venerdì 17 luglio 2009

Iraq: guerra, as usual

Come era facilmente prevedibile, nonostante il tanto sbandierato ritiro delle truppe USA dalle città, continuano gli attentati a Baghdad e nel resto dell'Iraq.

Qui di seguito le ultime news su un Paese la cui uscita dal tunnel della guerra è ancora lontana nel tempo.


L'Iraq dimenticato
di Layla Anwar - http://arabwomanblues.blogspot.com/ - 14 Luglio 2009
Traduzione di Gianluca Freda

Un diluvio di autobombe caricate con esplosivo e timer ha investito Baghdad. L’evento più mortale è stato l’inondazione organizzata di esplosioni che hanno preso di mira 8 chiese cristiane (non 5 come riportato sui media); 8 case di Dio, 7 a Baghdad e 1 a Mosul.

I quartieri cristiani di Mosul sono da ieri [13 luglio, NdT] sotto il coprifuoco. Tale Zebari, alto “ufficiale dell’esercito (da non confondersi con H. Zebari, Ministro degli Esteri curdo, anche se probabilmente si tratta di un suo parente), ha affermato in una dichiarazione pubblica di attendersi che la violenza in Iraq continui almeno per i prossimi 3 o 4 anni. Maliki ha affermato la stessa cosa, e così anche il sionista Biden.

Ma allora chi c’è dietro questo diluvio di terrore?
La versione ufficiale ripete la solita cantilena a disco rotto: Al Qaeda e i saddamisti.

S. Al Mutlaq (io non sono una fan di S. Al Mutlaq, ma sono costretta ad essere d’accordo con lui almeno in questa occasione) ha detto che Al Maliki e gli altri partiti settari (finanziati dall’Iran) sono dietro questa piena di violenza. Le elezioni sono in arrivo e tutti questi partiti sciiti vogliono garantirsi la vittoria nell’imminente tornata elettorale, giocando la carta della sicurezza o della sua carenza. Per dirla con le sue parole:

Saleh Al Mutlaq, leader del Fronte Irakeno per il Dialogo Nazionale, ha dichiarato ad Al Jazeera che il fattore sicurezza rimane un problema in Iraq.


“La situazione della sicurezza è ancora fragile e tutte le affermazioni secondo le quali vi sarebbe stato un incremento notevole delle misure di sicurezza in Iraq non erano corrette né precise.

La seconda questione è che le elezioni si avvicinano. Coloro che nel passato si radunavano per formare movimenti settari sparsi qui e là, lo stanno facendo di nuovo. Per ottenere i loro scopi, essi vogliono creare un’atmosfera favorevole ad elezioni a carattere settario. E ciò si può ottenere solo creando la giusta introduzione. Questa violenza, io credo, è un’introduzione che serve a ripristinare le idee settarie nella mente delle persone, in modo da farle accostare alle elezioni in un’ottica settaria. A meno che l’opinione pubblica mondiale non eserciti una qualche pressione, questo governo non è in grado di provvedere a una riconciliazione all’interno del paese, né è interessato a farlo”
.

E qui l’argomentazione di S. Al Mutlaq è assai valida.

Altri analisti irakeni, rispecchiando con ciò il sentimento più diffuso a Baghdad, sostengono che dietro questo diluvio di violenza ci sarebbero tutti coloro che hanno evidente interesse a mantenere lo status quo esattamente nella configurazione attuale. E cioè i partiti settari degli sciiti, i curdi, che si oppongono ad ogni ritiro delle truppe USA finché non avranno ottenuto il loro Stato “indipendente”, l’Iran (e più proseguono i suoi disordini interni, più l’Iran tenderà a provocare conflitti disastrosi all’interno dell’Iraq) e ultimi ma non meno importanti gli stessi americani, attraverso operazioni congiunte CIA/Mossad.

