domenica 19 luglio 2009

Capaci e via D'Amelio: altre due stragi di Stato?

Una serie di articoli sui ben noti intrecci tra mafia e politica, relativi in particolare agli ultimi sviluppi nella revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio.


Una nuova pista nel rapporto Fininvest - Cosa Nostra?
di Giorgio Bongiovanni e Silvia Cordella - http://www.antimafiaduemila.com - 14 Luglio 2009

Massimo Ciancimino fa ancora parlare di sé e questa volta l’argomento scottante non è la trattativa tra mafia e Stato intercorsa all’epoca delle stragi del 1992, per il quale presto sarà chiamato a rispondere in udienza pubblica.

Le sue dichiarazioni stanno irrimediabilmente sollevando un polverone attorno alla Palermo degli affari che negli anni Ottanta e Novanta ha basato il suo punto di forza sul patto economico stretto con la mafia di Riina e Provenzano.

Sono i magistrati Nino Di Matteo e Antonio Ingroia i depositari delle nuove rivelazioni del figlio di don Vito Ciancimino, condannato a 5 anni e 8 mesi per riciclaggio, intestazione fittizia di beni e concorso in tentata estorsione, nell’ambito del processo sul tesoro occulto di suo padre. Rivelazioni che hanno già causato l’avvio di nuove indagini per corruzione aggravata a carico dei senatori Carlo Vizzini e Salvatore Cuffaro e degli onorevoli Romano e Cintola.

Tutti indagati a vario titolo per aver ricevuto compensi economici (ufficialmente non dovuti) pagati dalla famiglia Ciancimino per agevolare, nell’assunzione delle gare d’appalto, la Gas Spa (Gasdotti Azienda Siciliana). La società in quota al Gruppo Brancato – Lapis venduta il 13 gennaio 2004 alla multinazionale “Gas Natural” per 120 milioni di euro, di cui una percentuale era finita sul conto svizzero Mignon come pagamento spettante a don Vito, in qualità di socio “riservato”.

Proprio in seguito a questa vendita Massimo Ciancimino era stato accusato di aver incassato e reinvestito la percentuale destinata a suo padre (all’epoca deceduto). Da qui le manette, i domiciliari e poi il processo in abbreviato, tuttora in corso a Palermo in sede di Appello. Ed è in seguito a questi sviluppi giudiziari che Massimo Ciancimino ha iniziato a parlare: prima alludendo alle responsabilità della famiglia Brancato corresponsabile nella Gas della “gestione Ciancimino”, poi denunciando pubblicamente la sparizione di alcune intercettazioni ambientali che sarebbero dovute essere da tempo depositate agli atti del suo procedimento.

I magistrati hanno così aperto un nuovo filone investigativo che ha coinvolto anche l’erede del socio di Lapis, Monia Brancato, rimasta finora estranea ai fatti, secondo Massimo Ciancimino, a causa di uno “strabismo investigativo” che ha inevitabilmente finito per colpire una sola delle due compagini societarie riferibili all’azienda del Gas. Accuse chiaramente tutte da verificare (per questo è stata avviata un’indagine a Catania). Ciononostante le sue dichiarazioni lasciano spazio a dubbi e perplessità sulla conduzione delle prime indagini dopo il ritrovamento di un documento che era stato sequestrato dai carabinieri nel 2005, durante la perquisizione avvenuta nella sua casa prima del suo arresto.

Probabilmente ritenuto irrilevante dai pm che detenevano l’incartamento originale del primo grado, il foglio strappato nella sua parte iniziale (così verbalizzavano i carabinieri) è stato ritrovato in questi giorni da Ingroia e Di Matteo in mezzo ad altri 18 faldoni che i magistrati hanno trasmesso ai giudici del processo Ciancimino. Una scoperta di notevole importanza perché, come ha dichiarato il Pg del processo Dell’Utri Antonino Gatto, che ne ha chiesto l’acquisizione insieme all’audizione di Massimo Ciancimino (la Corte si è riservata di decidere il prossimo 17 settembre), il documento potrebbe “dimostrare la continuità dei rapporti intercorsi tra lo stesso Dell’Utri e Cosa Nostra siciliana”.

Il testo della missiva vergata a mano non è completo (Ciancimino dice che originariamente era intera), ciò che è possibile leggere è la parte finale di una richiesta minacciosa all’attuale Presidente del Consiglio: “… posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive”.

Una frase enigmatica che richiama il rapporto Fininvest - Cosa Nostra di cui si trova traccia nelle sentenze sulle stragi del biennio ’92-’93 e nella sentenza di condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri.

La cosa più interessante è che la lettera, che era indirizzata proprio a Dell’Utri, è stata data a Massimo Ciancimino nella casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo alla presenza di Provenzano. Una volta nelle sue mani l’erede più piccolo di don Vito l’avrebbe portata a suo padre, all’epoca detenuto, il quale avrebbe poi espresso il proprio parere per farla avere a una terza persona non meglio precisata. In quanto al triste evento Massimo Ciancimino ha ricordato con precisione che si sarebbe trattato dell’omicidio del figlio di Berlusconi. Un fatto che, come emergerebbe dai verbali d’interrogatorio del 30 giugno e del 1 luglio, lo aveva molto impressionato.

