Si tratta naturalmente dei guadagni maturati nel 2007, quando la crisi era solo alle porte.
Sarà interessante verificare tra due anni i redditi ottenuti nel 2009 in piena crisi per avere la conferma che non è solo una questione psicologica, come qualcuno imperterrito si ostina a propagandare.
Ma, nonostante la sua propaganda, il governo ha ben chiaro che la situzione è pesante e infatti ecco che rispunta di nuovo l'idea "geniale" dello scudo fiscale, presentata attraverso un emendamento al decreto legge anticrisi in commissione Bilancio e Finanze alla Camera.
I relatori del decreto Chiara Moroni e Maurizio Fugatti hanno dovuto però modificare la precedente versione del testo attraverso la quale venivano beneficiati reati come il falso in bilancio, il riciclaggio, la ricettazione e la bancarotta. Nella nuova versione nessun reato potrà più essere "salvato", ad eccezione della dichiarazione infedele e dell'omessa dichiarazione.
Per i capitali rimpatriati si prevede un'aliquota complessiva del 5%, applicabile alle attività finanziarie e patrimoniali detenute almeno fino alla data del 31 dicembre 2008 o rimpatriate e regolarizzate a partire dal 15 ottobre e fino al 15 aprile 2010.
Il governo è convinto di ottenere un gettito intorno ai 3-3,5 miliardi ma per ora, vista la sua "assoluta imprevedibilità", questo è stato fissato a un euro. E prima di diventare legge, lo scudo fiscale dovrà avere l'ok dall'UE; la BCE ha infatti già bloccato l'articolo del decreto legge anticrisi che introduceva una tassa sulle plusvalenze dell'oro.
Insomma, il governo si accinge all'ennesimo raschiamento di un barile senza più fondo, indice di una situazione a dir poco preoccupante, e sta anche pensando di modificare l'età pensionabile, legandola a partire dal 2015 all'aspettativa di vita.
Un altro autunno caldo è alle porte.
Ottobre Rosso: aspettando il default?
di Eugenio Benetazzo - www.eugeniobenetazzo.com - 15 Luglio 2009
Riceviamo ogni giorno bombardanti rassicurazioni da portavoce di organi istituzionali che il peggio sembra sia passato e che per rilanciare l'economia bisogna solo iniziare a spendere e consumare. Tutto questo in evidente contraddizione con quanto si sta paventando invece negli States, innanzi alla più grande crisi occupazionale della loro storia, forse peggiore di quella degli Anni Trenta. Più che affermare che il crollo è terminato mi sento di dire che siamo innanzi ad un rallentamento della caduta.
La mia personale view vede infatti un sostanziale miglioramento del climax finanziario a livello interbancario dovuto soprattutto agli interventi di stato ed a un ridimensionamento degli impieghi. Su quest'ultima voce ritengo che abbiano molto da raccontarci tutti i piccoli e medi imprenditori che in questi ultimi mesi oltre ad una contrazione violenta dei loro fatturati, adesso si vedono negato o revocato l'accesso al credito: inutile dire di come tutto questo avrà spiacevoli conseguenze sulla fiscalità diffusa.
Qui sta il vero pericolo in questo momento di mercato ovvero come gestire nei prossimi trimestri il crollo dei fatturati che in prima battuta si riversa in contenziosi occupazionali e sucessivamente va a ledere la vita intrinseca dell'apparato statale. Vedo infatti che nonostante si possano reperire dati agghiaccianti sulla dimensione della crisi, nessuna forza (o forse bisognerebbe dire farsa) politica si sta preooccupando di come gestire o tamponare l'ormai annunciato crollo del gettito fiscale che si sta delineando per l'anno d'imposta 2009.
