mercoledì 24 giugno 2009

Analisi del voto e comiche finali

Qui di seguito un'analisi delle ultime votazioni, che hanno registrato un ulteriore aumento dell'astensione motivata.

E ancora un accenno alle vicissitudini del cosiddetto premier, sempre più accerchiato e messo con le spalle al muro da se stesso.


Vince l'astensione "per scelta"
di Renato Mannheimer - Il Corriere della Sera - 23 Giugno 2009

Il 61% di votanti alle comunali. Il 46% (meno della maggioranza assoluta) alle provinciali. Addirittura 23-24% al referendum. Al di là dei risultati in questo o in quel comune o provincia, il dato più significativo di queste consultazioni è stato l’ulteriore incremento delle astensioni. L’imponente diserzione dalle urne può essere definita come il più importante fenomeno politico di massa registrato negli ultimi tempi.

Un elettore si può astenere per una pluralità di motivi. C’è chi, per problemi fisici o perché residente all’estero è in ogni caso impedito a recarsi alle urne. Si tratta del cosiddetto astensionismo «necessario», presente in ogni elezione. Ci sono molteplici stime sulla sua ampiezza, ma la maggior parte degli studiosi concorda su circa il 10% dell’elettorato. C’è poi l’astensionismo «per forza maggiore», legato a impedimenti temporanei: una malattia, un incidente, ecc.: con tutta probabilità esso si aggira al massimo sul 2-3%. Tutte le restanti assenze dalle urne sono classificabili come astensionismo «per scelta». Dipendente cioè da una decisione consapevole dell’elettore.

È ragionevole pensare che l’incidenza delle astensioni «necessarie» o «per forza maggiore» sia grossomodo sempre la stessa nelle diverse consultazioni. Di conseguenza, ciò che spiega il grande incremento dell’astensionismo in questi ultimi anni è la progressiva diffusione delle astensioni «per scelta». Queste ultime sono dovute sia alla costante erosione (o, nelle nuove generazioni, addirittura all’assenza) delle identità e delle appartenenze politiche tradizionali, sia specialmente all’ampliarsi del distacco degli italiani dalla politica. Non è certo un caso se, domandando a un campione rappresentativo degli elettori qual è «la prima cosa che le viene in mente parlando di politica », la risposta prevalente, data da quasi un quarto, sia «disgusto». Con un incremento di questo atteggiamento negli ultimi anni. E la risposta successiva, data da un altro 22% è «rabbia».

In queste consultazioni amministrative c’è, tuttavia, un’ulteriore, rapida e forte accentuazione del fenomeno. Alle provinciali, tra il primo e il secondo turno si sono recati a votare addirittura il 23% di elettori in meno. Alle comunali la differenza è stata del 15%.

Queste ultime hanno visto un’affluenza maggiore, data la più accentuata «vicinanza» del comune alle problematiche quotidiane dell’elettore. Mentre le provinciali hanno registrato l’assenza della maggioranza assoluta dei cittadini e la diserzione, tra il primo e il secondo turno, di quasi un quarto, anche a testimonianza, forse, di una perplessità, peraltro più volte espressa, sul ruolo e l'utilità di questa istituzione.

La rilevante differenza nella partecipazione tra il primo e il secondo turno va naturalmente anche interpretata con la difficoltà per l’elettore italiano di scegliere un candidato che non è «il proprio». Diversi votanti per i partiti esclusi al primo turno non se la sono sentita di scegliere, al secondo, quello che consideravano solo il «meno peggio».

Ma, anche in questo caso, la maggior parte delle astensioni dipende da un ulteriore distacco dalla vita politica avvenuto proprio negli ultimi tempi. Spiegato, per gli elettori del centrodestra, anche dall’appannamento, accentuatosi proprio in queste settimane, della figura del Cavaliere. E per quelli del centrosinistra dal disagio dovuto alla conflittualità crescente tra i partiti e, specialmente, tra i leader di quest’area.