I due documenti in ogni caso presentano diverse discrasie. Il testimone inizialmente non intendeva rispondere. Poi alle stringenti domande dei pubblici ministeri che lo hanno interrogato dopo il ritrovamento della lettera, ha risposto visibilmente provato: “Sono cose più grandi di me”. Anche perché le comunicazioni che la mafia avrebbe inoltrato a Berlusconi non si esauriscono qui. La richiesta di una televisione in cambio di un appoggio elettorale sarebbe solo l’ultima di tre lettere scritte tra il 1991 e il 1994. Il secondo messaggio Ciancimino junior ha riferito di averlo ricevuto in una busta chiusa da un giovane che nei primi anni Novanta faceva l’autista di Provenzano. In questo caso Vito Ciancimino avrebbe svolto il ruolo di consulente del capo mafia, mentre in un’altra occasione avrebbe fatto da mediatore consegnando copia della missiva a un tale di nome “Franco”.

Ciò che però qui conta sottolineare è che l’istanza sarebbe alla fine giunta a destinazione, rientrando così nella consueta e vecchia gestione dei contatti tra gli ambienti Fininvest e criminalità organizzata siciliana iniziati già negli anni Settanta. Periodo in cui l’Anonima Sequestri terrorizzava la Milano bene e quindi anche la famiglia del futuro premier.

Al quale era corso in aiuto l’amico Marcello Dell’Utri che per proteggerlo si era rivolto, attraverso Tanino Cinà (uomo d’onore posato della famiglia di Malaspina) al capo di Cosa Nostra Stefano Bontade. Sarebbe stato proprio il “Principe di Villagrazia” ad impegnarsi con il promettente imprenditore edile fornendogli una “garanzia” contro il pericolo dei rapimenti. Garanzia che rispondeva al nome di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore implicato in varie inchieste tra cui la famosa “Pizza connection”, condotta da Giovanni Falcone.

L’incontro tra Berlusconi e Bontade era avvenuto negli uffici della Edilnord, a Milano, alla presenza di Marcello Dell’Utri, Tanino Cinà, Mimmo Teresi (boss di Santa Maria di Gesù) e Francesco Di Carlo (boss di Altofonte).

Ed è proprio Di Carlo - oggi collaboratore di giustizia, ritenuto perfettamente attendibile dai giudici che hanno condannato Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa – a raccontarlo perché testimone oculare. In quell’occasione, ha spiegato il pentito, era stato Dell’Utri a fare le presentazioni delle quali solo Cinà non aveva bisogno perché Berlusconi già lo conosceva.

Nel corso del colloquio con l’imprenditore, Bontade, tra le altre cose, gli chiedeva di “venire a costruire a Palermo, in Sicilia”. Cosa alla quale Berlusconi rispondeva con una battuta e “un sorriso sornione”: “Ma come debbo venire proprio in Sicilia? Con i meridionali e i siciliani ho già problemi qui!”. Bontade, però, lo rassicurava: “Ma lei è il padrone quando viene là, siamo a disposizione per qualsiasi cosa”. Prima di dirgli, in riferimento al problema dei sequestri: “Per qualsiasi cosa si rivolga a Marcello”, promettendogli quella garanzia che sarebbe poi stata rappresentata da Vittorio Mangano.

Dell’Utri, infatti, ricordava ancora Di Carlo era considerato una persona “fidata”. Tanto che in occasione del matrimonio londinese del trafficante di droga Jimmy Fauci, spiegava il pentito, fu Mimmo Teresi a dire allo stesso Di Carlo che Dell’Utri era “un bonu picciottu”. E a dichiarare: “Noi con Stefano abbiamo intenzione di combinarlo”.
La riunione negli uffici della Edilnord segna quindi l’inizio di un rapporto tra Berlusconi e Cosa Nostra siciliana basato su favori ed estorsioni: l’organizzazione criminale minacciava, chiedeva, offriva. Il Cavaliere rispondeva.

E così, dopo l’incontro, Mangano si era insediato nella sua villa di Arcore e dal 1974 l’imprenditore aveva iniziato a versare all’organizzazione il suo “contributo” annuale. Poi quando il boss-stalliere era stato costretto ad allontanarsi (un anno e mezzo più tardi), Berlusconi aveva subito il primo attentato nella sua villa di via Rovani. Era il 26 maggio del 1975, ma solo anni dopo si era scoperto che l’autore di quel gesto intimidatorio era stato proprio Mangano. In quello stesso periodo iniziava per Berlusconi una carriera tutta in salita: prima gettava le fondamenta del suo grande impero, dopo entrava nel business delle emittenti televisive. Ad aiutarlo nella grande impresa 113 miliardi di lire di provenienza sconosciuta che tra il 1975 e il 1983 sarebbero affluiti nelle 22 holding Fininvest, che diventeranno poi 37.

Nel frattempo anche la galassia di Cosa Nostra subiva una grossa trasformazione: i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano prendevano il sopravvento sulla mafia di Bontade, il quale veniva ucciso nella guerra di mafia degli anni Ottanta insieme a quasi tutti i suoi rappresentanti. Il nuovo vertice ereditava così il rapporto con l’imprenditore milanese che, dopo una serie di vicissitudini, per ordine di Riina sarebbe passato direttamente nelle mani di Tanino Cinà. Sarebbe stato lui a recarsi due volte all’anno a Milano per ritirare i contributi versati dall’imprenditore. Ma il 28 novembre 1986 la sede Fininvest di via Rovani 2 subiva un secondo attentato da parte della mafia catanese. Riina era pronto a cavalcare (nuovamente?...) l’onda.