Già alla fine del primo bimestre di quest'anno Bankitalia ha emesso un gravoso monito sulla sensibile contrazione delle entrate, suscitando non poche preoccupazioni su come verranno gestite le minori entrate. A riguardo per ben comprendere i rischi che si stanno delineando per il sistema Italia (al pari di altri paesi occidentali) mi permetto di riassumere la dinamica evolutiva della fiscalità diffusa, in modo da consentire a tutti di voi di percepire la reale dimensione della spesa pubblica italiana.
Dai dati riferiti alla fine del 2008 possiamo ricavare la seguente torta che ripartisce il debito italiano (oltre 1.660 miliardi di euro) in quattro contenitori: 3/4 del debito sono titoli a medio lungo termine (metà dei quali in mano ad investitori non residenti) ed il restante suddiviso in prestiti e debiti a breve termine. Significativo è il contributo della raccolta postale che concorre a finanziare quasi un decimo del debito. Tutto questo montante di debito genera interessi passivi per oltre 80 miliardi di euro, oltre il 5 % del PIL (significa che l'azienda Italia è finanziariamente oppressa e a meno di fenomenali colpi di spugna non vi è possibilità di ripresa, in quanto gli oneri finanziari incidono eccessivamente sulla vita del paese minandone la capacità di ripresa).
Lo stato italiano è un'azienda come tante altre con costi e ricavi propri: i costi sono le spese necessarie a mantenere la sua infrastruttura ed a pagare gli stipendi al personale statale, mentre i ricavi rappresentano le entrate che derivano dall'imposizione fiscale diretta ed indiretta. Il duplice grafico a torta descrive invece come spende e come incassa lo stato italiano, suddividendo per aree di spesa e categorie di entrata.
Tanto per iniziare potete notare come le entrate siano superiori alle uscite di circa 15 miliardi di euro, questo statisticamente è in linea delle attese in quanto si verifica regolarmente negli ultimi cinque anni, tuttavia non rappresenta il bilancio complessivo delle spese ed entrate per lo stato in quanto dobbiamo aggiungere anche le voci di entrata e spesa delle partite in conto capitale (come investimenti e contributi alla produzione) che negli ultimi cinque anni sono state sempre superiori ai 50 miliardi, portando quindi l'indebitamento netto ad oltre i 40 miliardi (questo significa che l'azienda Italia ha necessitato negli ultimi cinque anni di almeno 40 miliardi, 43 per essere precisi nel 2008, al fine di essere finanziarimente in equilibrio): questa considerazione spiega perchè il debito pubblico è in continua lievitazione.
Il bilancio dello stato per quel che concerne la fiscalità diffusa pesa circa la metà del debito pubblico a medio e lungo termine, con 666 miliardi suddivisi tra imposte dirette, indirette e contributi sociali: questo fa comprendere l'effettivo carico di oneri a cui sono gravati contribuenti e mondo imprenditoriale. Particolarmente inquietante è il peso che ha il welfare italiano sul PIL (ovvero il pagamento di pensioni sociali, di anzianità e di vecchiaia) che assorbe quasi il 40 % delle entrate correnti, a dimostrazione di come ormai il Titanic Italia si stia trasformando sempre più in un cimitero di elefanti. Curiosità: nella voce altre entrate il peso delle accise sugli idrocarburi si attesta a 20 miliardi di euro (in linea con la media degli ultimi cinque anni), mentre raddoppia decisamente il contributo apportato da lotto e lotterie, passando dai 6 miliardi del 2003 ai 12 del 2008.