Anche la bassissima affluenza al referendum rientra in questo quadro esplicativo. La presenza di solo meno di un quarto degli aventi diritto non dipende solo dai quesiti «troppo tecnici » (anche se erano davvero difficili da interpretare e le schede, così complesse, accrescevano la confusione) né dal mero effetto dell’invito di astenersi da parte della Lega. Il fatto è che le tematiche proposte e l’intero mondo della politica appaiono ai cittadini italiani sempre più lontani. E sempre più privi di interesse.


Alla fine del bipartitismo l'astensione è nel PDL
di Ilvo Diamanti - La Repubblica - 24 Giugno 2009

La geografia politica italiana, dopo le elezioni amministrative di questo mese, si è riequilibrata. Cinque anni fa si era spostata a sinistra, in modo più accentuato che nel passato. Oggi il divario si è riassorbito. Le province. Erano 50 di centrosinistra e 9 di centrodestra.

I GRAFICI DEMOS

Oggi il centrosinistra governa in 28 e il centrodestra in 34. Quanto ai Comuni capoluogo in cui si è votato, il centrosinistra ne amministrava 27 ed è sceso a 18, mentre, parallelamente, il centrodestra ha eletto 14 sindaci quando prima ne aveva solo 5. L'impianto urbano del centrosinistra, dunque, per quanto indebolito, resta solido. Tanto più se allarghiamo lo sguardo fino a comprendere le città medie (superiori a 15mila abitanti). Dove il centrosinistra ha eletto il candidato sindaco in 122 dei 220 al voto. Peraltro se si ragiona distintamente sui due turni, risulta evidente che le perdite le ha subite, perlopiù, al primo turno. Mentre ai ballottaggi ha riconquistato gran parte delle province e delle città rimaste in lizza.

Poi, contano i segnali. Dopo il primo turno il centrosinistra temeva di veder franare la terra sotto ai propri piedi. In altri termini: di perdere le regioni rosse. Non è avvenuto. Ha, inoltre, tenuto nel Mezzogiorno. Soprattutto nelle città. Mentre ha sofferto nel Nord. Il secondo turno ha fatto emergere anche un diverso grado di mobilitazione degli elettorati. La "ripresa" del centrosinistra al secondo turno coincide, infatti, con il "ritiro" di una parte degli elettori del centrodestra. Nelle capitali di regione è evidente. A Firenze e Bologna: il calo della partecipazione elettorale (oltre 14 punti percentuale in entrambi i casi) si è tradotto in un allargamento delle distanze a favore dei candidati del centrosinistra. Rispettivamente: Renzi (da 16 a 20 punti percentuali) e Delbono (da 20 a 21).

Più clamoroso il caso di Bari, dove la partecipazione fra i due turni è calata (anche qui) di circa 14 punti percentuali (pari a 40.000 votanti). Punendo il candidato del centrodestra, Di Cagno, che perso 25mila voti rispetto al primo turno. Il suo distacco da Vittorio Emiliano è, così, salito da 3 a 20 punti.

Un'evoluzione simile si osserva anche a Potenza e ad Ancona. Ma soprattutto nelle province metropolitane del Nord. A Milano, dove la partecipazione elettorale fra i due turni cala di 24 punti percentuali e di quasi 600mila voti, il distacco di Podestà nei confronti di Penati viene quasi annullato. Da 10 a 0,4 punti percentuali. Podestà ottiene 250 mila voti in meno (Penati 90 mila).

Infine a Torino, dove votano 500 mila elettori in meno del primo turno, il presidente uscente e candidato del centrosinistra, Saitta, perde circa 90 mila voti. Ma la sua avversaria, Porchietto, vede ridursi il risultato del primo turno di 166 mila voti e il distacco da Saitta dilatarsi: da tre a quasi 15 punti percentuali. Per cui se l'astensione cresce dovunque, al secondo turno, per ragioni diverse e in parte fisiologiche, tende però a colpire, in modo patologico, soprattutto i candidati del centrodestra. Che vincano o perdano, non importa.

Da questa rappresentazione geopolitica si ricavano alcune indicazioni, a nostro avviso, chiare.