L’arcivescovo di Baghdad, S. Wardoonee, a capo della Chiesa della Vergine Maria di Palestine Street, è stato brevemente intervistato da Al Jazeera. Quando gli hanno chiesto chi ci fosse dietro questi attacchi alle chiese cristiane, ha rifiutato di puntare il dito contro chiunque. Avrebbe facilmente potuto ripetere la versione ufficiale, incolpando Al Qaeda e i saddamisti. Ma NON lo ha fatto. Perché?

Perché sa benissimo che: 1) I saddamisti (qualunque cosa significhi questo termine) non attaccherebbero mai i cristiani. In realtà, i cristiani dell’Iraq sono sempre stati la più protetta fra tutte le minoranze. E MAI nella memoria storica dell’Iraq – ripeto: MAI – i cristiani dell’Iraq erano stati un bersaglio prima del 2003. MAI. L’arcivescovo non ha menzionato neppure Al Qaeda, anche se avrebbe potuto farlo facilmente. Ma non lo ha fatto. Perché S. Wardoonee sa bene che l’Al Qaeda di Baghdad è come l’Al Qaeda di Mosul: composta principalmente di funzionari dell’intelligence iraniana, israeliana e americana. E sa anche che i CURDI hanno molto a che fare con le recenti esplosioni di violenza a Mosul e Baghdad.

L’Arcivescovo S. Wardoonee ha semplicemente replicato: “Non sappiamo chi sia stato. Sappiamo che esiste una campagna di terrore ben organizzata contro i cristiani dell’Iraq, volta a creare conflitti settari e religiosi. Nell’arco di 2 ore, 8 chiese sono state colpite a Baghdad e Mosul. Abbiamo richiesto una protezione speciale alle forze della sicurezza irakena, e abbiamo ripetuto molte volte la nostra richiesta. Ma non ci è stato fornito nulla di appropriato”.

Non è poi così difficile da capire. L’Iraq è stato reso invivibile per chiunque non sia uno sciita o un curdo. E’ davvero molto semplice.

E se in 6 anni di “liberazione” il “governo irakeno” non è stato in grado di garantire sicurezza ai suoi cittadini, non saprà farlo nemmeno in 10 anni. Infatti ciò che sentiamo uscire dalle bocche del curdo Zebari, dello sciita settario Maliki, del sionista americano Biden, è che il terrore in Iraq proseguirà per molti anni a venire.

E sì, in questo caso stanno dicendo la verità. Perché sono l’Iran e i suoi sciiti settari, sono i curdi e Israele, sono gli americani che hanno sempre avuto evidenti interessi a mantenere l’Iraq invivibile per chiunque si opponga alla sua partizione.


Iraq, bomba contro il convoglio dell’ambasciatore americano
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 14 Luglio 2009

Nel giorno in cui a Baghdad una serie di attentati contro chiese cristiane fa quattro vittime, si registra il primo attacco contro un ambasciatore americano dall’invasione del marzo 2003 - ma non nella turbolenta capitale irachena, bensì nel sud considerato “tranquillo”.

Christopher Hill, l’ambasciatore Usa in Iraq, ieri è stato mancato per poco da una bomba collocata sul ciglio della strada, mentre viaggiava, all’interno di una SUV blindatissima, in un convoglio del Dipartimento di Stato nella provincia di Dhi Qar.

La bomba è esplosa, provocando danni leggeri al veicolo che si trovava subito prima di quello del diplomatico americano, ma non ci sono stati feriti.

A dare la notizia per primo è stato il sito del quotidiano Usa Today: uno dei suoi giornalisti – Aamer Madhani - si trovava in un altro convoglio statunitense che viaggiava a poca distanza da quello dell’ambasciatore americano. Che, al telefono con il reporter, ha minimizzato. “C’è stato un bang e ci siamo trovati dentro una nuvola spessa di fumo”, ha detto. “Stiamo tutti bene”.

Hill, che è arrivato da poco più di due mesi in Iraq, era stato a Nassiriya, capitale della provincia di Dhi Qar, dove aveva incontrato politici locali e membri della cosiddetta Provincial Reconstruction Team (PRT) – la struttura incaricata della ricostruzione, che lì è a guida italiana.