La voce di spesa più interessante in termini di analisi per macroaree è relativa agli stipendi del personale, oltre 170 miliardi, suddivisa in 94 miliardi per il personale delle amministrazioni pubbliche ed in 78 miliardi per gli enti locali e previdenziali (gli impiegati e dirigenti di INPS & Company costano nemmeno 4 milardi). Focalizzandosi sulle spese per il personale per tenere in piedi gli apparati ministeriali si scopre quanto segue (guardate la torta):
Pubblica istruzione, difesa e ministero dell'economia rappresentano oltre il 70 % della spesa per stipendi all'apparato statale (fa riferimento al ministero dell'economia per esempio tutto il corpo della Guardia di Finanza). Da una attenta analisi si palesa come la voce riferita un tempo alla "sanità" sia del tutto inconsistente: nella fattispecie il nuovo Ministero della Salute e del Lavoro risulta semplicemente coordinare e gestire l'Istituto del Servizio Sanitario Nazionale, il quale eroga prestazioni sul territorio attraverso enti locali quali le aziende ospedaliere (facenti parte del bilancio delle amministrazioni locali e non centrali). Pertanto il peso della cosidetta sanità pubblica (almeno dal punto di vista dell'onere occupazionale) deve essere estrapolato dai 78 miliardi di cui si menzionava precedentemente: per ragioni espositive me ne occuperò in un prossimo redazionale.
Sulla base di quanto sino ad ora esposto proviamo a fare una disamina sullo scenario dei conti pubblici italiani, se le entrate caleranno in proporzione al crollo del PIL possiamo stimare un gettito minore di 20/25 miliardi rispetto al 2008, senza considerare che ci sono piccole e medie imprese che stanno valutando addirittura di chiudere per sempre la propria attività (a mio avviso stanno percorrendo la strada migliore).
I costi di esercizio dell'azienda Italia purtroppo sono difficilmente negoziabili, dispetto magari un'azienda industriale che può chiedere l'intervento della Cassa Integrazione Guadagni o meglio ancora ridefinire parte dei propri costi industriali come gli oneri di manodopera. Non è possibile delocalizzare gli insegnanti delle scuole italiane e nè diminuire le prestazioni del servizio sanitario o il pattugliamento del territorio da parte delle forze dell'ordine. Ad ottobre pertanto bisognerà pensare dove iniziare a tagliare oppure come raccogliere velocemente 40/50 miliardi di euro, in questo senso abbiamo in pole position il prossimo condono per il rientro di nuovi capitali oltre frontiera, il quale se produrrà i risultati finanziari attesi non farà altro che spostare in avanti il problema.
Le uniche area di spesa sulle quali è possibile intervenire velocemente sono rappresentate dagli oneri sul debito pubblico, che se fossero semplicemente la metà degli attuali permetterebbero un avanzo netto annuale di oltre 40 miliardi, significa che ogni anno lo stato italiano avrebbe 40 miliardi (quasi il 3 % del PIL) da poter spendere per abbattere ancora il montante di debito residuo oppure per politiche sociali con interventi a pioggia sul territorio. Considerando che metà del debito a medio lungo termine è in mano ad investitori non residenti potrebbe essere proposta una qualche forma di congelamento degli interessi al fine di limitare l'onere finanziario: questa affermazione vi potrà sembrare azzardata o ridicola, tuttavia la matematica ormai non lascia molto all'immaginazione per quanto abbiamo sin'ora trattato.
Ricordo che quando l'Argentina dichiarò il proprio default (ovvero impugnò il proprio debito), il rapporto debito/PIL si attestava oltre il 120 per cento ed i 3/4 del debito erano sottoscritti da investitori esteri. Alla fine del 2008 il rapporto debito/PIL italiano era al 105 per cento: ora considerando che al momento in cui scrivo, questi dati riguardavano più di sei mesi fa, mentre oggi sappiamo che il debito pubblico italiano si attesta a 1.750 miliardi di euro e le proiezioni sul PIL italiano parlano di una contrazione superiore al cinque per cento (visione ottimistica), mi verrebbe da dire che il debito/PIL italiano per la fine del 2009 potrebbe stimarsi oltre il 115 per cento.
