sabato 4 luglio 2009

Obama tra l'incudine e il martello

A 5 mesi e mezzo dal suo insediamento alla Casa Bianca, Obama è alle prese con una serie di problemi irrisolti in politica estera, alcuni ereditati dall'amministrazione Bush altri no, che si stanno dimostrando delle autentiche trappole per colui che ha preso le redini degli USA nel peggior timing della sua storia, contrassegnato da due guerre e da una crisi economica senza precedenti con la conseguente perdita della leadership mondiale statunitense.

Obama rischia perciò seriamente di rimanere stritolato tra la sua affascinante retorica che si pone l'obiettivo del cambiamento a 360 gradi e la spietata realtà di chi manovra alle sue spalle perchè tutto resti invariato.


Zelaya e Obama trappola a tempo
di Gianni Minà - Il Manifesto - 3 Luglio 2009

Alla fine il golpe militare in Honduras, il secondo paese più povero dell’America latina dopo Haiti, ha finito per nuocere più di tutti, per ora, alla nuova amministrazione Usa del presidente Barack Obama, che è rimasto praticamente con il fiammifero acceso in mano, specie considerando la sua più volte affermata intenzione di cambiare metodi e politica nel continente che, una volta, era “il cortile di casa” degli Stati uniti.

Perchè è vero che Obama ha condannato il colpo di stato in Honduras, dichirandosi “seriamente preoccupato per la situazione” e chiedendo “a tutti gli attori politici e sociali di quel povero paese di rispettare lo Stato di diritto”, ed è vero che sulla stessa linea si è espressa anche Hillary Clinton, ministro degli esteri, che ha ribadito “Sono stati violati i principi democratici”.
Ma nessuno può credere che l’ambasciatore Usa in Honduras, Hugo Llorenz, pronto a sua volta ad affermare “L’unico presidente che gli Stati uniti riconoscono nel paese è Zelaya” (proprio il premier liberale deposto e cacciato in Costa Rica) non sapesse da tempo cosa stesse per succedere.

Allora i casi sono due: o l’ambasciatore degli Stati uniti è un incapace o vogliamo credere che il governo di Washington non ha più la minima influenza sull’apparato militare che, da quasi cinquant’anni, condiziona in modo indiscutibile la vita di un paese di radici maya che, oltretutto, dai tempi in cui il presidente Ronald Reagan decise di appoggiare la “guerra sporca” alla rivoluzione sandinista in Nicaragua, è la base operativa e logistica delle operazioni militari del Pentagono in quella zona del mondo.

Operazioni che tra l'altro partono da una base militare, quella di Palmerola, assolutamente illegale perché mai è stato firmato un accordo ufficiale fra i due paesi perché questo apparato venisse edificato e fosse attivo sul suolo hondureño. Anzi, le forze armate del piccolo paese sono legate al Comando Sud dell’armata nordamericana, i cui consiglieri militari giocano un ruolo essenziale nelle loro strategie.

Fra “gli attori politici” nel piccolo paese centroamericano, di quasi sette milioni e mezzo di abitanti, le forze armate degli Stati uniti sono ancora preminenti e non a caso gli alti comandi sono stati formati tutti alla famigerata Scuola delle Americhe, prima a Panama e poi a Fort Benning in Georgia, vera fabbrica di dittatori e di assassini.
Il generale Romeo Vazquez, leader dei golpisti, ha studiato, per esempio, in quell’inquietante ”ateneo”, e da quell’insegnamento, come ha ricordato l'altroieri Manlio Dinucci, vengono i dittatori hondureñi degli anni 70 e 80, Juan Castro, Policarpo Paz Garcia e Humberto Hernandez.

Salvo i pochi passati a miglior vita, tutti questi “repressori con stellette” incidono ancora nella vita politica dell’Honduras, anche se nel frattempo si sono sostituiti a loro per via elettorale presidenti presunti liberali o neoliberisti che hanno condotto il paese alla miseria più nera.
Manuel Zelaya, rubricato come liberale ed eletto nel 2006 dalla destra moderata in un paese ostaggio della delinquenza e delle gang giovanili, come il Guatemala e il Salvador, ha avuto il torto di rendersi conto che la causa di questa deriva era di origine strutturale, il prodotto dei bassissimi livelli di sviluppo umano e lo stato di estrema generalizzata povertà.

Così pensò che aderire all’ALBA, l’Alternativa Bolivariana per i Popoli d’America, un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell'America latina ed i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba e successivamente da Nicaragua, Ecuador e Repubblica Dominicana (in alternativa all'Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati uniti), poteva essere una scelta incorretta ideologicamente, ma economicamente realista, specie considerando il sostegno che avrebbe assicurato ad alcune politiche sociali l’aiuto che sarebbe venuto da PDVSA, la compagnia petrolifera venezuelana.

In quell’occasione si dimise il vicepresidente, espressione degli interessi di molte imprese private, sospettose di questi accordi per la linea politica espressa dalle nazioni dell’ALBA.
Adesso è lo stesso Zelaya che è stato esiliato a forza, anche se annuncia che tornerà in patria addirittura oggi.