A garantire la sicurezza del convoglio di veicoli blindati nel quale viaggiava l’ambasciatore americano l’ufficio regionale per la sicurezza del Dipartimento di Stato.

Secondo un portavoce militare statunitense, il maggiore Myles Caggins, la bomba che ha colpito il convoglio era piccola, e non è certo che l’obiettivo fosse Hill. Caggins ha ammesso tuttavia che convogli civili occidentali attraversano regolarmente Nassiriya, ed è raro che vengano attaccati.

Ieri è successo.

Chi invece ha pochi dubbi sul fatto che l’ambasciatore Usa fosse l’obiettivo della bomba è Anna Prouse, l’italiana che guida la PRT di Dhi Qar.

La visita di Hill a Nassiriya non era, ovviamente, stata annunciata, per ragioni di sicurezza, ma l’ambasciatore americano – ha fatto notare la Prouse – aveva trascorso diverso tempo in città, incontrando abitanti e leader politici locali, che avevano sottolineato la necessità che gli Stati Uniti aiutassero a stimolare gli investimenti stranieri nella zona.

“Come possiamo dire agli investitori stranieri di venire qui, quando l’ambasciatore arriva per la prima volta, e si siede per ascoltare la gente e le sue idee, e si cerca di farlo saltare in aria?”, ha commentato la funzionaria italiana con Usa Today.

Da parte sua, Hill ha minimizzato. “Non è stato niente”, ha detto riferendosi all’attacco di ieri.

Intanto il capo di Stato maggiore dell’esercito iracheno, generale Babaker B. Shawkat Zebari, ha detto di prevedere che gli insorti, anche se molto indeboliti e ridotti a poche cellule, che restano tuttavia molto pericolose, continueranno i loro attacchi “per uno, due, o tre anni”, sottolineando che l’aiuto della popolazione è determinante per sconfiggere “il terrorismo”

Dichiarazioni rilasciate dopo che Zebari aveva incontrato, nella città santa di Najaf, l’ayatollah Ali al-Sistani, il leader religioso più influente fra gli sciiti iracheni.

Bombe contro le chiese a Baghdad

A Baghdad, ieri sei bombe sono esplose fuori da alcune chiese. Quella letale è stata una autobomba di fronte alla chiesa della Vergine Maria, in Palestine Street, nella zona est della capitale irachena, mentre i fedeli stavano uscendo dalla messa. Oltre alle quattro persone uccise, altre 16 sono rimaste ferite.

"Questo spaventerà i cristiani", ha commentato il vescovo Shlemon Warduni, che quando è scoppiata la bomba si trovava nel suo ufficio nel retro della chiesa. "Avranno paura di venire alle funzioni, e forse altri lasceranno il Paese".

Secondo fonti della polizia, l’attacco letale è avvenuto poco dopo che cinque bombe di potenza più modesta erano esplose fuori da altre quattro chiese nei quartieri di Karrada e Dora, entrambi ancora abitati da consistenti comunità cristiane. Chiese che, fortunatamente, erano chiuse.

Rinviare il censimento a dopo le elezioni

Ed è il timore di ulteriori tensioni che ha spinto un gruppo di parlamentari iracheni a chiedere che il censimento generale della popolazione previsto per quest’anno venga rinviato fino a dopo le elezioni nazionali, che dovrebbero tenersi a fine gennaio 2010.

I sommovimenti collegati alla guerra e all’invasione del 2003 hanno provocato cambiamenti radicali nella composizione etnica e confessionale di molte zone – sostengono i deputati – e i risultati del censimento potrebbero portare ulteriori elementi di conflitto.



I sindacati iracheni avvertono la BP: se venite bloccheremo tutto
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 15 Luglio 2009

Non azzardatevi a mettere piede a Bassora, perché riceverete una accoglienza appropriata, e non sarà gradevole. E’ questo in sostanza il messaggio inviato dai sindacati iracheni alla BP, la compagnia petrolifera britannica a capo del consorzio che si è aggiudicato il contratto relativo al giacimento di Rumaila – l’unico assegnato nel primo round di gare d’appalto che si è concluso il 30 giugno.