L’intento dei mafiosi, spiegheranno i collaboratori di giustizia, è quello di “avvicinare” Cinà a Dell’Utri e Berlusconi perché il rapporto con l’imprenditore milanese non sarebbe dovuto essere solo di natura estorsiva, ma aveva anche e soprattutto una connotazione politica. Berlusconi rappresentava per la nuova Cosa Nostra l’aggancio per arrivare a Craxi, in un momento in cui lo storico rapporto con la Democrazia Cristiana di Andreotti stava tramontando. Per questo motivo, racconteranno i pentiti, (Antonino Galliano, Francesco Paolo Anzelmo) verranno rivolte al Cavaliere nuove minacce tramite lettera e telefono. E così Tanino Cinà, sempre secondo l’Anzelmo, veniva urgentemente convocato a Milano da Dell’Utri.

Ma le intimidazioni non sarebbero cessate. Infatti il 17 febbraio del 1988, nel corso di una conversazione intercettata, Berlusconi si era lamentato con l’amico immobiliarista Raniero della Valle di aver ricevuto una serie di intimidazioni e minacce di morte per il figlio Piersilvio.
Per quanto riguarda l’evoluzione di queste ritorsioni non si mai è riusciti a scoprire molto.
Ciò che pare invece certo è che gli attentati ai magazzini Standa di Catania, iniziati nel gennaio del 1990, sarebbero terminati solo grazie all’intermediazione di Marcello Dell’Utri, che avrebbe instaurato con i mafiosi locali una non meglio specificata trattativa.

Secondo la lettura delle dichiarazioni di alcuni collaboratori, tra cui Angelo Siino, anche quegli attentati sarebbero rientrati nella più ampia strategia di rinnovare le grandi alleanze strategiche e politiche. In un periodo in cui Cosa Nostra era alla disperata ricerca di nuovi referenti. Ricerca che sarebbe terminata con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e con la decisione di appoggiare il nascente partito Forza Italia.

Le missive di cui si parla oggi e in particolare il foglio strappato scoperto tra le carte sequestrate a Massimo Ciancimino potrebbero dimostrare dunque che, anche dopo l’elezione a Presidente del Consiglio di Silvio Berlusconi, la mafia siciliana avrebbe proseguito con la tattica di sempre: intimidire per ottenere favori. La domanda allora è semplice: di quali favori si trattava?
Ed è possibile ricollegare tali favori agli incontri tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, risalenti alla fine del 1993 e dei quali parlano altri collaboratori di giustizia?

Questi incontri, si legge nella sentenza che ha condannato il senatore del Pdl, avevano “un connotato marcatamente politico, in quanto Dell’Utri aveva promesso che si sarebbe attivato per presentare proposte molto favorevoli per Cosa Nostra sul fronte della giustizia, in un periodo successivo, a gennaio del 1995 (‘modifica del 41bis, sbarramento per gli arresti relativi al 416bis’)”. E “infatti, vi era stato un primo tentativo a livello parlamentare che, però, non era riuscito a concretizzarsi. Inoltre, Dell’Utri aveva detto a Mangano che sarebbe stato opportuno stare calmi, cioè evitare azioni violente e clamorose, le quali non avrebbero potuto aiutare la riuscita dei progetti politici favorevoli all’organizzazione mafiosa”.

Ancora, dopo le elezioni del 1994, Mangano avrebbe assicurato di aver parlato con il Dell’Utri e che lo stesso avrebbe dato “buone speranze”.

È evidente che siamo di fronte a una questione di estrema rilevanza investigativa nell’ambito dei rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra e tra il premier e la stessa mafia corleonese di cui Vito Ciancimino era portavoce e consigliere essendo come aveva detto Giuffrè “la mente grigia” di Provenzano. Sul piano della questione morale tutto ciò fa impallidire lo scandalo sui festini del Presidente del Consiglio. Per squallidi e disonorevoli che siano i suoi vizietti, sembra assurdo che le ragioni principali del suo declino elettorale da parte degli italiani possa essere dovuto a queste vicende e non ai suoi rapporti con Cosa Nostra. Questo forse è il più grande scandalo italiano.


Totò Riina: dietro le stragi i piani alti della politica

di Felice Cavallaro - Il Corriere della Sera - 19 Luglio 2009

È stato condannato a una sfilza di ergastoli per decine di omicidi e per le più sanguinarie stragi di mafia, a cominciare da quelle di Capaci e via D'Amelio. Sa che ogni sua parola può essere interpretata come un messaggio obliquo. Ma quando ieri mattina Totò Riina, il capo dei corleonesi, è uscito dalla cella a regime di carcere duro per incontrare in una saletta il suo avvocato, Luca Cianferoni, aveva bisogno di sfogarsi: «Ne so poco perché qui non mi passano nemmeno i giornali.

Ma questa storia della "trattativa", di un mio "patto" con lo Stato, di tutti gli impasti con carabinieri e servizi segreti legati al fatto di via D'Amelio non sta proprio in piedi. Io della strage non ne so parlare. Borsellino l'ammazzarono loro». Un boato così fragoroso e inquietante nemmeno il suo avvocato se l'aspettava, proprio nel diciassettesimo avversario del massacro.

