giovedì 1 ottobre 2009

L'Abruzzo 6 mesi dopo: la menzogna del miracolo

Sono passati quasi 6 mesi dal giorno in cui L'Aquila e le zone circostanti sono state squassate dal terremoto.

Qui di seguito una serie di articoli che aiutano a comprendere qual'è la vera realtà in cui sono state catapultate le persone colpite dal sisma.

Una realtà naturalmente lontanissima dalle menzogne raccontate a casa dell'Insetto dal cosiddetto premier, che continua comunque a preferire le zone terremotate come meta per le sue gitarelle fuori porta.


Lettera dei terremotati a Napolitano

da Il Corriere della Sera - 9 Settembre 2009

"La verità è che restiamo senza case"

Caro Presidente,

le cronache sulla sua visita di ieri nella nostra città, a cinque mesi dal terremoto del 6 aprile, parlano del calore con cui gli aquilani l'hanno accolta e riferiscono del conforto da lei espresso nel vedere, dopo tutto quello che è successo, “fiducia e gente sorridente” che “crede molto nelle istituzioni”.

Altro, a parte le note di colore, non è stato riportato. Sappiamo che ha parlato con i responsabili della Protezione Civile, con i rappresentanti locali. Ha avuto modo di chiedere, di vedere e di informarsi. Ma non ha aggiunto altro.

E' vero caro Presidente. Noi, anche quelli che non erano lì a stringerle la mano o ad ascoltare l'inno di Mameli, crediamo molto nelle istituzioni. Anzi moltissimo. Perché per noi le istituzioni rappresentano la possibilità di affrontare insieme i problemi di una comunità per risolverli insieme.

Quindi dato che di problemi, dal 6 aprile, ne abbiamo un po' più del normale, nelle istituzioni crediamo molto, anche perché ne abbiamo molto bisogno. Questo lei lo sa, lo ha visto. Ha visto la distruzione immensa. Sa, come tutti noi, che da un evento del genere non ci si riprende se non attraverso sforzi collettivi eccezionali e soprattutto attraverso le scelte giuste. Altrimenti, semplicemente, le città e i paesi muoiono.

Ha visto, caro Presidente, il sorriso riaffiorare su qualche volto degli abitanti di Onna. Perché dopo i troppi lutti e la sofferenza di cinque mesi di tenda, potranno avere un tetto nel piccolo villaggio di case di legno che sorge accanto al paese distrutto. Ha potuto capire, caro Presidente, che la speranza è nel poter riallacciare i fili spezzati con le persone e i luoghi. E' poter restare insieme e restare lì. Vicino alla tua casa rotta, o mezza rotta, smozzicata, scoperchiata, ma che è la tua casa. La speranza è di ricostruire la casa, la scuola, le strade e le piazze e di ritrovarsi insieme.

Ma sulla strada che dall'Aquila conduce ad Onna, caro Presidente, avrà visto anche il cantiere di Bazzano, dove si costruisce il più grande dei 19 nuovi insediamenti destinati ad ospitare chi ha perso la casa. E' il Piano C.A.S.E. (Comitati Antisismici Sostenibili Ecompatibili), voluto dalla istituzione Protezione Civile, previsto da un decreto legge dell'istituzione Governo, convertito in legge dall'istituzione Parlamento, approvato con il sostegno convinto dell'istituzione Regione Abruzzo e con l'avvallo delle istituzioni Provincia e Comune dell'Aquila. E questa è tutta un'altra storia. Ed è, purtroppo, quella vera che nulla ha a che vedere con la vicenda di Onna, è il suo contrario.

Il Piano era già pronto, ambizioso e innovativo: per la prima volta gli sfollati non sarebbero stati ridotti in roulotte o container ma, dopo qualche tempo in tenda, avrebbero avuto direttamente case vere, antisismiche, ecologiche e con tutti i comfort. Circa 5.000 abitazioni per circa 15.000 persone, che vi avrebbero abitato il tempo necessario a ricostruire la propria casa.

Così 30 mila persone sono state tenute in tenda per cinque mesi e altrettante, lontane negli alberghi della costa abruzzese, perché tutti, in autunno, avrebbero potuto avere un tetto: chi riparando i danni lievi della propria abitazione, chi trovando posto nelle nuove C.A.S.E.. Ma, caro Presidente, non è andata così. Non gliel'hanno detto?

Le tende hanno cominciato a toglierle davvero, solo che le case danneggiate non sono state riparate e le C.A.S.E., quando saranno tutte consegnate (dicembre? febbraio? aprile?), non basteranno. Per cui le persone dalle tende vengono trasportate in caserma o in albergo - la destinazione viene comunicata poco prima in modo da ridurre il rischio di rimostranze.

Gli alberghi dell'aquilano sono pieni e quindi decine di migliaia di persone dovranno essere piazzate in altri territori e province. Chi ha la fortuna di avere ancora lavoro a L'Aquila o ha un figlio da mandare a scuola, potrà viaggiare con mezzi propri o autobus navetta, questi – pare – messi a disposizione dalle istituzioni. Gli altri staranno lì in attesa degli eventi.

Questa è la storia di una devastazione annunciata, caro Presidente. Lo smembramento delle comunità, praticato all'indomani del terremoto, viene proseguito dopo cinque mesi e perpetuato in quelli a venire. Perché non si è saputo e non si è voluto dare priorità alla ricostruzione ma alla costruzione del nuovo. E poi l'antico adagio resta valido: divide et impera. Se vuoi comandare sulle persone, tienile separate. Nei campi tenda, dove le persone per forza stanno insieme, è vietato distribuire volantini, è vietato riunirsi e discutere liberamente. I diritti e le libertà costituzionali, caro Presidente.

Con tutte le nostre forze, da subito, abbiamo chiesto alle istituzioni che venissero risparmiate sofferenze, denaro pubblico e le bellezze del territorio, ricorrendo a case di legno, prefabbricati e simili. Soluzioni rapide (4 settimane per averle pronte), economiche (un terzo di una C.A.S.A.), dignitose, sicure, che permettono di restare vicini nel proprio territorio da ricostruire e che possono essere rimosse quando non serviranno più. Ma non c'è stato nulla da fare. Le istituzioni non hanno voluto ascoltare.