Ognuno di voi pertanto tragga le relative conclusioni: almeno questi sono dati contabili oggettivi che non possono essere smentiti o tacciati di catastrofismo. Purtroppo anche per il nostro paese si delinea sempre più il cosidetto scenario argentino ovvero uno scenario per il paese con un'economia debole e una moneta troppo forte che porta alla perdita di competitività e al continuo ricorso all'indebitamento. Non mi stupirei se venisse paventata anche una superpatrimoniale improvvisa sui depositi con prelievi coatti per tamponare il più possibile l'emorragia finanziaria che si sta delineando per i prossimi semestri (vi ricordo che già nel 1991 il Governo Amato si inventò il prelievo del 6 per mille su tutti i depositi dalla sera alla mattina).
Altre soluzioni che consentano di risolvere velocemente quanto sollevato non ne vedo, a meno di iniziare a tassare la prostituzione o ridefinire la spesa di rappresentanza popolare (dal consigliere comunale all'europarlamentare passando dal dirigente dell'ASL). Su queste considerazioni intravedo pertanto un clima politico da ottobre rosso per il nostro paese con l'attuale governo che potrebbe esporsi ad una improvvisa destabilizzazione politica a causa della continua cantilena messa in onda ogni giorno sul tubo catodico del tutto va bene a fronte di un peggioramento ingestibile dei conti pubblici. La recente candidatura di Beppe Grillo alla guida del PD (che mi sento di appoggiare pienamente), qualora lo portasse alla guida del partito, forse potrebbe dare quella sterzata improvvisa al timone del Titanic Italia per evitare di colpire l'iceberg che ormai si è avvistato a prua. E per una volta tanto non ci sarebbe niente da ridere con un comico alla guida di un movimento popolare che punta ad un rinnovamento e rinascita nazionale.
Ritornano le minacce di fallimento?
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi - www.ariannaeditrice.it - 15 Luglio 2009
L’Aquila è stato purtroppo un G8 veramente interlocutorio, una fermata di passaggio tra il G20 di Londra, dove le nuove regole della finanza sono state indicate senza però sfidare il peso e il modus operandi delle banche che ci hanno portato alla crisi globale, e il summit di Pittsburgh di fine settembre che rischia di sancire la superiorità del vecchio modello finanziario con “meno regole e meno stato”. Quello della City e di Wall Street!
Nonostante il fatto che i governi siano diventati con i soldi pubblici i creditori di ultima istanza di un sistema in bancarotta, nella partita tra l’autorità degli stati e le banche sono ancora le seconde a dettare le regole del gioco.
Anche Berlusconi, tra le esaltazioni del successo del summit, ha fatto una dichiarazione che merita una più attenta riflessione. “Si è manifestato il disappunto sul fatto che - ha detto nella conferenza stampa finale - sono riprese le speculazioni internazionali sugli hedge fund, sul petrolio come su altre materie prime, e anche per questo abbiamo dato mandato agli organi i internazionali di studiare un modo per intervenire”. In altre parole si ammette che dopo un anno, nonostante summit, decaloghi, tavole di condotta e quant’altro, certa finanza speculativa non ha mai cambiato comportamento e marcia speditamente verso una seconda fase della crisi.
Il Comptroller of the Currency, l’autority Americana che supervisiona anche il comportamento del sistema bancario, ha pubblicato recentemente il rapporto sugli andamenti finanziari del primo trimestre del 2009 in cui evidenzia che, nonostante la crisi e le annunciate misure antispeculative, i derivati over the counter (OTC) sottoscritti dalle banche USA sono saliti a 202.000 miliardi di dollari a fine marzo 2009, cioè 2.000 miliardi in più della fine del dicembre precedente.
Oltre il 90% di questa bolla è in mano solamente a 4 banche: la JP Morgan Chase, la Citi Bank, la Bank of America e la Goldman Sachs.
Ed è stata proprio quest’ultima, che vanta storiche amicizie e alleanze anche a casa nostra, a guidare questa ripresa speculativa nei prodotti derivati, portando la sua quota da 30 a 40.000 miliardi in solo tre mesi!