Ovvia la domanda immediata: «Loro? Chi sono "loro"?». E arriva la risposta, a differenza di tante altre volte, dei silenzi ermetici di tante udienze dibattimentali: «Loro sono quelli che hanno fatto la trattativa, quelli che hanno scritto il "papello", come lo chiamano. Ma io della trattativa non posso saperne niente di niente. Perché io sono oggetto, non soggetto di trattativa. E la stessa cosa è per quel foglio con le richieste che qualcuno avrebbe presentato attraverso Vito Ciancimino. Mai scritto da me. Facciamo pure la perizia calligrafica appena viene fuori e scopriremo che io non ho niente a che fare con questa vicenda».

Evidente il richiamo al documento che il figlio di «don Vito», Massimo Ciancimino, sarebbe finalmente pronto a consegnare ai magistrati di Palermo e Caltanissetta, a loro volta impegnati in una revisione delle inchieste sulle stragi di Capaci e via D'Amelio. Fatti nuovi che per molti osservatori e anche per tanti familiari di vittime di mafia la stessa magistratura avrebbe potuto mettere a fuoco già alcuni anni fa, bloccata da omissioni e depistaggi denunciati negli ultimi giorni soprattutto dal fratello di Paolo Borsellino.

Ma stavolta a pensarla così, per un paradosso tutto da interpretare, è proprio Salvatore Riina nello sfogo destinato a intercettare gli spinosi argomenti del processo in corso al generale Mario Mori e al colonnello Giuseppe De Donno: «Sono stati i giudici a bloccare l'accertamento perché ho chiesto io a Firenze quattro anni fa di sentire Massimo Ciancimino, per chiedergli quello che sta tirando fuori solo adesso. Ci ho provato a parlare di Ciancimino padre come tenutario di una trattativa con i carabinieri. E volevo che li sentissero tutti in aula, a Firenze. Ma i giudici non hanno ammesso l'esame. Ora parlano tutti di misteri. Ma ci potevamo arrivare, come dicevo io, quattro anni fa a parlare di una trattativa che io ho subito come un oggetto, sulla mia testa». E insiste con l'avvocato Cianferoni ricordandogli tutti i dubbi che gli vengono in cella ripensando a storie e personaggi vicini a Ciancimino padre: «La trattativa questi signori l'hanno fatta sopra di me. Non l'ho fatta io, estraneo ai patti di cui si parla».

Il boss dei boss, indicato come lo stragista più sanguinario di Cosa Nostra e come l'uomo che voleva fare la guerra per fare la pace, ribalta così il quadro. Forse anticipando una difesa da proporre negli eventuali nuovi processi determinati dalla possibile revisione, ma blocca ogni interpretazione: «Per me credo che non cambierà nulla anche con le nuove dichiarazioni di questo pentito, Spatuzza. Non sto facendo calcoli. Ma si deve almeno sapere che io la trattativa non l'ho coltivata». Sarà un modo per rovesciare la responsabilità sull'altro grande capo, Bernardo Provenzano? Riflette un po' Riina perché sa che molti dietro il suo arresto vedono proprio la mano di «don Binnu». «Mai detto e mai pensato», assicura a Cianferoni che trasferisce la convinzione.

Aggiungendo l'ultima osservazione di Riina, pur esposta naturalmente a un basso tasso di credibilità: «Le dicerie su Provenzano sono false. Come la storia di Di Maggio. Trattativa, stragi e il mio arresto sono una faccenda molto più alta. Tocca i piani alti della politica. Bisogna capire che Borsellino è morto per mafia e appalti, non per i mafiosi». Politica? E qui riflette il legale di Riina che lo segue dal 1997, certo di interpretarne il pensiero: «Parla di politica intesa come "centri di interesse". E a quell'epoca erano tutti in fibrillazione. Insomma, per capire che cosa c'è dietro la morte di Borsellino bisogna risalire a Milano, non fermarsi a Palermo. E guardare al nesso fra Tangentopoli e le bombe della Sicilia. Quando volevano cambiare tutto».


Riina sul delitto Borsellino "L'hanno ammazzato loro"

di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano - La Repubblica - 19 Luglio 2009

Totò Riina, l'uomo delle stragi mafiose, per la prima volta parla delle stragi mafiose. Sull'uccisione di Paolo Borsellino dice: "L'ammazzarono loro". E poi - riferendosi agli uomini dello Stato - aggiunge: "Non guardate sempre e solo me, guardatevi dentro anche voi". Dopo diciassette anni di silenzio totale il capo dei capi di Cosa Nostra esce allo scoperto.

Riina lo fa ad appena due giorni dalla svolta delle indagini sui massacri siciliani - il patto fra cosche e servizi segreti che i magistrati della procura di Caltanissetta stanno esplorando. Ha incaricato il suo avvocato di far sapere all'esterno quale è il suo pensiero sugli attentati avvenuti in Sicilia nel 1992, su quelli avvenuti in Italia nel 1993. Una mossa a sorpresa del vecchio Padrino di Corleone che non aveva mai aperto bocca su niente e nessuno fin dal giorno della sua cattura, il 15 gennaio del 1993. Un'"uscita" clamorosa sull'affaire stragi, che da certi indizi non sembrano più solo di mafia ma anche di Stato.