Bisogna costruire le nuove C.A.S.E. 24 ore al giorno, spendendo tutti i soldi che ci sono davvero - oltre 700 mil. di euro - e usando pure quelli donati dagli italiani. Tirando su, in tutta fretta, insediamenti che saranno definitivi, dove capita, senza logica urbanistica, senza minimamente rispettare criteri di prossimità ai nuclei precedenti. Intanto, tutto il resto, con l'inverno alle porte, è fermo. Il riparabile non viene riparato, il centro storico resta immerso in un silenzio spettrale. Perché?

Che farebbe lei caro Presidente, se a cinque mesi dal terremoto non sapesse dove trovare una sistemazione per la sua famiglia, una scuola per i suoi figli, un lavoro che ha perso? Se non avesse la minima idea di come e quando potrà riparare la sua casa, ammesso che ne abbia ancora una?

Molti, troppi, non hanno potuto fare altro che andare via. Accettare che, almeno per un po', a L'Aquila non è possibile tornare. Ma se non ora, dopo cinque mesi, quando? Lo spopolamento in atto, diventerà progressivo e definitivo se qualcosa di importante non cambierà e subito.

Tutto questo l'abbiamo denunciato, chiesto, urlato, ogni volta che abbiamo potuto e come abbiamo potuto. Di tutto questo nessuno le ha detto nulla? Perché nemmeno una perplessità, un dubbio nelle sue parole di ieri sulle scelte fatte?

Caro Presidente, ha ragione, noi ci crediamo davvero nelle istituzioni. Eppure si sbaglia, caro Presidente, perché di fiducia non ce n'è più. La supponenza, l'arroganza, l'ignoranza, la complicità, gli interessi inconfessabili, l'incapacità e l'inettitudine logorano la fiducia nelle istituzioni. Come pure il silenzio.

Comitato Rete-Aq, Campagna 100%,

Ricostruzione – Trasparenza – Partecipazione


Un miracolo che sa di fallimento
di Paolo Berdini - www.ilmanifesto.it - 30 Settembre 2009

Anche se nulla ancora emerge dall’informazione televisiva che ci inonda con le immagini delle inaugurazioni delle case per i terremotati dell’Aquila, il tragico fallimento dell’esperienza guidata da Bertolaso sta iniziando ad essere evidente a tutta la popolazione aquilana, anche a quella che aveva creduto alla favola delle new town.

Ma proprio quando gran parte della stampa grida al miracolo della realizzazione di (poche) case in tempi rapidissimi, come è possibile parlare di fallimento? È che nella popolazione abruzzese inizia a rendersi evidente la cinica disinvoltura con cui il governo li priverà per molti anni a venire del bene più prezioso che essa aveva: le città, i borghi, i centri storici.

Una popolazione che era abituata a vivere in luoghi in cui le relazioni umane erano rese possibili e facilitate proprio dai luoghi urbani, inizia a toccare con mano che dovrà abituarsi a vivere per molti e molti anni in condizioni di isolamento sociale, con le difficoltà a risolvere anche le esigenze primarie come quelle degli acquisti o dell’uso dei servizi pubblici.

In quelle che hanno chiamato spudoratamente new town esistono solo abitazioni e nessun presidio sociale. Le città si riconoscono per i servizi sociali, ma questo ai liberisti fa evidentemente orrore. Se si tiene poi conto che buona parte di quella popolazione è anziana e non è in grado di spostarsi autonomamente con l’automobile, si comprende di quale misfatto si sia macchiato il governo.

Non saranno dunque i fuochi artificiali di questi giorni a cancellare l’infamia di aver scelto deliberatamente di trasferire in luoghi isolati, senza alcun servizio pubblico, senza la minima dotazione di quelle attrezzature private che rende gradevole (o almeno meno disagevole) la vita di tanti cittadini aquilani. E la condanna della popolazione sarà senza appello perché, come racconta nel suo bel libro Giovanni Pietro Nimis (Terre mobili, Donzelli editore, 2009), le alternative esistevano.

Gli straordinari esempi di ricostruzione da eventi sismici sperimentati negli altri tragici casi (Friuli 1976 e Umbria-Marche 1997) sono lì a dimostrare che in tempi contenuti e con il coinvolgimento pieno delle popolazioni locali sono stati raggiunti risultati straordinari con un consenso generalizzato.

Il Friuli è un esempio celebre di rinascita di una popolazione. I centri antichi dell’Umbria e delle Marche sono di nuovo vitali e abitati. Le case sono state rese sicure. Si obietterà che le popolazioni hanno dovuto passare qualche anno in scomodi container. Ma la scomodità era resa meno acuta dalla vicinanza alla propria abitazione, dall’essere localizzati all’interno dei luoghi urbani, dalla condivisione con le stesse persone con cui si erano condivise vite di relazioni.

L’assegnazione delle case abruzzesi è avvenuta per sorteggio: la vita ridotta ad una tombola a premi in cui guadagnano soltanto coloro che stanno realizzando alloggi che costano 2.800 euro a metro quadrato a fronte dei mille con cui si costruisce in ogni luogo d’Italia.

Così, famiglie che abitavano in un luogo conosciuto e misurabile nella vita di ogni giorno saranno costrette a vivere da tutt’altra parte, in tanti luoghi periferici scelti in base alla disponibilità dei suoli e non sulla base di un ragionamento sul futuro di una comunità urbana.

E questo avviene senza che nulla si sappia sui tempi e sulle modalità della ricostruzione dei centri antichi, ad iniziare da quello de L’Aquila. Insomma pochi cittadini abruzzesi si vedono assegnare una casa mentre tutti non hanno ancora alcuna certezza su quando partiranno i lavori per la ricostruzione delle loro meravigliose città.

A sei mesi dal terremoto del 1997, le due regioni coinvolte avevano già deciso criteri e suddiviso i centri da ricostruire in comparti operativi. A sei mesi dall’evento del 6 aprile 2009 sono state consegnate solo poche case. Ad un ragionamento organico si è sostituito un gesto teatrale sotto gli occhi delle televisioni. La complessità della città è stata sostituita dalla semplificazione di case in desolate periferie.

In questi giorni in cui Il Manifesto sta svelando la impressionante ragnatela con cui imprese blasonate hanno inquinato tanti luoghi del nostro paese. Mi hanno colpito le frasi di un colloquio di due malavitosi che parlavano dell’affondamento delle navi dei veleni lungo le coste calabresi.