In questo scenario dovrà ora farsi largo politicamente Barack Obama che, dopo quanto ha dichiarato, non potrà riconoscere il nuovo governo imposto dal golpe militare e presieduto da Roberto Micheletti, ex presidente del Parlamento, ma non sarà in grado nemmeno imporre, come chiede l’Organizzazione degli Stati americani e perfino l’Onu, il reintegro nel suo incarico di Manuel Zelaya, anche se è stato democraticamente eletto.

Questo dettaglio non è di poco conto, ma perfino per organi di informazione come El Pais, giornale una volta progressista, vale solo quando a vincere è il partito conveniente in America latina alle politiche neocoloniali di molte multinazionali spagnole e non coalizioni in linea con il nuovo vento di indipendenza, di autonomia e di riscatto che spira in molti paesi del continente a sud del Texas.

Così, in questa occasione sparisce, per esempio, nell’informazione del prestigioso giornale iberico che detta la linea in Europa su come si deve interpretare la realtà latinoamericana, la condanna dell’Onu al golpe, ed anche l’oggetto del contendere in Honduras, cioè un referendum che voleva portare alla convocazione di un’assemblea costituente e non, come afferma il giornale dell’Editorial Prisa, l’aspirazione di Zelaya di “modificare la Costituzione per restare al potere”. Quindi i militari in qualche modo avrebbero agito da tutori dello stato, malgrado la maggioranza dei cittadini non glielo avesse chiesto.

Insomma, in una parte di quella che fu una volta l’informazione di sinistra c’è come un vischioso tentativo a preparare i propri lettori a digerire un colpo di stato, presentandolo come una soluzione legittima.

Peccato che proprio l’attuale ministro degli esteri del governo Zapatero, Miguel Angel Moratinos, abbia denunciato poco tempo fa come fu proprio un governo conservatore spagnolo, quello di José Maria Aznar, il primo a legittimare, insieme a quello di George W. Bush, il colpo di stato, poi fallito, in Venezuela l’11 aprile 2002 contro il presidente Ugo Chavez, che era stato scelto dai cittadini.

A El Pais evidentemente hanno la memoria corta, ma nello stesso errore non si può permettere di cadere il successore di Bush, Barack Obama, dopo le dichiarazioni di principio fatte e ribadite.
Chi ha confezionato questa polpetta avvelenata al presidente degli Stati uniti?


Obama ha il controllo di tutto l'apparato?
di Tito Pulsinelli - selvasorg.blogspot.com - 3 Luglio 2009

Tutti gli ambasciatori dell'America latina e quelli dell'Unione Europea hanno lasciato la capitale dell'Honduras e sono rientrati nei rispettivi Paesi. Tutti, meno uno: quello degli Stati Uniti. Perche? Questa stranezza si aggiunge ad una serie di dichiarazaoni contraddittorie dei vari portavoce di Washington. Il dipartimento di Stato e il Pentagono non parlano il medesimo linguaggio.

Ha richiamato l'attenzione che gli Stati Uniti abbiano detto in modo esplicito che Zelaya e' il Presidente costituzionale dell'Honduras solo dopo che i Paesi dell'ALBA, OEA, Gruppo di Rio, Caricom, i centromericani del SICA, Mercosur ecc avevano stabilito con chiarezza che non avrebbero mantenuto nessun tipo di relazione con i golpisti.

Immediatamente, però, altri portavoce di Washington si affrettarono a specificare che i legami economici e i programmi militari continuavano, senza alterazioni.
La dichiarazione di Obama - durante l'incontro con il presidente colombiano Uribe - ha chiarito alcuni degli equivoci. Non ha cancellato, pero', il sentore nella politica estera - perlomeno verso l'America latina - ci sono due linee diverse. Ci si chiede se Obama controlla pienamente l'apparato istituzionale da cui dipendono il Pentagono e la CIA.

E' noto che Obama ha dovuto accettare e confermare nel suo incarico il ministro della Difesa di George W. Bush. Non e' una cosa di poco conto. E' l'uomo del fallito espansionismo militare in Mesopotamia e della guerra al terrorismo, ha la fiducia della poderosa industria militare.
Obama, inoltre, ha fatto approvare dal Congresso un bilancio per le spese militari da capogiro, nientaffatto ridimensionato come imporrebbe la severita' della crisi e le promesse elettorali.

Il nuovo ministro della difesa dei golpsisti di Tegucigalpa -mister Joya- appartiene al clan di Negroponte, Otto Reich, dell'Iran-contras e dell'utilizzazione del territorio dell'Honduras come base di sostegno alla guerra contro il sandinismo.
Mister Joya ricorda i tempi degli squadroni della morte, dei desaparecidos e delle torture. E' una reliquia scongelata di non lontani tempi bui e sinistri, che non lascia dubbi sulle intenzioni dei golpisti e dei loro mandanti, interni ed esterni

Di fronte a questo quadro, risulta, poco comprensibile l'estrema cautela di Washington e la dissonante e divergente ridda di dichiarazioni dei vari portavoce ufficiali. Durante il vertice continentale di Trinidad e Tobago, Obama chiese fiducia ed aprì alcuni spiragli di cambiamento. Invoco' comprensione e suggerì di "dimenticare il passato".