Ecco quello che ci ha raccontato ieri sera l'avvocato Luca Cianferoni, fiorentino, da dodici anni legale di Totò Riina, da quando il più spietato mafioso della storia di Cosa Nostra è imputato non solo per Capaci e via Mariano D'Amelio, ma anche per le bombe di Firenze, Milano e Roma.

Avvocato, quali sono le esatte parole pronunciate da Totò Riina? Sono proprio queste: "L'ammazzarono loro"?
"Sì, sono andato a trovarlo al carcere di Opera questa mattina e l'ho trovato che stava leggendo alcuni giornali. Neanche ho fatto in tempo a salutarlo e lui, alludendo al caso Borsellino, mi ha detto quelle parole... L'ammazzarono loro...".

E poi, che altro ha le ha detto Totò Riina?
"Mi ha dato incarico di far sapere fuori, senza messaggi e senza segnali da decifrare, cosa pensa. Lui è stato molto chiaro. Mi ha detto: "Avvocato, dico questo senza chiedere niente, non rivendico niente, non voglio trovare mediazioni con nessuno, non voglio che si pensi ad altro". Insomma, il mio cliente sa che starà in carcere e non vuole niente. Ha solo manifestato il suo pensiero sulla vicenda stragi".

Ma Totò Riina è stato condannato in Cassazione per l'omicidio di Borsellino, per l'omicidio di Falcone, per le stragi in Continente e per decine di altri delitti: che interesse ha a dire soltanto adesso quello che ha detto?
"Io mi limito a riportare le sue parole come mi ha chiesto. Mi ha ripetuto più volte: avvocato parlo sapendo bene che la mia situazione processuale nell'inchiesta Borsellino non cambierà, fra l'altro adesso c'è anche Gaspare Spatuzza che sta collaborando con i magistrati quindi...".

Le ha raccontato altro?
"Abbiamo parlato della trattativa. Riina sostiene che è stato oggetto e non soggetto di quella trattativa di cui tanto si è discusso in questi anni. Lui sostiene che la trattativa è passata sopra di lui, che l'ha fatta Vito Ciancimino per conto suo e per i suoi affari e insieme ai carabinieri: e che lui, Totò Riina, era al di fuori. Non a caso io, come suo difensore, proprio al processo per le stragi di Firenze già quattro anni fa ho chiesto che venisse ascoltato Massimo Ciancimino in aula proprio sulla trattativa. Riina voleva che Ciancimino deponesse, purtroppo la Corte ha respinto la mia istanza".

E poi, che altro le ha detto Totò Riina nel carcere di Opera?
"E' tornato a parlare della vicenda Mancino, come aveva fatto nell'udienza del 24 gennaio 1998. Sempre al processo di Firenze, quel giorno Riina chiese alla Corte di chiedere a Mancino, ai tempi del suo arresto ministro dell'Interno, come fosse a conoscenza - una settimana prima - della sua cattura".

E questo cosa significa, avvocato?
"Significa che per lui sono invenzioni tutte quelle voci secondo le quali sarebbe stato venduto dall'altro boss di Corleone, Bernardo Provenzano. Come suo difensore, ho chiesto al processo di Firenze di sentire come testimone il senatore Mancino, ma la Corte ha respinto anche quest'altra istanza".

Le ha mai detto qualcosa, il suo cliente, sui servizi segreti?
"Spesso, molto spesso mi ha parlato della vicenda di quelli che stavano al castello Utvegio, su a Montepellegrino. Leggendo e rileggendo le carte processuali mi ha trasmesso le sue perplessità, mi ha detto che non ha mai capito perché, dopo l'esplosione dell'autobomba che ha ucciso il procuratore Borsellino, sia sparito tutto il traffico telefonico in entrata e in uscita da Castel Utvegio".

Insomma, Totò Riina in sostanza cosa pensa delle stragi?
"Pensa che la sua posizione rimarrà quella che è e che è sempre stata, non si sposterà di un millimetro. Ma questa mattina ha voluto dire anche il resto. E cioè: non guardate solo me, guardatevi dentro anche voi".


Mafia e servizi, ecco gli indizi nelle inchieste
di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano - La Repubblica - 18 Luglio 2009

C' è puzza di spie in ogni strage siciliana. Misteri di mafia e misteri di Stato. Chiamate fatte da boss e dirette a uffici dei servizi segreti, biglietti con numeri telefonici intestati a capi degli apparati di sicurezza trovati sulla scena del crimine, esperti in bonifica ambientale in contatto con sospetti attentatori. E ancora: agende sparite (quella rossa di Paolo Borsellino), depistaggi, pentiti fasulli o pilotati. Dalle indagini sui massacri avvenuti in Sicilia fra la fine degli anni ' 80 e l' inizio degli anni ' 90 stanno affiorando complicitàe patti, intrecci, una rete di «interessi convergenti».

I procuratori di Caltanissetta hanno riaperto tutte le inchieste sulle stragi ripescando vecchi fascicoli e interrogando nuovi testimoni, ripercorrendo piste frettolosamente abbandonate, scoprendo indizi che si orientano verso quelli che vengono chiamati «i mandanti occulti» o i «soggetti esterni» a Cosa Nostra.