Da parte sua, la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha pubblicato a fine giugno il suo rapporto semestrale in cui riporta che il valore nozionale dei derivati a livello globale nel secondo semestre del 2008 era invece sceso di ben 100.000 miliardi di dollari, assestandosi comunque sempre intorno all’impressionante livello di quasi 600.000 miliardi.
La BRI si premura anche di sottolineare che, mentre il valore nozionale diminuiva, saliva invece di 5.000 miliardi quello del Gross Market Value, cioè il costo per rimpiazzare tutti i contratti esistenti ad un dato momento. Il significativo aumento di questo indice dimostra che la volatilità e i rischi delle operazioni in derivati finanziari nel periodo di crisi e di collassi bancari sono aumentati drammaticamente e con essi i costi, i premi da pagare, per i derivati stessi.
Questi dati rivelano che particolarmente in America, nell’epicentro della crisi finanziaria, il comportamento speculativo non è cambiato affatto, nonostante il gran parlare di nuove regole e di controlli più stringenti.
La stampa ha poi presentato come un sensazionale risultato del G8 dell’Aquila l’aver concordato un impegno di 20 miliardi di dollari a sostegno dell’Africa nella lotta contro la fame e contro le emergenze sanitarie. Certamente ogni aiuto allo sviluppo dell’Africa è una cosa buona e doverosa, anche se per il momento si tratta solo di numeri sulla carta.
Noi vorremmo, però, far notare la sproporzione fra gli aiuti per l’intero continente africano e i 182,5 miliardi di dollari messi a disposizione lo scorso settembre per il salvataggio del gigante americano delle assicurazioni AIG.
Certo che il suo fallimento avrebbe portato con sé l’interno sistema assicurativo e pensionistico americano, ma la differenza è davvero enorme.
Inoltre, proprio mentre si prometteva il sostegno all’Africa, l’AIG subiva un tracollo in borsa tanto da far ventilare una nuova minaccia di fallimento.
A questo proposito ricordiamo che in gioco c’è anche la “bomba” da 193 miliardi di dollari in CDS (credit default swaps, una sorta di polizze di assicurazione per obbligazioni ad alto rischio) che l’AIG ha venduto soprattutto in Europa e il cui vero valore è tutto da stabilire.
Perciò concordiamo pienamente con il presidente Giorgio Napolitano, che, parlando ai capi di stato e ad altri dirigenti internazionali a L’Aquila, ha sottolineato l’importanza e l’urgenza di una nuova Bretton Woods. Non solo – ha detto il presidente – per avere “un complesso di più esigenti regole e standard internazionali per la conduzione delle attività finanziarie ed economiche” ma per definire soprattutto un modello di società più giusta e lungimirante che si può esprimere “nella cooperazione fra civiltà”.
Ecco perché l’Europa pagherà il prezzo più alto della crisi
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 15 Luglio 2009
L’economia della Germania, si sa, è un po’ il termometro con cui si misura lo stato di salute dell’Europa. Beh, nelle ultime 24 ore da Francoforte e Berlino sono arrivate notizie che non depongono affatto verso un check up favorevole per il vecchio continente. La Confindustria tedesca ha confermato che la metà dei suoi membri sta patendo una contrazione del credito e lo stesso ministro delle Finanze, Peter Steinbruck, ha dovuto finalmente ammettere che «dobbiamo prendere molto seriamente in considerazione il rischio di un credit crunch per la seconda metà di quest’anno».
Alleluja, alla fine l’ha capita anche lui. Ma non basta. A confermare la gravità della situazione sono giunte le richieste accessorie di Steinbruck: sospensione di Basilea 2 per permettere il salvataggio delle banche e soprattutto prestito diretto da parte dello Stato per far ripartire il credito. Suona, ad occhio e croce, come una chiamata d’emergenza.