Dice il primo che a causa dell’affondamento il mare si guasterà per sempre. Il secondo risponde che con tutti i soldi guadagnati potranno cercare mari lontani e puliti. L’inquinamento, insomma, non li riguarda. Anche in questo caso la distruzione chissà per quanti anni delle comunità urbane non coinvolge i decisori. Nelle periferie de L’Aquila ci andrà la parte debole della società. Mica loro.


L'Abruzzo sei mesi dopo
di Cesare Fiumi - Il Corriere della Sera Magazine - 28 Settembre 2009

9000 persone ancora nelle tende, altre 20mila tra alberghi e alloggi provvisori. Consegnate le prime case. Storie di terremotati e delle loro paure

Il campo di nessuno sono una dozzina di tende che si fanno compagnia, strette l’una all’altra, in un piazzale che è diventato una discarica, tra brande e cartoni, materassi e barattoli. Tende dove abitano ancora la famiglia indigente, la signora disabile, il tossicodipendente, i paria del terremoto.

Il campo di nessuno è quel che resta della tendopoli di piazza d’Armi – il simbolo dell’emergenza: più di 2500 sfollati presenti, per mesi l’antenna di ogni malessere e di ogni collegamento tivù –, smantellata in gran fretta un mese fa, con foglio di via per i residenti, spediti altrove.

Verso camere d’albergo e provvisori appartamenti, lontani anche cento chilometri, in attesa del nuovo alloggiamento, quando e se verrà: tutto dipenderà dagli ultimi controlli sul censimento, dalla lista di collocazione, dall’alfabeto (A, casa agibile; B, che necessita lavori; C, maggiori lavori; E, inagibile; F, irraggiungibile) della propria abitabilità. Perché, sei mesi dopo, il futuro è una questione di lettere. E di numeri: 30mila persone da sistemare, di cui 9mila ancora in tenda tra i campi ufficiali, quelli chiusi a metà e l’anarchia di chi l’ha montata davanti a casa sua.

«NON ME NE VADO» - Il campo di nessuno è la risposta allo smantellamento: la resistenza di chi non se ne vuole andare, anche solo per paura, ché le scosse continuano, oppure non può – dovendo accudire un parente – e comunque non se la sente di abbandonare la propria terra e la propria casa, non importa se ridotta a una parvenza. È di nessuno, quel campo, perché la Protezione Civile lo ritiene già chiuso e il comune non se ne fa carico. Non c’è più il posto di Polizia. Non ci sono più volontari. Non c’è più la mensa. «E l’altro giorno non c’era più neanche l’acqua calda, perché quegli irriducibili avevano esaurito pure le ultime scorte di gasolio».

A parlare è Pina Lauria, 54 anni, la signora che il 17 settembre s’è asserragliata dentro la sua casa inagibile, pur di restare in città: «Hanno chiuso la mia tendopoli e mi hanno mandato a Castellaffiume, nella Marsica, in attesa dell’assegnazione di una casa. Ma io non voglio e non posso andarmene dall’Aquila: devo pensare ai miei genitori che sono qui in un container e che non avrebbero potuto seguirmi».

Ci sono voluti i vigili del fuoco per farla uscire. Adesso dice: «Mi sono trasferita dai miei: cos’altro potevo fare? Questa è protezione incivile e non ne voglio più sapere: l’unica cosa che conta per loro è smantellare i campi dalla sera alla mattina solo perché il governo ha detto che a fine settembre non ci sarebbero state più tende, ma senza curarsi delle ragioni degli sfollati. E di dove finiscono deportati».

Deportati? Sono arrivate le casette della Croce Rossa, quelle costruite dal Trentino, a Onna. Ed ecco la prima assegnazione del progetto C.a.s.e (Comitati antisismici sostenibli ecocompatibili) a Cese di Preturo a Bazzano. Insomma, è partita l’operazione alloggiamento, eppure la frase che più ricorre, visitando gli accampamenti – ancora a regime, nonostante la promessa che «a fine settembre niente più tende» – e raccogliendo le storie della gente, lontano dai nastri e dalle cerimonie, è proprio questa: «No alla deportazione ».

Sta scritto sulle vetrine di quelli che furono negozi e son venuti giù a pezzi; sulle lenzuola appese lungo le strade; sui comunicati di cittadini come quelli che, la settimana scorsa, si sono ritrovati fuori dalla graduatoria di assegnazione delle C.a.s.e. e hanno protestato «perché ci sono famiglie che figurano due volte e altre inspiegabilmente assenti, pur avendo avuto dei feriti».

I MESSAGGI PRIMA DI LASCIARE IL CAMPO - Anche i terremotati di Piazza d’Armi, prima dell’addio, hanno lasciato i loro saluti sulle gradinate della pista di atletica. Dice un messaggio tra i tanti, che sembra il bollettino di un’ultima scossa al morale: «h 16.15. Dep. in G.d.F., non c’è più fine al peggio, speriamo bene, 5.09.09».

Possibile che finire a Coppito, nella scuola della Finanza, dove ha dormito pure Barack Obama, sia una deportazione? «Sì, qui sei sempre sotto il loro controllo, come se avessi fatto qualcosa di male», piange la signora che resta senza nome, per paura di sentirsele rinfacciare queste sue parole.

In realtà, quello che fa più paura ai terremotati, in questi giorni di smantellamenti e assegnazioni, è la diaspora. Non solo la propria deportazione, ma quella di tutti, di tutto un paese. Sì, le case sono andate giù e certi centri storici, come Camarda o San Gregorio, sono diventati un’unica «zona rossa», epperò le tendopoli montate a un passo dal proprio passato hanno tenuto insieme le famiglie, i bambini, gli anziani.

Ancora quest’estate, i viali di tela blu sembravano comunque strade di paese: abitate, vive. Ma adesso che i villaggi blu spariranno e le persone verranno spedite, da qui a dicembre, tra la Marsica e la costa o anche in alberghi diversi dell’Aquila, la gente sente che anche il tessuto sociale, come le loro case, si spezzerà.

