della Corea è ben avviata.
Dunque, in Corea è tutto cominciato con una dittatura dal pugno di ferro che ha applicato una politica statalista e molto protezionista. Questa dittatura è stata istituita da Washington dopo la Seconda Guerra mondiale. Lo Stato ha imposto una riforma agraria radicale con cui i grandi proprietari terrieri giapponesi furono espropriati senza indennizzo. I contadini sono diventati proprietari di piccoli appezzamenti di terreno (3 ettari al massimo per famiglia) e lo Stato ha messo le mani sull’eccedenza agricola, che prima veniva intascata dai proprietari giapponesi, quando la Corea era una colonia nipponica. La riforma agraria ha costretto i contadini a forti vincoli. Lo Stato fissava il prezzo e le quote di produzione, non permetteva il libero gioco delle forze del mercato.
Tra il 1961 e il 1979, la dittatura militare di Park Chung Hee venne sostenuta dalla Banca mondiale, benché la Corea rifiutasse di seguire il suo modello di sviluppo. A quell’epoca, lo Stato pianificava con mano di ferro lo sviluppo economico del paese. La continuità dell’adozione della politica d’industrializzazione per sostituzione d’importazione e il supersfruttamento della classe operaia costituiscono due degli ingredienti del successo economico del paese. La dittatura di Chun Doo Hwan (1980-1987) sarà egualmente sostenuta dalla Banca mondiale, anche se le sue raccomandazioni non saranno seguite (in particolare quelle relative alla ristrutturazione del settore automobilistico).
Così, quando Barack Obama dichiara che « la Corea del Sud, lavorando con il settore privato e la società civile, è riuscito a impiantare alcune istituzioni che hanno garantito la trasparenza e la responsabilità», egli omette di dire che il settore privato era chiaramente orientato dallo Stato e che la dittatura coreana « dialogava » con la società civile con la forza del fucile e del cannone : la storia della Corea del Sud dal 1945 fino agli inizi degli anni 80 è caratterizzata da massacri e repressioni brutali..
È egualmente importante rinfrescare la memoria di Barack Obama quando si riferisce all’esempio dello Zimbawe per illustrare il fallimento degli Africani e a quello della Corea del Sud come modello. Il 1980, l’anno in cui lo Zimbawe accede all’indipendenza, è stato segnato, in Corea del Sud, da manifestazioni popolari contro la dittatura militare. Esse vengono represse nel sangue: oltre 500 civili sono uccisi dai militari con il sostegno di Washington. Allora, e dal 1945, le forze armate sud-coreane erano sottoposte al comando congiunto americano-coreano che, a sua volta, era sotto il controllo del comandante in capo degli USA nella Corea del Sud. I massacri perpetrati dall’esercito sud-coreano nel maggio del 1980 furono completati da una repressione di massa nei mesi che seguirono. Secondo un rapporto ufficiale datato9 febbraio 1981, più di 57.000 persone erano state arrestate in occasione della “Campagna di purificazione sociale” intrapresa nell’estate del 1980. Di queste, oltre 39.000 furono inviate in campi militari per una “rieducazione fisica e psicologica”. Nel febbraio del 1981, il dittatore Chun Doo Hwan venne ricevuto alla Casa Bianca dal nuovo presidente degli USA, Ronald Reagan. È questo l’esempio che Obama vuole proporre al popolo dello Zimbawe e degli altri paesi africani?
La posizione geostrategica della Corea del Sud fu uno degli assi principali fino al termine degli anni ottanta, gli permisero di non cadere sotto i colpi del FMI e della Banca mondiale. Ma negli anni novanta, la situazione venne sconquassata dal collasso del blocco sovietico. Washington cambiò progressivamente la propria attitudine verso le dittature alleate ed accettò di sostenere i governi civili. Tra il 1945 e il 1992, la Corea del Sud è stata sotto regime militare con la benedizione di Washington. Il primo oppositore civile eletto alla presidenza durante elezioni libere è Kim Youngsam, che accetta il Washington Consensus e mette in atto un’agenda chiaramente neoliberale (soppressione delle barriere doganali, privatizzazione, liberalizzazione del movimento dei capitali), che farà immergere la Corea del Sud nella crisi economica del sud-est asiatico nel 1997-1998. Nel frattempo, la Corea del Sud aveva potuto realizzare una industrializzazione che i paesi ricchi hanno rifiutato all’Africa. Comprendiamo allora quanto l’esempio della Corea del Sud sia lontano dall’essere convincente e riproducibile.