Il golpismo redivivo ripropone in modo virulento un passato che non e' possibile dimenticare, e che non è salutare dimenticare. E' la prova di fuoco per Obama, qui si gioca il futuro delle relazioni con il resto dele Americhe, perchè verranno a galla -disvelati- quali sono realmente i suoi margini di manovra per mettere sotto controllo quelle parti della istuzionalita' interna che gli sfuggono o gli resistono.

La nuova America latina non e' piu' disponibile a "scordare il passato", e men che meno a subire ancora un "chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto".


Il guerriero Obama, ma da queste valli nessuno è mai uscito vittorioso...
di Vittorio Zucconi - La Repubblica - 3 Luglio 2009

La sfida: mostrarsi come un vero "commander in chief"
I panni del guerriero non sono i suoi, ma si sente di dover rispettare un impegno

I Marines lanciati ieri da Obama all´attacco dei Taliban sono ben quattromila, l´unità più numerosa e formidabile schierata dal tardo autunno del 2001.
Da quando bastarono a Bush una spallata, qualche reparto di special forces e bombardamenti a tappeto di dollari sui corruttibili ras delle valli e dei campi di papaveri per far cadere il regime di Kabul come una piramide di carta.

Gli ordini della Casa Bianca sono tassativi - strappare ai Taliban una valle di importanza strategica in Afghanistan - e questa è la prima offensiva militare importante ordinata dal nuovo comandante supremo delle forze armate, Barack Obama, come aveva promesso di fare durante le elezioni, spostando gli stivali americani dalle sabbie della Mesopotamia alle nevi di Kandahar per colpire il nemico dov´è realmente e non dove Bush e Cheney avevano immaginato che fosse.

Eppure c´è qualcosa che non persuade del tutto in questo Obama con l´elmetto che va alla guerra, come se realmente non ci avesse messo il cuore, come se neppure lui fosse convinto di quello che fa, ma dovesse semplicemente rispettare un impegno preso con gli elettori e con il mondo.

L´Obama guerriero è una figura incongrua e non perchè lui, come i falchi da salotto e da talk show alla maniera dei neo-con che lo avevano preceduto al potere, non abbia mai indossato un´uniforme sul serio e non abbia mai provato che cosa significhi davvero sparare a un nemico o essere il bersaglio di proiettili. Guardandolo e ascoltandolo, ormai da molti mesi, prima in campagna elettorale e poi dallo Studio Ovale, si capisce come il suo modus operandi, la sua personalità, la sua storia non possano essere quelli di condottieri bellici, di uomini che sono naturalmente dotati, a volte sfortunatamente dotati, della capacità di vedere il mondo in bianco e nero, diviso in «noi e loro». Come quel generale Patton, idolo dei soldati e dei marines in Europa, la cui filosofia di vita si riassumeva nel famoso motto: "Fare la guerra significa ammazzare quei figli di puttana prima che quei figli di puttana ammazzino te".

Il mondo nel quale si muove Obama, come la sua storia biologica di figlio dell´Europa e dell´Africa insieme, è un mondo in grigio, di tonalità sfumate, che non sono gli ingredienti del semplicismo ideologico, mistico o caratteriale indispensabile per condurre grandi e vere guerre nella certezza di stare dalla parte del bene assoluto. Anche questa offensiva nella valle dell‘Helmand, dove i Taliban risorti (in realtà mai scomparsi) si erano riorganizzati per sfruttare un passaggio geografco chiave e per far ripartire alla grande la produzione e il traffico di oppio, pur se «il rumore e la furia» degli sbarchi dei marines dagli elicotteri sono impressionanti, ha qualcosa di molto obamiano, il sapore di una mossa da giocatore di scacchi, non da duellante all´ultimo sangue.

I rapporti dal campo di battaglia già ci avvertono che i Taliban, secondo una collaudatissima tattica guerrigliera che in Afghanistan funziona da millenni contro tutti gli invasori stranieri e dopo il Vietnam è la prefazione del manuale del perfetto guerrigliero davanti a un avversario troppo forte, non hanno affrontato questi battaglioni di marines coperti dal volo di bombardieri, caccia e droni senza pilota, ma si sono ritirati e dissolti in territori che loro conoscono palmo e palmo, meglio di qualsiasi occhio elettronico e dove possono mimetizzarsi come granelli di sabbia in un deserto.

Dunque, a differenza di quanto accadeva 40 anni or sono, quando i padri e i nonni dei marines lanciati oggi in Afghanistan dovevano contendere ai Vietcong e ai Nord Vietnamiti ogni collinetta per poi abbandonarla e vederla rioccupata il giorno dopo, almeno in questa primo «D-Day» obamaniano non correranno torrenti di sangue. E questo, i generali americani, dunque il loro «chief» Obama, dovevano saperlo perfettamente, essendo i Taliban fanatici ma non tanto stupidi da misurarsi a viso aperto da pick up di latta contro brigate del più forte esercito del mondo.