Uno degli ultimi personaggi ascoltati dai magistrati è stato Gioacchino Genchi, uno dei protagonisti del "caso De Magistris" a Catanzaro, il consulente che 17 anni fa era con il questore Arnaldo La Barbera alla guida del "Gruppo Falcone Borsellino", il pool di investigatori che indagò fin dall' inizio sulle stragi. Gioacchino Genchi ha parlato per un giorno intero, il 16 aprile scorso. E alla fine ha indicato una traccia: «Dovete scoprire chi c' era il 19 luglio del 1992 a Villa Igiea perché lì dentro c' era la regia...». A Villa Igiea, lo splendido albergo voluto dai Florio sul mare di Palermo, quel pomeriggio c' era - secondo Genchi - un ospite speciale che avrebbe praticamente "guidato" le operazioni per l' uccisione di Borsellino.

Il consulente ha ricostruito il "movimento" telefonico nei minuti che hanno preceduto l' attentato. Ha accertato che dal cellulare clonato di un' ignara donna napoletana, A. N., sono partite prima alcune chiamate a mafiosi di Villagrazia di Carini (il luogo dove Borsellino quel pomeriggio è partito con la sua scorta), poi alcune chiamate a mafiosi di Palermo e infine - proprio quando l' autobomba è esplosa - l' ultima chiamata a Villa Igiea.

Chi c'era dentro il lussuoso hotel? Chi era l' ospite innominabile che probabilmente i procuratori di Caltanissetta stanno cercando? Un testimone che sarà interrogato nei prossimi giorni sarà il pentito Francesco Di Carlo, nei primi anni ' 90 rinchiuso in un carcere londinese dove ricevette una visita di quattro uomini. «Tre erano stranieri e uno italiano», ha risposto qualche anno fa al pubblico ministero Luca Tescaroli. Quattro 007.

Il pentito Di Carlo non ha mai voluto fare il nome dell' agente segreto, però ha raccontato che gli 007 gli chiesero una sorta di "consiglio" su come ammazzare Falcone e Borsellino che tanto stavano dando fastidio a Cosa Nostra e ai suoi traffici. Lo stesso Totò Riina, usò per proprio tornaconto in un' udienza queste rivelazioni di Francesco Di Carlo: «Io con le stragi del 1993 non c'entro niente, chiedetelo a Di Carlo: era lui in contatto con i servizi segreti non io». Mafia e servizi, ci sono impronte dappertutto. Di chi era quel numero di telefono trovato sul bigliettino di carta recuperato a qualche metro da dove Giovanni Brusca fece esplodere l' autostrada a Capaci?

Era di L. N., il capo del Sisde a Palermo. «Era un appunto sulla riparazione di un cellulare Nec P 300 che qualcuno dei miei uomini deve avere perso durante il sopralluogo», ha risposto L. N. Fine della deposizione e fine delle indagini. C' è solo un particolare da ricordare: cellulari di quel tipo - Nec P 300 - sono stati trovati qualche tempo dopo nel covo di via Ughetti, la casa dove si nascondevano i macellai di Capaci e parlavano - ascoltati dalle microspie - "dell' attentatuni" che avevano preparato.

A chi erano indirizzate le telefonate di Gaetano Scotto - mafioso dell' Acquasanta, imputato dell' inchiesta sull' uccisione del procuratore - poco prima della strage di via D' Amelio? Al castello Utvegio, una costruzione degli Anni Venti che domina Palermo da Montepellegrino. Lì erano acquartierati alcuni "irregolari" del Sisde,i superstiti di quel carrozzone sfasciato che era l' Alto Commissariato antimafia. Spie.

E che lavoro facevano quei due fratelli di Catania, indagati l' anno scorso per la strage Falcone insieme a un noto imprenditore palermitano, che avevano a che fare con telecomandi a media e a lunga distanza? Avevano l' appalto per bonificare alcune "case" dei servizi segreti. Coincidenze, tutte coincidenze che ora i procuratori di Caltanissetta stanno mettendo in fila e risistemando in un "quadro". Forse in passato ci sono state "carenze investigative". O forse c' è sempre stato qualcuno che non voleva spingersi oltre Totò Riina e i suoi Corleonesi.


Ciancimino jr, l'ultimo segreto Patto mafia-Stato, ecco la prova
di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano - La Repubblica - 14 Luglio 2009

Lo cercano da quando venne ucciso Paolo Borsellino, diciassette anni fa. Un foglio di carta, uno solo. Con la scrittura incerta di Totò Riina e, in fondo, la sua firma. È il famoso "papello", le richieste dei Corleonesi allo Stato per fermare le stragi in Sicilia e in Italia. «Ve lo consegno io nelle prossime ore», ha giurato qualche giorno fa Massimo Ciancimino, testimone eccellente ormai sotto scorta come un pentito.

È forse l' epilogo della più intricata vicenda siciliana di questi ultimi anni: la trattativa fra Stato e Mafia. Se il più piccolo dei cinque figli di quello che fu il sindaco mafioso di Palermo manterrà la sua promessa, fra qualche giorno - proprio alla vigilia dell' anniversario della morte di Borsellino, il 19 luglio - il famigerato documento del patto fra boss e misteriosi apparati di sicurezza finirà nelle mani dei magistrati di Palermo e poi quelli di Caltanissetta e Firenze, tutte le procure che indagano direttamente o indirettamente sugli attentati mafiosi fra il 1992 e il 1993. «Questa volta ve lo porterò davvero, questa volta non faccio bluff», ha assicurato Ciancimino junior nel suo ultimo interrogatorio dopo un tira e molla durato un anno.