Inoltre, la povertà di risorse naturali ha paradossalmente favorito lo sviluppo della Corea del Sud, giacché il paese ha evitato l’avidità delle società transnazionali. Gli Stati uniti consideravano la Corea come una zona strategica dal punto di vista militare contro il blocco sovietico, non come una fonte cruciale di rifornimenti (come la Nigeria, l’Angola o il Congo-Kinshasa). Se la Corea fosse stata dotata di forti riserve di petrolio o di altre materie prime strategiche, essa non avrebbe beneficiato da parte di Washington dello stesso margine di manovra per dotarsi di un potente apparato industriale. Gli Stati uniti non sono disposti a favorire deliberatamente l’emergere di concorrenti forti dotati contemporaneamente di grandi risorse naturali e di industrie diversificate.
Quando Obama esonera il capitalismo dalle sue colpe
A proposito dell’attuale crisi mondiale, Obama denuncia « le azioni irresponsabili di coloro [che] hanno generato una recessione che ha colpito il pianeta ». Pertanto, egli lascia pensare che questa crisi sia dovuta all’irresponsabilità di un pugno di uomini, i cui eccessi avrebbero gettato il mondo nella recessione. In tal modo, egli cela la responsabilità di coloro che hanno imposto la deregolamentazione finanziaria da quasi trenta anni, Stati uniti in testa. Sarebbe più corretto sottolineare il modello di sviluppo capitalista produttivista, imposto col forcipe dai paesi del Nord, quale causa delle attuali molteplici crisi, le quali, lontano dall’essere soltanto economiche, sono anche alimentari, migratorie, sociali, ambientali e climatiche.
Tutte queste crisi hanno per origine le decisioni prese dai governi imperialisti del Nord, e principalmente da quello degli USA che, controllano contemporaneamente l’FMI e la banca mondiale, imponendo condizioni favorevoli ai loro interessi e a quelli delle grandi imprese. Dall’ “indipendenza “ dei paesi africani, avvenuta, per la maggior parte di essi al virare degli anni 60, l’FMI e la Banca mondiale agiscono come dei cavalli di troia per favorire l’appropriazione delle ricchezze naturali del Sud e difendere l’interesse dei creditori. Sostenendo le dittature Ai quattro angoli del mondo (Mobutu nello Zaire, Suharto in Indonesia, Pinochet in Cile e tanti altri), poi facendo applicare rigorose politiche antisociali, i governi occidentali successivi non hanno mai permesso che siano garantiti i diritti umani fondamentali di una parte del mondo. Le espressioni” diritto all’autodeterminazione”, “democrazia”, “diritti economici e politici” non sono realtà in Africa, contrariamente al peso schiacciante dei debiti e le suppliche degli affamati.
A quando l’emancipazione dell’Africa?
L’Africa è stata spezzata dal sistema devastante della tratta degli schiavi nel quadro del commercio internazionale triangolare instaurato dall’Europa e dai suoi coloni nelle Americhe dal XVII al XIX secolo. Successivamente è stata messa sotto la tutela del colonialismo europeo, dalla fine del XIX sino all’indipendenza. Tuttavia, in seguito, la dipendenza è continuata attraverso il meccanismo del credito e dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Dopo le indipendenze, stata lasciata a dei potentati (Mobutu, Bongo, Eyadema, Amin Dada, Bokassa, Biya, Sassou Nguesso, Idriss Déby…) i quali per lungo tempo erano o sono stati protetti dalle capitali europee e da Washington. Molti alti dirigenti africani, che volevano uno sviluppo autonomo e favorevole alle loro popolazioni, sono stati assassinati su ordine di Parigi, Bruxelles, Londra o Washington (Patrice Lumumba nel 1961, Sylvanus Olympio nel 1963, Thomas Sankara nel 1987…).