«ABBIAMO FATTO UN MUTUO PER COMPRARE UNA CASETTA DI LEGNO»
«È per questo che non ce ne siamo andati ad Avezzano o dove ci volevano mandare e abbiamo detto alla protezione civile: grazie, ma facciamo da noi e qui restiamo. E pazienza se il contributo per “l’autonoma sistemazione” è di appena 600 euro al mese».

Marilena Iovenitti indossa una maglia nera con un cuore argentato dove è stampato I love L’AQ e, sotto, la data del 6 aprile, la notte che la sua vita è cambiata. La signora ha resistito sei mesi in tenda assieme alla famiglia: figli, sorella, nipoti, mariti, genitori e il nonno disabile di 99 anni. In dieci in 20 metri quadrati.

Figurarsi, allora, se lascerà Camarda, «anche perché la casa che ci sarebbe toccata, a Paganica, sarebbe stata una delle ultime a essere assegnata: hanno sbagliato a mettere giù una piattaforma e hanno ricominciato daccapo». Così gli Iovenitti hanno fatto una gita a Pineto, hanno comprato una casa in legno di 80 mq, e hanno deciso di fare da soli. «Qui, sotto il Gran Sasso, l’inverno ti arriva addosso da una notte all’altra, eppure avremmo resistito ancora. Però ci mandavano via dalla tenda e allora siamo andati in banca e abbiamo fatto un mutuo, visto che avevamo un po’ di terreno».

Eccola qui già in piedi, a un passo dalla tendopoli. «Ci è costata 32mila euro, l’abbiamo montata in due giorni. Non è grande abbastanza per dieci persone, ma rispetto alla tenda ci sembrerà di sentire l’eco, quando ci chiameremo da una stanza all’altra. Certo, con un aiuto maggiore...».

Quello che non capiscono le famiglie che in qualche modo si arrangiano da sole è quel contributo di 600 euro a nucleo di almeno tre persone. Perché resta loro incomprensibile la cifra che lo Stato paga per gli sfollati in albergo: «Ci rimborsano 55 euro a persona al giorno», spiega Alberico Contini, direttore del Federico II a L’Aquila, in gran parte requisito per fornire alloggio provvisorio, fino a quando i moduli abitativi non saranno tutti pronti. Insomma, fino a dicembre, secondo il calendario del governo. «Altro che dicembre», sorride invece Contini «Mi hanno detto che avrò terremotati in albergo ancora per un anno».

«È COME SE AVESSERO CERCATO IN TUTTI I MODI DI DISINCENTIVARE L’INIZIATIVA PRIVATA» Facciamo un po’ di conti: 55 euro a persona, per un nucleo medio di quattro persone, fa 6mila e 600 euro al mese. Tanto costa il loro mantenimento: dieci volte quello che riceve una famiglia che si arrangia da sola, in affitto o acquistando un prefabbricato.

«Sì, uno spreco. Ed è come se avessero cercato in tutti i modi di sponsorizzare queste nuove case, disincentivando il fai-da -te», spiega Vincenzo Vivio, architetto nato a Paganica e residente all’Aquila con la sua famiglia, la moglie e sei figli, prima che il terremoto gli stravolgesse la vita. «Purtroppo nelle nuove case non sono previsti appartamenti per le famiglie numerose. Come ci siamo arrangiati? Una figlia vive a Londra. Altri tre stanno con me qui, ad Assergi, nell’albergo Fiordigigli che ci è stato assegnato. Mia moglie invece ha trovato lavoro a Pescara ed è lì con Cesare e Pietro, che frequenteranno sulla costa la quinta e la prima elementare. Con la morte nel cuore sono andato dalla preside a chiedere il nullaosta per il trasferimento e purtroppo non ero il solo: ma come facevo a far vivere due bambini quassù in albergo?»

Sicché il signor Vivio farà il pendolare, da un pezzo di famiglia all’altra, senza trascurare il coro che dirige e che ha già cantato alla Rai e nelle tendopoli: «Un modo per stare assieme, per restare comunità. Anche se quello che m’ha fatto più male è stata la storia delle case di Paganica. Ah, non lo sa? Il Trentino, ancora mesi fa, ci aveva offerto le stesse casette che sono state consegnate a Onna. Erano un’ottima soluzione per passare subito dalle tende a un tetto, restando assieme. E l’assemblea dei cittadini era orientata su questa scelta e anch’io mi sono battuto per dire “sì”.

Fino a quando ha preso la parola Bertolaso, il capo della Protezione Civile, criticando pesantemente il progetto, sponsorizzando le sue C.a.s.e. e arringando la gente ormai disorientata: “Ma voi a Paganica, cosa volete: case o baracche?”. Figurarsi, tutti a gridare: “Le case, le case”. Così io ho rimediato una figuraccia e le cosidette baracche le ha prese, ben contento, il comune di San Demetrio de’ Vestini, dove sono già state montate. Pensi che amarezza quando due settimane fa il presidente del consiglio ha inaugurato quelle di Onna, dicendo: “Sono vere ville”. Prima erano baracche, adesso sono diventate ville e intanto le nuove case di Paganica chissà quando saranno pronte».

Il clima è cambiato, nell’ultimo mese, sotto il cielo d’Abruzzo sempre più spesso grigio. E nonostante le assegnazioni delle prime case, non proprio in positivo. È il momento più difficile nei rapporti tra Protezione Civile, in uscita, e cittadinanze che tornano sotto la tutela dei loro municipi, perché c’è paura di non veder riconosciuti i propri diritti, di essere scavalcati da amicizie e clientele e soprattutto di non vedere la ricostruzione.

Ecco, se c’è una parola che non ritorna è: ricostruzione. «Non è mai cominciata e i soldi che servivano per rifare le nostre case sono finiti per costruire, notte e giorno, quelle provvisorie, mentre il centro storico dell’Aquila resta in un silenzio spettrale, perché?», chiede la lettera inviata, da tre comitati, al presidente Napolitano.

A Barisciano, l’altra mattina, non si vedeva più in là di un metro e comunque nulla si sarebbe visto perché sopra le piattaforme, pronte per ospitare i moduli abitativi, non c’era nulla, ancora. Tanto che il sindaco ha chiesto alla Protezione Civile di tenere aperta la tendopoli almeno un altro mese. «Noi siamo stanchi, non più di tanti, ma resteremo volentieri. Non si può mandare via, magari lontano, tutta questa gente che è nelle tende e deve curare ogni giorno le bestie che ha nei capanni, perché questo è un paese soprattutto di allevatori », spiega Luigi Cuberli, il capo-campo piemontese del paese che ospita in tenda ancora 380 persone.