Messaggio esplicitato da Faleh Aboud Amara, uno dei leader della Iraqi Federation of Oil Unions (IFOU), il sindacato che raggruppa i lavoratori del settore petrolifero.

“Abbiamo scritto una lettera alla BP e al console britannico a Bassora, avvertendoli di non entrare a Bassora perché sarà illegale”, ha detto Amara. “Se lo faranno, protesteremo e sciopereremo”.

La decisione del ministero iracheno del Petrolio di assegnare a società straniere il contratto per lo sviluppo di Rumaila - un mega giacimento che si trova nel sud dell’Iraq e ha riserve per quasi 18 miliardi di barili (era il maggiore fra i sei offerti nel primo round di gare) – ai sindacati iracheni proprio non va giù.

Oltre alla IFOU, si è espressa contro anche la Federation of Workers Councils and Unions in Iraq – un altro dei sindacati indipendenti. Secondo il leader della sua sezione di Bassora, Ali Abbas Khafif, il contratto per Rumaila (andato a un consorzio guidato dalla BP in cui ci sono anche i cinesi della CNPC) sarebbe illegale, in quanto assegnato prima dell’approvazione di una legge nazionale sul petrolio e sul gas – legge la cui bozza giace da molto tempo in Parlamento, senza che si sia neppure iniziato a discuterla.

Che è il motivo per cui il ministro del Petrolio, Hussein al Shahristani, che ha di fronte il problema del declino della produzione di greggio – tanto più grave in tempi di crollo dei prezzi del petrolio – ha deciso di andare avanti comunque: bandendo due round di gare d’appalto, il secondo dei quali dovrebbe concludersi entro la fine di quest’anno.

Per Shahristani, le leggi in vigore ai tempi di Saddam Hussein sono più che sufficienti. I sindacati iracheni evidentemente non la pensano così – e avevano messo in guardia le compagnie petrolifere straniere che si preparavano a presentare le loro offerte.

Ora arriva l’avvertimento alla BP: “Abbiamo la capacità di bloccare completamente il loro lavoro. Siamo in grado di mobilitare la gente contro di loro. Utilizzeremo scioperi e sit-in”, dice Khafif.

Il sindacalista critica anche i termini dell’accordo per Rumaila: un contratto tecnico “di servizio”, che prevede una remunerazione fissa per la compagnia straniera, senza partecipazione agli utili della produzione. Ma anche così, secondo Khafif è troppo. E poi c’è il timore che questi contratti possano portare a un aumento della disoccupazione nel settore petrolifero.

Quindi: state lontani da Bassora.

Dalla BP finora non ci sono stati commenti, e nemmeno dall’ambasciata britannica. I cinesi, quelli nessuno si è preso la briga di sentirli.



L'Iraq alla ricerca di un nuovo rapporto con Washington
di Abir Taleb -
Al Ahram Hebdo - 8-14 Luglio 2009
Traduzione a cura di Medarabnews

Se è vero che gli americani hanno ritirato la settimana scorsa le loro forze militari dai centri urbani iracheni – come previsto dall’Accordo di Sicurezza iracheno-americano firmato alla fine del 2008 – molto ancora resta da fare affinché il Paese ritrovi la sua vera sovranità, attesa fin dalla caduta del regime di Saddam Hussein. È una strada probabilmente piena di insidie, perché l’Iraq è lontano dall’essere un Paese stabile.

Sul piano interno, proseguono le lotte interconfessionali, e le violenze rischiano di minacciare in ogni momento la stabilità irachena. Per quanto riguarda le relazioni con gli Stati Uniti, si è ancora lontani da un rapporto paritario tra due Stati sovrani. La scorsa settimana, i rapporti bilaterali hanno vissuto brusche tensioni, dopo il ritiro delle truppe americane dalle città irachene conclusosi il 30 giugno scorso, in seguito alle ingerenze degli Stati Uniti nelle questioni interne dell’Iraq.