Si tratta, e qui saremmo di nuovo pienamente all´interno della filosofia politica e umana del nuovo presidente, di un gesto assai più dimostrativo che sostanzioso, di una «strana guerra», condotta nella speranza di non dover fare davvero la guerra.

Un modo per provare, agli americani che sempre si domandano quali siano anche le qualità strategiche nei loro presidenti ben sapendo che tutti saranno inesorabilmente chiamati a rispondere a una sfida bellica qualunque sia la loro ideologia, e al mondo, che Barack Obama non è un «sissy», una «signorina di buona famiglia» timida e renitente. Che sa anche fare la parte del commander in chief, del generalissimo, purché l´azione non costi troppo in vite - soprattutto in vite americane - e non precluda vie di uscite politiche.

Nel suo universo la priorità appartiene sempre alla politica, non alla forza, e lo sbarco roboante di marines con colonna sonora delle pale dei grandi elicotteri Black Hawk nella valle dell´Helmand sembra una mossa politica, diretta soprattutto a quel Pakistan, e a quell´Iran in subbuglio da fine di regime, che tengono da sempre le chiavi della valli afgane. Dove nessuna forza militare straniera, da Alessandro il Macedone a Bush il Texano, è mai riuscita a imporre la propria volontà e il proprio controllo.



Obama alle prese con il secco rifiuto persiano. Una cosa è certa: Teheran non risponderà via Twitter
di M.K. Bhadrakumar - www.tlaxcala.es - 1 Luglio 2009

Interrompendo i suoi servizi iraniani per dedicarsi ai lavori di manutenzione, Twitter chiude con la soddisfazione di avere probabilmente messo in difficoltà una potenza regionale risorgente. Il governo degli Stati Uniti deve fare a Twitter un bell'inchino per essere riuscito là dove tutti gli altri stratagemmi della guerra e della pace hanno fallito negli ultimi trent'anni.

Ma le storie persiane hanno conclusioni lunghe. Il regime iraniano indica chiaramente una tendenza a serrare i ranghi e riorganizzarsi in presenza a ciò che considera una grave minaccia al Vilayat-e faqih (il governo clericale). Anche se gli Stati Uniti e la Gran Bretagna vorrebbero prendere le distanze dalla rottura con Teheran (decisione del tutto sensata e logica), quest'ultima potrebbe non consentirlo.

Quando il Capo Supremo Ayatollah Ali Khamenei ha usato una colorita espressione persiana per caratterizzare i leader europei e americani e ha sottolineato che il popolo iraniano considera “macchiato” il suolo ove quei leader hanno messo piede, ha fatto capire che Teheran non dimenticherà facilmente il sardonico fuoco di fila cui l'hanno sottoposta negli ultimi giorni soprattutto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per danneggiare il suo profilo di potenza in ascesa nella regione. Con un velato monito, Khamenei ha detto: “Alcuni leader europei e americani con le loro idiote osservazioni sull'Iran parlano come se i loro problemi [v. Iraq, Afghanistan] fossero stati tutti risolti e l'Iran fosse il loro unico cruccio”.

L'Iran ha alle spalle una storia tortuosa, caratterizzata in abbondanza da ciò che il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel suo discorso del Cairo ha chiamato “tensione... alimentata dal colonialismo che negò diritti e opportunità a molti musulmani, e una Guerra Fredda in cui paesi a maggioranza musulmana erano troppo spesso trattati in maniera strumentale per ciò che concerneva le loro aspirazioni”. Negli ultimi trent'anni per Teheran la “linea rossa” è sempre stata rappresentata dai tentativi stranieri di imporre un cambiamento di regime. In quella linea è stato aperto un varco.

I servizi di sicurezza iraniani hanno cominciato a scavare sempre più in profondità in ciò che è realmente accaduto. Gholam Hossein Nohseni Ejei, il potente Ministro dell'Intelligence, basandosi sulle informazioni disponibili ha ipotizzato un tentativo concertato di fomentare le rivolte da parte di potenze mondiali “preoccupate per un Iran stabile e sicuro”, nonché complotti per assassinare capi iraniani.

Le accuse infondate non reggono. Ma nei giorni e nelle settimane a venire sorgeranno domande scomode. I primi dubbi riguardano la morte misteriosa di Neda Aqa-Soltan. Sono inoltre stati uccisi otto miliziani Basiji. Chi li ha uccisi? Anzi, chi ha guidato la carica della brigata?

È un frammento di storia poco noto, ma prima del golpe anglo-americano a Teheran contro Mohammed Mosaddeq in 1953 la CIA si scoraggiò proprio quando le manifestazioni di massa a Teheran – stranamente simili ai recenti tumulti – stavano per avere inizio, ma la base dei servizi britannici a Cipro, che coordinava l'intera operazione, tenne duro, forzò il passo e infine creò un fait accompli per Washington.