«Le case? Non so quando saranno pronte. La ditta che ha vinto l’appalto, per questo e altri tre comuni, mi sembra in ritardo. Magari è una piccola azienda e fatica a produrre in poco tempo così tanto da coprire in fretta il fabbisogno. Purtroppo qui siamo a mille metri d’altitudine e il freddo si fa già sentire». Anche se non sembra il solo problema. «Il guaio è che siamo rimasti soli. I carabinieri che presidiavano il campo se ne sono andati e qualche notte fa mi è toccato rincorrere un terremotato che cercava di rubare le provviste. È un tizio che è qui agli arresti domiciliari, dopo cinque anni di carcere. Vede il camper più bello? Quello vicino alla tenda più a sinistra? È il suo. Ma io qui mica posso fare il poliziotto».

L’ULTIMO GIOCO DEI BAMBINI DELLE TENDOPOLI È IL “MONOPOLI” DELLE CASE AGIBILI OPPURE NO - L’impressione è di uno scollamento tra ieri – emergenza garantita alla meglio, vigili del fuoco formidabili, popolazione pronta a sacrificarsi – e domani, quando si comincerà a ricostruire: perché l’oggi che si avvista, tra deportazioni e assegnazioni, sembra sospeso in una nuvola di emozioni nuove - senso di abbandono, rabbie, gelosie - davvero complicato da gestire.

Anche perché i numeri sembrano non tornare: servono più case di quante si potesse immaginare al tempo delle prime ricognizioni. E allora, ecco venir buoni anche alberghi in posti lontani, appartamenti sfitti che saranno requisiti – anche perché sta partendo un’asta del dolore a prezzi impossibili: strozzinaggi da 1500 euro per un bilocale al quale, con un genitore disabile al fianco, non si può rinunciare –, fino alle case di paglia di Pescomaggiore.

«Sì, di paglia. Le balle di fieno arrivano dalla Marsica, noi le pressiamo e poi, abbinate a una lastra di legno da un lato e intonacate dall’altro, eccole diventare parete», racconta l’avvocato Dario D’Alessandro, uno dei curatori del progetto. che salvaguarda il territorio garantendo chi – e sono tanti – ha paura a ritornare, sei mesi dopo, sotto un tetto. Perché il terremoto è un lupo che ti soffia via le certezze, ma al contrario di quello della favola, fa più male alle case di mattoni che a quelle di legno o di paglia.

«Questa casa è E». «No, è solo F». «Vero che quella è B? Visto che ho indovinato?». È l’ultimo gioco dei bambini delle tendopoli: il Monopoli dei danni, parete per parete, subiti da case che non ripasseranno tutte dal via, ché molte toccherà abbatterle, e con il mazzetto degli imprevisti cento volte più alto di quello delle possibilità. Ma Klaris è troppo piccola per giocare all’alfabeto delle case.

Ha solo 5 mesi e poi non esiste: non è contemplata nelle liste e neppure il suo nucleo familiare. «Ci hanno detto che il posto non ci spetterebbe, ma di restare comunque qui e di far finta di niente finché non ci diranno di andare via». Qui è una camera d’albergo. Le parole preoccupate sono della mamma di Klaris, Veronica Anatriello. E lì ci sono loro due più il marito-papà Belilaj, che fa il muratore.

Beh, questa famiglia per l’algoritmo che determina le graduatorie, non esiste. «Klaris è nata il 23 maggio e, come previsto, ci siamo sposati e l’abbiamo battezzata l’8 agosto, quando mio marito avrebbe avuto le ferie. Solo che nell’istantanea del terremoto non c’eravamo: io stavo ancora coi miei, casa A, ma troppo piccola per cinque; mio marito stava coi suoi, casa A, sempre troppo piccola. Difatti, appena nata Klaris, saremmo andati a vivere col nonno, oggi casa E, inagibile: un casa che però non ci viene riconosciuta come residenza. Non esistiamo e non ci spetta nulla».

Ché in questa corsa contro il tempo – anche atmosferico – verso un’assegnazione provvisoria, c’è anche chi parte senza pettorale, sperando di arrivare in fondo, in qualche modo. Come la signora Quirina che ha abitato uno scompartimento del Sulmona, uno dei treni inchiodati alla stazione.

Ci vivono ancora, i terremotati, ma la signora – che non ha mai voluto abbandonare L’Aquila – ha avuto assegnata una delle C.a.s.e. di Bazzano. E la sua vita, in qualche modo, potrà ripartire dove s’era fermata. Che, per gli sfollati, è l’unica cosa che conta: a costo di restare qualche giorno ancora nella tenda che si vuole smontare, ma garantendo – anche a quelli del campo di nessuno – l’assistenza. Perché ogni attore di questo dramma è una storia a sé: e, a sentir loro, conta solo continuare a resistere, a esistere dove si è vissuto, e poco o niente se il governo, bruciando le tappe, batterà o meno il record del mondo dell’efficienza.


L'emergenza "inverno" vista da dieci sindaci

di Luisa Pronzato - Il Corriere della Sera Magazine - 28 Settembre 2009

Posizione “scomoda” quella dei sindaci. Qualcuno (come quello dell’Aquila, “per scelte tardive”) è contestato. I conti non tornano. Le case mancano. Qualcuno vive in tenda (Pierluigi Biondi, sindaco di Villa Sant’Angelo, militante di destra, e Luigi Calvisi, sindaco di Fossa e uomo del Pd). E fino a case costruite, non mollerà. Nel frattempo Bertolaso ha deciso di smontare le tendopoli. E se a ottobre ci sarà ancora gente sotto l’acqua, la responsabilità cadrà sui sindaci. Così corrono, come piccioni viaggiatori, per raccogliere fondi. Mauro Fattori, di Fagnano, per 13 mila euro è arrivato fino in Belgio. A 6 mesi dal sisma molto è ancora per aria. Cosa succede? E quali sono i problemi ancora da risolvere? A spiegarcelo sono 10 di loro.