La sua "collaborazione" è cominciata nel giugno del 2008. In decine di verbali ha raccontato la sua verità su incontri fra mafiosi e uomini dei servizi segreti, ha parlato dei fatti accaduti fra la strage di Capaci e le bombe dei Georgofili, ha ricordatoi faccia a faccia fra suo padre e l' allora vicecomandante dei Ros Mario Mori, ha svelato alcuni segreti che don Vito si era portato nella tomba. Come certi appuntamenti che l' ex sindaco agli arresti domiciliari aveva - sia a Palermo che a Roma - con "l' ingegnere Lo Verde", cioè Bernardo Provenzano. Ma fino ad ora "Massimuccio" non aveva mai voluto dire nulla sul "papello". Alle insistenze dei procuratori, la sua risposta è sempre stata una sola: «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere». All' improvviso, la settimana scorsa e dopo un ultimatum della procura di Palermo, Massimo Ciancimino però ha ceduto: «Garantito: adesso il papello ve lo do».

Nessuno sa dove sia stato custodito in tutti questi anni, molti pensavano e ancora pensano in una cassetta di sicurezza di una banca da qualche parte in Europa. Un sospetto, un mese fa, aveva portato gli investigatori in Francia. Una mossa di Massimo Ciancimino e una contromossa degli inquirenti. Ma non quelli di Palermo, gli altri di Caltanissetta. Tutti erano e sono ancora a caccia del "papello". Massimo Ciancimino, a giugno - appena gli hanno revocato il divieto di espatrio - ha lasciato Bologna dove vive da qualche mese e con la sua auto ha raggiunto Parigi insieme alla moglie Carlotta. È stato pedinato. Al ritorno da Parigi, fermato al posto di frontiera e invitato a entrare in un ufficio di polizia, ha trovato un paio di magistrati della procura della repubblica di Caltanissetta e alcuni ufficiali di polizia giudiziaria. Erano sicuri di trovarlo con il "papello" addosso. Perquisito lui e perquisita anche la moglie, ma il "papello" non l' hanno trovato.

Interrogato al posto di frontiera, Ciancimino junior ha spiegato: «Mi ero accorto che mi seguivate, voi non vi fidate di me e io non mi fido di voi e non ho portato con me quel documento che non è a Parigi...». Messo alle strette dai procuratori di Palermo subito dopo ha promesso di far avere quel foglio di carta, quell' atto con il quale Totò Riina e i suoi Corleonesi chiedevano ad alcuni emissari dei servizi segreti di "trattare" con loro. Fine della violenza e delle stragi in cambio dell' abolizione del carcere duro, basta bombe in cambio di una sorta di salvezza per i familiari dei boss, armistizio con lo Stato in cambio di un colpo di spugna della legge sui pentitie sui patrimoni aggrediti dalla legge Rognoni la Torre. Ma quanto è attendibile nei suoi racconti il rampollo di don Vito?

Quanto i magistrati possono credere alle sue parole? «Come qualsiasi imputato di reato connesso, le sue dichiarazioni possono essere attendibili solo se supportate da riscontri obbiettivi ed esterni», risponde il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che con il sostituto Nino Di Matteo indaga sui misteri palermitani dei Ciancimino. Aggiunge Ingroia: «Alcuni elementi di riscontro alle sue dichiarazioni li abbiamo già avuti, però abbiamo bisogno ancora di qualcosa per avere un quadro completo». Sarà il "papello" a certificare una volta per tutte l' attendibilità del figlio di don Vito. Tutto un impasto, fra i più pericolosi mafiosi latitanti e alti funzionari degli apparati. Tutto un impasto che ora fa molta paura al giovane figlio di don Vito, condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi per avere riciclato il "tesoro" di suo padre. Dal novembre scorso è stato costretto a lasciare la sua casa di Palermo e vivere 24 ore su 24 con auto blindata e "tutela".

Dopo un paio di episodi inquietanti accaduti in Sicilia, Massimo Ciancimino è stato contattato da falsi carabinieri e poi ha ricevuto una lettera di minacce. Dentro la busta tre proiettili. Uno era destinato a lui, il secondo al procuratore Ingroia, il terzo al sostituto Di Matteo. Tutti i verbali di Ciancimino junior sono finiti alla procura di Caltanissetta che è titolare delle indagini sulla strage di via Mariano D' Amelio. Gli stessi procuratori di Caltanissetta l' hanno interrogato più volte. C' è un' ipotesi investigativa: il procuratore Paolo Borsellino, subito dopo la morte del suo amico Giovanni Falcone, avrebbe scoperto la vicenda del "papello" e quella trattativa fra Stato e Mafia. L' avrebbero ucciso perché qualcuno lo considerava un ostacolo al patto con la mafia.


Salvatore Borsellino: «Via D'Amelio strage di Stato»
di Nino Luca - Il Corriere della Sera - 19 Luglio 2009

«Vju viniri ‘na cavalleria chistu è mè patri chi veni pi mia! Signuri patri, chi vinistivu a fari? Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari. Signuri patri, aspettatimi un pocu, quantu mi chiamu lu me cunfissuri».