1. Anzitutto, l'elettorato è meno stabile di quanto le mie stesse mappe lo rappresentino. Certo: il centrosinistra è ancorato al Centro e il centrodestra al Nord. Tuttavia, il Mezzogiorno era e resta fluido. Il Centro è meno stabile del passato. E nel Nord neppure Milano pare predestinata. Insomma: il paese è diviso. E il gioco elettorale, per molti versi, aperto.

2. Il risultato delle amministrative e, anzitutto, delle europee suggerisce la crescente difficoltà di far coincidere bipolarismo e bipartitismo. Il peso elettorale del Pd e del PdL, infatti, si è ridimensionato sensibilmente, a favore dell'Idv e della Lega. I cui elettori rappresentano quasi un quarto delle rispettive coalizioni. Inoltre, il risultato delle amministrative, in molti casi, è dipeso dalle coalizioni "locali" più che dal rendimento dei partiti maggiori. Il successo del centrodestra nel Nord deriva dall'intesa fra PdL e Lega. Cinque anni fa, invece, la CdL si era alleata prevalentemente con l'Udc, mentre la Lega aveva corso perlopiù da sola. L'Udc, d'altronde, si è alleata o apparentata con il centrosinistra in 6 province. Contribuendo al successo in 5 di queste.

3. Da ciò una conseguenza. In Italia non ci sono più partiti dominanti. Con questo sistema elettorale: non ci saranno mai più. E l'esito del referendum suggerisce che difficilmente riusciremo a cambiare modo di scrutinio con la spinta popolare.

Il Pd e il PdL sono, dunque, destinati a costituire i riferimenti principali dei poli. Ma non autosufficienti. Il Pd, con il 26% non può aspirare all'autosufficienza. Dovrà costruire alleanze intorno a programmi, progetti. Con l'Idv, l'Udc, una parte della sinistra. Lo stesso vale, però, per il centrodestra. Fin dall'origine: un network con un solo, unico frame, un solo unico gancio. Silvio Berlusconi e il suo partito personale. In pochi mesi, in poche settimane, quel gancio è divenuto molto più traballante. Quel puzzle molto più dada. Senza la Lega: non riesce a controllare il Nord. Ma neppure la Sicilia, senza Lombardo. E l'immagine del leader più che una risorsa è divenuta un limite.

4. Da ciò l'importanza crescente dei "partiti di mezzo". Per dimensione. Ormai centrali anche per importanza politica. La Lega, l'Idv e oggi l'Udc. Casini è riuscito a rafforzarla pur tenendola "fuori". Non era facile. Oggi dovrà decidere come e con chi giocare. Non sarà facile. Anche se riesce arduo immaginarlo alleato al centrodestra. Per motivi di ostilità personali fra leader. E per l'alternativa irriducibile - storica, geopolitica, culturale - con la Lega.

5. Infine, gli elettori. Usano, in modo e in misura crescente, il non voto come un voto. Di volta in volta, a seconda dell'elezione, del candidato, del momento. Occorre, dunque, dare loro buone ragioni: non solo "per chi" votare, ma anche "per" votare. D'altra parte l'astensione in questa occasione è cresciuta, infatti, in modo anomalo, rispetto al passato. Ha interessato gli "esuli" del Pd, alle europee; ma, soprattutto gli "elusi" del PdL. Gli elettori di centrodestra. In molti, hanno preferito fuggire. Nascondersi. Non solo per ragioni locali, immaginiamo.

Da ciò la conclusione obbligata, per quanto banale: il gioco è aperto. Il paese è politicamente contendibile. Dipende dalla qualità dei contendenti. Che, da oggi, non sono e non saranno solamente due.