E’ in questo contesto che avrà luogo la prossima visita del Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki a Washington, prevista per il 21 luglio. Si tratterà di una discussione riguardante la parte non militare dell’Accordo di sicurezza iracheno-americano, e in particolare la cooperazione economica, scientifica, e culturale, secondo le dichiarazioni fatte domenica 5 giugno dal Consigliere del Primo Ministro iracheno, Yassine Majid. Secondo il Consigliere, la questione del disimpegno totale delle truppe americane alla fine del 2011 sarà anch’essa all’ordine del giorno. Non si prevedono problemi in merito alle questioni legate alla cooperazione. Al contrario, quelle riguardanti il disimpegno americano, non solo militare ma soprattutto politico, rischiano di sollevare delle divergenze, specialmente in seguito alle tensioni attuali.

Un severo monito


In effetti, Washington si è recentemente congratulata per la notevole diminuzione della violenza in Iraq. La Casa Bianca ha tuttavia espresso il suo forte disappunto per l’assenza di progressi nel campo delle riforme costituzionali, necessarie per far cessare le profonde divisioni tra sciiti, kurdi, e sunniti. In occasione della sua recente visita di tre giorni, il vice-presidente, Joe Biden, incaricato dal Presidente degli Stati Uniti Barack Obama di lavorare alla stabilizzazione politica del Paese, ha minacciato i suoi interlocutori di un possibile disimpegno americano nel caso in cui la violenza confessionale ed etnica dovesse riprendere.

Un severo monito che non è piaciuto ai responsabili iracheni, e che ha fatto salire rapidamente la tensione. Il governo iracheno si è affrettato ad avvertire gli Stati Uniti di non interferire nella sua politica interna. Il vice-presidente americano Joe Biden deve “trasmettere al suo Presidente il desiderio comune degli iracheni di gestire da soli i propri affari”, ha dichiarato il portavoce del governo Ali Dabbagh, sabato 4 luglio, in occasione di un intervento alla televisione pubblica irachena. Egli ha altresì aggiunto: “ Non vogliamo che altre parti si intromettano nei nostri affari perché, così facendo, le cose potrebbero complicarsi invece di risolversi” .

Il giorno prima, un alto responsabile americano, nel riferire il tono delle discussioni tra il numero due americano e i dirigenti del Paese, tra cui il Primo Ministro Nuri al-Maliki, aveva dichiarato: “Se la violenza dovesse riprendere, ciò cambierebbe la natura del nostro impegno. Il vicepresidente Biden è stato molto chiaro su questo punto”. Pur rassicurando Baghdad del suo appoggio e aiuto, l’Amministrazione Obama si è allo stesso tempo dichiarata riluttante a “rimettere insieme ancora una volta i pezzi se, a causa di alcuni, l’Iraq dovesse di nuovo affondare”.

Di fronte a questa rinnovata tensione nelle relazioni tra Iraq e Stati Uniti, il governo iracheno ha tentato di non offendere il suo alleato, che dovrebbe concludere tutte le sue missioni militari alla fine del 2011. “Vogliamo stabilire delle buone relazioni con gli Stati Uniti. Sì, noi condividiamo la vostra preoccupazione, che è legittima, perché volete vedere concludersi con successo l’esperienza in Iraq”, ha specificato il portavoce iracheno Dabbagh. “Ma possiamo risolvere i nostri problemi da soli, attraverso la Costituzione e il consenso tra i gruppi iracheni, in particolare per quanto riguarda i rapporti tra la regione kurda e il governo centrale. Penso che siamo stati chiari in merito, affinché non ci sia alcuna ambiguità”, ha proseguito Dabbagh.