A memoria Salvatore Borsellino recita i versi de La baronessa di Carini. La leggenda di Donna Laura Lanza è una storia siciliana i cui luoghi, il sangue, il dolore e il tradimento ricorda le più moderne storie di mafia. Il fratello del giudice Paolo Borsellino promette: «Quando smetterò di lavorare farò il cantastorie». Intanto racconta la storia del fratello: il giudice Paolo Borsellino, morto il 19 luglio 1992 a Palermo con gli agenti di scorta Agostino Catalano (caposcorta), Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto è Antonino Vullo.

LA RABBIA - Impressionante la somiglianza dell'ingegnere Salvatore Borsellino con il fratello giudice antimafia. Sembrano due gocce d'acqua. Anche la voce sembra uguale. Salvatore, trasferitosi a Milano 27 anni fa, parla per «rabbia» dal suo studio in un ufficio alla periferia della città. Siede alla scrivania... sotto la famosa foto di Toni Gentile dove Paolo e Giovanni Falcone si parlano sottovoce e sorridono.

Dopo un silenzio mantenuto per sette lunghi anni, fino a quando la madre era in vita, Salvatore adesso parla. Anzi urla: «Mio fratello sapeva della trattativa tra la mafia e lo Stato. Era stato informato. E per questo è stato ucciso. La strage di via D'Amelio è una strage di Stato. Pezzi delle istituzioni hanno lavorato per prepararla ed eseguirla. Adesso che la verità sulla strage si avvicina, spero solo che non siano gli storici a doverla scrivere. Bensì i giornalisti. Io tra non molti anni raggiungerò mio fratello Paolo e non so se riuscirò a leggerla sui giornali».

LO SCENARIO - E disegna lo scenario di quel maledetto 19 luglio 1992. E inizia a sciorinare i dubbi e gli indizi. Tutto quanto è venuto a galla dai vari processi sparsi in giro per l'Italia di cui i giornali «parlano poco», dice lui. Innanzitutto le omissioni: la richiesta di negare l'autorizzazione alle auto a posteggiare in via D'Amelio è rimasta inevasa. Poi la telefonata del giudice alla madre che annunciava il suo arrivo in via D'Amelio intercettata dalla mafia. Il ruolo di Bruno Contrada e dei servizi segreti civili presenti a Palermo al momento del botto.

L'incredibile sparizione dell'agenda rossa e il ruolo del capitano Arcangioli. Il castello Utveggio che domina il ruolo dell'esplosione. E, infine l'attacco all'onorevole Nicola Mancino che dice di non aver incontrato l'1 luglio del 1992 il giudice Borsellino: «Una menzogna - incalza Salvatore-. Mancino dice addirittura che non conosceva mio fratello. Come faceva il neo ministro dell'interno a non conoscere il giudice presente ai funerali di Falcone e che appariva in tutti i tg nazionali? La verità è che da quell'incontro mio fratello uscì sconvolto come testimonia il pentito Gaspare Mutolo». Ma l'onorevole Mancino smentisce la ricostruzione di Salvatore Borsellino e precisa la sua posizione attraverso una lettera al Corriere nella quale respinge le accuse e dice che Borsellino spaccia sempre come vera «una citazione monca».

IL PAPELLO - Intanto documenti inediti sono stati depositati giovedì da Massimo Ciancimino (figlio di Vito, ex sindaco di Palermo in odore di mafia morto alcuni anni fa) ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Il dichiarante ha consegnato al procuratore aggiunto Antonio Ingroia e al sostituto Nino Di Matteo carte che sarebbero state di suo padre Vito Ciancimino, morto nel 2002. Il verbale di interrogatorio e di acquisizione atti è stato secretato.

Nei giorni scorsi Ciancimino jr aveva annunciato che avrebbe consegnato ai magistrati il «papello», il foglio sul quale Totò Riina avrebbe stilato la lista di richieste in favore di Cosa nostra, che sarebbe stata girata ad alcuni uomini delle istituzioni fra le stragi del 1992 di Falcone e Borsellino. Questo documento potrebbe provare l'esistenza di una «trattativa» fra la mafia e una parte delle istituzioni sui quali ha avviato un'inchiesta da diverso tempo la Dda di Palermo e sulla quale ha fornito molte dichiarazioni lo stesso Massimo Ciancimino.

NUOVE INCHIESTE - Sulla stessa vicenda sarebbero state avviate altre inchieste dalle procure di Milano e Firenze, legate alle stragi del 1993. Titolari di una di questa indagine sono il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, e il sostituto di Firenze Giuseppe Nicolosi che hanno già interrogato più volte il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Lo stesso hanno fatto i magistrati di Caltanissetta sull'attentato a Falcone nella villa dell'Addaura. Ma, come sottolinea all'Adnkronos il procuratore capo di Caltanissetta, Sergio Lari, «è una vicenda troppo delicata», quindi «no comment».

Lari insieme con i procuratori aggiunti Domenico Gozzo e Amedeo Bertone hanno ascoltato l'ex ministro Vincenzo Scotti e l'ex premier Giuliano Amato per avere informazioni su alcuni agenti dei servizi segreti, ma su uno in particolare. Un uomo sfregiato, con una «faccia da mostro». Non si conosce il suo nome ma si sa che ha il viso deformato. A parlare di lui è stato, di recente, anche Massimo Ciancimino. Ciancimino junior ha spiegato ai magistrati che lo 007 sarebbe stato in contatto con il padre Vito da alcuni anni, fino alla cosiddetta «trattativa» che avrebbe voluto firmare il boss mafioso Totò Riina con lo Stato in cambio dell'abolizione del carcere duro.