«A ME RESTERÀ IL CERINO DELL’UNIVERSITÀ»
MASSIMO CIALENTE SINDACO DE L’AQUILA
« I tempi sono lunghi», premette Cialente. «In tenda ci sono ancora 7mila persone. E oltre 20mila aquilani stanno sulla costa: 12mila in hotel a 55 euro al giorno. Intanto i palazzi cadono. È successo in via Roma. Se non copriamo con tetti transitori i muri s’imbibiscono. Crollano. Li avevo chiesti, han detto aspetta. L’acqua è arrivata. Non voglio fare polemica. Ho dovuto accettare il progetto C.a.s.e.: una scelta ideologica del premier e della Protezione civile. Hanno contato 74mila residenti. I miei uffici dicevano che all’Aquila ce ne sono 100mila. Risultato: mancano abitazioni. Ho ottenuto 20 blocchi sul modello delle C.a.s.e., 600 appartamenti per single e coppie. Contando i 700 appartamenti delle requisizioni e i 1200 Moduli abitativi provvisori (Map) chiesti ad agosto, sto ancora fuori di 2.300 nuclei. Con un fondo privato arriveranno 300 abitazioni, altre arriveranno sistemando zone dove alcuni edifici potrebbero diventare abitabili puntellando palazzi e strade. A Natale staremo tutti sotto un tetto. Ma a posto ci saremo a fine 2010. A dicembre la Protezione lascerà il suo mandato. A me resterà il cerino delle case agibili dove non sono partiti i lavori. E il grande interrogativo dell’Università. Ho chiesto 1.200 case mobili per gli studenti. Berlusconi ha detto: “Se mio figlio dovesse decidere di venire a studiare a L’Aquila, lo legherei”».

«SE NON COGLI L’ATTIMO DELLE OFFERTE, SEI TAGLIATO FUORI»
LUIGI CALVISI SINDACO DI FOSSA
In tenda ci sono 161 persone, 100 si sono arrangiate con l’autonoma sistemazione. Le casette in legno previste per Fossa sono 150. «La ricostruzione durerà almeno 10 anni. Il 31 ottobre cominceremo ad abitare le prime 80. Il resto dovremmo finirlo per novembre», dice Calvisi. «Abbiamo optato per un insediamento non provvisorio. Le 16 case regalate dalla Regione Friuli sono già montate. Gli alpini ne hanno regalato 32 e stanno montandole. E altri 12 prefabbricati in cemento me li sono trovati a Verona. Erano destinate a una frazione dell’Aquila, ma erano incerti sulle aree. Nell’emergenza se non cogli l’attimo resti fuori. La Caritas ha regalato una scuola da due milioni. Avevano chiesto se c’era il terreno. Ho detto sì. E non lo avevo. Dopo una settimana mi hanno chiamato, era partita la gara di appalto. In apnea l’ho trovato. Così per le case di Verona. Abbiamo preparato la piazzola in un giorno. Lo scuolabus, un regalo, porta i bimbi alla scuola inaugurata da Fini e Nancy Pelosi a Villa Sant’Angelo. I nostri bambini vanno lì, i loro a San Demetrio. Fino a gennaio, quando sarà finita la nostra».

«SEMBRAVA TUTTO IN RITARDO, ORA FORSE AVREMO LE CASE»
DOMENICO PANONE SINDACO DI BARISCIANO
Il paese è a 940 metri, uno dei più alti del cratere: 250 senzatetto nel centro e 150 nella frazione Picenze. Delle quattro tendopoli ne sono rimaste due, con 200 persone. Altrettante sono in hotel, da parenti o in affitto. All’ordinanza per lo sgombero, il sindaco aveva chiesto una proproga. Paventava che la Steda, la società che ha vinto l’appalto per 900 Map in Abruzzo, non avesse abbastanza case per rispondere agli ordini. Il 23 settembre, contrordine: «La Steda non s’è fatta viva, nonostante avessimo preparato 80 piazzole su 103 nel capoluogo e 35 a Picenze. Dicevano che avrebbero consegnato solo a lotti completi da 150 moduli. Abbiamo pure aspettato per completare l’urbanizzazione. Ora, invece, hanno firmato. Si dovrebbe entrare nelle case dal 20 ottobre».

«LA GENTE DI QUI NON SI È FATTA SEDURRE DAI “MAP”»
AMERICO DI BENEDETTO SINDACO DI ACCIANO
Su 400 abitanti, i senzatetto sono 33. In tenda è rimasta una trentina di famiglie, comprese alcune dell’Aquila, che dovrebbero tornare con il progetto C.a.s.e. «Li stiamo sposando su affittacamere», dice Di Benedetto. «Il 25% del paese è inagibile. Ma la gente di qui non s’è fatta sedurre dai Map. Il vero problema sono le persone con case classificate B, una quindicina di famiglie. Da quando sono usciti gli indirizzi, a fine luglio, i lavori non sono partiti perché non si riusciva a interpretare le norme»

«È RIMASTO CHI LAVORA, STIAMO PUNTELLANDO TUTTO»
PAOLO FEDERICO SINDACO DI NAVELLI
A760 metri d’altezza, a Navelli è rimasta una tendopoli da 20 persone a Civitaletenga, la frazione adottata dal comune di Siano (Salerno). «Stiamo collocando la gente in strutture ricettive nei dintorni», dice il sindaco. «Abbiamo pronte le piattaforme per i Map. Si dovrebbe inziare a montare a giorni. In costa abbiamo ancora 30-40 persone. Qui è rimasto chi lavora e chi ha figli che vanno a scuola. Una quarantina di cantieri sono quelli aperti per le abitazioni agibili. Poi ci sono i nostri: stiamo puntellando tutto il paese. Il problema resta la ricostruzione».