Antagonismo nei confronti dei sunniti


Nonostante la permanenza in Iraq di 130.000 soldati americani, il supporto aereo, e le altre forme di aiuto americano di cui le forze locali ancora necessitano, il governo Maliki si sforza di prendere le distanze dalle forze statunitensi ancora in loco. Giocare la carta del nazionalismo alle elezioni provinciali di quest’anno è stato vantaggioso per Maliki, e il suo appello a uno Stato centralizzato e forte ha aiutato i suoi alleati a ottenere adesioni nel sud sciita. Sembra che egli svilupperà una strategia simile in prospettiva delle elezioni legislative del prossimo gennaio.

Le violenze sono fortemente diminuite, ma periodicamente alcuni ribelli sono artefici di attentati spettacolari che deteriorano ancora di più le relazioni già delicate tra la maggioranza sciita, la minoranza sunnita, e i kurdi. Maliki ha tentato di ingraziarsi le personalità politiche sunnite, reprimendo l’anno scorso le milizie sciite e favorendo, attraverso un’amnistia, la liberazione di migliaia di detenuti sunniti. Ha teso la mano ad alcuni vecchi membri del partito Ba’ath di Saddam Hussein, ma solamente a coloro che “non si sono sporcati le mani di sangue” e che hanno rinunciato al ba’athismo; condizioni che, agli occhi di certi sunniti, rivelano l’antagonismo nei loro confronti.

Tuttavia, malgrado gli sforzi, il compromesso tarda ad arrivare in ragione delle profonde divergenze che persistono tra le comunità irachene. Un lavoro enorme resta ancora da fare e i rischi connessi sono altresì notevoli.



Cosa ha in serbo il futuro per la Turchia e l'Iraq?
di Mustafa Kibaroglu* - Bitterlemons International - 9 Luglio 2009
Traduzione di Carlo M. Miele per Osservatorio Iraq

Nel suo discorso al Cairo del 4 giugno, il presidente Usa Barack Hussein Obama ha dichiarato che "al contrario dell’Afghanistan, l’Iraq è stata una guerra scelta che ha provocato grosse divisioni" negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Ciò può essere letto come un chiaro segno della sua intenzione di ritirarsi dall’Iraq, anche se in maniera graduale.

Dunque, come primo passo per realizzare questo obiettivo, il 30 giugno le forze da combattimento Usa si sono ritirate dai centri urbani dell’Iraq e hanno passato il compito di controllare le strade alle unità della sicurezza irachena che sono state addestrate dagli americani negli ultimi anni.

Tuttavia, gli osservatori, dentro e fuori dall’Iraq, non sono concordi sul se questo debba essere considerato come un grosso passo verso la riconquista della piena sovranità sull’Iraq da parte degli iracheni a tutti i livelli, o se si tratti semplicemente di un’illusione che letteralmente non porta cambiamenti significativi allo stato delle cose in Iraq; per esempio, riguardo la dominazione da parte di una potenza straniera.

Il punto di vista prevalente tra gli analisti della sicurezza, specialmente in questa parte del mondo, è che sia più probabile per le future amministrazioni americane, quella di Obama e dei suoi successori, che gli Stati Uniti mantengano un certo numero di proprie truppe sul terreno in Iraq allo scopo di assolvere alla raison d'etre originale dell’invasione, che era il controllo sulle riserve petrolifere e di gas del Paese, così come quello di spaventare Stati come Iran e la Siria dall’interno della regione. In questa ottica, sarebbe fuorviante pensare che solo poiché le unità da combattimento Usa si sono dislocate lontano dai centri urbani iracheni, le politiche della regione o in Iraq cambieranno in maniera significativa.

Come risultato, non sta per verificarsi alcun drammatico cambiamento nell’approccio della Turchia nei confronti della situazione della sicurezza in Iraq. Ci si attende che gli Usa, essendo un alleato di lunga data, rispettino gli interessi della Turchia nel processo di ricostruzione dell’Iraq e, in parallelo, riguardo al miglioramento delle relazioni raggiunte tra i due Paesi dopo la visita di Obama ad Ankara all’inizio dell’aprile di quest’anno.