In ogni caso, Teheran ora se la prende con la Gran Bretagna, “la più infida delle potenze straniere”, per citare le parole di Khamenei. Due diplomatici britannici assegnati a Teheran hanno ricevuto l'ordine di andarsene e quattro iraniani impiegati nell'Ambasciata britannica sono stati fermati e sottoposti a interrogatorio. E questo nonostante Londra continui a ribadire energicamente di non avere nulla a che fare con ciò che succede nelle vie di Teheran. Una dichiarazione del Foreign Office di Londra afferma che il Primo Ministro Gordon Brown è spinto ad agire non dall'indignazione per il trattamento riservato ai diritti civili o per la morte di innocenti, ma dal programma nucleare iraniano.

Londra è visibilmente ansiosa di andarsene quanto prima, e spera di poter normalizzare al più presto i rapporti con l'Iran. Ma Obama si trova a dover affrontare una sfida molto più complessa. Non può emulare Brown. Deve trattare con l'Iran. Il problema che Obama deve affrontare è che il regime iraniano non solo non si è incrinato, ma ha mostrato un'incredibile capacità di recupero.

Il regime serra i ranghi
Circolava voce che il silenzio dell'ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani significasse che stava preparando un complotto nella città santa di Qom per sfidare le disposizioni di Khamenei. Ma non era così. Domenica Rafsanjani è uscito allo scoperto appoggiando Khamenei. Distinguiamo qui gli infallibili contorni di un'intesa.

“Gli sviluppi successivi al voto presidenziale sono stati una complessa cospirazione concepita da elementi sospetti allo scopo di produrre una spaccatura tra il popolo e la dirigenza islamica facendo sì che venisse a mancare la fiducia nel sistema [Vilayat-e faqih]. Simili complotti sono stempre stati neutralizzati quando il popolo ha mantenuto un atteggiamento vigile”, ha detto Rafsanjani.

Rafsanjani ha lodato Khamenei per aver concesso altri cinque giorni per i ricorsi sulle elezioni, permettendo così di fare chiarezza: “Questa preziosa mossa del Capo Supremo per ristabilire la fiducia del popolo nel processo elettorale è stata molto efficace”, ha osservato Rafsanjani. Giovedì, durante un incontro con una delegazione di membri del majlis (il parlamento), Rafsanjani ha detto che il suo attaccamento a Khamenei è “illimitato”, che i suoi rapporti con il Leader Supremo sono stretti e che si attiene assolutamente al Velayat-e faqih.

Sabato il Consiglio per il Discernimento del Sistema, guidato da Rafsanjani, ha sollecitato i candidati sconfitti a “osservare la legge e risolvere i conflitti e le dispute [sulle elezioni] per vie legali”. Nel frattempo Mohsen Rezai, il candidato dell'opposizione ed ex capo delle Guardie delle Rivoluzione iraniana, e l'ex presidente del parlamento Nateq-Nouri, pilastro della politica iraniana, si sono a loro volta riconciliati.

Dunque Mir Hossein Mousavi è isolato. Ignorando le obiezioni di Mousavi, il Consiglio dei Guardiani ha ordinato un parziale riconteggio del 10% dei voti, in urne elettorali scelte a caso nel paese, di fronte alle telecamere della televisione di Stato. Il riconteggio ha confermato nella tarda serata di lunedì il risultato delle elezioni del 12 giugno e ha fatto dichiarare al Ministero degli Interni che “il Consiglio dei Guardiani dopo aver esaminato le questioni ha rigettato tutti i ricorsi presentati e approva l'accuratezza delle decime elezioni presidenziali”.

Il riconteggio di lunedì ha mostrato un leggero aumento dei voti favorevoli al Presidente Mahmud Ahmadinejad nella provincia di Kerman. A Mousavi ora resta solo la rischiosa opzione della “disobbedienza civile”, ma non la eserciterà, con buona pace dei commentatori occidentali che apparentemente lo considerano il “Ghandi iraniano”.

Se ci si aspettava che il presidente del majlis, Ali Larijani, fosse un potenziale leader dissidente, anche queste attese sono state deluse. Lunedì, rivolgendosi al riunione del comitato esecutivo dell'Organizzazione della Conferenza Islamica ad Algeri, Larijani ha attaccato la politica statunitense di “ingerenza” negli affari interni dei paesi mediorientali. Ha consigliato a Obama di abbandonare questa politica: “Il cambiamento sarà benefico sia per la regione che per gli stessi Stati Uniti”.

L'amministrazione Obama dovrà prendere delle decisioni difficili. Sono state le costanti critiche e pressioni delle reti anti-iraniane e delle potenti lobby annidate nel Congresso degli Stati Uniti e nella classe politica – oltre che in settori dei servizi di sicurezza tradizionalmente esperti nel ricomporre gli screzi con Teheran ma anche abominevolmente noti per gli errori commessi nella valutazione delle vicende politiche iraniane – a costringere Obama a irrigidirsi.