«LA VALLE ERA GIÀ IN CRISI, ORA PENSIAMOCI COME SISTEMA»
SILVANO CAPPELLI SINDACO DI SAN DEMETRIO
Fabbisogno stimato: 180-190 moduli abitativi provvisori. «Abbiamo 30 case, donate dalla Provincia di Trento, già assegnate», dice Cappelli. «Ho rifiutato agglomerati grandi come a L’Aquila per dare priorità al tessuto sociale. Abbiamo fatto 7 Map, accanto alle frazioni in modo che la gente si trovi al mattino con i dirimpettai di sempre. Una stima precisa su quante case servono non c’è. Molte persone hanno chiesto una seconda verifica sull’agibilità delle abitazioni. È un loro diritto. Nella tendopoli principale sono rimaste 147 persone. Contiamo di sistemarle nei prossimi giorni. Le case in legno saranno pronte a novembre. I cantieri sono aperti, stiamo preparando le piazzole. Ad aumentare il numero di chi non ha casa ci sono situazioni come a Villa San Giovanni: 5 famiglie con case agibili. Gi abitanti rientreranno solo quando la torre pericolante che sta sopra sarà messa in sicurezza. Il vero problema è il futuro. L’intera valle dell’Aterno era schiacciata dalla crisi. La ricostruzione potrebbe essere l’opportumità per riprogrammare l’economia del sistema di paesi che ruotano intorno al capoluogo»

«HO CERCATO CONTRIBUTI OVUNQUE, PURE IN BELGIO»
MAURO FATTORE SINDACO DI FAGNANO ALTO
A metà ottobre tutti sotto un tetto. Ne è convinto il sindaco: 400 anime suddivise in 10 frazioni. E un campo da 30 persone che arrivano in tenda solo a dormire: «Abbiamo sistemato quasi tutti nelle case sfitte o in hotel. Abbiamo realizzato 11 aree per i Map per 55 famiglie, cioè 150 persone, quelle con la casa inagibile. Si dovrà montare le case e aspettare l’Enel. Viaggio a cercare contributi. Ho realizzato una farmacia con ambulatori e trovato i soldi per la scuola. Anche se i bimbi andranno nel paese accanto. Dove i genitori hanno dubbi sulla stabilità dell’edificio, nonostante sia stato riparato»

«CHI LAVORA FA I TURNI DALLE SEI: MICA POSSO SPOSTARLI»
PIERLUIGI BIONDI SINDACO DI VILLA SANT’ANGELO
Quattro case agibili in tutto il centro storico. E un campo con 170 persone, sindaco compreso. A Villa Sant’Angelo si tiene posizione, nonostante la pioggia. «C’è poco da decidere», dice il sindaco. «Qui ci sono operai che attaccano i turni alle 6 di mattina. Mica posso mandarli lontano e farli alzare alle 4. Stessa cosa con i ragazzi delle scuole. Si sta qui finché non sono finite le casette di legno. Abbiamo preparato 3 lotti per un totale di 94 alloggi, sono le case che servono ai senzatetto. Sessanta sono già montate a 10 metri di distanza una dall’altra. La ricostruzione parte con la fine del’emergenza. La città è tutta in sicurezza e puntellata».

«DOPO LE FESTE IN TV, LA GENTE SI ASPETTA SCHERMI LCD»
GIOVANNINO COSTANTINI SINDACO DI SAN PIO IN CAMERA
Una sola tenda, nella frazione, a Castelnuovo con 60 persone che la sera diventano 90. «Si continua a sentire le scosse, pure quella marchigiana di settembre», dice il sindaco. I suoi concittadini sono quelli che durante l’inaugurazione di Onna giravano con un cartello con scritto “Castelnuovo ringrazia per il nulla”.

Il paese è distrutto e non c’è segno di lavori. «Abbiamo iniziato le piazzole a San Pio, ma su Castelnuovo ci sono seri dubbi sulla ricostruzione, il paese è su una faglia. Dobbiamo realizzare 120 moduli provvisori ma la gente non ha ancora ben compreso le tappe. Mi indigna pensare che dal giorno del sisma fino alla realizzazione dei moduli, l’emergenza solo per il mio comune sarà costata addirittura 10 milioni di euro. La gente che in 20 secondi ha perso tutto, con questa propaganda che dice che tutto è risolto, si aspetta tv al plasma e comodità d’ogni genere fatte passare in tv. Noi invece avremo i Map, non le casette della Provincia di Trento».

«NOI VIVIAMO DI TURISMO, VA RIPRISTINATA LA RICETTIVITÀ»
EMILIO NUSCA SINDACO DI ROCCA DI MEZZO
Niente più tendopoli. Gli 800 sfollati di Rocca di mezzo sono sistemati nelle seconde case, dove stanno pure 1.600 aquilani. «Non abbiamo aspettato il freddo per requisire gli appartamenti», dice Nusca. «I Map non li abbiamo voluti. Il Comune sta gestendo una popolazione raddoppiata, con 100 bambini in più a scuola. E il doppio delle persone che vanno dagli stessi medici. Il vero problema però è che noi viviamo di economia turistica. Si tratta di ripristinare il centro storico, ritrovare la capienza ricettiva. Far partire le stazioni e sistemare la viabilità. Altrimenti quello che non ha fatto il terremoto lo farà il dopo terremoto»


Tg1, la realtà deformata

di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 1 Ottobre 2009

Qualche numero essenziale, per capirci meglio. Nella campagna elettorale per le elezioni europee, secondo uno studio del Censis (9 giugno 2009), il 69,3 per cento degli elettori si è informato e ha scelto chi votare attraverso le notizie e i commenti dei telegiornali.

I tiggì sono il principale mezzo per orientare il voto soprattutto tra i meno istruiti (in questo caso, siamo al 76 per cento), i pensionati (78,7 per cento) e le casalinghe (74,1 per cento).

È necessario cominciare allora da questa scena. Più o meno sette italiani su dieci - che diventano otto su dieci tra chi è avanti con gli anni, è meno istruito o è donna che lavora in casa e per la famiglia - scrutano la vita, la realtà e il mondo dalla finestra aperta dai telegiornali - tra cui il Tg1 e il Tg5 - da soli - raccolgono e concentrano oltre il 60 per cento del pubblico. Nella cornice di questa finestra buona parte degli italiani matura emozioni, percezioni, paure, insicurezza, fiducia, ottimismo, consapevolezze, orienta o rafforza le sue opinioni.

Che cosa vedono, o meglio che cosa gli mostra quella finestra? Nello spazio stretto, quasi indefinito, tra la realtà e la sua rappresentazione mediatica si possono fare molti giochetti sporchi. Per esempio, spaventare tutti con il fantasma di un'inarrestabile criminalità che ci minaccia sulla soglia di casa o eliminare ogni incubo cancellando ogni traccia di sangue e di crimine.