Ma se Obama ha sia la volontà che la capacità di fare un cambiamento decisivo in quello che fino ad ora sembra essere lo stato della politica degli Stati Uniti e non solo le ambizioni dei neo-con, e realizzare un ritiro totale, non ci saranno ragioni per la Turchia di allarmarsi.

Due anni fa, funzionari civili e militari (o paramilitari) turchi e iracheni (lèggi kurdi) si impegnarono in una "guerra di parole", accusandosi l’un l’altro di perseguire politiche ostili. Ma da qualche tempo a questa parte il clima politico nel sudest della Turchia, su entrambe le sponde del confine con l’Iraq, sembra essere cambiato in maniera considerevole.

Nonostante i profondi disaccordi su come trattare i terroristi del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan, ndt) che usano l’Iraq settentrionale come un rifugio sicuro, o sullo status di Kirkuk, le autorità turche e kurde irachene hanno apparentemente raggiunto una "tregua" nella loro guerra di parole. Per esempio, una compagnia turca ha preso una partecipazione nel progetto dell’oleodotto che porterà il petrolio del nord Iraq ai mercati mondiali, un piccolo ma significativo passo nella giusta direzione. La Turchia sta anche prendendo in considerazione l’apertura di consolati a Mosul ed Erbil, nel nord Iraq. Di nuovo, questo è un passo importante, specialmente se uno ricorda i tentativi della Turchia, pochi anni fa, di distogliere i suoi alleati dall’aprire dei consolati in queste città.

Questi e altri esempi indicano la corretta lettura da parte dei politici turchi dell’andamento degli sviluppi in Iraq e della loro preparazione per il periodo post-invasione, quando Iraq e Turchia saranno, col tempo, lasciati a sé stessi.

Guardando da questa prospettiva, ci si potrebbe attendere che le relazioni tra Turchia e Iraq si normalizzeranno. Tuttavia, sarebbe più saggio mantenere un certo margine di cautela in modo da non reagire in maniera eccessiva, da una parte o dall’altra, di fronte a un’eventuale delusione delle aspettative.

Una ragione particolare per sottolineare questo aspetto si è avuta all’inizio di luglio, quando il ministro iracheno delle Risorse idriche Latif Rashid, un membro kurdo del governo, si è lamentato con le capitali europee del progetto della Turchia per la diga di Ilisu e ha chiesto loro di impedire alla Turchia di portare avanti i lavori nello stesso momento in cui il ministro turco dell’Ambiente Veysel Eroglu si era impegnato a concedere una maggiore quantità di acqua all’Iraq (in virtù delle maggiori precipitazioni di questo anno). Non c’è dubbio che le dichiarazioni di Rashid inaspriranno le relazioni bilaterali e ciò prova quanto possano essere fragili, in generale, le relazioni tra Turchia e Iraq.

Fino agli accordi di Adana, firmati dopo che i due Paesi arrivarono sull’orlo di un vero conflitto nell’ottobre 1998, la Siria ha solitamente giocato a sostenere il terrorismo di Asala (Armenian Secret Army for the Liberation of Armenia, ndt) e Pkk con l’intenzione di fare pressione sulla Turchia riguardo alle sue rivendicazioni sulle acque del fiume Eufrate.

Le relazioni turco-siriane adesso hanno raggiunto un grado di prossimità senza precedenti, con oltre 15 visite ufficiali ad alto livello, compreso uno scambio di visite tra i presidenti Bashar al-Assad e Abdullah Gul. Entrambe le nazioni al momento cercano il modo di cooperare e di risolvere le loro divergenze sull’uso di risorse attraverso progetti comuni. I politici iracheni farebbero bene a seguire lo stesso percorso lineare tracciato con fatica da Turchia e Siria per un lungo periodo di tempo.

* Mustafa Kibaroglu tiene corsi sul controllo delle armi e il disarmo presso il Dipartimento di Relazioni internazionali della Bilkent University di Ankara