Sempre dalla Germania, poi, sabato scorso la BaFin, l’ente regolatore di Borsa e mercati, ha reso noto che i bad debts in pancia alle banche tedesche «stanno per scoppiare come una granata» avendo toccato quota 816 miliardi di euro, 268 dei quali in conto solo a Hypo Real. Senza dimenticare che il deficit tedesco sta toccando il 6%, portando il debito su Pil all’86%: stiamo parlando della locomotiva d’Europa!
Gli esperti della Bce, d’altronde, hanno parlato chiaro: ci sono almeno altri 203 miliardi di euro di svalutazioni da fare entro l’anno nei bilanci delle banche Ue e questo nonostante proprio la Banca centrale europea abbia recentemente iniettato la cifra monstre di 442 miliardi di euro nel sistema per rilanciare il credito. Tutto inutile.
Ma dal resto dell’Unione non arrivano notizie migliori. Il ministro spagnolo delle Finanze, Luis Espadas, ha confermato con il massimo del candore che il rapporto debito pubblico/Pil della Spagna potrebbe tranquillamente raggiungere il 90%: nel 2007 era il 36%, tanto per capirci. Quello italiano è previsto al 116% nel 2010, quello greco al 109%, quello belga al 101% e quello francese all’86%: trovate forse spazio per dell’ottimismo? Se sì, calcolate che la contrazione dell’eurozona quest’anno - stando a dati del Fondo Monetario Internazionale – toccherà il 4,8% contro il 2,6% degli Stati Uniti.
Ma qual è stato l’errore di fondo che vedrà l’Europa pagare il prezzo più alto di tutti alla crisi? Certamente la scelta della Bce di non seguire l’esempio di Giappone, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti nella politica di quantitative easing ha portato a una netta contrazione del credito privato in questi ultimi mesi e peserà ancora di più nei prossimi.
Ma che cos’è il quantitative easing? Si tratta del processo di “creare moneta” da parte delle banche centrali al fine di acquistare, per esempio, titoli di stato in mano ai privati. Si tratta di una strategia che viene messa in campo quando i tassi d'interesse sono vicini allo zero e l'istituto centrale ha pochi margini di manovra sul costo del denaro: attraverso il quantitative easing viene allargata la massa monetaria presente in un sistema. Peccato che la massa monetaria M3 nell’eurozona sia crollata a febbraio al 5,9% (salvo poi risalire e frenare ancora nei mesi successivi), un segnale che ricorda pericolosamente quello risuonato negli States prima del crollo di Lehman Brothers: alla Bce, però, nessuno pare preoccuparsene.
La seconda settimana di settembre cambieranno idea, ignorare l’M3 è scelta che si fa a proprio rischio e pericolo: non è certo l’Hindemburg Omen, ma difficilmente si sbaglia a segnalare i marosi a dispetto dell’indice Vix, quello che determina la volatilità dei mercati, ancora basso rispetto ai livelli massimi della crisi nonostante i tracolli post-green shots delle scorse settimana (si chiama euforia suicida o speculazione, non ha fondamentali a cui fare riferimento). Forse, più che tenere un nuovo referendum sul Trattato di Lisbona, l’Irlanda dovrebbe tenerne uno sulla capacità della Bce di intervenire a tutela della propria economia: la massa monetaria M3 irlandese è crollata alla velocità del 30% annuo lo scorso mese, praticamente una condanna a morte per un’economia iper-indebitata come quella di Dublino.
Se a questo unite il combinato congiunto della bomba ad orologeria rappresentata dal tasso di disoccupazione Ue che nella sola Spagna potrebbe sfondare quota 20% con la crescita esponenziale, entro il 2040, del numero di pensionati su lavoratori attivi, allora avete perfettamente chiaro cosa aspetta nel recente futuro l’Europa. Certo, a dire che le cose vanno male si ha un buon 50% di possibilità di azzeccarci, però bisogna anche avere le cifre per corroborare questa negatività, altrimenti si gioca solo a dadi. Come vedete, le ho messe in fila una dopo l’altra queste cifre. Lascio i dadi ad altri.