Ammorbidire la propria posizione sarà un processo difficile e politicamente imbarazzante. Servono anche buone qualità di statista. La cosa migliore è che Washington si conceda una pausa e, dopo un intervallo di tempo accettabile, riprenda a impegnarsi nel dialogo con l'Iran.

Contatti significativi nelle prossime settimane sembrano improbabili. Nel frattempo, pignolerie come il rifiuto del visto al Vice Presidente iraniano Parviz Davoudi perché possa recarsi a New York alla conferenza delle Nazioni Unite sulla crisi economica mondiale non sono certo d'aiuto. (Davoudi è un sostenitore delle prospettive economiche liberiste). Né lo sarà la probabile decisione degli Stati Uniti di perseguire la via delle sanzioni contro l'Iran al prossimo summit del G8 che si terrà a Trieste l'8-10 luglio. (A maggio l'Iran ha superato l'Arabia Saudita come principale esportatore di petrolio dal Golfo Persico verso la Cina.)

Riassumendo, nel fronteggiare la situazione iraniana l'amministrazione Obama ha malamente annaspato dopo un magnifico esordio. Come afferma l'eminente editorialista ed esperto di politica estera Leslie H. Gelb nel suo ultimo libro Power Rules: How Common Sense Can Rescue American Foreign Policy (Regole del potere: come il buon senso può salvare la politica estera americana), Obama aveva la possibilità di “usare il modello libico, nel quale Washington e Tripoli hanno giocato a carte scoperte e negoziato in modo estremamente soddisfacente”.

La risposta dell'Iran
Inoltre il contesto regionale può solo andare a vantaggio dell'Iran. L'Iraq continua a trovarsi pericolosamente in bilico. Le fortune degli Stati Uniti in Afghanistan oscillano tra la possibile sconfitta e la scampata sconfitta. La Turchia ha preso le distanze dalla posizione europea sui recenti sviluppi in Iran. L'Azerbaigian, il Turkmenistan, l'Afghanistan e il Pakistan si sono rallegrati per la vittoria di Ahmadinejad. Mosca ha poi concluso che il regime non era minacciato.

La Cina emerge come “vincitore” assoluto per aver valutato correttamente fin dal primo giorno le correnti profonde dell'oscura politica rivoluzionaria iraniana. Mai prima d'ora Pechino aveva espresso così apertamente tanta robusta solidarietà al regime iraniano nel suo respingere le pressioni occidentali. Né la Siria né Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza hanno mostrato in alcun modo di voler prendere le distanze dall'Iran.

Certo, negli ultimi sei mesi i legami della Siria con l'Arabia Saudita sono migliorati e Damasco ha accolto favorevolmente le recenti aperture diplomatiche dell'amministrazione Obama. Ma ben lungi dall'adottare la linea saudita o statunitense nei confronti dell'Iran, il Ministro degli Esteri siriano Walid al-Moallem ha messo in discussione la legittimità delle proteste di piazza a Teheran.

Questo il suo monito di domenica scorsa, quando cresceva la protesta nelle strade di Teheran: “Chiunque scommetta sulla caduta del regime iraniano perderà. In Iran la rivoluzione islamica [del 1979] è una realtà profondamente radicata, e la comunità internazionale [leggasi gli Stati Uniti] devono conviverci”.

Moallem ha sollecitato “l'instaurazione di un dialogo tra l'Iran e gli Stati Uniti basato sul reciproco rispetto e sulla non-ingerenza negli affari iraniani”. Analogamente, il successo di Saad Hariri come neo-eletto primo ministro del Libano – nonché la stabilità complessiva del paese – si impernierà sulla sua capacità di riconciliarsi con i rivali, alleati di Siria e Iran.

In considerazione di tutto questo, Washington ha sperimentato una crisi della propria condotta politica. Il paradosso è che l'amministrazione Obama ora avrà a che fare con un Khamenei al culmine del suo potere politico di leader supremo, carica che ricopre ormai da vent'anni. Per quanto riguarda Ahmadinejad, d'ora in poi negozierà da una posizione di forza senza precedenti. Si suppone che aiuti il fatto che il proprio avversario sia forte, perché significa che può prendere decisioni difficili, ma in questo caso l'analogia non tiene.

Ahmadinejad ha lasciato poco spazio all'interpretazione quando sabato a Teheran ha dichiarato: “Non c'è dubbio che il nuovo governo iraniano adotterà una posizione più salda e decisiva nei confronti dell'Occidente. Questa volta la risposta della nazione iraniana sarà dura e più decisiva” e volta a far rimpiangere all'Occidente le sue “ingerenze”. Una cosa è certa: Teheran non risponderà via Twitter.


Il brillante piano di pace di Netanyahu

di Hasan Abu Nimah and Ali Abunimah - http://electronicintifada.net - 18 Giugno 2009

Traduzione a cura di Gianluca Freda

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha proposto un piano di pace così ingegnoso che è stupefacente che in sessant’anni di spargimento di sangue nessuno ci abbia pensato. A qualcuno potrebbe essere sfuggita la piena genialità delle idee che egli ha esposto il 14 giugno in un discorso all’Università di Bar Ilan, pertanto ci pregiamo di offrire ai lettori la presente analisi.