Nel secondo semestre del 2007 (governa Romano Prodi), i sei tiggì maggiori dedicano a fatti criminali 3.500 cronache. Nel primo semestre di quest'anno (Berlusconi regnante) 2.000 (fonte, Osservatorio di Pavia, report "Sicurezza e Media", curato da Antonio Nozzoli). Stupefacente il tracollo di storie nere nel Tg5. Con Prodi a Palazzo Chigi, le cronache criminali sono 900 (secondo semestre 2007). Diventano con Berlusconi 400 (primo semestre 2009). Il Tg1 Rai non giunge a tanto. Le dimezza: da 600 a 300.

È un gioco sporco, facile anche da fare: ometti, sopprimi, trucchi la scena secondo le istruzioni politiche del momento. Più o meno, un gioco delle tre carte. Carta vince, carta perde. Il crimine c'è e ora non c'è più perché il governo lo ha sconfitto o ridimensionato. Se fosse necessaria una nuova stagione di paura e di odio, riapparirebbe nelle mani del sapiente cartaro.

In questa tecnica di governo non è necessaria l'azione, l'agire, mettere in campo politiche pubbliche contro il crimine, di sostegno alle imprese e alla famiglie, di protezione sociale per chi perde il lavoro, per fare qualche esempio. È sufficiente comunicare che lo si sta facendo, che lo si è fatto, e magari gridare al "miracolo". Come per il terremoto dell'Aquila. Ogni settimana, il capo del governo si autocompiace per l'evento incredibile, prodigioso che ha realizzato.

Ma è autentico "il miracolo di efficienza"? Se si stila una classifica dei tempi di assegnazione di "moduli abitativi provvisori" si scopre che a San Giuliano di Puglia, i primi 30 moduli furono consegnati a 82 giorni dal sisma, in Umbria a 98 giorni, finanche in Irpinia (dove ci furono 3000 morti e 300 mila sfollati) in 105 giorni mentre in Abruzzo i primi moduli sono stati attribuiti a Onna dopo 116 giorni. Non basta dunque il racconto di un fatto in sé per comprenderlo.

Il fatto in sé diventa trasparente soltanto se si rendono accessibili e trasparenti i nessi, le relazioni, i conflitti che vi sono contenuti. Privato della sua trama, delle sue relazioni con il passato e con il futuro, il fatto deteriora a immagine, a spettacolo e dunque è vero perché il fatto è lì sotto i nostri occhi; al contempo, è falso perché è stato manipolato, ma in realtà è finto perché l'immaginazione vi gioca un ruolo essenziale e parlare di "miracolo" - non c'è dubbio - aiuta la fantasia.

Il capolavoro di questa tecnica di comunicazione che diventa disinformazione lo raggiunge, come si racconta a pagina 13, il Tg1 di Augusto Minzolini quando dà conto delle disavventure di Silvio Berlusconi alle prese con gli esiti di una vita disordinata che gli consiglia di candidare a responsabilità pubbliche le falene che ne allietano le notti.

Il caso nasce politico: così si rinnovano le élites? Se ne accentua la politicità con l'intervento di Veronica Lario che rivela le debolezze e la vulnerabilità del premier. Berlusconi avverte che in ballo c'è la sua credibilità di presidente del Consiglio. Va in televisione a Porta a porta per spiegarsi. Gioca male la partita. Mente, si contraddice. Gliene si chiede conto. Farfuglia. Tace.

Decide di rivolgersi a un giudice per vietare che gli si facciano anche delle domande. È l'ordito di un "caso" che diventa (a ragione) internazionale. Il Tg1 lo spoglia di ogni riferimento. Dà conto soltanto degli strepiti del Capo: "complotto", "trama eversiva". Si lascia galleggiare quest'accusa. Contro chi? Perché? Che cosa è accaduto? Non lo si dice. Appare la D'Addario. Ha trascorso una notte con il capo del governo, è stata candidata alle elezioni.

È la conferma dell'interesse pubblico dell'affare, è la prova della ricattabilità di Berlusconi. Minzolini fa finta di niente. Cancella i rilievi dei vescovi; della figlia di Berlusconi, Barbara; l'attenzione della stampa internazionale. Spinge in un altro segmento del notiziario il destino del direttore dell'Avvenire, accoppato per vendetta dal giornale del Capo; i traffici di Gianpaolo Tarantini, il ruffiano di Palazzo Grazioli.

Senza contesto e riferimenti, che cosa può comprendere quel 69,3 per cento di italiani che si informa soltanto attraverso le notizie del Tg? Nulla. Non comprenderà nulla e potrà bere come acqua di fonte che si tratta soltanto, come dice il direttore del Tg1, "dell'ultimo gossip". (I sondaggisti non sembrano curarsi di che cosa sappiano davvero dell'affare gli spettatori disinformati che interrogano).

Non siamo soltanto alle prese con una cattiva informazione o con un giornalismo di burocrati obbedienti. Abbiamo dinanzi un dispositivo di potere con una sua funzione psicologica determinante. Siamo assediati dal crimine o no? Devo avere paura o fiducia? All'Aquila c'è davvero un "miracolo" che presto toglierà dai guai tutti coloro che ne hanno bisogno? C'è "un complotto" che minaccia il premier o il premier ha combinato qualcosa che dovremmo sapere e che lui dovrebbe spiegare?

Se - tra soppressioni, omissioni, menzogne - si abituano le persone a questa confusione inducendole a credere che nulla sia vero in se stesso e che ogni cosa può diventare vera o falsa per decisione dell'autorità e con l'obbedienza dei tiggì, si nientifica la realtà; si distrugge l'opinione pubblica; si sterilizza la coscienza delle cose; va a ramengo ogni spirito critico.

È quel che accade oggi in Italia dove un unico soggetto pretende di detenere - con il potere - la verità, il diritto all'autocelebrazione, al racconto unidimensionale, ogni leva delle nostre emozioni e delle nostre esperienze.

Oggi che si discute di che cosa deve essere il servizio pubblico, vale la pena ricordare che la libertà dell'informazione non è fine a se stessa, ma è solo un mezzo per proteggere un bene ancora più prezioso della libertà del giornalista: il diritto dei cittadini a essere informati.