Quel rischioso gusto della battuta
di Gian Antonio Stella - Il Corriere della Sera - 24 Giugno 2009

Si sarà mangiato la lingua in questi giorni, Silvio Ber­lusconi, ripensando alla battuta fatta sulla Freccia Rossa nel viaggio inaugurale da Milano a Roma. A un certo punto, come scrisse Tommaso Abate sul Riformista poi ripreso senza smentite da «Dago­spia», si avvicinò con una piccola corte al seguito all’allora primo cittadino di Firenze Leonardo Domenici che era ac­canto a Vasco Errani: «Adesso facciamo divertire il sinda­co ». Si toccò il berrettino con la visiera col quale sarebbe apparso il giorno dopo su tutti i giornali e ammiccò: «Allo­ra, vi piace il presidente ferroviere?». E, mentre quelli ab­bozzavano una risposta, li fulminò con una risata: «Io inve­ce preferisco il presidente puttaniere». Parole che, a rileggerle adesso...

Per carità, era solo una battuta. Forse un po’ greve e scalo­gnata, visto il seguito, ma una battuta. E può darsi che, a dispetto di Domenici che sorridendo conferma tutto, il Ca­valiere si possa affrettare ora a smentire. Sono passati tre mesi? Niente paura. «Le smentite non hanno scadenza» dis­se qualche anno fa Gianfranco Fini negando a distanza qua­si di un decennio di aver mai detto alle Iene non solo che «Mussolini è stato il più grande statista del secolo» ma an­che che Berlusconi «per egua­gliare il Duce dovrà pedalare parecchio...». «Una smentita è una notizia data due volte» spiegava Giulio Andreotti: in genere lui preferiva lasciar per­dere.

Il fatto è che il premier, que­sto suo amore per le battute do­vuto a un carattere che Gianni Baget Bozzo definiva «gioco­so », l’ha già pagato caro più volte. Basti ricordare le polemi­che seguite alle sue parole a Martin Schulz: «Signor Schulz, so che in Italia c'è un produt­tore che sta montando un film sui campi di concentramen­to nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapo». Polemiche che liquidò, infischiandosene delle riprese televisive che mo­stravano lo sconcerto degli europarlamentari, dicendo: «Era solo una battuta per cui è scoppiato a ridere l'intero Parlamento».

Per non dire di altre sortite quali quella sui suoi sforzi per portare a Parma l’authority alimentare: «Ho rispolvera­to le mie doti di playboy con il presidente finlandese Tarja Halonen». Spiritosaggine seguita ancora da polemiche ro­venti: «Purtroppo c'è in giro una generale mancanza di umorismo». È possibile che lo dica di nuovo. È difficile però dissenti­re da quanto scrisse Giuliano Ferrara, che lo stima e gli vuo­le bene, dopo la battuta su Obama abbronzato: «Dovrebbe più spesso subordinare l'istinto guascone al proprio ruolo istituzionale, sedimentato sull'esperienza personale e sul consenso di chi lo ha votato perché faccia il premier e non il battutista. Quando insomma il Cavaliere la smetterà di credersi al di sopra della cretineria, sarà un vantaggio per lui e per tutti».


La verità che non può dire
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 24 Giugno 2009

Berlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse "unto dal Signore", la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un'apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un'increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene.

A noi tocca soltanto diventare spettatori - plaudenti - della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l'anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d'animo e una debolezza.

Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell'impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) "Adesso parlo io" (di Veronica e di Noemi), ci riprova. "Adesso parlo io" strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.

In un'atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell'affetto dei figli; l'amore per Veronica ferito - certo - ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l'ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una "squillo" di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il "piacere della conquista".

Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario "licenziosa", chi la racconta in altro modo non può essere che un "nemico". Da un'inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d'imperio le loro redazioni. C'è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l'opinione pubblica - pur manipolata da un'informazione servile - s'ingozzi con questo intruglio.

Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l'insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare "storia italiana" possa rianimare l'ormai esausta passione nazionale per l'infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell'odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei "fanatizzati") contro chi intravede e racconta e si interroga - nell'interesse pubblico - sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale.

Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave - per sé e per il Paese - sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell'Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le "preferite" del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da "ragazze-immagine", qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una "squillo" che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?).

La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all'inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un'inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di prostitute, minorenni, "farfalline", "tartarughine", "bamboline" coccolate da "Papi" tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l'insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi "buchi", essere liquidati come affari privati?

La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un "mandato retribuito" per la "escort" che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D'Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un "complotto" di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile.

Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d'impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.