Prima di tutto, Netanyahu vuole che i palestinesi divengano ferventi sionisti. Possono dimostrare la loro fede dichiarando “Riconosciamo il diritto del popolo ebraico a possedere un proprio Stato su questo territorio”. Come egli ha sottolineato, è solo il rifiuto degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare di convertirsi al sogno sionista ad aver provocato il conflitto, ma non appena “essi avranno detto queste parole alla nostra gente e alla loro gente, allora si aprirà la strada per la risoluzione di tutti i problemi fra i nostri popoli”. Ovviamente è del tutto naturale che Netanyahu attenda “con impazienza quel momento”.

In ogni caso, una semplice sincera conversione al sionismo non sarà sufficiente. Affinché la conversione palestinese abbia un “significato concreto”, ha spiegato Netanyahu, “deve esservi anche la chiara consapevolezza che il problema dei rifugiati palestinesi dovrà essere risolto al di fuori dei confini israeliani”. In altre parole, i palestinesi devono acconsentire ad aiutare Israele nel completamento della pulizia etnica iniziata nel 1947-48, rinunciando al diritto al ritorno. Ciò naturalmente è del tutto logico, poiché, una volta divenuti sionisti, i palestinesi condivideranno l’obiettivo sionista di una Palestina quanto più possibile svuotata di palestinesi.

Netanyahu è abbastanza intelligente da riconoscere che perfino questa auto-pulizia etnica dei rifugiati potrebbe non essere sufficiente a garantire la “pace”: ci sarebbero pur sempre milioni di palestinesi che continuerebbero fastidiosamente a vivere nella propria terra natìa o nel cuore di quella che Netanyahu ha insistito a definire la “patria storica” degli ebrei.

Per questi palestinesi, il piano di pace prevede ciò che Netanyahu chiama “demilitarizzazione”, ma che andrebbe più correttamente intesa come resa incondizionata seguita da consegna delle armi. La consegna delle armi, benché necessaria, potrebbe comunque non essere immediata. Qualche palestinese recalcitrante potrebbe non essere felice di diventare sionista. Pertanto, i neoconvertiti palestinesi sionisti dovrebbero scatenare una guerra civile per sconfiggere coloro che insistono scioccamente ad opporsi al sionismo. Per dirla con le parole di Netanyahu, “l’Autorità Palestinese dovrà garantire il rispetto della legge a Gaza e sopraffare Hamas”. (In realtà questa guerra civile è già in corso da diversi anni, da quando le “forze di sicurezza” palestinesi, sostenute da americani e israeliani e guidate dal generale americano Keith Dayton, hanno iniziato a condurre attacchi sempre più frequenti contro Hamas).

Una volta che i palestinesi anti-sionisti saranno stati schiacciati, i restanti palestinesi – il cui numero sarà ancora uguale a quello degli ebrei nella Palestina storica – dovranno mostrarsi in grado di condurre la propria esistenza da bravi sionisti, secondo la visione di Netanyahu. Dovranno rassegnarsi a starsene pigiati in ghetti ed enclavi ancora più strette per consentire l’ulteriore espansione delle colonie sioniste, i cui abitanti sono stati definiti da Netanyahu “una parte integrante del nostro popolo, una comunità di sani princìpi, di pionieri e di sionisti”. E in linea con il loro fervente sionismo, i palestinesi dovranno naturalmente riconoscere che “Gerusalemme deve restare la capitale unita di Israele”.

Questi sono solo gli aspetti israelo-palestinesi del piano di Netanyahu. Gli elementi regionali includono il pieno appoggio arabo al sionismo palestinese, la normalizzazione dei legami con Israele e perfino il finanziamento di tutto questo con il denaro dei paesi del Golfo Arabo. Perché no? Se tutti diventano sionisti ogni conflitto cesserà di esistere.

Sarebbe bello poter davvero considerare il discorso di Netanyahu come una barzelletta. Ma si tratta purtroppo di un importante indicatore di una cruda realtà. Contrariamente a certe ingenue ed ottimistiche speranze, Netanyahu non rappresenta soltanto una frangia estremista di Israele. Oggi l’opinione pubblica ebrea israeliana si presenta (con poche eccezioni) come un fronte unico a favore di un nazionalismo violento e razzista, alimentato dal fanatismo religioso. I palestinesi sono visti, nella migliore delle ipotesi, come esseri inferiori da tollerare finché non si presenta l’occasione buona per espellerli, incarcerarli o affamarli come gli 1,5 milioni di reclusi nella prigione di Gaza.

Israele è una società in cui il violento razzismo anti-arabo e la negazione della Nakba sono la norma, anche se nessuno dei leader americani ed europei che pontificano continuamente di negazione dell’olocausto oserà mai rimproverare Netanyahu per le sue spudorate menzogne ed omissioni sulla pulizia etnica dei palestinesi compiuta da Israele.