Le classi dirigenti africane e i sistemi politici che esse stabiliscono hanno chiaramente la loro parte di responsabilità nel perpetuare i problemi dell’Africa. Il regime di Robert Mugabe nello Zimbabwe è uno di questi. Oggi, i popoli africani sono direttamente colpiti dagli effetti della crisi globale il cui epicentro si trova a Washington e a Wall Street, rivelando il fatto che il capitalismo conduce a una situazione di stallo inaccettabile per i popoli.
Le origini africane di Barack Obama sono pane benedetto per le imprese del suo paese che difende il suo paese interessi economici molto specifici nello sfruttamento di materie prime provenienti dall’Africa.
Ecco una realtà che Obama spazza via con un colpo di mano, proseguendo un discorso paternalistico e moralista per convincere gli Africani a non impegnarsi nella lotta per una indipendenza vera e un reale sviluppo che assicuri finalmente la piena realizzazione dei diritti umani.
*Luc Mukendi
Coordinatore di AMSEL /CADTM Lubumbashi (RDC).
*Damien Millet
Segretario generale del CADTM France (Comité pour l’Annulation de la Dette du Tiers Monde). Ultimo libro pubblicato : Dette odieuse (avec Frédédric Chauvreau), CADTM/Syllepse, 2006. .
*Jean Victor Lemvo
Membro di Solidaires à Pointe Noire (Congo).
Emilie Tamadaho Atchaca
Presidente del CADD (Bénin).
*Solange Koné
Militante per i diritti delle donne (Csta d’Avorio).
*Victor Nzuzi
Agricoltore, coordinatorer di GRAPR e NAD Kinshasa (RDC).
*Aminata Barry Touré
Presidente di CAD-Mali/Coordinatrice del Forum des Peuples.
*Ibrahim Yacouba
Sindacalista (Niger).
*Éric Toussaint
Presidente di CADTM Belgio (Comitato per l'annullamento dei debiti nel terzo mondo). Ultimo libro pubblicato: Banque du Sud et nouvelle crise internationale, CADTM/Syllepse, 2008.
*Sophie Perchellet
Membro del Comitato per l’annullamento dei debiti nel terzo mondo (CADTM).
Note:
[1] Vedere il Financial Times (FT) del giugno 2009. Secondo FT, Burham Philbrook, il Sottosegretario di Stato all’agricoltura degli USA, ha dichiarato che Washington non poteva garantire i finanziamenti del PAM per l’anno 2008, nel corso del quale gli USA avevano contribuito con 2 miliardi di dollari. Sempre secondo FT, Philbrook suggeriva che il PAM dovesse ridurre il suo aiuto mentre sapeva perfettamente che il numero di affamati sarebbe aumentato nel 2009.
[2] « Discours à l’université du Caire », Barack Obama ; « Obama et les arrières-pensées de la main tendue aux musulmans », Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 e 9 giugno 2009.
[3] « Entretien avec AllAfrica.com », Barack Obama ; « Derrière la visite d’Obama au Ghana », Manlio Dinucci, Réseau Voltaire, 2 e 12 luglio 2009.
[4] « Discours devant le Parlement du Ghana », Barack Obama, Réseau Voltaire, 11 luglio 2009.
[5] Questa continuità apparve egualmente nell’inazione di Obama di fronte al putsch in Honduras. Mentre lo condanna, lascia che accada. Il Pentagono, peraltro, è molto vicino ai golpisti. Costoro non resterebbero al potere se il Pentagono non intimasse loro l’ordine di ritirarsi. « Honduras : les "intérêts USA" encore aux mains des militaires de la Joint Task Force Bravo », Manlio Dinucci ; « Le SouthCom prend le pouvoir dans un État membre de l’ALBA », Thierry Meyssan ; "Honduras : la politique à "deux voies" des États-Unis et du Canada », Arnold August, Réseau Voltaire, 29 giugno e 13 luglio 2009.
[6] « Discours à l’université de Dakar », Nicolas Sarkozy, Réseau Voltaire, 26 luglio 2007.