La “prospettiva” di Netanyahu non ha fatto compiere assolutamente nessun passo avanti al Piano Allon del 1976 per l’annessione dei territori della West Bank o alle proposte di “autonomia” fatte da Menachem Begin a Camp David. L’obiettivo rimane lo stesso: controllare la maggior quantità possibile di territorio con il minor numero possibile di palestinesi.

Il discorso di Netanyahu dovrebbe mettere a riposo le rinate illusioni – nutrite soprattutto dal discorso fatto al Cairo dal presidente americano Barak Obama – che un Israele del genere possa essere condotto volontariamente a qualunque tipo di accordo equo. Coloro che in questa regione hanno riposto le proprie speranze in Obama – come le avevano precedentemente riposte in Bush – sono convinti che la pressione americana possa spingere Israele a cedere. Si appigliano alle forti affermazioni di Obama, che aveva richiesto una completa interruzione della costruzione di insediamenti da parte di Israele (una richiesta che Netanyahu ha respinto col suo discorso). Resta da vedere se Obama farà seguire dei fatti alle sue dure parole.

Del resto, anche se Obama fosse davvero determinato ad esercitare su Israele una pressione senza precedenti, dovrebbe esaurire gran parte del suo capitale politico solo per ottenere da Israele il consenso a congelare gli insediamenti, figuriamoci se riuscirebbe ad affrontare una qualunque delle dozzine di altre questioni ben più essenziali.

E nonostante l’impressione diffusa che vi sia in corso uno scontro tra l’amministrazione Obama e il governo israeliano (che potrebbe riguardare questioni tattiche minori), quando si passa ai problemi essenziali essi mostrano più convergenze che divergenze. Obama ha già dichiarato che “qualsiasi accordo con il popolo palestinese dovrà preservare l’identità israeliana di Stato Ebraico”, ed ha affermato che “Gerusalemme resterà la capitale di Israele e dovrà rimanere indivisa”. Quanto ai rifugiati palestinesi, egli ha detto “il diritto al ritorno [in Israele] è qualcosa che non costituisce un’opzione in senso letterale”.

Per quanto baccano abbia fatto sugli insediamenti, Obama si è riferito solo alla loro espansione, non alla perpetuazione della loro esistenza. Finché l’amministrazione Obama non si dissocierà pubblicamente dalle posizioni di Clinton e Bush, dovremo presumere che concordi con loro e con Israele sul fatto che le grandi aree di insediamenti che circondano Gerusalemme e dividono in ghetti la West Bank debbano essere conservate in permanenza in qualunque “soluzione dei due stati”. Né Obama né Netanyahu hanno menzionato il muro illegale nella West Bank, sottintendendo che non vi sia alcuna controversia sulla sua collocazione e sulla sua esistenza. E adesso, entrambi concordano nel definire i rimanenti brandelli uno “stato palestinese”. Non c’è da stupirsi che l’amministrazione Obama abbia salutato il discorso di Netanyahu come “un grande passo avanti”.

Ciò che più infastidisce nella posizione espressa da Obama al Cairo – e da allora ripetuta in continuazione dal suo inviato in Medio Oriente, George Mitchell – è il fatto che gli Stati Uniti parlino di “legittima aspirazione palestinese alla dignità, alle opportunità e ad un proprio Stato”. Questa formula è studiata per apparire carica di significato, ma è in realtà un vago brusìo da campagna elettorale che non contiene alcun riferimento ai diritti inalienabili dei palestinesi. Sono parole scelte dagli scrittori di discorsi americani e dagli esperti di pubbliche relazioni, non dai palestinesi. La formula di Obama implica che qualunque altra aspirazione palestinese sia per definizione illegittima.

Dove, nel diritto internazionale o nelle risoluzioni dell’ONU, possono i palestinesi trovare le definizioni di “dignità” e di “opportunità”? Questi termini infinitamente duttili riducono scorrettamente tutta la storia palestinese ad una ricerca di vaghi sentimenti e di uno “stato” anziché ad una lotta per la liberazione, la giustizia, l’eguaglianza, il ritorno e il ripristino dei diritti usurpati. E’ facile, dopotutto, concepire uno stato che mantenga per sempre i palestinesi spossessati, dispersi, indifesi e sotto la minaccia di nuove espulsioni e nuovi massacri ad opera di un Israele espansionista e razzista.

Nel corso della storia non sono mai stati i capi a dare una definizione dei diritti, ma i popoli che per essi hanno lottato. Non è un risultato da poco che per un secolo i palestinesi abbiano resistito e siano sopravvissuti agli sforzi sionisti di distruggere fisicamente la loro collettività e di cancellarli dalle pagine della storia. Finché i palestinesi continueranno a resistere in ogni arena e con ogni mezzo legittimo, costruendo intorno a sé una vera solidarietà internazionale, i loro diritti non potranno mai essere soffocati. E’ su questa base di forza nativa e indipendente, non dalle promesse elusive di una grande potenza o dai favori di un occupante usurpatore, che sarà possibile ottenere giustizia e pace.